Bollettino 2004 - Camera Penale Veneziana

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SEZIONE PRIMA – DIRITTO PENALE
°*°*°
Corte d'Appello di Venezia – Terza Sezione Penale – Sent. n. 685 del 28/04/2004 – Pres ed Est. Scarpari –
Imp. XY + altri
Reati contro la pubblica amministrazione – Peculato – Attenuante del fatto di particolare tenuità –
Valutazione del fatto nella sua globalità – Nevessità – Fattispecie
(artt. 314, 323 bis cp)
“Per la configurazione dell'attenuante di cui all'art. 323 bis cp, devesi tener conto del fatto nella
sua globalità; condotta, modalità dell'azione, elemento psicologico del reato. Non può concersi
l'attenuante quando il fatto-reato si inserisca in un più ampio contesto delittuoso e l'agente ponga in
essere una comprovata attività di depistaggio delle indagini.” (Fattispecie nella quale l'attenuante di cui
all'art. 323 bis cp è stata esclusa in un caso in cui agli imputati era contestato il peculato di alcune
videocamere oggetto di un sequestro di refurtiva e l'episodio si inseriva in un più ampio contesto di delitti
contro la pubblica amministrazione e contro la fede pubblica, pure oggetto di imputazione)
=°=°=
Corte d'Appello di Venezia – Terza Sezione Penale – Sent. n. 685 del 28/04/2004 – Pres ed Est. Scarpari –
Imp. XY + altri
Concussione – Attività di mediazione tra derubato e fonte confidenziale operata da organo di Polizia
Giudiziaria – Liceità – Esclusione – Configurabilità del delitto di concussione – Ragioni
(artt. 317 cp, 55 cpp, 1, comma 2 R.D. 773/1931)
“E' configurabile il delitto di concussione in capo al dirigente di Polizia Giudiziaria che funga
da mediatore tra il derubato e una fonte confidenziale al fine di consentire il recupero della refurtiva
dietro pagamento di una somma di denaro. Infatti, pur avendo la giurisprudemza della Cassazione messo
in rilievo che l'attività di semplice mediazione tra derubato e ladro (o ricettatore) esonera da
responsabilità l'agente nel caso abbia operato nell'esclusivo interesse della vittima e per solidarietà
umana, appare del tutto incongruo attribuiore la qualifica di mediatore ad un dirigente della Polizia
Giudiziaria inmpegnata nella repressione del crimne. Diversamente opinando si finirebbe per confondere
i compiti della Polizia di Sicurezza con quelli della Polizia Giudiziaria: la prima, nella sua attività di
prevenzione deve tra le altre cose provvedere 'alla bonaria composizione dei dissidi privati' e può
svolgere in tali occasioni opera di mediazione (art. 1 comma 2 TULPS); la Polizia Giudiziaria ha, invece,
il compito di 'impedire che i reati vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere
gli atti necessari per assicurare le fonti di prova' (art. 55 cp), di contrastare il delitto cioè e non di
scendere a patti coi delinquenti”
=°=°=
Tribunale di Padova – Ufficio del Giudice Monocratico di Este – Sent. n. 101 del 25/06/2004 – Est.
Bordon – Imp: XY
Avvelenamento di acque o sostanze alimentari – Reato di pericolo contro la saklute pubblica –
Nozione
(art. 439 cp)
“Il delitto di avvelenamento delle acque è un reato contro la salute pubblica. Oggetto di tutela
sono le acque di falda, ancorché non estratte dal suolo, purchè potenzialmente raggiungibili con moderne
tecnologie, e quindi suscettibili di essere attinte per il consumo umano. Il fatto che siano acque
batteriologicamente non pure, e comunque non abbiano i caratteri biochimici della potabilità è del tutto
ininfluente (cfr. Cass. Sez. IV, 8 marzo 1984, n.6651 Bossi). Costituisce avvelenamento ogni fatto che
renda tossica l’acqua mediante elementi organici o inorganici, immessi o sviluppati in essa.
Inquinamento e avvelenamento non possono essere considerati sinonimi: affinché possano essere
integrati gli estremi oggettivi del delitto, occorre un pericolo reale scientificamente accertabile, costituito
da sostanze tossiche che abbiano la potenzialità di nuocere alla salute, e questo pericolo reale non può
coincidere con i valori soglia, limiti ultraprudenziali stabiliti di volta in volta dalla legislazione speciale,
per disciplinare l’esposizione ad agenti nocivi”.
=°=°=
Corte d'Appello di Venezia – Terza Sezione Penale – Sent. n. 685 del 28/04/2004 – Pres ed Est. Scarpari –
Imp. XY + altri
Falsità in atti – Omessa indicazione dell'esistenza di fonte confidenziale in una notizia di reato –
Liceità – Esclusione – Discilplina dettata dall'art. 203 cpp – Rilevanza – Limiti
(artt. 476, 479 cp, 55, 203 cpp)
“Sottacere l'esistenza di una fonte confidenziale in una notizia di reato, nella quale venga
rappresentata una realtà di fatto deformata, configura in capo all'agente il delitto di falso di cui agli artt.
