Genitorialità, mentalizzazione e psicoterapia
Rosario Di Sauro, Angelo R. Pennella
Genitorialità e mentalizzazione
Attualmente, la genitorialità può essere considerata uno dei
più interessanti temi di riflessione per tutte le discipline impegnate a comprendere e a prevenire comportamenti di disagio, a
volte anche marcatamente devianti e psicopatologici (Di Sauro,
Manca, 2006; Di Sauro, Bertiè, 2006; Cerutti, Manca, 2006).
L’importanza della relazione madre-bambino, peraltro evidenziata da tempo in ambito psicoanalitico (cfr., tra gli altri,
Winnicott, 1958; Bowlby, 1969, 1973), è oggi unanimemente
considerata, insieme alle condizioni ambientali in cui si situa il
processo evolutivo, una condizione fondamentale per l’adeguato sviluppo psicofisico del bambino. C’è da dire, che da
tempo si è anche retrodatato l’inizio della relazione che lega la
madre al proprio bambino individuando il suo punto di avvio
non più nel parto, ma nel momento in cui si sviluppano nella
donna le prime fantasie e pensieri nei confronti di un possibile
figlio.
Per chiarire questo concetto può essere utile prendere spunto
da due affermazioni che ognuno di noi ha certamente ascoltato
più volte: «oggi è nato il figlio di Giovanna», «oggi Giovanna
ha partorito suo figlio». Di primo acchito, potrebbero sembrare
frasi sostanzialmente sovrapponibili, in realtà, si tratta di espressioni che non si differenziano solo per il soggetto, ma anche e
specialmente per l’azione descritta. Ci sembra infatti evidente
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che nella prima ci si riferisce ad un atto concreto e pertanto circoscritto ed in sé conchiuso della vita di una persona (il parto),
nella seconda si rinvia invece ad una azione (il nascere) che non
si esaurisce certo nel momento del parto e che possiede interessanti rinvii simbolici, non ultimo all’idea di “luce” (non a caso,
un’altra espressione utilizzabile in questi casi è «Giovanna ha
dato alla luce suo figlio»). In questo senso, è agevole pensare
alla vita intrauterina come ad una vita condotta nella oscurità, a
differenza di quella extrauterina, vissuta alla luce del sole. Citando Neumann (1974, p. 97), potremmo quindi dire che la nascita è una «liberazione dall’oscurità verso il chiarore che caratterizza la via della vita e quella della coscienza che conducono
sempre fondamentalmente dalla notte alla luce. È questa una
delle ragioni che spiegano il legame archetipico del simbolismo
della crescita con l’acquisizione della coscienza.»
In sostanza, mentre il verbo “partorire” indica un’azione circoscritta ed esauribile in un momento “biologicamente” definito, il termine “nascere” veicola l’idea di un percorso il cui fine,
in realtà mai pienamente raggiunto e raggiungibile, è l’autocoscienza. Non a caso, la Mahler (1968) ha descritto la nascita
psicologica come un processo che si svolge lentamente, differenziandosi proprio per questo dalla nascita biologica che avviene in un momento preciso della vita individuale.
Se si considera però la nascita (psicologica) come un processo, si deve però attuare un sostanziale cambiamento prospettico.
L’attenzione non può più rivolgersi solo al bambino o alla madre, in quanto entità distinte, ma deve piuttosto focalizzarsi sulla relazione che si istituisce tra loro: il processo a cui ci si sta riferendo non è infatti qualcosa che si svolge nel bambino o nella
madre, ma nel sistema madre-bambino.
Quanto detto ci consente di comprendere il motivo della “retrodatazione” a cui si accennava sopra.
Sebbene possa apparire logico pensare che una relazione non
possa che fondarsi sulla presenza fisica di due distinti interlocutori, se si parla però di sistema e di nascita psicologica la questione diventa più complessa. Chiediamoci: quand’é che nasce,
per la madre, il suo bambino? Quand’è che ella avvia la sua re-
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lazione con lui? La risposta è facilmente intuibile: nel momento
in cui la donna inizia ad elaborare i suoi bisogni trasformandoli
in desideri, quando dà corpo alle sue fantasie ed inizia ad immaginare e pensare quel figlio la cui concretezza sarà raggiunta
solo molto tempo dopo1 (Ammaniti, 1991; Fonagy, 1992; Stern,
1998; Stern, Bruschweiler-Stern, 1999).
