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Terapia di associazione con antivirali in epatite cronica B
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3° CLASSIFICATO
Trattamento della sieroreversione da HBV
in un paziente oncoematologico
Giulia Masini
Clinica delle Malattie Infettive - Università degli Studi di Perugia
Introduzione
Le infezioni da virus epatitici costituiscono un problema frequente e rilevante nei
pazienti sottoposti a terapie immunosoppressive e citotossiche per patologie neoplastiche, in particolare per le malattie linfoproliferative. L’immunodepressione
legata alla malattia di base e alla terapia immunosoppressiva può influenzare l’infezione da HBV in termini di ripresa di un’infezione latente o di accelerazione di
un’epatite cronica preesistente.
La possibilità della riattivazione di un’infezione cronica preesistente, in corso di
terapia immunosoppressiva, descritta per la prima volta nel 19751, ha acquisito
negli ultimi decenni, con l’aumentare dell’incidenza delle patologie neoplastiche,
dell’utilizzo di terapie immunosoppressive sempre più aggressive e delle strategie
di trapianto, un’importanza sempre più rilevante.
In oncologia la prevalenza di soggetti HBsAg positivi varia tra il 5,3% (in Europa) e
il 12% (in Cina)2. In questi pazienti la frequenza delle riacutizzazioni oscilla tra il
10% e il 50%3 ed è correlata all’uso di steroidi, di antracicline e di 5-fluorouracile.
Un prevalenza più alta, tra il 12% e il 24%3,4, è stata riportata tra i pazienti affetti
da linfoma nelle aree ad alta endemia.
In campo oncoematologico la frequenza di riattivazione appare maggiore, con un
rischio di riattivazione del 38%-64%, e una mortalità stimata pari al 20%5,6.
Benché più rara, la riattivazione di una “infezione latente” da HBV è stata riportata anche in soggetti con immunità naturale nei confronti del virus HBV, approssimativamente nel 3% dei soggetti con anti-HBs e/o anti-HBc positivi7,8.
In ambito oncoematologico, tra i portatori occulti (anti-HBc positivi isolati), su un
totale di 176 casi descritti in letteratura sono riportati 21 casi di sieroreversione
(12%) durante chemioterapia2.
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La riattivazione del virus HBV, seppur più rara in soggetti con immunità naturale,
può essere spiegata considerando che piccole quantità di HBV-DNA persistono in
forma episomica (cccDNA) nel nucleo degli epatociti dei soggetti con guarigione clinica e biochimica9.
In corso di chemioterapia una riacutizzazione dell’infezione latente può manifestarsi in due diverse fasi: durante il trattamento (in relazione all’intensa soppressione
immunologica, cui si associa una forte replica virale, con diretta tossicità da parte
del virus e talvolta comparsa di epatite fulminante in forma fibrosante colestatica),
oppure dopo la fine di un trattamento immunosoppressivo (verosimilmente legata
a una sindrome da immunoricostituzione).
La gestione dell’infezione da HBV nei pazienti oncoematologici costituisce una problematica complessa, sia in termini di comorbidità, sia in termini di valutazione
basale prima dei trattamenti chemioterapici, e soprattutto in termini di sorveglianza durante e dopo tali interventi. Nelle casistiche al momento disponibili vengono
identificati alcuni fattori maggiormente correlati all’insorgenza di possibile riattivazione. Tra questi importanza rilevante assumono i diversi trattamenti chemioterapici; in passato i principali farmaci implicati con una riattivazione del virus HBV
erano rappresentati dai corticosteroidi e dalle antracicline. Un interesse sempre
maggiore stanno invece assumendo le terapie con anticorpi monoclonali antilinfociti, in particolar modo anticorpi anti-CD20, anti-CD52. In un recente studio è
stata segnalata la comparsa di 6 casi di sieroreversione in soggetti portatori di antiHBc isolato, sottoposti a chemioterapia con anticorpi monoclonali da soli o in associazione10-13.
La riattivazione indotta da chemioterapia necessita generalmente di cure intensive
e può portare a una discontinuazione della terapia immunosoppressiva, con grave
impatto anche sulla progressione della malattia di base. Nel corso di questi ultimi
anni, numerosi studi sono comparsi in letteratura circa l’utilizzo degli analoghi
nucleosidici/nucleotidici come terapia nei portatori attivi4,14. L’utilizzo di lamivudina in profilassi ha notevolmente ridotto le percentuali di riattivazione, raggiungendo valori inferiori al 10%15,16.
Studi più recenti sottolineano anche l’importanza di questi farmaci come profilassi o terapia preventiva, sia nei portatori inattivi di HBsAg, che nei portatori occulti (HBcAb positivi)17,18.
L’utilizzo di lamivudina comporta però, come noto, il rischio di induzione di resistenze, soprattutto nelle terapie prolungate (>12 mesi). In questi casi un ruolo di
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sempre maggiore interesse è costituito dagli altri analoghi nucleosidici/nucleotidici
come adefovir19. Entecavir è stato commercializzato più di recente e sono ancora
limitati i dati sul suo utilizzo nei pazienti onco-ematologici20.