476 e 479 cp. L'art. 203 cpp, nello stabilire che il giudice non può obbligare gli ufficiali e gli agenti di
PG a rilevare i nomi dei loro informatori, non introduce, infatti, alcuna deroga all'obbligo per la PG di
documentare in modo veritiero e completo le attività compiute ed i fatti direttamente percepiti; ciò
significa che tacere il nome del confidente in una segnalaziopne di reato è lecito ed opportuno; tacere
della sua esistenza è invece elemento che può divenire inquinante se l'atto viene a rappresentare una
realtà deformata perchè basata su presupposti inesistenti o su strumenti di indagine mai azionati. ”
(Fattispecie nella quale si è ritenuto configurabile il delitto di falso in atto pubblico in una ipotesi in cui,
nella notizia di reato, anzichè indicare che una fonte confidenziale aveva fornito elementi circa i
nominativi di soggetti coinvolti nel furto o nella ricettazione di una partita di Hi-Fi, si era fatto
riferimento, genericamente, ad indagini di polizia giudiziaria che avevano condotto alla individuazione
dei responsabili del furto)
=°=°=
Tribunale di Venezia – Ufficio del Giudice per l' Udienza Preliminare – Sent. 6/3/2003 –
Est. Gallo – Imp. XY
Violenza sessuale – Successione di leggi a seguito della novella di cui alla L. 66/1996 –
Raffronto oggettivo tra norme applicabili – Abolitio criminis – Sussistenza (1)
(artt. 519 e 609 bis cp)
Violenza sessuale – Induzione – Abuso – Nozione (2)
(art. 609 bis cp)
Violenza sessuale – Inferiorità psichica – Nozione (3)
(art. 609 bis cp)
Violenza sessuale – Violenza – Nozione (4)
(art. 609 bis cp)
Querela – Termine – Dies a quo – Individuazione – Tardività – Onere della prova (5)
(art. 124 cp)
“Il termine per la proposizione della querela incomincia a decorrere dal momento in
cui il titolare del relativo diritto si sia reso conto di tutte le connotazioni oggettive e soggettive
necessarie per l’integrazione della fattispecie criminosa, intendendosi con ciò non già un mero
stato soggettivo di sospetto o di dubbio bensì la conoscenza completa, precisa e certa del reato.
La prova della tardività della proposizione della querela, che incombe su chi deduce la non
tempestività, non può basarsi su presunzioni o mere supposizioni: la situazione di incertezza
deve essere interpretata in favore del querelante.”
(1) “Il passaggio dal vecchio disposto di cui all’art. 519, cpv, n. 3 CP al nuovo art. 609
bis CP configura un caso tipico di successione di leggi impropria poiché le due fattispecie
astratte coincidono soltanto per una parte della condotta ma la nuova disposizione prevede in
più l’induzione e l’abuso. Il requisito dell’induzione e quello dell’abuso da parte dell’agente,
pertanto, si pongono come requisiti nuovi e quindi più favorevoli all’imputato rispetto alla
generica previsione precedente.
In materia di successioni di leggi penali nel tempo e di applicazione del principio del favor rei
la disciplina più favorevole va individuata sulla base di un raffronto oggettivo tra le norme
applicabili.”
(2) “L’induzione di cui all’art. 609 bis CP non si configura come attività di persuasione
bensì come vera e propria sopraffazione nei confronti della vittima che si concreta in
un’apprezzabile attività di suggestione, pressione morale o persuasione, finalizzata a
determinare la volontà minorata del soggetto passivo. L’abuso si configura quando le
condizioni di menomazione sono strumentalizzate per accedere alla sfera intima della persona
che, versando in situazione di difficoltà, viene ridotta al rango di mezzo per il soddisfacimento
della sessualità altrui.”
(3) “La condizione di inferiorità psichica prescinde da fenomeni di patologia mentale,
essendo riferibile a fattori di natura diversa connotati da tale consistenza ed incisività da
viziare il consenso all’atto sessuale della persona offesa: deve trattarsi di una incisiva
menomazione delle facoltà di discernimento o di determinazione volitiva riconoscibile con
certezza ab externo che deve essere di carattere psichico, non semplicemente psicologico o
tanto meno emotivo.”
(4) “La violenza richiesta dalla norma incriminatrice non è soltanto quella che pone il
soggetto passivo nell’impossibilità di opporre tutta la resistenza voluta (costringimento fisico)
bensì anche quella che può manifestarsi nel compimento insidiosamente rapido dell’azione
criminosa, consentendo in tal modo di superare la contraria volontà del soggetto passivo. E’
sufficiente anche la violenza meramente potenziale che si verifica quando il medico operi pur
sapendo che il consenso non vi sarebbe stato e che l’opposizione o la resistenza non sarebbero
mancati se fossero stati possibili.”
(5) “Il termine per la proposizione della querela incomincia a decorrere dal momento
in cui il titolare del relativo diritto si sia reso conto di tutte le connotazioni oggettive e
soggettive necessarie per l’integrazione della fattispecie criminosa, intendendosi con ciò non
già un mero stato soggettivo di sospetto o di dubbio bensì la conoscenza completa, precisa e
certa del reato.
