Doveva essere l`era dell`acquario, dell`armonia universale, un nuovo

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2000 Mon Amour? (GrooveSafari, Roots Connection, Duozero, Ajello)
Doveva essere l’era dell’acquario, dell’armonia universale, un nuovo millennio in cui sarebbero
sparite le guerre. Il 2000 come promessa di prosperità, una nuova era in cui l’uomo sarebbe
ritornato tra le braccia di madre natura. Tutti a guardare con fiducia al futuro. Come invece ci hanno
dimostrato questi primi anni non è andata proprio così e non andrà così. Il collasso di sistemi, di
eco-sistemi e di massimi sistemi è qualcosa di palpabile, respirabile, anzi irrespirabile, soffocante
(“AFA!”). Avanti tutta a testa dritta e col paraocchi verso la produzione intensiva: di malessere, di
scorie (di rifiuti e di cultura), di pre-potenze, imperialismi, colonizzazioni (di coscienze, di anime,
di intelligenze). Tutto si oscura, tutto si riscalda e brucia, “i’m living in the Dark Age!”. Cosa
centra, si dirà, tutto questo pessimismo con un libro sulla musica? Centra perché la musica, come
ogni espressione artistica, è un documento dell’esistente, del reale. Certo poi questo esistente,
questo reale si trasfigura, si modifica, si allarga e si stringe negli occhi del suo artefice. Le musiche
danno una loro interpretazione. Sono uno specchio, anche distorto, dei tempi. Sono il suono che
produce la storia dell’uomo mentre si trascina oltre. Per alcuni il suono è uno stridore dissonante,
per altri è una melodiosa sequenza di note. Per alcuni è il grattare del gesso sulla lavagna,
l’altoforno, il cancello che cigola arrugginito, l’urlo della sirena. Per altri è un pezzo pop, la voce di
un bimbo, il vento tra le foglie, il canto della sirena. Dunque per chi fa musica il tempo serve per
scandire, per appoggiare sopra suoni e voce, serve per dare un inizio ed una fine ad una
composizione. Il tempo da l’ispirazione, lo spirito del tempo regola l’aria (inspirazione-espirazione
dello strumento a fiato), indica l’atmosfera, il climax di un’opera musicale. Dunque essendo la
musica il medium con il quale provo da tempo ad esprimermi (a volte recepito, a volte meno) mi
lancio nei primi anni del 2000 in diverse direzioni e relativi progetti. I motivi sono tanti, da quelli
più poetici e quelli più prosaici. Gli aspetti “alti”, artistici, vitali sono l’intenzione di affrontare le
varie parti di me, di affrontare diversi registri espressivi, di poter abbracciare tutta la musica. Gli
aspetti “bassi”, quotidiani, altrettanto vitali, sono che con la musica si fa fatica a campare e che è
necessario muoversi in diversi ambiti ed in diversi modi. Il contrasto non mi impaurisce. La prima
esperienza degli anni 2000 è un esperimento pop-oriented denominato “Groove Safari”. Le prime
battute vedono coinvolti alcuni ex-afa, di seguito il tutto si riduce al qui scrivente e a Yuri Degola
con la supervisione tecnica del fidato Ferraboschi. L’intenzione è quella di un album di canzoni
influenzate dalla storia della popular music, dalla lounge music, dalla space-age elettronica, dal
tropicalismo e dalle scorie eighties. Elettronica e campionamenti a servizio di brani dalla sensibilità
dance e trashy. Groove Safari è una avventurosa spedizione su una vecchia jeep Rover in
compagnia di un fotografo ed un animatore. E’ una esplorazione tra i ritmi e le parole che
movimentano il mondo. Un pacifico e rilassato safari fotografico che bandisce fucili e caccia grossa