Parlare della relazione madre-bambino significa dunque tornare indietro nel tempo e confrontarsi con le emozioni del futuro genitore, con la sua capacità di riconoscere innanzitutto al figlio, prima che uno spazio uterino, uno spazio mentale. In questo senso, la nascita di un bambino procede di pari passo con la
nascita psicologica di una madre, dato che è innanzitutto nella
mente di quest’ultima che si dà origine ad una nuova identità.
Se questo processo evolve normalmente, il bambino svilupperà una capacità di adattamento basato sulla fiducia (Erikson,
1975), al contrario, se si verificano difficoltà nella strutturazione di questo riconoscimento, si avrà l’insorgenza di un grave disagio nella strutturazione del Sé, ovvero nella sua nascita psicologica.
Nell’ambito della genitorialità, le situazioni di rischio fanno
riferimento a tutte le condizioni in cui la funzione genitoriale è
fortemente disturbata nelle sue componenti fondamentali di cura e protezione dei figli (Di Sauro, Bertiè, 2006), intaccando
quindi profondamente sia la qualità della relazione all’interno
del sistema genitore-figlio sia la possibilità del bambino di
strutturare un Sé sufficientemente integrato.
In sostanza, il ruolo della madre e dell’ambiente familiare
nello sviluppo del bambino è fondamentale in quanto costituisce, soprattutto nei primi anni di vita, la realtà di riferimento del
bambino, il modello su cui organizzerà la rappresentazione di se
stesso, dell’altro e della relazione, la sua modalità di essere nel
mondo (Ammaniti, 2001, 2005; Zangheri, Cassibba, Ferrigni,
1
Si può aggiungere che la donna riceve nel corso della gravidanza segnali fisici tangibili che rinforzano e rendono sempre più concreta la presenza, inizialmente solo fantasmatica, del bambino.
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Fabbrici, 2002; Masina, Montinari, 2003; Di Vita, Salerno,
2004).
In questi anni, la mole di dati a conferma di tale prospettiva
sta sempre più aumentando, in modo particolare, alcune ricerche hanno evidenziato che l’impatto di possibile condizioni di
rischio “extrafamiliari” – si pensi a contesti socio-culturali degradati – può essere fortemente esacerbato o mitigato in funzione della capacità del sistema familiare di offrire al bambino un
adeguato “contenitore” (Costabile,Veltri, 2003; Molina, Bonacina, 2004). In tale logica, la famiglia rappresenta il contesto
all’interno del quale i fattori protettivi e di rischio interagiscono
tra loro e influenzano lo sviluppo successivo del bambino.
Anche la qualità del rapporto fra i coniugi può influenzare lo
sviluppo infantile contribuendo all’instaurarsi del clima affettivo all’interno della famiglia. Mentre una relazione soddisfacente tra i genitori sembra essere collegata ad un equilibrato coinvolgimento emotivo con il proprio figlio, con una conseguente
maggiore qualità relazionale del sistema, l’insoddisfazione coniugale può invece influire negativamente (Di Vita, Salerno,
2004; Di Sauro, Manca, 2006). Il conflitto aperto tra i coniugi,
in modo specifico la rabbia espressa, sembra infatti essere particolarmente distruttivo per lo sviluppo psicologico del bambino,
tant’è che i bambini provenienti da famiglie ostili mostrano, se
comparati a quelli di famiglie meno conflittuali, maggiore angoscia e reattività in risposta alla rabbia degli adulti2.
L’insoddisfazione e il disaccordo possono essere espressi in
modo diverso dai due genitori; uno studio di Dickstein e Parke
(1988), per esempio, ha visto emergere dati interessanti rispetto
a tali differenze: i padri insoddisfatti della relazione coniugale,
infatti, tenderebbero ad agire nei confronti del figlio un modello
2
Il disadattamento sembra inoltre maggiore laddove, oltre all’espressione
verbale della rabbia, i bambini vengono esposti al conflitto fisico dei genitori
(Ammaniti, 2001; Fonagy, 2003; Di Sauro, Manca, 2006; Di Sauro, Priori,
Ranucci, 2007).
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di distanziamento e ritiro, mentre le madri insoddisfatte dalla relazione di coppia, mostrerebbero un ipercoinvolgimento.