La prova della tardività della proposizione della querela, che incombe su chi deduce la non
tempestività, non può basarsi su presunzioni o mere supposizioni: la situazione di incertezza
deve essere interpretata in favore del querelante.”
NOTA
1. L’imputazione. La sentenza in commento, emessa dal GIP presso il Tribunale di Venezia,
contempla l’imputazione del Dottor X per il delitto di cui agli artt. 110, 81, 521 in relazione
all’ipotesi di cui all’art. 519, secondo comma, n. 3 CP perché, con più azioni esecutive del
medesimo disegno criminoso, abusando delle condizioni di inferiorità psichiche di Y la
costringeva a subire atti sessuali e la induceva a congiungersi carnalmente con Z, cosa che Y
non avrebbe fatto se non indotta a ritenere la necessità a fine di accertamento medico.
In Venezia, dall’aprile al novembre 1990. Querela dell’aprile 1999.
2. I fatti: nell’aprile 1999 la Signora Y, in procinto di separarsi dal marito, aveva rinvenuto
qualche giorno prima alcune lettere da cui risultava che lo stesso era stato in contatto con un
medico, dal quale la Signora Y si era fatta visitare tre o quattro volte nel corso del 1990. Già
all’epoca la Signora Y aveva rinvenuto una corrispondenza tra il medico e il marito nella quale
venivano espressi apprezzamenti sulle sue parti anatomiche ma, contestato il fatto al marito, egli
l’aveva rassicurata che non sarebbe più successo. Ciò nonostante, dal tenore della
corrispondenza rinvenuta nel 1999, la Signora Y aveva appurato che i due erano stati in contatto
non solo prima delle visite cui si era sottoposta ma anche in epoca successiva. Riferiva la
Signora Y che il medico le era stato consigliato dal marito che lo aveva descritto come
particolarmente capace e, dal momento che era suo desiderio avere una gravidanza, si era
sottoposta a tre o quattro visite nel corso del 1990. Nel corso di una di queste visite di controllo,
la Signora Y aveva avuto la sensazione che la condotta del medico fosse eccessivamente
insistente nelle usuali manovre di ispezione e palpazione. Il medico le aveva poi proposto, di
concerto con il marito e a sua insaputa, di avere un rapporto sessuale nel suo studio con il
compagno e ciò venne giustificato dal fatto che vi sarebbe stata così la possibilità di raccogliere i
liquidi organici immediatamente e con la dovuta competenza per lo svolgimento di un esame
medico altamente specialistico.
3. Svoglimento del processo: Con l’articolato provvedimento in commento, il GIP presso il
Tribunale di Venezia ha dichiarato il non luogo a procedere del medico in ordine all’episodio del
rapporto sessuale presso il suo studio, commesso con abuso delle condizioni di inferiorità
psichica della Signora Y perché il fatto non sussiste, ordinando la trasmissione degli atti al PM
affinchè proceda per il reato di atti di libidine commessi a mezzo violenza di cui agli artt. 521 e
609 bis CP per gli altri fatti avvenuti nel corso delle visite ginecologiche.
Il Giudice ha preliminarmente ritenuto che il termine per la proposizione della querela, di cui era
stata eccepita la tardività, incomincia a decorrere dal momento in cui il titolare del relativo
diritto si sia reso conto di tutte le connotazioni oggettive e soggettive necessarie per
l’integrazione della fattispecie criminosa, intendendosi con ciò non già un mero stato soggettivo
di sospetto o di dubbio bensì la conoscenza completa, precisa e certa del reato. La prova della
tardività della proposizione della querela, che incombe su chi deduce la non tempestività, non
potrebbe dunque basarsi su presunzioni o mere supposizioni: la situazione di incertezza deve
essere interpretata in favore del querelante.
Ciò premesso, la sentenza in commento si sofferma sul problema della successione delle norme
(secondo il principi dettati dall’art. 2 CP) di cui agli artt. 519 e 609 bis CP risolvendolo nel
senso che la nuova disposizione configura, nel caso di violenza ai danni di persona che si trovi in
stato di inferiorità psichica o fisica, l’approfittamento delle condizioni di incapacità della vittima
in modo diverso da quanto previsto dal previgente art. 519 CP con la conseguenza che, in difetto
di riscontro di induzione o abuso, l’agente andrà esente da pena beneficiando di una vera e
propria abolitio criminis.
Con particolare approfondimento relativamente alle tematiche dell’induzione e dell’abuso, il
GIP giunge quindi ad affermare, nel caso di specie e con le motivazioni di cui si dirà infra, che
non siano rinvenibili i presupposti normativi su citati sia dell’abuso che dell’induzione, anche
sotto il connesso profilo della pretesa inferiorità psichica (nel caso di specie ravvisata
-nell’imputazione- nella situazione di soggezione della paziente durante la visita medica).
Dunque non solo non sarebbero stati integrati gli elementi oggettivi del reato ma neppure
sarebbe stata raggiunta la prova della sussistenza dell’elemento soggettivo (dolo) nell’imputato
[quanto all’episodio del rapporto sessuale nello studio, concordato tra medico e marito ad
insaputa della Signora Y]. Donde la pronunzia di non luogo a procedere nei confronti del
prevenuto relativamente a questo episodio.