La nostra casistica
Nell’ambito di questa problematica abbiamo condotto uno studio osservazionale
prospettico sull’incidenza, la prevalenza e il decorso clinico delle epatiti virali da
HBV nei pazienti con emolinfopatie sottoposti a polichemioterapie. Sono stati valutati i dati di tutti i pazienti con emolinfopatie che, dal 1 ottobre 2005 al 30 marzo
2007, sono afferiti presso il Day Hospital della sezione di Ematologia del nostro
Ospedale per essere sottoposti a trattamento chemioterapico. Di questi pazienti
sono stati valutati i test sierologici di screening per i marcatori virali di infezione da
HBV e HCV e gli indici di funzionalità epatica, prima dell’inizio della chemioterapia. In base ai risultati dello screening al tempo zero, i pazienti sono poi stati seguiti in maniera diversificata, con controlli virologici e biochimici più o meno frequenti, nell’intento di sorvegliare strettamente eventuali riattivazioni di pregresse infezioni da HBV, e intraprendere precocemente, ove indicato, profilassi con farmaci
antivirali (lamivudina 100 mg/die o adefovir 10 mg/die).
Dei 318 pazienti, 70 soggetti presentavano una positività per i marcatori sierologici di infezione da HBV, attuale o pregressa, così distribuiti:
- 14 pazienti HBsAg positivi;
- 13 pazienti HBcAg positivi, HBsAb negativi;
- 43 pazienti HBsAb positivi, HBcAb positivi.
Nei 14 pazienti con evidenza di positività per HBsAg, nei quali è stata intrapresa la
profilassi con analoghi nucleosidici prima dell’inizio della terapia immunosoppressiva, non è stata osservata alcuna riattivazione dell’infezione.
Nei 13 pazienti che presentavano una positività isolata per HBcAb si sono verificate tre sieroreversioni, con comparsa di HBsAg circolante e positivizzazione per
HBV-DNA; da sottolineare come in tutti i casi i pazienti effettuavano chemioterapia includente rituximab. In seguito alla riattivazione dell’epatite i tre pazienti
hanno dovuto interrompere transitoriamente la chemioterapia ed è stata iniziata
terapia antivirale con adefovir.
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Nei 43 pazienti che presentavano segni di pregressa epatite da HBV (HBsAb positivi, HBcAb positivi) non è stata osservata nessuna riattivazione. Il titolo degli anticorpi HBsAb ha mostrato tendenza a un modesto decremento, ma non è mai sceso
sotto il valore protettivo di 10 UI/mL.
Caso clinico
Paziente di 64 anni, di origine caucasica, in anamnesi: ipertensione arteriosa sistemica con cardiopatia ipertensiva, episodi di fibrillazione atriale parossistici in terapia con anticoagulanti orali, angina da sforzo NYHA II, stenoinsufficienza valvolare aortica di severa entità, sottoposto a intervento di sostituzione valvolare aortica
nel settembre 2004.
Il paziente afferisce al Day Hospital dell’Ematologia del nostro Ospedale per una
diagnosi di “Gammopatia monoclonale di incerto significato (MGUS) con doppia
componente monoclonale (IgM/K 2,4 g/L, IgA/K 11,2 g/L), e sindrome da iperviscosità” diagnosticata nel dicembre del 2004 presso un’altra struttura.
Al baseline, eseguito nel luglio 2005, il paziente presentava il seguente profilo sierologico: HBsAg negativo, anti-HBs negativo, anti-HBc positivo, anti-HBe positivo,
HBV-DNA negativo (valutato con metodica Cobas Amplicor Roche il cui limite di
sensibilità inferiore è di 60 UI/mL) e indici di funzionalità epatica nella norma.
Nel gennaio del 2006, nell’impossibilità di eseguire terapia plasmaferetica, viene
iniziata monoterapia con rituximab, per la patologia ematologica. I controlli sierologici successivi (effettuati a cadenza mensile) hanno mostrato una stazionarietà
del quadro sierologico e biochimico fino al settembre 2006 (erano stati effettuati 3
cicli di rituximab e nel giugno 2006 era stata iniziata terapia steroidea a basse dosi,
per insorgenza di dermatite eczematoso-parapsoriasiforme diffusa).
Nel settembre 2006 si è assistito a una sieroreversione con positività per HBsAg,
HBV-DNA >38.000 UI/mL, aumento delle transaminasi (GOT 677/45 UI/mL,
GPT 883/45 UI/mL), ed è stata intrapresa terapia antivirale con adefovir 10
mg/die. Al controllo virologico a un mese dall’inizio della terapia antivirale la
viremia risultava negativa e il dato veniva confermato dopo tre mesi.
Gli indici di citolisi epatica risultavano in costante riduzione, assistendo a una
normalizzazione degli stessi a 6 mesi dall’inizio della terapia. La terapia antivi-
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rale è risultata ben tollerata, senza effetti avversi a essa ascrivibili.