e che al limite si permette di saccheggiare improbabili dischi in vinile scovati nel mercatino dei frati
cappuccini di San Martino in Rio. Vecchie missioni e nuovi missionari. Ci si adagia beatamente tra
ambientazioni sexy-esotiche miscelando musiche per luccicanti piste da ballo di “kicciosi” villagi
vacanze. Ben accetti trenini, balli coreografici, shake e tentativi di acrobatica break-dance. Una
scaletta che propone canzonette sempreverdi, eurodisco, hip-hop-blues, funk analogico, easy
listening, avanguardia commerciale. Una scaletta che diventa consistente quando siamo invitati con
tutta la famiglia (nonna Onelia e Mondine, Little e gli Alligatori) al Roxy Bar. Consistenza che si
rafforza quando nel 2001 arriva il contratto major della Sony/S4. E’ uno di quei contratti cosiddetti
“a step”, ma che comunque ci garantisce l’uscita di almeno due singoli e cosa non sottovalutabile
l’acquisto dei masters da parte della casa discografica. L’album rimane un’incognita a seconda del
risultato dei singoli, ma visti i tempi di magra, meglio firmare! Il primo singolo “Cosmobeat”
comincia ad entrare nelle rotations dei network radiofonici (RDS, KissKiss, RadioItalia…e
incredibbbile Radio Deejay), da lì si parte per una serie di partecipazioni a festivals organizzati da
radio. Sono strepitosi (per noi che ci sganasciamo dalle risate) e surreali playback su palchi
nazionalpopolari. Ci ritoviamo in situazioni paradossali, ma veramente comiche (presentati da
prosperose soubrettes, schiacciati da stars televisive, in compagnia di vecchie glorie degli anni ’60,
confusi tra gli idoli dei teen-agers) sembriamo dei marziani. I dopofestivals sono poi degni del
teatro dell’assurdo con priveè-champagne-ragazzeimmagine-vippume vario, salottini riservati a
Salvo del Grande Fratello (!!) in cui noi estasiati ci imboschiamo. Il secondo singolo (“Nei tuoi
occhi”) però non funziona altrettanto bene e così si ripete il destino. Ma cos’è? Il cattivo Karma, un
gioco del destino? Insomma nel 2002 la Sony taglia il personale, tra cui il nostro A&R e noi siamo
gentilmente abbandonati. Beh, a questo punto ci si rimbocca le maniche e si decide di trovare altre
vie per pubblicare l’album. Grazie all’aiuto del Kom-Fut Manifesto etichetta del Maffia, esce nel
2002 il primo omonimo album che ci frutta ottime recensioni ( tra i migliori album dell’anno nella
categoria “lounge” della rivista “Rumore”), qualche salutare concerto (tra cui l’invito come
supporto alla data del Campovolo di Ligabue) e dj-set: la partecipazione come selecter al festival
sloveno di futuristic dance “Meet Me” (migliaia di alieni con il ciuccio in bocca!), ospiti della due
giorni di musica elettronica “Re-set” (con Timo-Mas, X-press 2) al Festival Nazionale del’Unità di
Bologna. Un altro invito, questa volta discografico, riguarda la compilation “World” (con
Subsonica, 99 Posse, etc) contro la pena di morte curato dalla Sinistra Giovanile, alla quale
prendiamo parte con un rifacimento electro-break de “L’Internazionale”. Groove Safari nato come
progetto pop, esposto agli elementi ed all’ambiente (sociale), ben presto si inacidisce e confeziona il
secondo CD “Elettroselvatico” (2004) edito da Baracca&Burattini/Edel. L’album parla di uomini ed
elettrodomestici usciti dai ranghi, che sbiellano, esausti, esauriti, finalmente di nuovo nevrotici. Un
futuro anteriore (soltanto 20 anni fa!) in cui c’era l’isteria, la paranoia, l’ansia del Moderno.
Sentimenti non piacevoli, certo, ma che segnalavano l’esistenza di anticorpi sociali ed esistenziali.