Con riferimento invece a quanto accaduto nel corso delle visite ginecologiche (particolare
insistenza nel corso delle “manovre” ispettive), il GIP ha ritenuto come tali fatti non siano stati
identificati dalla giurisprudenza in relazione all’ipotesi di incapacità fisica o psichica della
vittima, quanto piuttosto integranti il delitto di atti di libidine con violenza secondo il disposto di
cui all’art. 521 CP. Con riferimento a tale norma, peraltro, il GIP ha ritenuto come fosse
applicabile la disposizione previgente sul presupposto che, ritenuto assolutamente identico il
requisito di “violenza” di cui all’art. 609 bis CP a quello previsto con la norma abrogata, la
comparazione quoad poenam induce ad applicare, appunto, il precedente disposto. Con
particolare riferimento al concetto di violenza delineato dalla giurisprudenza avuto riguardo agli
atti commessi durante le visite mediche, il GIP ha ritenuto che la violenza si manifesta anche nel
caso in cui l’azione criminosa sia compiuta in modo insidiosamente rapido, consentendo di
superare la volontà del soggetto passivo, tutte le volte in cui vi sia l’uso di mezzi anomali, diretti
ad esercitare pressioni sulla volontà altrui impedendone la libera determinazione. Con ciò,
dunque, la sussistenza del delitto di cui all’art. 521 CP che, appunto, punisce tutte le
manifestazioni dell’istinto sessuale suscettive di dare sfogo alla concupiscenza, diverse dal coito.
Rilevato, pertanto, che il fatto caratterizzato dalla violenza è completamente diverso da quello
contestato, cioè dall’abuso delle condizioni di inferiorità, si è realizzata, secondo il GIP, una
vera e propria variazione del fatto quale è stato contestato. Donde la trasmissione degli atti al
PM.
*** * ***
4. Genesi storica dei delitti sessuali. In via del tutto preliminare, ed ai fini di un migliore
inquadramento degli istituti trattati dalla sentenza in commento, va ricordato che la legge 15
febbraio 1996 n. 66, oltre a modificare sostanzialmente le ipotesi incriminatici in materia di
delitti sessuali, ne ha disposto lo spostamento dagli artt. 519 ss. agli artt. da 609 bis a 609 decies
CP, e dal libro nono riservato “ai delitti contro la moralità pubblica e il buon costume” al libro
secondo dedicato ai “delitti contro la persona”. La suddetta normativa ha [finalmente] disposto
l’ingresso nel codice penale del delitto di violenza sessuale avendo eliminato la distinzione tra
quelli previgenti di violenza carnale, che aveva come presupposto necessario una qualsiasi
forma di compenetrazione carnale, e quello di atti di libidine violenti, creando tuttavia in più
parti della dottrina sospetti di legittimità costituzionale per il difetto di determinatezza
dell’inciso “atti sessuali”.
La storia della legislazione italiana in materia di reati sessuali ha inizio dall’esame del titolo VIII, “ Dei
delitti contro il buon costume e l’ordine delle famiglie” del Libro II del codice Zanardelli, entrato in
vigore il primo gennaio 1890. Nel primo capo (artt. 331-339), dei sette in cui era suddiviso il titolo
predetto, era contenuta la disciplina dei delitti di: violenza carnale (artt. 331, 332); atti di libidine violenti
(art. 333); corruzione di minorenne (art. 335); incesto (art. 337); atti osceni in luogo pubblico (art. 338);
distribuzione, esposizione e messa in vendita di scritture, disegni o altri oggetti osceni (art.339) 1. Dunque
il titolo VIII del Codice rappresentava un contenitore nel quale erano accorpate fattispecie profondamente
diverse tra loro quanto a natura e oggetto (ad es.: violenza carnale, ratto per fine di libidine o matrimonio,
lenocinio, adulterio, bigamia, supposizione e soppressione di stato) il cui “collante” era individuato nel
bene tutelato: il buon costume e l’ordine delle famiglie. I singoli beni, perdendo la loro reale consistenza
individuale e personale, assumevano un ruolo generale teso a tutelare ciò che era ritenuto di vitale
importanza per la tenuta etico-giuridica dello Stato. In altre parole: il bene da difendere era individuato
nell’intima essenza di un equilibrio sociale, difficilmente raggiunto dopo una sedimentazione di valori e
principi, che non doveva essere turbato da atti delittuosi ritenuti ad “alto potenziale destabilizzante”. Il
codice Zanardelli prevedeva all’art. 331 il delitto di violenza carnale ed all’art. 333 quello di atti di
libidine violenti, distinguendo in due autonome figure comportamenti che saranno successivamente
ricondotti ad un unico denominatore comune dall’art. 609 bis introdotto dalla legge n.66 del 1996: atti
sessuali. L’elemento modale caratterizzante la condotta di entrambe le fattispecie, era rappresentato dalla
presenza della violenza o minaccia da parte del soggetto attivo del reato nei confronti del soggetto