In generale, le persone segnate a loro volta da problematiche
riguardanti le cure parentali ricevute, quali carenza affettiva, assenza di figure genitoriali, rifiuto, maltrattamento ecc., sembrano attuare rapporti tendenzialmente più difficili, sia nell’ambito
della coppia che con i propri figli3. Cosa che può indurci a pensare quanto le esperienze pregresse connotate negativamente e
concernenti la qualità delle relazioni esistenti nel sistema familiare e in quello madre-bambino possano “contagiare” ricorsivamente situazioni successive (Ammaniti, 1991, 2001; Di Vita,
Salerno, 2004; Di Sauro, Bertiè, 2006).
Famiglia e disturbi di personalità
Le evidenze dimostrano, in modo sempre più convincente,
che le origini dei disturbi di personalità rinviano all’ambito delle relazioni familiari e alle esperienze traumatiche che vi si possono sviluppare.
Nella storia dei pazienti borderline, ad esempio, è piuttosto
frequente rilevare genitori con quadri psicopatologici o storie di
traumi precoci, quali abbandoni, perdite, rifiuti o abusi, tant’è
che chi si occupa di questa patologia spesso situa il suo vulnus,
per così dire, nel contesto familiare, in modo particolare nella
qualità della relazione madre-bambino, spesso nella sottofase di
riavvicinamento del processo di separazione-individuazione
(Alderighi, Resta, 2003; Di sauro, Bertiè, 2006).
Anche autori come Masterson e Rinsley (1975) ritengono
che gli individui con organizzazione borderline non abbiano potuto sperimentare positivamente questa fase perché si sono trovati ad interagire con una madre anch’essa borderline, la quale
probabilmente viveva i comportamenti di allontanamento del
figlio come minacciosi, attivando quindi risposte di rifiuto, ne3
Questa osservazione, tra l’altro, sembra in linea con i dati anamnestici che
spesso si raccolgono con pazienti che presentano una organizzazione di personalità borderline e che riferiscono la presenza, in uno o in entrambi i genitori,
di difficoltà analoghe.
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gando cioè al bambino il suo affetto, rinforzandolo al contrario
nelle situazioni in cui questi tornava da lei. In questo tipo di dinamiche relazionali, il messaggio che il bambino riceve dalla
madre è che crescere ed individuarsi provoca la perdita
dell’amore e del contenimento materno. Se si accetta tale impostazione è possibile pensare che questa incoerenza durante la fase di separazione-individuazione conduca alla formazione di
una relazione con l’oggetto scissa, una parte cattiva o aggressiva ed una buona o “libidica”, in cui non si ha la possibilità di
giungere ad una rappresentazione integrata di sé o dell’oggetto
(Novelletto, 1986, 1989; Clarkin, Kernberg, 1993; Clarkin, Yeomas, Kernberg, 1999). Per dirla con Gabbard (2002, p. 327), è
come se potessero esistere «solo due possibili scelte: tu puoi
sentirti abbandonato e cattivo, o, come Peter Pan, puoi sentirti
buono solo attraverso il diniego della realtà e non crescendo
mai».
Aderendo alle posizioni teoriche che considerano la madre la
maggiore responsabile dell’evoluzione del disturbo bordeline di
personalità (BPD), anche Giovacchini ritiene che il fallimento
materno nel fornire un coerente e competente caretaking, a
svolgere cioè una funzione materna sufficientemente adeguata,
per usare una nota espressione di Winnicott (1961), può essere
considerato la causa principale della patologia borderline.
L’incoerenza materna, l’incapacità di fornire rassicurazioni
al figlio e le difficoltà relazionali in genere, creano infatti gradualmente una confusione primaria, un’oscillazione tra frustrazione e gratificazione che impedisce lo stabilirsi di una costanza
oggettuale. La madre inoltre, proietterà inconsciamente sul figlio le proprie parti distruttive utilizzandole come «appendice
narcisistica» (Ammaniti, Muscetta, 1999; Marcelli, Braconnier,
2001).
In contrasto con questa posizione, basata sulla “psicopatologia del conflitto”, altri autori affermano che la patologia borderline può essere definita in termini di deficit. In tale prospettiva,
il deficit risiederebbe nella mancata introiezione delle immagini
d’oggetto buone, in netto contrasto quindi con la posizione di
Kernberg secondo il quale gli oggetti buoni o cattivi vengono
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sicuramente interiorizzati e successivamente scissi; pertanto, se
non esiste un oggetto buono, il paziente borderline non può rappresentarsi una madre che lo tranquillizzi e lo sostenga nei momenti di stress (Waldinger, Gunderson, 1987; Paris, ZweigFrank, 1993; Gabbard, 2002).
