La mentalizzazione in psicoterapia psicoanalitica Rosario Di Sauro, Angelo Pennella 11.1 La genitorialità Attualmente, quella sulla genitorialità può essere considerata uno dei più interessanti temi di riflessione per tutte le discipline, quali ad esempio, la psicologia e la pedagogia, impegnate a comprendere e a prevenire comportamenti di disagio a volte anche marcatamente devianti e psicopatologici (Di Sauro, Manca, 2006; Di Sauro, Bertiè, 2006; Cerutti, Manca, 2006). L’importanza della relazione madre-bambino, come evidenziato nei capitoli precedenti, è da tempo in ambito psicoanalitico (cfr., tra gli altri, Winnicott, 1965; Bowlby, 1969), unanimemente considerata, insieme alle condizioni ambientali in cui si situa il processo evolutivo, una condizione fondamentale per l’adeguato sviluppo psicofisico del bambino. C’è da dire che da tempo si è anche retrodatato l’inizio della relazione che lega la madre al proprio bambino individuando il suo punto di avvio non più nel parto, ma nel momento in cui si sviluppano, nella donna, le prime fantasie e pensieri nei confronti di un possibile figlio. Per chiarire questo concetto può essere utile prendere spunto da due affermazioni che ognuno di noi ha certamente ascoltato 2 Rosario Di Sauro, Angelo R. Pennella più volte: “oggi è nato il figlio di Giovanna”, “oggi Giovanna ha partorito suo figlio”. In un primo momento, potrebbero sembrare frasi sostanzialmente sovrapponibili, in realtà si tratta di espressioni che non si differenziano solo per il loro soggetto ma anche e specialmente per l’azione descritta. Sembra infatti evidente che nella prima ci si riferisce ad un atto concreto e pertanto circoscritto ed in sé conchiuso della vita di una persona (il parto), nella seconda si rinvia invece ad una azione (il nascere) che non si esaurisce certo nel momento del parto e che possiede interessanti rinvii simbolici, come quello relativo all’idea di luce” (non a caso un’altra espressione utilizzabile in questi casi è “Giovanna ha dato alla luce suo figlio”). In questo senso è infatti agevole pensare alla vita intrauterina come ad una vita condotta nella oscurità, a differenza di quella extrauterina vissuta alla luce del sole. Citando Neumann (1974, p. 97), potremmo quindi dire che la nascita è una “liberazione dall’oscurità verso il chiarore che caratterizza la via della vita e quella della coscienza che conducono sempre fondamentalmente dalla notte alla luce. È questa una delle ragioni che spiegano il legame archetipico del simbolismo della crescita con l’acquisizione della coscienza”. In sostanza, mentre il verbo “partorire” indica una azione circoscritta ed esauribile in un momento “biologicamente” definito, il termine “nascere” veicola l’idea di un percorso il cui fine, in realtà mai pienamente raggiunto e raggiungibile, è l’autocoscienza. Non a caso, la Mahler (1968) ha descritto la nascita psicologica come un processo che si svolge lentamente, differenziandosi proprio per questo dalla nascita biologica che avviene in un momento preciso della vita individuale. Se si considera però la nascita (psicologica) come un processo, si deve anche attuare un sostanziale cambiamento prospettico. L’attenzione non può più rivolgersi solo al bambino o alla madre in quanto entità distinte, ma deve piuttosto focalizzarsi sulla relazione che si istituisce tra loro: il processo a cui ci si sta riferendo non è infatti qualcosa che si svolge nel bambino o nella madre, ma nel sistema madre-bambino. Introduzione 3 Quanto detto ci consente di comprendere il motivo della “retrodatazione” cui si accennava sopra. Sebbene possa apparire logico pensare che una relazione non possa che fondarsi sulla presenza fisica di due distinti interlocutori, se si parla di sistema e di nascita psicologica la questione diventa più complessa. Chiediamoci: quand’é che nasce, per la madre, il suo bambino? Quand’è che ella avvia la sua relazione con lui? La risposta è facilmente intuibile: nel momento in cui la donna inizia ad elaborare i suoi bisogni trasformandoli in desideri, quando dà corpo alle sue fantasie ed inizia ad immaginare e pensare quel figlio la cui concretezza sarà raggiunta solo molto tempo dopo1. Parlare della relazione madre-bambino significa dunque tornare indietro nel tempo e confrontarsi con le emozioni del futuro genitore, con la sua capacità di riconoscere, innanzitutto, al figlio prima che uno spazio uterino, uno spazio mentale. In questo senso, la nascita di un bambino procede di pari passo con la nascita psicologica di una madre, dato che è innanzitutto nella mente di quest’ultima che si dà origine ad una nuova identità. Se questo processo evolve normalmente il bambino svilupperà una capacità di adattamento basato sulla fiducia (Erikson, 1975), al contrario, se si verificano difficoltà nella strutturazione di questo riconoscimento e spazio mentale, si possono osservare fenomeni di grave disagio nel strutturazione del Sé del bambino, nella sua nascita psicologica. Le situazioni di rischio, nell’ambito della genitorialità, come recentemente esposto (Di Sauro, Bertiè, 2006), fanno riferimento a tutte quelle condizioni in cui la funzione genitoriale è fortemente disturbata nelle sue componenti fondamentali di cura e protezione dei figli, intaccando quindi profondamente sia la qualità della relazione all’interno del sistema genitore-figlio sia la possibilità del bambino di strutturare un Sé sufficientemente integrato. 