editoriale Convinti della nostra miseria I l recente attentato all’aeroporto Domodedovo di Mosca, come le continue ondate di scandali che coinvolgono il nostro paese, ci premono sull’anima con un senso di morte che pare insormontabile, la morte fisica inferta dal terrorismo e la morte spirituale che nasce vedendo come comportamenti inaccettabili siano ormai considerati quasi normali. Su tutto finisce così per regnare un senso di depressione che si sbaglierebbe però a considerare come il frutto della crisi contemporanea: questa crisi, piuttosto, non fa che portare alla luce una depressione che è di molto antecedente. È solo un’umanità depressa e incompiuta quella che al terrorismo non sa opporre nient’altro che la pur giusta e doverosa difesa dell’ordine: e dopo? E intanto? – si chiede la gente, sempre più delusa dalla ricerca di una sicurezza irraggiungibile e sempre più mortificata dal vedere ridurre il proprio desiderio di vita alla sola difesa di una vita sempre più fragile e sempre meno dotata di senso e di fascino. Allo stesso modo, è solo un’umanità depressa e incompiuta quella che, come ha recentemente ricordato il cardinale Bagnasco, si divide tra «comportamenti contrari al pubblico decoro» e l’uso di strumenti di indagine di così «ingente mole» che si è poi costretti a chiedersi a cosa sia dovuto tanto accanimento, da cosa dipenda e a cosa miri questa lotta nella quale «i poteri si tendono tranelli, in una logica conflittuale che 2 L A N U O V A perdura ormai da troppi anni». Dietro un moralismo che con le sue denunce porta alla luce costumi squallidi (e comunque inaccettabili, quali che siano i limiti di questo moralismo a senso unico), le sole cose che non appaiono mai sono la ricerca di una verità non finalizzata all’interesse politico del momento e soprattutto la preoccupazione del bene comune. Cosa resta infatti alla gente, dopo questa battaglia fatta di scandali incrociati e dalla quale nessuna parte esce senza macchia? Cosa resta, se non la depressione prodotta dal constatare che l’unica cosa che si staglia, sul campo di una battaglia senza vincitori, è una perfezione che non esiste? Quello che rimane, dopo questa battaglia per la purezza, è in fondo l’immagine di uomo con la quale Ol’ga Sedakova, nell’intervento che pubblichiamo in questo numero, tratteggia la figura dell’antropologia contemporanea; quello che resta è l’esito del sogno umanistico che, dalla pretesa di un uomo misura di tutte le cose, è finito nella violazione di ogni ordine tipica dei campi di concentramento: «“Cos’è l’uomo? È un essere traumatizzato, ferito, misero, malato, svuotato dalla sua lunga storia. In lui non c’è niente di buono: può trasformarsi da solo in un carnefice. E questo essere bisogna proteggerlo. E possibilmente non chiedergli niente di straordinario”. L’immagine dell’uomo, splendido, come cosmo, quasi onnipotente, libero e operoso, con facoltà di conoscenza quasi illimitate, l’immagine che ha ispirato il E U R O P A 1 • 2 0 1 1 editoriale primo umanesimo classico, ha lasciato il posto nel nuovo umanesimo al suo contrario». Dopo l’ammonimento di Dostoevskij, secondo il quale se non esiste Dio tutto è permesso, la situazione attuale ci porta a concludere che siccome tutto è permesso davvero non esiste Dio, non esiste niente di assoluto e di infinito nel nome del quale valga la pena di vivere e di sperare. Ma davvero non esiste più un desiderio all’altezza dell’ansia infinita che costituisce il cuore dell’uomo? Davvero il nostro desiderio è quello di una quotidianità che arriva a sera senza essere disturbata? Salvo poi dovere constatare che, siccome siamo tutti comunque miseri, non c’è più niente di buono, di bello e di vero. O non è piuttosto vero che la depressione con la quale reagiamo, l’insoddisfazione che non ci fa più gustare neanche le cose più normali, è come l’indice di una protesta naturale e di un’attesa che non è ancora spenta nel cuore di ciascuno? «Di che è mancanza questa mancanza?», è la domanda di Mario Luzi, che con l’intuizione del poeta riporta le cose di tutti i giorni alla loro misura autentica. L’uomo è depresso, la sua storia è fatta di cadute morali e di attentati alla vita e alla dignità, ma la storia ci dice anche altro; la nostra nostalgia di un assoluto reale, l’ansia che ci portiamo nel cuore, è alimentata dal fascino di un bene, di una verità e di una bellezza che hanno già vinto il male. Ogni anno proprio in L A N U O V A questi giorni si celebra la giornata della memoria, in ricordo della vittoria sui totalitarismi che hanno deturpato l’immagine dell’uomo; forse vale davvero la pena di ricordarci ancora una volta di più, proprio questa volta, che questa memoria non può essere vanificata, riducendola a retorica evocazione o a vuota figura di un passato ormai diventato materia da archivio. C’è in questa vittoria la figura di un’umanità che sfugge ad ogni calcolo e ad ogni misura, che rinasce giusta non perché si fa giustizia, non perché pronuncia la pur giusta condanna del male e dei malvagi, ma perché riconosce di essere fatta da qualcosa d’altro rispetto a tutte le violenze e miserie umane e si affida a questo altro irriducibile. Per questo nostro paese, come per la Russia, come per tutta l’Europa in cerca di radici comuni e segnata dai Colossei del XX secolo, questa figura ha il volto del Crocifisso e della sua vita più forte della morte. È alla libertà e alla ragione di ciascuno che spetta ogni giorno decidere cosa è più ragionevole e interessante verificare, se le pretese che ci lasciano la depressione piena di violenza e di cinismo di chi si crede potente e infallibile, o l’offerta di questo affidamento che ha già vinto. E U R O P A 1 • 2 0 1 1 3