Una schizofrenica risposta all’apatia prossima Ventura, una coscienza che ancora urlava, una
ricerca dell’eccesso che osava sfidare il “buonsenso”. Tutto questo Prima della ibernazione delle
menti e dell’avvento della razza dei Furbi. Quando c’era fiducia nelle macchine e persino i
cantautori diventavano After-Punk. Ora persino la tecnologia è inceppata in una nostalgia appena
malcelata da superfici sempre più rilucenti e placebOptional. Preferivamo allora le apparecchiature
ed i meccanismi (sistemi, metropoli, mercati) che mostravano la loro vera natura di mangia-uomini
e non i patEtici odierni tentativi di far apparire l’alienazione (che tenerezza questa parola!) come
qualcosa di naturale. Arte di Frontiera che lasciava i propri segni su muri, dischi, carte e corpi:
INDELEBILI. Ora tutto pare scorrere verso il grande nulla disperdendosi nel chiacchericcio del
Grande Gossip Universale. Non è roba da passatisti, ma per animali elettroselvatici che fiutano
l’aria e come appreso in giovane età, sentono gli stessi odori e gli stessi miasmi usciti dai tombini
qualche tempo fa. Non serve più ricoprire ogni cosa di spettacolarità. Se lo show deve continuare,
almeno va disturbato per l’ultima volta prima di ritrovarsi con il sorriso idiota stampato sulla faccia
mentre corriamo allegramente consapevoli verso il sacrificio dell’ultimo rituale Sociale. No (back
to the) Future!
Elettroselvatico è un album cinico ed un po’ antipatico, un temino acido acido nel tempo degli
equidistanti. Una raccolta di spicchi di sconfitta ingurgitati come pillole e trasformate in sogno (…o
incubo, dipende…). Synthcore ed electrofunk mutante… come quando ballavo sfogando tensione e
pippe adolescenziali al Ritz. Ironia come autodifesa sacra e santa, intoccabile al tocco taumaturgico
dell’ipocrisia. Merda intellettuale, impopolare nei giorni della deregulation. Pochi idoli rimangono:
qualche artista decadente, Bjorn Borg, bocce perse e recuperate, neuroni gangbanghizzati, ragazze
di plastica, sagome da party eterno. Eppure ci sente ancora Santi a cantare canzoni devianti……”.
Groove Safari nato in modo “Happy” finisce in modo “cinico ed incattivito”, la sigla sopravvive
qua e là, in qualche dj-set estivo (le piscine “Pineapple”) ed in qualche compila. Intanto il “Busker
Studio” il nuovo studio post-esagono di Fabio Ferraboschi è diventato il luogo in cui non solo si
registrano dischi ma dove e si elaborano nuove idee, i primi passi del 2000 vedono la nascita di un
altro combo: “Roots Connection” io, Fabio più il bluesman Enrico Micheletti, reduce di una lunga
storia (dai ’60 in giro per il globo) e militanza con la musica del diavolo (e tra le tante
collaborazioni, John Lee Hooker). Avevamo conosciuto Enrico nei ’90 all’Esagono dove
bazzicavano musicisti di varia estrazione, lui aveva poi suonato nel brano “Nebbia”(da “Fumana
Mandala”) degli Afa. Dopo ci siamo frequentati nel tempo ed una sera, all’alba del 2000, dopo una
sua esibizione alla “Galera” a Correggio, decidiamo di tentare un’ardita fusione :Electro-deltablues.