passivo. Successivamente venivano indicate alcune ipotesi di violenza carnale e di atti di libidine violenti
in cui il soggetto attivo era punito prescindendo dalla reale esistenza della violenza o della minaccia. Il
motivo di questa “presunzione” risiedeva nell’opinione diffusa che in determinate condizioni un individuo
non è in grado di opporsi alla violenza o semplicemente di comprendere la reale valenza sessuale degli atti
da lui compiuti / subiti. La possibile realizzazione di due ipotesi di reato consumato e di due di reato
tentato (violenza carnale, tentata violenza carnale, atti di libidine violenti, tentati atti di libidine violenti)
se da un lato manifestava la volontà del legislatore tesa a puntualizzare fatti offensivi diversi, e
conseguentemente a graduare la pena, d’altro creava non pochi problemi pratici ed interpretativi. La
premessa logica di una tale differenziazione trovava fondamento nel “presupposto che le offese alla
‘inviolabilità carnale’ potessero essere di diversa gravità e che pertanto dovessero essere sanzionate con
pene diverse”2. Aspetto di rilievo della disciplina contenuta nel codice Zanardelli era la necessaria
presenza dell’imposizione della violenza carnale e degli atti di libidine violenti tramite violenza e/o
1
In estrema sintesi gli altri capi del titolo VIII disciplinavano rispettivamente: i delitti di ratto per fine di libidine o di
matrimonio (capo II / artt. 340-344); i delitti di induzioni e costrizione alla prostituzione, di favoreggiamento e
agevolazione del meretricio (capo III / artt. 345-348); le disposizioni comuni ai delitti disciplinati negli articoli
precedenti (capo IV / artt.349-352); i delitti di adulterio e di concubinato (capo V / artt. 353-358); il delitto di bigamia
(capo VI / artt.359-360) e i delitti di supposizione e di soppressione di stato (capo VII / artt.361-369).
2
NAPPI, I delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, in Giurisprudenza sistematica di dir. pen., diretta da
BRICOLA- ZAGREBELSKY, II, Torino, 1984.
minaccia; il semplice dissenso, infatti, non era in sé sufficiente a realizzare tutti gli estremi richiesti dalla
fattispecie penale.
Nel codice Rocco (entrato in vigore il primo luglio 1931), i c.d. delitti sessuali trovano collocazione
all’interno del titolo IX “Delitti contro la moralità pubblica e il buon costume”. Risultano evidenti i
ripensamenti del legislatore: da un lato la scomparsa dell’ “ordine della famiglia”, d’altro lato la
sistemazione sistematica dei delitti in materia sessuale. Il titolo IX del nuovo codice viene suddiviso in tre
capi: I) “Dei delitti contro la libertà sessuale”3; II) “Delle offese al pudore e all'onore sessuale”; III)
“Disposizioni comuni ai capi precedenti”. Due novità, dunque, rispetto alla precedente legislazione:
alcune figure di reato sono state spostate dalla loro posizione originaria pur rimanendo nello stesso titolo 4
ed altre, inserite nel codice del 1889 nello stesso titolo comprendente i delitti di violenza carnale ed atti di
libidine violenti, sono state spostate in una diversa sede 5. Il codice del 1930 presenta dunque criteri di
maggiore omogeneità rispetto al codice del 1889. Un elemento degno di nota è rintracciabile
nell’introduzione della “rubrica” nei capi, all’interno del titolo, indicante il bene di categoria; in
particolare, tra queste rubriche, merita particolare attenzione quella che introduce gli articoli del primo
capo del titolo VIII: “Della libertà sessuale”. Dunque, con tale espressione, sembrerebbe dimenticata la
tutela di beni più “evanescenti” quali la moralità pubblica e il buon costume con maggiore evidenza ad
una serie di figure delittuose dirette ad intaccare ed offendere diritti intimi e fondamentali della sfera
personale di ciascun individuo. Permane la distinzione -presente nel codice Zanardelli- tra violenza
carnale ed atti di libidine violenti con il corollario che la sensibile differenza sanzionatoria prevista per le
fattispecie suddette comportava, tra l’altro, la necessità di accurate indagini inevitabilmente umilianti nella
loro meticolosità.
Le ragioni che hanno indotto il legislatore a riformare i reati sessuali sono rintracciabili e
individuabili nei “cavalli di battaglia” che di volta in volta sono stati utilizzati come simbolo del
necessario cambiamento lungo l’arco del tempo antecedente l’entrata in vigore della legge n. 66
del 1996: il trattamento sanzionatorio troppo mite che l’originario codice del 1930 prevedeva;
l’anacronismo della collocazione di queste figure di reato nel capo dei delitti contro la moralità
pubblica e il buon costume e la conseguente esigenza di una nuova classificazione; il dilagare di
fenomeni di violenza sessuale esercitata in gruppo e la mancanza di una figura specifica
nell’originaria disciplina.