1 Si può aggiungere che la donna riceve nel corso della gravidanza segnali fisici tangibili che rinforzano e rendono sempre più concreta la presenza, inizialmente solo fantasmatica, del bambino. 4 Rosario Di Sauro, Angelo R. Pennella In sostanza, il ruolo della madre e dell’ambiente familiare, nello sviluppo del bambino, è fondamentale in quanto costituisce, soprattutto nei primi anni di vita, la realtà di riferimento del bambino, il modello su cui organizzerà la rappresentazione di se stesso, dell’altro e della relazione, la sua modalità di essere nel mondo (Ammaniti, 2001, 2005; Zangheri, Cassibba, Ferrigni, Fabbrici, 2002; Di Vita, Salerno, 2004). La mole di dati a conferma di questa prospettiva sta sempre più aumentando in questi anni, in modo particolare, alcune ricerche hanno evidenziato che l’impatto di possibili condizioni di rischio “extrafamiliari” (si pensi a contesti socio-culturali degradati) può essere fortemente esacerbato o mitigato in funzione della capacità del sistema familiare di offrire al bambino un adeguato “contenitore” (Costabile,Veltri, 2003; Molina, Bonacina, 2004; Laghi, Baiocco, D’Alessio, Provenzano, 2005). In tale logica, la famiglia rappresenta il contesto all’interno del quale i fattori protettivi e di rischio interagiscono tra loro e influenzano lo sviluppo successivo del bambino (Malagoli Togliatti, Rocchietta Tofani, 2002; Laghi, Baiocco, D’Alessio, Provenzano, 2005). Anche la qualità del rapporto fra i coniugi può influenzare lo sviluppo infantile contribuendo all’instaurarsi del clima affettivo all’interno della famiglia. Mentre una relazione soddisfacente tra i genitori sembra essere collegata ad un equilibrato coinvolgimento emotivo con il proprio figlio, con una conseguente maggiore qualità relazionale del sistema, l’insoddisfazione coniugale può invece influire negativamente (Di Vita, Salerno, 2004; Di Sauro, Manca, 2006). Il conflitto aperto tra i coniugi (in modo specifico la rabbia espressa), sembra infatti essere particolarmente distruttivo per lo sviluppo psicologico del bambino tant’è che i bambini provenienti da famiglie ostili mostrano, se comparati a bambini provenienti da famiglie meno conflittuali, maggiore angoscia e reattività in risposta alla rabbia degli adulti2. 2 Il disadattamento sembra inoltre maggiore laddove, oltre all’espressione verbale della rabbia, i bambini vengono esposti al conflitto fisico dei genitori Introduzione 5 L’insoddisfazione e il disaccordo possono essere espressi in modo diverso dai due genitori; uno studio di Dickstein e Parke (1988), per esempio, ha visto emergere dati interessanti rispetto a tali differenze: i padri insoddisfatti della relazione coniugale, infatti, tenderebbero ad agire, nei confronti del figlio, un modello di distanziamento e ritiro, mentre le madri insoddisfatte della relazione di coppia, mostrerebbero un ipercoinvolgimento nei confronti dei figli. In generale, le persone segnate a loro volta da problematiche riguardanti le cure parentali ricevute, quali carenza affettiva, assenza di figure genitoriali, rifiuto, maltrattamento ecc., sembrano attuare rapporti tendenzialmente più difficili, sia nell’ambito della coppia che con i propri figli3. Ciò può indurci a pensare quanto esperienze pregresse connotate negativamente e concernenti la qualità della relazione del sistema (famiglia) madrebambino possano “contagiare” ricorsivamente situazioni familiari successive (Ammaniti, 2001; Di Vita, Salerno, 2004; Di Sauro, Bertiè, 2006). 11.2 Ruolo della Famiglia e disturbi di personalità Le origini dei disturbi di personalità rinviano, in modo inequivocabile, all’ambito delle relazioni familiari e alle esperienze traumatiche che vi si possono sviluppare. Nella storia dei pazienti borderline, è piuttosto frequente rilevare genitori con quadri psicopatologici o storie di traumi precoci, quali come si diceva, abbandoni, perdite, rifiuti o abusi. Non a caso, chi si è occupato della organizzazione di personalità borderline tende a ricondurre la sua genesi alla qualità delle relazioni che caratterizzano la diade madre-bambino ed il conte(Ammaniti, 2001; Fonagy, 2003; Di Sauro, Manca, 2006; Di Sauro, Priori, Ranucci, 2007). 3 Questa osservazione, tra l’altro, sembra in linea con i dati anamnestici che spesso si raccolgono con pazienti che presentano una organizzazione di personalità borderline e che riferiscono la presenza, in uno o in entrambi i genitori, di difficoltà analoghe. 