Negli anni ’90 si era ascoltato musica in cui l’elettronica dava nuova vita a generi accelerando la
loro evoluzione: funky, soul, jazz, etnica. Noi volevamo provarci con il blues, la matrice di ogni
forma futura, la connessione al suono della radici. Un suono allo stesso tempo arcaico e malleabile,
eterno nel suo concetto basilare di circolarità, loop e canto reiterato. Non voleva essere l’ennesimo
sacrilegio, né uno schiaffo ai puristi già decimati, ma un sincero prolungamento del processo di
progressione, rivendicazione e sincretismo racchiuso nella musica nera. Dai gospels sino alle attuali
innovazioni hip-hop, house, dub. La black-music che rilascia i suoi virus influenzando le rigide
strutture ritmico-armoniche dei bianchi, che si impadronisce dei nuovi moduli sonori per dare una
propria idea di innovazione. La chitarra elettrica era stata una invenzione tecnologica sulla quale i
bluesmen avevano applicato un sapere tramandato da generazioni. Ora affidavamo al computer, alla
nostra memoria, gli insegnamenti delle canzoni di Son House (“Travellin’ man” e “Worried life”)
Leadbelly (“How come you do”) Willie Dixon (“Hoochie coochie man”) e naturalmente Robert
Johnson (“Cross road blues”). Roots Connection divenne nel 2002 un disco (ancora per
Baracca&Burattini/Edel) un inusuale incontro tra blues, delta-music e ritmi elettronici. Una fusione
tra i riverberi e le atmosfere della slide-guitar e le pulsazioni sintetiche del break-beat. Future blues,
suono dell’anima, colonna sonora di un lungo viaggio che porta lontano. Dalle invenzioni tecniche
di Robert Johnson ai campionamenti di vecchi e polverosi dischi.Nei dieci brani il calore del legno,
lo sferragliare di corde arrugginite amalgamato alla fantasonica creata dalle macchine. Abstract
blues, un lamento in eterno movimento, dal battito costante e spezzato, come il girovagare nomade
di vecchi bluesmen oggi approdati su nuove strade digitali. Nei nostri crossroads (incroci) ancora
tanti concerti, una apparizione al grande Social Forum di Firenze, tracce per compilation di
collezioni di moda per Pitti Uomo, un rifacimento per un cd tributo a Nick Drake, Mundus insieme
ad un maestro tablista indiano, un nuovo album per il 2008 e particolari attenzioni estere. E
ritorniamo ai primi del 21° secolo, proprio sul crinale 1999-2000, quando si da vita ad un altro
progetto: “Duozero” un duo che divido con il socio Enrico Marani (già negli industriali ‘80
“T.A.C.”,nei “Lubna” , “Forbici di Manitù”e “2blue”) e nel quale ci si occupa di sperimentazione,
Parola grossa vero? Ma senza paura e per fatti nostri ci mettiamo a smanopolare con oscillatori e
darci dentro di ambienti ed infinite deelay. Duozero farà di tutto ciò che non è programmato la
propria filosofia. Un’incontro non programmato, un accidente temporale, l’errore non resettato, un
uso delle macchine che non prevede programmazione. L’organicità che si insinua negli stampati al
silicio, i dati digitali che si prostituiscono all’analogico, l’orecchio di duozero si allenerà ad
intercettare tutti i microrumori, gli inceppamenti del fax, dei modem, dei calcolatori. Su queste
sinfonie hardware alla deriva, su questi files prossimi alla decomposizione, si adagiano e si
miscelano memorie umane ed aleatoria sporcizia lo-fi: echi kraut (Can, Faust, Tangerine Dream,
Neu), elettronica concreta, no wave, free jazz, frequenze e sinusoidi sbilenche, freakedelie, pruriti
contemporanei ed astrazioni cosmiche, polluzioni etniche da latitudini sconosciute. Duozero sarà un
meccanismo che si incanta, quasi estatico, contemplativo, una frammentazione quantica di
dimensioni. Oltre la fantascienza, spasimante di un estetica del futuro non più applicabile all’oggi.