Si deve porre attenzione alle innovazioni introdotte in tema di violenza sessuale, contenute nell’art. 609
bis: “Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o
subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni”. Per comodità espositiva si può
affermare che l’articolo 609 bis, tracci all’interno del primo comma i “tratti caratteriali” del delitto di
violenza sessuale c.d. “per costrizione”, attuato tramite “violenza o minaccia o mediante abuso di
autorità”. Con la sintetica espressione “costringe taluno a compiere o subire atti sessuali”, infatti, il
legislatore della riforma riesce a ricondurre all’interno della fattispecie in esame le condotte rientranti nei
vecchi articoli 519, primo comma6, e 521, primo e secondo comma 7, CP; inoltre, con il riferimento
all’abuso di autorità riesce a ricondurre nella stessa fattispecie la condotta prevista dall’abrogato art. 520
CP. Il secondo comma dell’art. 609 bis, a sua volta, così dispone: “Alla stessa pena soggiace chi induce
taluno
a
compiere
o
subire
atti
sessuali:
1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;
2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona”.
Tale comma descrive il delitto di violenza sessuale c.d. per induzione trovando il suo riferimento storico
nelle due ipotesi di congiunzione carnale c.d. abusiva o presunta e congiunzione carnale fraudolenta ,
contenute nell’abrogato art.519, secondo comma, n. 3 e 4 CP8.
3
Il primo capo del codice del 1930 conteneva i seguenti articoli: art. 519 “Della violenza carnale”; art. 520
“Congiunzione carnale commessa con abuso della qualità di pubblico ufficiale”; art. 521 “Atti di libidine violenti”;
art.522 “Ratto a fine di matrimonio”; art. 523 “Ratto a fine di libidine”; art. 524 “Ratto di persona minore degli anni
quattordici o inferma, a fine di libidine o matrimonio”; art. 525 “Circostanze attenuanti”; art. 526 “Seduzione con
promessa di matrimonio commessa da persona coniugata”.
4
Ad esempio: il delitto di corruzione di minorenni non si trova più all’interno dello stesso capo della violenza carnale e
degli atti di libidine violenti (capo I del codice Zanardelli) ma è collocato nello stesso capo in cui sono contenuti i delitti
di atti osceni e quelli in materia di prostituzione (capo II codice Rocco).
5
Il delitto di bigamia, di adulterio e concubinato trova collocazione nel codice Rocco, nel titolo XI del secondo libro.
6
Art. 519 (Della violenza carnale), primo comma, del codice penale prima del 1996: “Chiunque, con violenza o
minaccia, costringe taluno a congiunzione carnale è punito con la reclusione da tre a dieci anni”.
7
Art. 521 (Atti di libidine violenti), primo e secondo comma, del codice penale prima del 1996.
8
“Alla stessa pena soggiace chi si congiunge carnalmente con persona la quale al momento dl fatto: … 3) è malata di
mente, ovvero non è in grado di resistergli a cagione delle proprie condizioni d’inferiorità psichica o fisica, anche se
questa è indipendente dal fatto del colpevole; 4) è stata tratta in inganno, per essersi il colpevole sostituito ad altra
Dopo aver esaminato alcuni degli aspetti innovativi della disciplina introdotta dalla riforma si vuole
mettere in rilievo un aspetto “conservatore” della stessa, utile come chiave di lettura del reale effetto
rivoluzionario, tanto propagandato, della vigente disciplina: il perpetuarsi di un modello di incriminazione
basato sulla costrizione della vittima. L’ “osservazione non è irrilevante perché nel dibattito dottrinale
precedente all’approvazione della legge si era fatta invece strada l’idea di costruire la nuova fattispecie
di violenza sessuale attorno alla mera mancanza di consenso della persona offesa, valorizzando così il
tema dell'autodeterminazione individuale a fronte di qualsiasi condizionamento, eventualmente anche
non violento, a compiere o a subire atti sessuali”9.
Va rilevato che viene finalmente superata la distinzione tra la violenza carnale e gli atti di libidine violenti,
rispettivamente previsti negli abrogati articoli 519, primo comma, e 521 CP. La principale giustificazione
che viene in rilievo nei lavori parlamentari a favore di quest’innovazione è diretta a sottrarre la vittima dei
reati suddetti ad un ulteriore e doloroso susseguirsi di domande, accertamenti minuziosi ed intimi controlli
resi indispensabili dalla necessità di distinguere la violenza carnale, o il suo tentativo, dal delitto punito
meno gravemente e previsto all’art. 521 CP dell’originaria disciplina. Dai lavori preparatori si ricava,
inoltre, che il superamento di tale distinzione si configura come un atto obbligato in vista del nuovo bene
assunto ad oggetto di tutela dall’ordinamento: la libertà di autodeterminazione dell’individuo nel campo
della propria sessualità. In quest’ottica non ha più senso distinguere condotte che sono tutte riconducibili
alla violazione dello stesso bene 10. Senza scomodare la prassi investigativa e processuale di questi ultimi
anni basta prendere in considerazione le conseguenze logiche susseguenti alla scelta di politica legislativa
di un regime sanzionatorio unificato per rendersi conto del fallimento di questi propositi. Tale regime,
infatti, si rivela un moltiplicatore degli accertamenti tesi ad appurare le concrete modalità aggressive della
condotta oggetto di valutazione da parte del giudice, al fine di evitare l’irrogazione di una pena
estremamente sproporzionata alla reale gravità del fatto. L’articolo 609 bis si chiude con la previsione di
una circostanza attenuante: “nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due
terzi”. Il problema del trattamento sanzionatorio è stato causa di un lungo dibattito conclusosi con una
soluzione che rappresenta il punto di composizione tra due esigenze contrapposte: quella di unificare in
una fattispecie “contenitore” figure di delitti fino ad allora ben distinte e quella della proporzionalità della
sanzione penale. La pena è stata aumentata ed i limiti edittali fissati nel minimo a cinque anni e nel
massimo a dieci anni di reclusione.