6 Rosario Di Sauro, Angelo R. Pennella sto familiare, situando spesso il vulnus, per così dire, nella sottofase di riavvicinamento del processo di separazioneindividuazione della Mahler (Alderighi, Resta, 2003; Di Sauro, Bertiè, 2006). Anche autori come Masterson e Rinsley (1975) ritengono che gli individui con organizzazione borderline non abbiano potuto sperimentare positivamente questa fase perché si sono trovati ad interagire con una madre, anch’essa borderline, che probabilmente viveva i comportamenti di allontanamento del figlio come minacciosi attivando, quindi, risposte di rifiuto, negando cioè al bambino il suo affetto, rinforzandolo, al contrario, nelle situazioni in cui questi tornava da lei. In questo tipo di dinamiche relazionali, il messaggio che il bambino riceve dalla madre è che crescere ed individuarsi provoca la perdita dell’amore e del contenimento materno. Se si accetta tale impostazione è possibile pensare che questa incoerenza durante la fase di separazioneindividuazione conduca alla formazione di una relazione con l’oggetto scissa in due parti, una cattiva o aggressiva ed una buona o “libidica”, in cui non si ha la possibilità di giungere ad una rappresentazione integrata di sé o dell’oggetto (Novelletto, 1986; Kernberg, 2002). Per dirla con Gabbard (2002, p. 327), è come se potessero esistere “solo due possibili scelte: tu puoi sentirti abbandonato e cattivo, o, come Peter Pan, puoi sentirti buono solo attraverso il diniego della realtà e non crescendo mai”. Volendo aderire alle posizioni teoriche che considerano la figura materna come la maggiore responsabile dell’evoluzione del disturbo bordeline di personalità (BPD), anche Giovacchini considera il fallimento della madre a fornire un caretaking coerente e competente, a svolgere cioè una funzione materna sufficientemente adeguata, per usare la nota espressione di Winnicott (1961), come la causa principale della patologia borderline. L’incoerenza materna, l’incapacità di fornire rassicurazioni al figlio e le difficoltà relazionali in genere, creeranno infatti gradualmente una confusione primaria, un’oscillazione tra frustrazione e gratificazione, ed impediranno lo stabilirsi di una costanza oggettuale. La madre inoltre, inconsciamente, proiette- Introduzione 7 rà sul figlio le proprie parti distruttive utilizzandole come “appendice narcisistica” (Marcelli, Braconnier, 2001; Ammaniti, Muscetta, 2003). In contrasto con questa posizione, basata sulla psicopatologia del conflitto, altri autori affermano che la patologia borderline può essere definita in termini di deficit. In questa prospettiva, il deficit risiederebbe nella mancata introiezione delle immagini dell’oggetto buone, in netto contrasto quindi con la posizione di Kernberg, secondo il quale le immagini buone e cattive vengono sicuramente interiorizzate e successivamente scisse; pertanto, se non esiste l’immagine buona, il paziente borderline non può rappresentarsi una madre che lo tranquillizzi e lo sostenga nei momenti di stress (Waldinger, Gunderson, 1991; Paris, Zweig-Frank, 1993; Gabbard, 2002). Alcuni studi condotti sulle esperienze infantili dei pazienti borderline (Paris, Zweig-Frank, 1993) mettono in risalto che il fallimento del legame genitoriale, in particolar modo la trascuratezza emotiva, sia alla base del disturbo borderline. Il bambino cerca di organizzare il caos emotivo interno iniziale attraverso l’osservazione di quello che le sue emozioni provocano nel genitore; se il genitore non è sintonizzato sulle sue emozioni, al bambino sarà difficile comprenderle e il suo potenziale autocontrollo sarà impoverito, aumentando la probabilità che si stabiliscano le disregolazioni affettive tipiche del borderline (Ammaniti, Muscetta, 2003; Ammaniti, 2005; Stern, 2005). Il bambino, in questo caso, internalizza l’immagine di se stesso che ritrova nell’oggetto e, se il genitore non è in grado di funzionare come contenitore delle sue angosce, dei suoi pensieri e delle sue emozioni, quest’ultimo non ha la possibilità di crescere ed apprendere dalla propria esperienza emotiva e rimarrà, pertanto, alla disperata ricerca di modalità alternative di contenimento dei propri pensieri e degli intensi sentimenti che essi generano (Fonagy, 1997; Mazzoncini, 2003). In quest’ ottica, l’ipotesi da cui parte Fonagy (1995, 1997, 2001, 2002, 2004, 2005) è che la continua ricerca di modalità alternative di contenimento mentale possa produrre soluzioni patologiche, ad esempio far divenire la mente dell’altro, con la 8 Rosario Di Sauro, Angelo R. Pennella immagine negativa, distorta o assente del bambino, parte integrante del Sé. Nel momento in cui il bambino quindi si trova a confronto con una figura genitoriale spaventata e spaventosa, egli incorpora come parte del Sé i sentimenti materni di rabbia, odio o paura ed elabora una rappresentazione di se stesso come persona spaventosa. In questo modo, per avere un immagine di Sé sopportabile e sufficientemente coerente, il bambino dovrà esternalizzare tale immagine negativa, ad esempio, attraverso comportamenti controllanti e manipolatori nei confronti dell’altro (una delle caratteristiche del disturbo borderline), il che gli permette anche di evitare ulteriori intrusioni nella rappresentazione di sé (Fonagy, 1997, 2001, 2003). 