Una nostalgia tecno-stracciona d’accatto, una umile avanguardia. Duozero proporrà performancelive come archeologie multimediali, sperimentazione naif da cameretta, rigorosa improvvisazione,
zen e arte della nevrosi. A settembre 2000 esce il primo compact disk su etichetta Snowdonia “no
programma 1999/2000” a cui seguono ottime recensioni ed una serie di date di presentazione
accompagnate da visuals (una all’interno del festival di musica contemporanea “REC” a Reggio
Emilia ).Successiva sarà la partecipazione con remix incrociati ai due capitoli della serie “illicit
sounds of maffia”(compilation con contributi provenienti dalle nuove realtà elettroniche gravitanti
intorno al club maffia). Duozero si spegne o semplicemente inscena una morte apparente sino al
2006 quando viene annunciata una nuova uscita. “Esperanto” è il titolo del nuovo lavoro che viene
edito nella prima parte del 2006 da Small Voices. . E’ un ulteriore sfida ed è incentrato sulla parola,
sul linguaggio e sulla comunicazione. Questo spiega il largo uso di testi, recitati e reading che si
fanno spazio all’interno di field recordings, intricate costruzioni ed ambientazioni sonore. Gli
interventi verbali sono affidati a diversi ospiti tra cui Massimo Zamboni (cccp, csi), lo scrittore
Davide Bregola e gli attori Gabriele Tesauri e Marco Valerio Amico. Si giunge ora ad un maggiore
apporto digitale, ad una chirurgica dissezione di cellule sonore. Poesia fonetica, scrittura automatica
, cut-up, lingue morte o utopiche, autismo millenarista…… “esperanto” è un virus che fa crescere
nuove forme nelle città degli umani. Il disco prosegue nella ricerca elettronica e, a distanza (potere
della rete) suona e remiscela il chitarrista americano Tim Motzer(già con Ursula Rucker e David
Sylvian). La versione remix di “September” viene suonata da dj’s come King Britt e Francois
Kevorkian nei clubs di NewYork . Il nuovo disco riceve riconoscimenti da parte di diverse riviste,
tra cui “Rumore” e “Rockerilla” (“uno tra i migliori dischi elettronici italiani del 2006”).Nelle
utopie di una umanità alla ricerca di un futuro da coniugare, l’esperanto, lingua inventata dal
Dr.Zamenhoff e creata per rapporti internazionali, è da tempo una archeologia tecnologica.
Qualcosa che giunge da un passato ormai decifrato e decrittato: graffiti preistorici, geroglifici,
scrittura cuneiforme, lingue commerciali, dati digitali…e forse di nuovo graffiti a decorare le
superfici di modernità. Invenzioni e teorie di visionari, pensieri alla deriva, usciti dalla propria
orbita sino a raggiungere una incontenibile glossolalia. Un intricato labirinto verbale in cui la
società si smarrisce: overload di informazione che crea una assoluta incomunicabilità. Un
proliferare di linguaggi e mezzi di comunicazione che aldilà di ogni comprensione ci riportano ad
una semplificazione e povertà espressiva. Una esperienza, una ricerca, un nucleo aperto che non
teme di lasciarsi andare nella corrente, nello scorrere di pensieri e sensazioni. Duozero prospera
nella confusione di segni, si perde volutamente a Babele, smarrisce coscienziosamente la via nelle
città invisibili di Calvino, si stordisce nei sotterranei di Zion. Non ha paura di contaminarsi con il
linguaggio-virus proveniente da un altro spazio. Duozero frequenta le scuole dell’Irragionevolezza a
Erehwon dove si insegnano lingue ipotetiche, frequenta interminabili ed eterne biblioteche dove
cibarsi dei libri e delle Finzioni di Borges. Adora la heavy-metalinguistica e si fa offrire un pastis da
De Saussure. Il messaggio ha assoluto bisogno del medium, deve attraversare territori ed esistenze,
per questo occorrono ponti che uniscano, ambientazioni ed architetture sonore. Duozero cede e
concede al delirio, all’estasi aurale: (ESP)eranto disk, musica concreta, field recordings