Rispetto al passato, per i fatti riconducibili all’interno della fattispecie contenuta dall’abrogato
art. 519 CP, l’inasprimento si concretizzava, mantenendo inalterata la previsione del massimo
edittale, nell’aumento del minimo della pena da tre a cinque anni. Le ragioni di quest’aumento
sono facilmente rintracciabili: nell’esigenza di un incremento della prevenzione generale contro
i predetti delitti e nella volontà di impedire ai loro autori di poter usufruire di alcuni benefici
processuali. Per evitare al giudice la rigida decisione tra una punizione sproporzionata rispetto al
fatto commesso e l’indulgenza verso fatti che non presentano una gravità tale da raggiungere
almeno il minimo edittale il legislatore della riforma ha ideato una valvola di sfogo con la
previsione di una circostanza attenuante, “fatti di minore gravità”, attribuente al giudice un
ampio potere discrezionale.
Le perplessità non riguardano solo la genericità della formulazione, ma le stesse finalità della
riforma e del messaggio politico e sociale in essa contenuto. L’attenuante in esame rischia di
essere utilizzata dal giudice per far rientrare sotto un regime sanzionatorio più mite le condotte
che prima della riforma erano riconducibili alla figura degli atti di libidine violenti; in questa
prospettiva astrattamente prevista dall’art. 609 bis si rischia di attuare un paradossale regime
sanzionatorio più mite di quello previsto dall’abrogato art. 521 CP. La distinzione tra violenza
carnale ed atti di libidine violenti, con la conseguente problematica attinente alle modalità di
prova, uscita dalla porta, scacciata via dalla riforma, rientra dalla finestra dell’ultimo inciso
dell’art. 609 bis, mantenendo il ruolo di criterio cardine nell’applicazione della nuova, come
persona”
9
BORGOGNO, Il delitto di violenza sessuale, in AA. V.V.,Reati Sessuali ( a cura di FRANCO COPPI), Torino, 2000,
79.
10
Illuminante sul punto la sentenza della Corte di cassazione n. 3990 del febbraio 2001: “dopo l'entrata in vigore della
legge n. 66/1996, invece, l'individuazione della condotta tipica del reato di "violenza sessuale" si riconnette alla
definizione della nozione, del contenuto e dei limiti della locuzione "atti sessuali", in quanto l'art. 609 bis,
cod. pen (introdotto appunto da tale legge) ha concentrato in una fattispecie unitaria le previgenti ipotesi criminose
previste dagli artt. 519 e 521, individuando quale unica condotta composita, idonea a ledere il bene giuridico della
libertà sessuale, in luogo della "congiunzione carnale" e degli "atti di libidine violenti", il fatto di chi con violenza o
minaccia o mediante abuso di autorità "costringe" taluno a compiete o a subire "atti sessuali". Non avrebbe senso,
infatti, stante l'unicità del bene protetto, distinguere tra diverse modalità di aggressione, tutte comunque lesive della
dignità e dell'autodeterminazione della persona umana”.
della vecchia, disciplina.
Per concludere sul punto, le principali novità introdotte dalla legge n. 66 del 1996 sono così
sintetizzabili:
1) la nuova collocazione sistematica dei delitti contro la sfera sessuale della persona tra i delitti
contro la libertà personale (libro II, titolo XII “Dei delitti contro la persona”, capo III “Dei
delitti
contro
la
libertà
individuale”);
2) la creazione di un’unica fattispecie di “violenza sessuale” in cui convogliare i fatti che
anteriormente alla riforma rientravano nelle diverse fattispecie di violenza carnale, artt. 519 e
520 CP, e atti di libidine violenti, 521 CP;
3) l’introduzione con l’art.609 octies CP della figura della “violenza sessuale di gruppo”;
4) le novità in materia di atti sessuali, violenti o abusivi, nei confronti dei minori e la
riformulazione della fattispecie di corruzione di minori;
5) l’inasprimento del trattamento sanzionatorio;
6) una serie di norme processuali in materia di procedibilità dei delitti di violenza sessuale e
della tutela della riservatezza della vittima.
6. Un’ipotesi di successione ex art. 2 CP, principio del favor rei e gli elementi costitutivi del
delitto di cui all’art. 609 bis cpv, n 1 CP Ciò premesso, e venendo finalmente al commento
della sentenza in esame, devesi innanzitutto ricordare che, come riportato dal capo di
imputazione, l’accusa di violenza sessuale era fondata espressamente sul presupposto dello
“abuso delle condizioni di inferiorità psichica” della parte offesa.