11.3 Il trauma a rischio Gli studi empirici condotti negli ultimi decenni associano con sempre maggiore evidenza le situazioni borderline ad alti livelli di traumi e trascuratezza emotiva subiti in età evolutiva (Holmes, 1993). Sebbene non si tratti di condizioni esclusive e pertanto predittive per lo sviluppo del BPD, abusi e maltrattamenti si configurano però come fattori di rischio o precipitanti in situazioni di vulnerabilità costituzionale del soggetto (Paris, Zweig-Frank, 1993). Fonagy e Target (1995, 1997), ma anche altri, hanno sottolineato che molti soggetti borderline hanno subito nel periodo infantile situazioni di abuso fisico o di maltrattamento, attivando un parallelo misconoscimento degli stati mentali dei propri genitori, difendendosi così da una consapevolezza che sarebbe stata troppo pericolosa per lo sviluppo del proprio Sé. In effetti, se avessero riconosciuto l’odio implicito negli atti di abuso dei propri genitori, di chi avrebbe cioè dovuto prendersi cura di loro, sarebbero stati costretti a rappresentare se stessi come indegni di amore. In questa prospettiva è comprensibile il motivo per cui i soggetti con BPD mostrino una così consistente difficoltà a mentalizzare, a “tenere a mente la mente”, per dirla con Fonagy, Introduzione 9 a rappresentarsi cioè le emozioni ed i pensieri sia propri che altrui (Fonagy, Target, 1995; Fonagy, 1997, 2001, 2003)4. Naturalmente, è possibile rilevare in tutte queste esperienze, la patologia del legame di attaccamento; il non aver avuto un adeguato sostegno sociale affinché si sviluppi un legame di attaccamento valido (Pennella, in corso di stampa), rende difficile una riflessione e una risoluzione dell’esperienza di abuso. Legame di attaccamento e maltrattamento sono infatti interconnessi in quanto, infrangendo i normali rapporti di accudimento, l’abuso costringe il bambino a crescere in un isolamento psicologico che, se da un lato aumenta il bisogno di prossimità, dall’altro amplifica l’angoscia attivando il sistema di attaccamento. Essendo tuttavia la vicinanza mentale insostenibile, per i motivi di cui si diceva, il bisogno del bambino si esprime esclusivamente sul piano fisico (Di Sauro, Priori, Ranucci, 2007). Questa esigenza potrebbe portare il bambino ad avvicinarsi, paradossalmente, ancor di più a chi abusa di lui: più il bambino cerca di diventare se stesso, più tende invece a diventare oggetto dell’altro. La conflittualità di questo tipo di relazioni, ma anche il loro carattere fortemente vincolante, è alla base delle difficoltà, piuttosto evidenti nei soggetti borderline, ad abbandonare l’ambiente familiare, nonostante esso sia emotivamente disturbante (Perry, Herman, 1993; Fonagy, 1997, 2001; Ammaniti, Muscetta, 2003). La forte difficoltà – se non proprio l’impossibilità – a risolvere l’esperienza di abuso, si traduce dunque nella inattuabilità di legami e relazioni significative: non riuscendo infatti a sintonizzarsi con gli stati mentali dell’altro, il soggetto borderline 4 Come descrive Fonagy (2004), sono molti i riferimenti statistici che evidenziano che il maltrattamento danneggia le capacità riflessive e il senso del sé del bambino. Questo non vuol dire, tuttavia, che il maltrattamento si configuri sempre come una esperienza di tipo fisico, essa può infatti essere meramente psicologica. In ogni caso, la vicinanza mentale diventa tuttavia penosa ed il naturale bisogno di prossimità tende pertanto ad esprimersi solo ad un livello fisico. La contraddizione tra la ricerca di prossimità a livello mentale e quella a livello fisico è all’origine dell’attaccamento disorganizzato che si osserva nei bambini maltrattati. 10 Rosario Di Sauro, Angelo R. Pennella tende a vivere i rapporti in modo aleatorio o attivando, nei casi in cui si abbia un maggiore coinvolgimento emotivo, interazioni governate dalla confusione, dall’incertezza, dalla frammentazione (Fonagy, 1997, 2005; Marcelli, Braconnier, 2001). In pratica, molti dei sintomi del disturbo borderline di personalità possono essere compresi, secondo Fonagy (1995, 1997, 2001, 2003), in termini di strategie difensive atte a disattivare la capacità di mentalizzazione. Quest’ultima, come propone l’autore, può essere dunque considerata sia causa che effetto della esperienza traumatica. Infine, la psicopatologia di tali soggetti si contestualizza attraverso un adattamento ad un ambiente di paura, di tradimento, piuttosto che derivata da un innato deficit del Sé (Perry, Herman, 1993). Le difficoltà nella costruzione e della integrazione del concetto di Sé è una delle problematiche maggiori del disturbo borderline che si rende conseguenziale a questi eventi (De Vito, 2002). In ogni caso, c’è accordo nel ricondurre l’origine della patologia borderline a stadi precoci dello sviluppo, a situazioni in cui la qualità della relazione genitoriale non è tale da offrire al bambino un holding adeguato ai suoi bisogni,benché questa non sia l’unica causa. Si deve infatti considerare questi quadri clinici come l’esito della interazione di diversi fattori eziologici (Paris, Zweig-Frank, 1993; Gallinari, Gardini, 2003) che possono intervenire anche in altre fasi dello sviluppo, basti pensare all’adolescenza che è fondata proprio sulla conflittualità e sulla dinamica individuazione-separazione dell’individuo dai propri genitori. 