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Melodico nell'anima
A colloquio con il musicista ticinese Sebalter, che ha deciso di ritornare alla sua
grande passione con un nuovo album
/ 30.01.2017
di Laura Di Corcia
Ci incontriamo a Lugano, vicino al Lac. Lui arriva prima, mi aspetta seduto al bar con un libro in
mano e un giornale. Accendo il registratore e partiamo. Inizio con un tono scherzoso, e così vado
avanti. Lui sta al gioco, ma risponde prendendosi sempre il suo tempo. Il tempo, in fondo, è il filo
conduttore di questa intervista che Sebastiano Paulessi, in arte Sebalter, mi ha concesso in
occasione dell’uscita del suo nuovo album.
L’ultima volta che ti ho intervistato mi avevi detto che avevi messo la testa a posto, che
volevi impegnarti nella tua professione di giurista e guardare alla musica come a un hobby
da svolgere nel tempo libero; e invece...
L’aspetto musicale, soprattutto per me che sono anche scrittore e compositore, è soggetto a
flessioni: accanto a momenti di grande creatività, ci sono periodi di magra. Non è come un lavoro in
cui ti alzi alle otto del mattino, fai le tue nove ore e sei a posto. Non vivo la musica in termini di
produzione, ma di espressione, quindi la faccio solo quando ho qualcosa da dire. Quando ci siamo
incontrati per l’altra intervista era un momento particolare: uscivo dall’esperienza dell’Eurovision,
molto intensa, e avevo bisogno di un momento di pausa per il mio benessere creativo. La musica mi
ha però sempre accompagnato: nel corso dell’ultimo anno ho suonato parecchio, senza però scrivere
testi.
Ad aprile di quest’anno, la vena creativa si è riaperta. Come e perché?
Non c’è stato un motivo scatenante, le cose arrivano quando meno te le aspetti. Io non stavo
cercando nulla, se tu mi avessi contattato un anno esatto fa ti avrei detto che non stavo scrivendo
niente, che il mio impegno musicale si concretizzava solo nei vari concerti. Poi verso marzo ho
scritto una canzone, Lights (contenuta nel nuovo album, ndr), un testo ambientato a Bellinzona,
mentre salgo in collina verso il castello e osservo la città che dorme. Tutto è un circolo, ci sembra di
andare da qualche parte e invece torniamo sempre al punto di partenza. Questa canzone mi ha
sbloccato: ho iniziato a scrivere il secondo testo, il terzo, il quarto; ho ripreso in mano vecchi brani
che non mi sembravano pronti e li ho risistemati. A un certo punto ho sentito che era arrivato il
momento di fare un nuovo cd.
Weeping Willow, «salice piangente», è il titolo del nuovo singolo: che cosa racconta questa
pianta?
Del salice piangente mi colpiscono da sempre i rami lunghi e flessibili; nel testo dico che seguo il
vento come quei rami, che però sanno di essere ancorati al terreno. È una metafora che insegna a
lasciar andare le cose come devono andare; spesso ci fossilizziamo troppo nel passato e nei ricordi,
mentre la sfida è vivere il presente, il qui e ora.
Sento odore di taoismo.
Più che altro mi sento buddista (dice, e mi mostra il titolo del libro che ha fra le mani: Shambhala. La
via sacra del guerriero, di Chögyam Trungpa).
Torniamo al nostro salice: che cosa radica Sebastiano Paulessi?
L’autoascolto. Ho sempre avuto la curiosità di esplorare posti nuovi, sono sempre stato un curioso;
ho tentato varie strade, anche se ho sempre avuto paura di perdere tempo. Non a caso una canzone
dell’album si intitola Time. Ma può voler dire tutto e niente: prima per me perdere tempo significava
non scrivere abbastanza canzoni, oggi riguarda di più l’ascolto di me stesso. Questo processo, che si
è attivato negli ultimi due anni, ha portato in fondo alla nascita di questo nuovo cd.
Questo album, a partire dal titolo, mi sembra più introspettivo rispetto al primo.
A livello musicale in realtà è più dinamico, perché ci sono diversi colori; se invece ci concentriamo
sui testi, sì, hai ragione, c’è più riflessione. Il primo cd è nato a ridosso dell’Eurovision, un momento,
ripeto, molto intenso, ma dove tutto si muoveva in modo estremamente veloce: questo album, che è
più maturo nel suono, ha avuto una gestazione più lunga, costante e regolare. Non ho avuto nessun
tipo di pressione e questo si sente. C’è una linea, un trait d’union che collega le tracce. Non è
proprio un concept ma ci si può avvicinare. Si apre col suono di una sveglia e si chiude con una
dichiarazione, «I’m happy».
Non avrai tradito il pop folk!
No, figuriamoci. Però ho aggiunto un po’ di elettronica; c’era già prima, ma ho aumentato le dosi.
Relativamente, certo: i suoni elettronici rimangono sempre sullo sfondo.
Cosa ti interessa di più in questo momento a livello musicale?
Sto ascoltando delle cose che fino a qualche tempo fa non avrei preso in considerazione. Un
esempio? Weekend, che è fortemente pop con delle influenze soul. Questa pulizia estrema del suono
mi convince anche in altre band orientate sul pop-elettronico. Il mio grande amore, ad ogni modo,
rimane il folk, che ascolto un po’ in tutte le salse.
Hai seguito la vicenda del Nobel a Bob Dylan?
Non molto: mi ha colpito di più la morte di Leonard Cohen, mi ha messo malinconia. È la vita. Certo
è che ci ha lasciato un patrimonio di canzoni sorprendente.
Che cosa ti ha dato e che cosa ti ha tolto il canton Ticino?
Quello che mi ha dato, a inizio carriera, è stata l’opportunità di portare la mia musica nelle radio.
Non è scontato: qui abbiamo delle radio che ti ascoltano e che sono molto entusiaste. Non credo che
il Ticino mi abbia tolto nulla.
Beatles o Rolling Stones?
Ho un trascorso rockettaro, ma sono melodico nell’anima. Quindi Beatles senza dubbio.
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