Dopo 9 mesi di terapia antivirale (giugno 2007) in seguito alla stabilizzazione del
quadro biochimico e virologico (transaminasi costantemente nella norma da più di
3 mesi e HBV-DNA negativo da 8 mesi), in considerazione della stabilità del quadro ematologico, in accordo con i colleghi della Ematologia, che non prevedevano
una ripresa della terapia con rituximab in tempi brevi, si è deciso di sospendere la
terapia antivirale, mantenendo il monitoraggio degli indici di funzionalità epatica e
dell’HBV-DNA con cadenza trimestrale, e valutazione dell’ecografia dell’addome a
cadenza semestrale.
Al momento della sospensione della terapia i dati sierologici erano i seguenti:
HBsAg positivo, anti-HBs negativo, anti-HBc positivo, anti-HBe positivo, HBV-DNA
<60 UI/mL, transaminasi nella norma. Un’ecografia addominale con studio del
flusso portale mostrava la presenza di “fegato nei limiti della norma, con modesta
steatosi in assenza di lesioni parenchimali focali. Asse spleno-portale e milza nella
norma.”
A un mese dalla sospensione si confermavano i dati precedenti.
Dopo tre mesi dalla sospensione della terapia si è assistito a un nuovo rialzo degli
indici di citolisi epatica (GOT 114/45 UI/L, GPT 120/45 UI/L, GGT 67/50 UI/L) e
nuovamente alla positivizzazione dell’HBV-DNA (>38.000 UI/mL), in assenza di
manifestazioni cliniche.
La stazionarietà del quadro ematologico non richiedeva, al momento, una ripresa
della chemioterapia, per cui si decideva di attendere prima di reintrodurre una
terapia antivirale, con controlli trimestrali della funzionalità epatica e della viremia.
Nel dicembre 2007 il paziente tornava nuovamente alla nostra osservazione in
quanto, a causa di una ripresa della patologia ematologica (notevole incremento
della quota IgM sierica), si prospettava un nuovo ciclo di terapia con rituximab. Si
consigliava quindi di iniziare nuovamente terapia con adefovir 10 mg/die, da iniziare almeno 7-10 giorni prima dell’inizio della chemioterapia e da proseguire per
almeno 6 mesi dopo la sospensione della stessa, con controllo mensile della funzionalità epatica e renale e controllo trimestrale dell’HBV-DNA.
I controlli successivi (gennaio 2008, marzo 2008, maggio 2008) hanno mostrato una riduzione progressiva degli indici di citolisi epatica, peraltro non normalizzati a 6 mesi dall’inizio della terapia antivirale (maggio 2008: GOT 44/41
UI/L, GPT 45/41 UI/mL) e una costante positività della viremia con valori di
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HBV-DNA sempre superiori a 38.000 UI/mL. In considerazione della mancata
risposta virologica dopo reintroduzione di adefovir e della necessità di proseguire trattamento con rituximab, nel sospetto di un fallimento terapeutico, nel
luglio 2008 si è deciso di effettuare la genotipizzazione dell’HBV, per valutare
l’eventuale presenza di mutazioni di resistenza per adefovir; veniva comunque
proseguita terapia antivirale con adefovir, in ragione di una lenta ma progressiva risposta biochimica al trattamento.
Gli esami di controllo del luglio 2008 mostravano viremia immodificata (HBV-DNA
>38.000 UI/mL) e transaminasi nella norma. Dalla genotipizzazione non sono
emerse mutazioni di resistenza del ceppo virale. In considerazione della necessità
di proseguire la terapia con rituximab, si è deciso di associare ad adefovir un altro
farmaco antivirale, tentando di potenziare l’efficacia terapeutica. Si è quindi deciso di iniziare terapia con entecavir, al dosaggio di 0,5 mg/die, mantenendo adefovir al dosaggio di 10 mg/die.
La viremia, a dieci giorni dall’inizio della terapia di associazione, è risultata
superiore a 38.000 UI/mL. Il paziente tollera bene la nuova terapia, non presenta effetti collaterali; verrà proseguito un follow-up ravvicinato (prossimo controllo a 30 giorni).
Conclusioni
Le attuali conoscenze sulla patogenesi immunomediata di HBV, la possibilità di
riattivazione nei pazienti sottoposti a trattamenti citotossici o immunosoppressivi,
l’uso sempre più frequente di anticorpi monoclonali antilinfociti, la disponibilità di
farmaci potenti e ben tollerati attivi nei confronti di HBV rendono imprescindibile
lo screening e il monitoraggio dell’infezione da HBV nei pazienti oncoematologici
che iniziano trattamenti citotossici e immunosoppressivi.
Le complessità delle problematiche cliniche di questi pazienti rendono fondamentale una stretta collaborazione tra ematologi e infettivologi, per ottimizzare le strategie di gestione nel singolo paziente. Risultano comunque necessari studi clinici
di confronto tra i diversi analoghi nucleosidici, e studi relativi all’eventuale utilizzo
di terapie di associazione, sia nei pazienti naïve, che nei pazienti in fallimento terapeutico.
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