11.4 Mentalizzazione e Disturbo Borderline di Personalità Si è accennato alla teoria dell’attaccamento in cui si sostiene l’esistenza di un bisogno universale dell’uomo di creare legami affettivi significativi. L’attivazione di comportamenti di attaccamento dipende dalla valutazione, da parte del bambino, di una gamma di segnali ambientali; questa valutazione sta alla base dell’esperienza sog- Introduzione 11 gettiva di sicurezza o insicurezza. La sperimentazione della sicurezza è l’obiettivo del sistema di attaccamento. Nessuno nasce con tale capacità; essa si struttura infatti gradualmente nel bambino se egli ha la possibilità di svilupparsi all’interno di una relazione in cui i segnali che riguardano i suoi stati emotivi sono compresi dal caregiver, attivando risposte congruenti. Le esperienze di attivazione emotiva del bambino e le risposte date dal caregiver sono strutturate in sistemi rappresentazionali che Bowlby (1969) ha definito “modelli operativi interni” (MOI)5. Lo stile di attaccamento sicuro si basa su una sperimentazione di interazioni sensibili e ben corrisposte in cui il caregiver è raramente iperstimolante ed è in grado di regolare e contenere le risposte emotive disorganizzanti del bambino. In sostanza, il sistema bambino-caregiver riesce a mantenere un assetto sufficientemente equilibrato anche in situazioni di forte stress emotivo, cosa che consente non solo di vivere le emozioni negative come meno minacciose, ma anche di significarle, di dare, cioè, loro, un senso psicologico. In questa prospettiva, si presume che i bambini evitanti abbiano sperimentato situazioni in cui il caregiver non è stato in grado di ristabilizzare la loro attivazione emotiva o che siano stati sovrastimolati da genitori intrusivi; gli evitanti regolano infatti in modo eccessivo le loro risposte emotive e cercano di evitare qualsiasi situazione potenzialmente ansiogena 6. Per dirla in altri termini, «il bambino cerca di minimizzare i suoi bisogni d’attaccamento allo scopo di prevenire il rifiuto, rimanendo allo stesso tempo in un contatto distante con l’agente delle cure ma5 Il concetto fu elaborato da Bowlby a fronte delle ipotesi di Kenneth Crack, un giovane neurobiologo che pubblicò nel 1943 un lavoro in cui si affermava che gli organismi viventi in grado di elaborare mappe del proprio ambiente di vita incrementavano le loro possibilità di sopravvivere. In effetti, il fine dei Modelli Operativi Interni è quello di prevedere gli eventi della realtà e di consentire all’individuo di pianificare il proprio comportamento. 6 Può essere utile aggiungere che nella relazione di tipo insicuro, il bambino tende ad interiorizzare anche le difese del caregiver, intaccando ulteriormente il processo di sviluppo del sé. 12 Rosario Di Sauro, Angelo R. Pennella terne il cui rifiuto, come i propri bisogni stessi, viene rimosso dalla coscienza» (Holmes, 1993, p. 84)7. D’altro canto, i bambini ansiosi/resistenti regolano insufficientemente, esagerando cioè l’espressione del proprio disagio emotivo, probabilmente nel tentativo di elicitare la risposta prevedibile del caregiver. Il bambino esprime paura al contatto con il caregiver, ma risulta frustrato quando il caregiver è assente. Il senso dell’autonomia del sé emerge quindi pienamente solo nell’ambito di relazioni caregiver-bambino di tipo sicuro: in queste situazioni il bambino sviluppa infatti una padronanza dell’esperienza interiore nonché la capacità di comprendere i propri e gli altrui stati emotivi, giungendo così a rappresentare gli altri come esseri dotati di intenzionalità, i cui comportamenti sono cioè orientati ed esplicabili da stati mentali, emozioni e pensieri. L’acquisizione di tale capacità è fondamentale: se il bambino è in grado di spiegare il comportamento materno, ad esempio riconducendolo a fatti che esulano dalla loro relazione, anche laddove tale comportamento dovesse risultare fortemente deleterio, egli riuscirà comunque a superare le difficoltà evitando quella confusione e quella percezione di sé negativa che caratterizza invece i bambini che non riescono ad attribuire senso ai comportamenti negativi del genitore. In questa ottica, appare quindi determinante la capacità del bambino – collocabile verso i 3-4 anni – a riconoscere che il comportamento dell’altro possa essere dettato non solo da fatti, ma anche da credenze errate. Pur non avendola citata in modo esplicito, è evidente che ci si riferisce al concetto di mentalizzazione o, per essere più esatti, al mentalizzare, azione intesa come un “percepire in modo immaginativo e interpretare il comportamento come connesso 7 È importante sottolineare che questo processo di rifiuto, di “minimizzazione” dei propri bisogni, priva il bambino della possibilità di giungere ad una elaborazione emotiva degli affetti dolorosi, «particolarmente evidente nel lutto patologico, che conduce