dell’inconscio, connessioni di macchine che comunicano attraverso linguaggi digitali. Dopo una
unica presentazione per il benemerito “Mundus” (al Palazzo dei Principi) con uno show multimedia
supportati dai visuals di Laboratorio Godot, duozero entra nella funzione stand-by. Tuttora acceso e
funzionante è invece “Ajello” una sacra fratellanza d’onore nata sulle piste da ballo dei più oscuri
night clubs. Ajello è un team di produzione che mi vede in alleanza con Luca Roccatagliati (alias dj
Rocca del Maffia) e che in questi anni ha sfornato veramente tanto vinile come se fosse pizza. In
effetti siamo un po’ pizzaioli mutanti che impastano acrobaticamente neurofunk, electro, italo-disco
e space-sounds. “Ajello” è un tipico cognome da emigrazione italo-americana che ha come scenario
urbano i quartieri del meticciato dove si mescolano slangs, dialetti, razze e musiche tra il punk e la
disco.. Esistono due biografie parallele, una sceneggiata come un film di Scorsese o Spike Lee,
l’altra più iperrealistica. La prima: La famiglia Ajello risiede da anni in Italia. Il padre e lo zio
erano partiti da Napoli negli anni Settanta per New York, precisamente a Brooklyn. Come molti
loro coetanei italiani il primo lavoro fu nella ristorazione. Diventarono cuochi e pizzaioli nelle
cucine delle backstreet di Little Italy. Dopo una non folgorante carriera, ci fu il mesto ritorno in
Italia, da pensionati squattrinati. Rientrati con le famiglie da Brooklyn, i figli seguono le orme dei
padri: diventando pizzaioli provetti. Chi a Reggio Emilia, chi a Napoli, i due fratelli mostrano una
spiccata predilezione per i suoni della loro infanzia neworchese: la disco, il funk nero, l’ electro, la
no-wave di Talkin Heads e Contortions. I motivi di tale sacra devozione al tipico suono di NY degli
anni settanta/ottanta sono due: la famiglia e l’amore. La famiglia perché è solo grazie alla musica
che la famiglia si riunisce di tanto in tanto: e ogni volta nello studio di Reggio Emilia “Mars Life” i
due fanno musica fino all’alba per poi ritornare alle proprie città d’adozione. L’amore perché è
grazie alla musica che i due fratelli tornano con la memoria a quei tempi eroici e romantici allo
stesso modo: quando cioè i genitori, chiuse le pizzerie a mezzanotte uscivano per ballare fino al
mattino nei fumosi locali di Manhattan: il Ritz, Il Danceteria, il Mudd, il Paradise Garage. Gli
Ajello si sono formati sui dischi dei padri: una massa di vinili di puro suono newyorchese, dalle
produzioni electro di Arthur Baker, al bass funk di Liquid Liquid, alla disco italo-neworchese di
Tony Manero che già trasudava house-garage. Di questa fusione di stili è tenutaria ancora oggi la
famiglia Ajello. Ogni volta che i tre giovani fratelli finiscono una traccia la mandano al padre, a
Napoli. Se il padre risponde “Che il funk sia con voi” vuol dire che il pezzo è “bbuono” viceversa
viene cassato dal “don” come “no bbuono”. Cosa pensare quindi di una famiglia che ha come
obiettivo centrale delle proprie vite il “portare il funk nelle pizzerie”? La mutazione della “italodisco” di seconda generazione sta già avvenendo! La seconda biografia: Ajello nascono
dall’incontro tra Luca “DJ Rocca” Roccatagliati e Fabrizio “Taver” Tavernelli . L’habitat in cui si
sviluppa la collaborazione è quello del Maffia Club di Reggio Emilia storico locale per la diffusione
della musica elettronica in Italia e che li vede protagonisti di una residenza mensile. Pur provenendo
da ambiti diversi i due trovano un comune denominatore nella fascinazione per i suoni e per
l’immaginario estetico di marca ‘80. Eclettismo è la parola d’ordine nel progetto Ajello : Rocca è
DJ, produttore, musicista. Taver è musicista, cantante, produttore. Gli ingredienti sonori sono un
concentrato delle diverse esperienze: electro, new-wave, italo-disco, neurofunk, eurodance, space
sounds. Nel Gennaio 2003 esce l’extended play radical-dance “That’s True” per la label olandese