Alcuni studi condotti sulle esperienze infantili dei pazienti
borderline (Paris, Zweig-Frank, 1993), mettono in risalto che il
fallimento del legame genitoriale sia alla base del disturbo borderline, in particolar modo la trascuratezza emotiva.
Il bambino cerca di organizzare il caos emotivo interno iniziale attraverso l’osservazione di quello che le sue emozioni
provocano nel genitore; se il genitore non è sintonizzato sulle
sue emozioni, al bambino sarà difficile comprenderle e il suo
potenziale autocontrollo sarà impoverito, aumentando la probabilità che si stabiliscano le disregolazioni affettive tipiche del
borderline (Ammaniti, Muscetta, 2003; Ammaniti, 2005; Stern,
2005). Il bambino, in questo caso, internalizza l’immagine di sé
stesso che ritrova nell’oggetto e, se il genitore non è in grado di
funzionare come contenitore delle angosce, dei pensieri e delle
emozioni del bambino, quest’ultimo non ha la possibilità di crescere ed apprendere dalla propria esperienza emotiva e rimarrà
pertanto alla disperata ricerca di modalità alternative di contenimento dei propri pensieri e degli intensi sentimenti che essi
generano (Fonagy, 1997; Mazzoncini, 2003).
In questa ottica, l’ipotesi da cui si può partire (Fonagy, 1997,
2003; Fonagy, Target, 2001), è che la continua ricerca di modalità alternative di contenimento mentale possa produrre soluzioni patologiche, ad esempio, far divenire la mente dell’altro, con
la sua immagine negativa, distorta o assente del bambino, parte
integrante del Sé.
Nel momento in cui il bambino quindi si trova a confronto
con una figura genitoriale spaventata e spaventosa, egli incorpora come parte del Sé i sentimenti materni di rabbia, odio o paura
ed elabora una rappresentazione di se stesso come persona spaventosa. In questo modo, per avere un immagine di Sé sopportabile e sufficientemente coerente, il bambino dovrà esternalizzare tale immagine negativa, ad esempio, attraverso comporta-
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menti controllanti e manipolatori nei confronti dell’altro (una
delle caratteristiche del disturbo borderline), il che gli permette
anche di evitare ulteriori intrusioni nella rappresentazione di sé
(Fonagy, 1997, 2001, 2003).
Il rischio del trauma
Come si diceva, le osservazioni cliniche e gli studi empirici
condotti in questi ultimi decenni associano con sempre maggiore evidenza le situazioni borderline ad alti livelli di traumi e trascuratezza emotiva subiti in età evolutiva (Holmes, 1993). Sebbene non si tratti di condizioni esclusive e pertanto predittive
per lo sviluppo del BPD, abusi e maltrattamenti si configurano
però come fattori di rischio o precipitanti in situazioni di vulnerabilità costituzionale del soggetto (Paris, Zweig-Frank, 1993).
Fonagy e Target (cfr., tra gli altri, 2001) hanno sottolineato
che molti soggetti borderline hanno subito nel periodo infantile
situazioni di abuso fisico o maltrattamento, attivando un parallelo misconoscimento degli stati mentali dei propri genitori, difendendosi così da una consapevolezza che sarebbe stata troppo
pericolosa per lo sviluppo del proprio Sé. In effetti, se avessero
riconosciuto l’odio implicito negli atti di abuso dei propri genitori, di chi avrebbe cioè dovuto prendersi cura di loro, sarebbero
stati costretti a rappresentare se stessi come indegni di amore. In
questa prospettiva, è comprensibile il motivo per cui i soggetti
con BPD mostrino una così consistente difficoltà a mentalizzare, a «tenere a mente la mente», per dirla con Fonagy, a rappresentarsi cioè le emozioni ed i pensieri sia propri che altrui4.
4
Come descrive Fonagy (2004), sono molti i riferimenti statistici che evidenziano che il maltrattamento danneggia le capacità riflessive e il senso del sé
del bambino. Questo non vuol dire, tuttavia, che il maltrattamento si configuri
sempre come una esperienza di tipo fisico, essa può infatti essere meramente
psicologica. In ogni caso, la vicinanza mentale diventa tuttavia penosa ed il
naturale bisogno di prossimità tende pertanto ad esprimersi solo ad un livello
fisico. La contraddizione tra la ricerca di prossimità a livello mentale e quella
a livello fisico è all’origine dell’attaccamento disorganizzato che si osserva
nei bambini maltrattati.