alla persistenza di sentimenti primitivi di odio e di abbandono e riduce la [sua] crescita emozionale e lo sviluppo» (Holmes, 1993, p. 85). Introduzione 13 con stati mentali intenzionali” (Allen, Fonagy, 2006, p. 37, corsivo nel testo). Come si diceva, la mentalizzazione è una funzione strettamente connessa al concetto di regolazione affettiva ed è inscritta da Fonagy all’interno delle interazioni che caratterizzano il rapporto del bambino con il proprio caregiver. In sostanza, si verrebbero a creare, nel corso del processo interattivo, una serie di opportunità date al sistema madre-bambino per “fare come se”, per immaginare cioè reciprocamente cosa potrebbe vivere o pensare l’altro. Si verrebbe così a creare una sorta di circolo virtuoso: la capacità genitoriale di comprendere la mente del bambino accresce la possibilità di quest’ultimo di sviluppare un attaccamento di tipo sicuro, che a sua volta facilita il suo mentalizzare e la qualità stessa della relazione madre-bambino. Non ci si deve infatti mai dimenticare che si è di fronte ad un processo intersoggettivo: il bambino impara a comprendere la mente del genitore parallelamente al caregiver che impara a cogliere ed accogliere in modo sempre più accurato lo stato mentale del bambino. Le rappresentazioni simboliche degli stati mentali si evolvono nel contesto delle relazioni di attaccamento. Così il bambino associa l’ansia ad un insieme misto e confuso di esperienze fisiologiche, comportamenti e immagini visive; una volta che questi risultano legati simbolicamente, l’esperienza corrispondente ad un livello di mentalizzazione sarà di paura o ansia. Questo processo di creazione di legami simbolici è essenziale affinché il bambino diventi capace di far corrispondere l’esperienza ad una emozione specifica. Il caregiver riflessivo cerca di dare una spiegazione ai segnali di attivazione del bambino e a livello “preconscio” li associa ad una personale esperienza interiore, generando una risposta che sarà tanto più efficace quanto più adeguata allo stato mentale del bambino. La rappresentazione materna degli affetti del bambino viene infatti da lui colta e utilizzata per creare una sorta di mappa su cui strutturare il proprio Sé. Tuttavia, se il rispecchiamento risulta troppo accurato può paradossalmente diventare fonte di paura per il bambino: una 14 Rosario Di Sauro, Angelo R. Pennella perfetta aderenza tra ciò che gli viene restituito dalla madre ed il proprio stato mentale ne depaupera infatti il potenziale simbolico ed ingenera una confusiva identità tra se stesso e l’altro; d’altra parte, se il rispecchiamento è invece scarso o assente, il bambino non viene supportato nel processo di riconoscimento e di differenziazione dei propri stati emotivi, cosa che intacca lo sviluppo e l’integrazione del Sé. L’acquisizione della mentalizzazione fa parte di un processo intersoggettivo tra il bambino piccolo e il caregiver: quest’ultimo agevola lo sviluppo di modelli di mentalizzazione attraverso complessi processi interattivi di tipo sia linguistico che corporeo agevolando il riconoscimento e la connotazione dei diversi “oggetti”, non ultimi i confini stessi esistenti tra esperienza del mondo interno ed esterno. Gradualmente il bambino giunge a comprendere la risposta dell’altro – in primis il suo caregiver – grazie alla propria rappresentazione mentale. D’altro canto un buon caregiver attribuisce al bambino uno stato mentale attraverso il proprio comportamento, lo tratta come un soggetto dotato di pensiero, cosa che rinforza ed induce nel bambino stesso un atteggiamento analogo e complementare. I caregivers differiscono nel modo di tirar fuori questa funzione naturale umana: alcuni risultano essere più sensibili ai primissimi segnali di intenzionalità, altri necessitano di indicatori più forti prima di percepire lo stato mentale del bambino; altri ancora possono continuamente fraintendere e percepire in modo errato lo stato mentale del bambino, portando così il bambino ad una percezione distorta di sé. Quindi, la capacità del genitore di osservare, momento per momento, i cambiamenti dello stato mentale del bambino è alla base della possibilità di offrire un accudimento sensibile. Interessante, in questo senso, il modo con cui si interfacciano gli atteggiamenti del caregiver e quelli del bambino: quello sicuro si sente infatti tranquillo nel fare attribuzioni sugli stati mentali per dare un significato ai comportamenti del caregiver, cosa che consolida il processo di riconoscimento reciproco; il bambino evitante schiva invece lo stato mentale dell’altro e rinforza una relazione distanziante; quello resistente si concentra Introduzione 15 invece sul proprio stato di disagio per escludere gli scambi intersoggettivi stretti con il caregiver 8. Alla luce di quanto si è detto, apparirà evidente che le relazioni genitore- bambino di tipo insicuro gettano le basi per successive distorsioni nello sviluppo della personalità in una delle due modalità: la madre può far eco allo stato del bambino senza alcuna mediazione, rendendo concreto o provando