Moving Target con remix dell’inglese Elite Force (suonato da Chicken Lips, Benny Benassi, Sasha,
Plump djs) e della stessa Loes Lee tenutaria dell’etichetta . Il secondo brano pubblicato è “My sex
4 you” nel terzo capitolo della compilation “Illicit Sounds of Maffia” (2004). Sempre per il Maffia
la compilation mixata “Skank Bloc Maffia” (su Kom-Fut Manifesto con ospiti Gaznevada, Munk
& James Murphy, Tomboy, Adriano Canzian, Kiki, Answering Service, Andrea Doria etc ). Nel
2004 il brano “Harlem U.S.A.” incluso nell’Italian EP uscito per la tedesca Relish di
Headman/Manhead (ottime recensioni su Mixmag, Dj Magazine, IDJ, M8 e supporto da parte di
Laurent Garnier, Erol Alkan, Nick Fanciulli e la radio inglese Kiss FM), a cui fa seguito un remix
ad opera di David Gilmoure Girls sempre su Relish. Oltre alle produzioni proprie, Ajello si cimenta
in apprezzati remixes per gente come In Flagranti da New York, Diskokaines feat. Princess
Superstar, Alex Dolby, General Midi. Nel 2005 Ajello approda su Mantra Vibes. Primo episodio è
il singolo “Italo X-perimento/Robopop” che riceve le lodi di John Digweed, Layo & Bushwacka ,
Rob Mello, raggiungendo il terzo posto nella Zzub chart mondiale. In Dicembre Ajello viene
invitato all’AKA di Londra per un dj-set insieme a Radio Slave. Il 2006 è un anno denso e caldo; il
duo è infatti coinvolto nel progetto discografico “Confuzed Disco” rilettura di classici ‘80 italodisco-wave dal catalogo della gloriosa etichetta Expanded Music. Ajello propone una oscura cover
di “Lobotomy” appartenente in origine alla band elettro-dark fiorentina Neon. Collaboriamo anche
con i vicini The Dolphins per un singolo intitolato “Give it to me”. C’è anche l’album d’esordio,
preceduto da un fantascientifico assaggio “Amore Alieno” (original version e remix a cura di
Cagedbaby) una melanconica odissea spaziale che fa presagire una vera e propria tempesta cosmica.
L’Album “Spasm Odissey” riceve ottimi consensi e spazi su riviste e web-magazine e
successivamente porta il duo in giro nei migliori club europei (Cocoricò, Arezzo Wave, “The Hub”
Londra, Svizzera, Brussels, “Rialto” Roma, “Sottomarino Giallo” Milano, “Sugho” Ivrea,
Vienna…). Abbiamo l’onore di aprire con i nostri set per gente come: Tiga, 2Many Dj,s,
Digitalism, Mandy, Booka Shade, Metro Area, Superdiscount, Lindstrom etc. A ruota escono
diversi singoli estratti dall’album con rispettivi remix (ad opera di Nick Chacona, Maximilian
Skiba, Mammarella). La fine del 2007e l’inizio del 2008 si preannunciano densi di uscite per
diverse etichette con brani propri e remix (Due EP per le rispettive etichette belga “Moderne” e
“Radius”, quest’ultimo in compagnia del pioniere del “Cosmic” Daniele Baldelli con supporto di
Miss Kittin, un EP per la label inglese “Deep Freeze”, remix per gli ’80 electrowavers N.O.I.A.,
per il norvegese Lil’Wolf, per l’inglese Luke Solomon, per il gruppo new-rave
Embassy…………………e la pioggia cosmica è destinata a continuare!!!
Questo è più o meno tutto quello successo sino ad ora, può essere tanto o può essere ben poco a
seconda dei punti di vista. Certo è che se mi guardo indietro (ma solo per un attimo, perché devo già
andare altrove) della strada ne è stata fatta da quella prima edizione del “Correggio mon Amour”.
Strada nel mio caso non vuole dire gloria, ma è un percorso che da qualche parte mi ha senz’altro
sballottato, un’esperienza umana che non so se lascerà tracce, ma che ho dovuto seguire come una
rotta di migrazione già impressa nel DNA. Imprinting artistico? E’ curioso ritrovarsi ancora a
parlare di quel periodo, di quell’energia adolescenziale, è qualcosa che si configura ciclico….
“Correggio mon Amour” non è solo il libro che avete tra le mani. Vuoi vedere che è tempo di un
nuovo inizio?
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