panico di fronte al disagio emotivo del bambino; alternativamente, la madre potrebbe evitare la capacità di riflettere sull’affetto del bambino attraverso un processo simile alla dissociazione, che la mette in una posizione di finzione. La madre potrebbe, inoltre, ignorare il disagio emotivo del bambino e tradurlo in malattia: ciò può indurre la coppia ad interpretare i sentimenti in termini fisici, così che lo stato fisico diventa il “reale”. Nel caso del paziente borderline, ad esempio, la sua preoccupazione per il corpo potrebbe essere una modalità per esprimere il suo disagio, dal momento che è inibito nel farlo a livello emotivo, considerate le reazioni degli altri. Come nota Fonagy nei suoi contributi, nei bambini traumatizzati emozioni intense e conflitti possono portare ad un parziale fallimento di questa integrazione, a differenza di quanto accade nel bambino che ha goduto di una adeguata relazione con il proprio cargiver e che si caratterizza per un attaccamento sicuro. In questi casi, infatti, il bambino percepisce, nella capacità riflessiva del caregiver, una immagine di sé come dotato di desideri e credenze e coglie che il caregiver lo considera come un essere intenzionale e questa rappresentazione viene interiorizzata per formare il sé: “mia madre mi pensa come un essere che pensa quindi io esisto”. Questo può essere applicabile, in senso inverso, ai pazienti in trattamento che potrebbero esprimere 8 Anche a rischio di apparire ripetitivi, sembra però importante sottolineare che lo sviluppo del bambino e la percezione di stati mentali sia in sé che negli altri dipende dallo sviluppo della sua capacità di osservare gli stati mentali del caregiver. Tale capacità si acquisisce nel momento in cui il la diade o, se si vuole, il sistema “caregiver-bambino” è in grado di condividere la modalità del “far finta”, di simulare cioè, anche grazie al gioco, le interazioni quotidiane e gli stati mentali associati ad esse. 16 Rosario Di Sauro, Angelo R. Pennella considerazioni del tipo: «mia madre e mio padre non hanno fiducia in me, non mi pensano come un essere dotato di intenzionalità, quindi non esisto». Come si diceva, alcuni individui con organizzazione di personalità borderline possono essere stati vittime di maltrattamenti ed abusi da parte dei familiari e possono quindi aver fatto fronte a tali esperienze rifiutando di concepire nella propria mente le emozioni ed i pensieri distruttivi agiti nei loro confronti dalle figure di accudimento. Il fatto di ostacolare continuamente, in modo difensivo, la propria capacità di rappresentare gli stati mentali in se stessi e negli altri, li porterebbe però ad operare valutazioni sempre inaccurate e schematiche delle emozioni e dei pensieri degli altri, cosa che li renderebbe molto vulnerabili nelle relazioni intime. Oltre quindi a non aver avuto occasioni di sviluppare la capacità di mentalizzare, si può aggiungere che le persone con esperienze fortemente traumatiche possono anche inibire difensivamente la propria capacità di tenere a mente la mente dell’altro, proprio per la sua intrinseca pericolosità. Fonagy (1996) presuppone pertanto che il maltrattamento sia associato ad un «frazionamento» o scissione della funzione riflessiva che attraversa diversi compiti e settori. Se nello sviluppo normale si raggiunge un certo grado di integrazione e generalizzazione che converge in un modello mentalizzante di sé, dell’altro e della relazione, nei BPD lo sviluppo procederebbe in modo trasversale: la normale coordinazione di capacità in precedenza separate non avviene ed il frazionamento risulta essere per l’individuo la strategia più funzionale per il proprio adattamento. Questo assetto relazionale tenderà, pertanto, ad essere riproposto nelle relazioni intime emotivamente intense, così come in ogni situazione interpersonale capace di evocare alcune delle qualità relative a quella vissuta con il proprio caregiver, cosa che metterà a repentaglio la possibilità stessa di esperire nuove modalità interattive: in sostanza, i modelli operativi interni non riflessivi tendono a dominare il comportamento degli individui affetti da BPD. Introduzione 17 11.5 Un cenno a proposito dell’intervento psicoterapeutico Come è noto, obiettivi, modalità operative e tecniche sono inevitabilmente orientate alla teoria di riferimento: è questa ultima, infatti, a definire i principi metodologici e gli strumenti che il clinico dovrà utilizzare nella attuazione del proprio intervento psicoterapeutico (cfr. Pennella, 2008). Nell’ambito del trattamento dei BPD, un esempio di questo ci viene da Bergeret, il quale ha orientato la propria prassi rifacendosi al modello psicoanalitico classico. Il suo approccio terapeutico mira a portare il paziente verso un’area nevrotica per poi stabilizzarvisi. In linea con la tecnica psicoanalitica standard, Bergeret enfatizza il ruolo dell’interpretazione, rispetto alla quale consiglia interventi riferiti precipuamente al conflitto edipico. Nonostante il carattere secondario di questa fase, in pazienti con BPD, addentrarsi in fasi più precoci dello sviluppo con le relative conflittualità potrebbe infatti condurre, secondo Bergeret, in uno scompenso di tipo psicotico. L’atteggiamento del clinico dovrebbe, dunque, essere improntato sulla cautela e puntare a promuovere il miglioramento delle capacità del paziente di adattarsi alla realtà. Un altro autore molto noto, ad aver elaborato una prassi di intervento specifica per i pazienti con organizzazione borderline di personalità, è Kernberg. Il suo modello operativo, denominato Psicoterapia Focalizzata sul Transfert, rinvia alla rielaborazione, da lui fornito, alla teoria delle relazioni oggettuali; nella sua prospettiva, la patologia è vista come una ripetizione inconscia, agita nel “qui ed ora”, delle relazioni patogene interiorizzate nel corso dell’infanzia e la cura è volta alla loro modificazione in senso maggiormente adattativo, specie grazie al lavoro interpretativo. La risoluzione di relazioni oggettuali rigide e primitive e l’integrazione delle immagine scisse di sé e degli altri causa, infatti, un miglioramento tanto nella capacità di controllare impulsi/emozioni quanto nella capacità di relazionarsi e funzionare in maniera più adeguata e matura. Le tecniche da utilizzare, puntualmente descritte in alcuni manuali (cfr. Clarkin, Yeomas, Kernberg, 1999), partono dalla 18 Rosario Di Sauro, Angelo R. Pennella formulazione di un rigido contratto terapeutico per giungere alla evidenziazione e al lavoro di integrazione delle scissioni – per come si presentano nella relazione terapeutica – tramite un sistematico utilizzo di chiarificazioni, confrontazioni ed interpretazioni. Fonagy si differenzia degli autori citati per il suo esplicito rinvio alla teoria e alle ricerche condotte in questi ultimi decenni in merito alle relazioni di attaccamento e alle connessioni riscontrabili tra situazioni di abuso, maltrattamento infantile e deficit nei processi di mentalizzazione, questo ultimo inteso come il nucleo del disturbo borderline. Coerentemente a tale prospettiva teorica, Fonagy propone una forma di trattamento che mira fondamentalmente a riattivare proprio quei processi di mentalizzazione che non hanno avuto modo di svilupparsi nel periodo dello sviluppo del soggetto. Il terapeuta deve quindi tentare di creare una sorta di area transizionale dove emozioni e pensieri possano divenire accessibili, pensabili, elaborabili. Il suo ruolo diventa pertanto simile a quello di un «genitore sufficientemente buono» che è capace di rispecchiare, contenere e restituire, in una forma più comprensibile, il materiale manifestato dal proprio “figliolo” in modo che questi possa assumerlo in sé e modificare i propri schemi affettivi, cognitivi e comportamentali. Per dirla in altri termini: Il recupero della capacità di mentalizzare nel contesto delle relazioni di attaccamento deve essere l’obiettivo primario di tutti i trattamenti psicosociali del BPD, ma occorre aggiungere che i pazienti con BPD potrebbero essere particolarmente vulnerabili agli effetti collaterali dei trattamenti psicoterapeutici che attivano il sistema di attaccamento. Peraltro, senza attivazione del sistema di attaccamento, i pazienti borderline non svilupperanno mai la capacità di funzionare psicologicamente in un contesto di relazioni interpersonali, una incapacità che è alla radice dei loro problemi […] Il trattamento sarà efficace solo nella misura in cui riesca a potenziare la capacità di mentalizzare del paziente senza generare troppi effetti collaterali iatrogeni e negativi come conseguenza della stimolazione del sistema di attaccamento (Bateman, Fonagy, 2006, p. 233). Introduzione 19 Le tecniche proposte da Fonagy includono l’interpretazione del transfert, strumento con cui dispiegare il senso di atteggiamenti e comportamenti che il paziente tende invece a reificare sganciandoli da qualsiasi intenzionalità, ma enfatizzano la centralità dell’atteggiamento e delle comunicazioni, sia verbali che non verbali, che il terapeuta deve mantenere nell’ambito della relazione con il paziente al fine di favorire l’elaborazione degli affetti. In un certo senso, si potrebbe dire che Fonagy, a differenza di altri autori, sottolinea maggiormente il significato della relazione ed il valore che può avere, nel processo di cambiamento, il sistematico sforzo del terapeuta di comprendere gli stati mentali del paziente al fine di riattivare la sua disponibilità ad accogliere il proprio e l’altrui mondo interiore. Bibliografia ALDERIGHI, P., RESTA D. (2003), Adolescenza e condizione borderline: patologia e creazione di Sé?, in A. Novelletto, E. Masina (a cura di), I disturbi di personalità in adolescenza. Borderline, antisociali, psicotici, Franco Angeli, Milano. ALLEN, J.G., FONAGY P. (2006), La mentalizzazione. Psicopatologia e trattamento, trad. it. Il Mulino, Bologna 2008. AMMANITI, M. (1991), Narrazioni materne in gravidanza e stile d’attaccamento infantile, in M. Ammaniti, D.N. Stern (a cura di), Rappresentazioni e narrazioni, Bollati Boringhieri, Torino. AMMANITI, M. 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