Secondo il GIP, correttamente la contestazione ha richiamato l’abuso poiché, nella specie,
devesi applicare l’attuale disposizione normativa in base ai principi di cui all’art. 2 CP.
L’attuale disposizione normativa richiede, infatti, oltre alla condizione di inferiorità della parte
offesa, il requisito 1) dell’induzione e 2) quello dell’abuso da parte dell’agente. Tali ulteriori
elementi costituiscono, secondo il paradigma del GIP, requisiti nuovi e più favorevoli
all’imputato rispetto alla generica previsione precedente. In altre parole, dunque, il passaggio dal
vecchio disposto di cui all’art. 519 cpv. n. 3 CP al nuovo art. 609 bis, cpv n. 1 CP “configura un
tipico caso di successione di leggi c.d. impropria poiché le due fattispecie astratte coincidono
soltanto per una parte della condotta ma la nuova disciplina prevede in più due aspetti
fondamentali, quali appunto l’induzione e l’abuso”. Dunque, continua la parte motiva della
sentenza, in applicazione del principio del favor rei la disciplina più favorevole va individuata
sulla base del raffronto oggettivo tra le norme applicabili “ossia facendo riferimento alla
disciplina complessiva risultante dalle norme precettive e sanzionatorie, senza tenere conto
delle <singole> disposizioni più favorevoli”. Nel caso di specie nonostante la nuova
disposizione preveda una sanzione più grave, essa deve essere applicata in quanto prescrive la
sussistenza di due elementi (induzione e abuso) che in precedenza non erano previsti.
La sentenza in commento si assesta, dunque, sulla stessa “linea” seguita dalla giurisprudenza di
legittimità che ha avuto modo di affermare che “ai fini dell’art. 2, 3º comma, CP, la fattispecie
di violenza sessuale in danno di soggetti psichicamente inferiori, di cui all’art. 3 L. 15 febbraio
1996 n. 66 (art. 609 bis, 2º comma, n. 1, c.p.), coincidendo solo in parte con quella disciplinata
dal previgente art. 519, 2º comma, n. 3, può in concreto rivelarsi più favorevole per il reo; la
nuova previsione, infatti, al fine di riconoscere anche ai predetti soggetti il diritto
all’estrinsecazione della loro individualità sessuale, ha determinato l’abolizione della relativa
ipotesi di violenza carnale presunta, richiedendo la sussistenza dei due ulteriori requisiti
dell’induzione (che si realizza quando, con un’opera di persuasione spesso sottile o subdola,
l’agente spinge o convince il partner a sottostare ad atti che diversamente non avrebbe
compiuto) e dell’abuso (che si verifica quando le condizioni di menomazione siano
strumentalizzate per accedere alla sfera intima della persona che, versando in situazione di
difficoltà, viene ad essere ridotta al rango di un mezzo per il soddisfacimento della sessualità
altrui), sicché, ove il fatto commesso nella vigenza della vecchia norma non presenti tali
requisiti, si verificherà a favore dell’agente una vera e propria abolitio criminis” (Cass., sez. III,
03-12-1996 n. 4114).
Sulla base di tali premesse, poiché la norma di cui all’art. 609 bis CP prevede la violenza
sessuale in danno di persona che si trovi in stato di inferiorità psichica o fisica, la violenza
consistente nell’approfittamento delle condizioni di incapacità della vittima in modo diverso da
quanto previsto dal previgente art. 519 CP fa si che se non fossero riscontrabili l’abuso o
l’induzione l’agente andrebbe esente da pena beneficiando di una vera e propria abolitio
criminis. Il che si è verificato nel caso di specie.
Nel caso in esame, appare opportuno ricordare che l’imputazione non richiamava affatto
l’induzione, come invece previsto dall’art. 609 bis, II comma, CP bensì la costrizione come
indicata dall’art. 519 CP che, come detto, è nozione abrogata dall’attuale normativa.
Secondo il GIP veneziano, il legislatore del 1996 ha punito come delitto il rapporto sessuale con
persone affette da inferiorità psichica o fisica soltanto quando sia caratterizzato da un
qualificato differenziale di potere con ciò intendendosi che il rapporto sia caratterizzato da
induzione da parte del soggetto forte e da abuso delle condizioni di inferiorità del soggetto
debole (in questo senso di veda Cass., sez. III, 19-11-1997 a mente della quale “In tema di
violenza sessuale in danno di persona che si trovi in stato di inferiorità psichica o fisica la
norma di cui all’art. 609 bis CP, introdotta con l’art. 3 l. 15 febbraio 1996 n. 66, configura la
violenza in modo diverso da quanto previsto dal previgente art. 519 CP.; infatti volendo tutelare
il diritto alle relazioni sessuali anche delle persone affette da inferiorità psichica o fisica, il
legislatore del 1996 ha punito come delitto il rapporto sessuale con queste persone solo quando
sia caratterizzato da un qualificato differenziale di potere; cioè quando sia connotato da
induzione da parte del soggetto forte e da abuso delle condizioni di inferiorità del soggetto
debole”).
Peraltro, correttamente la sentenza afferma che l’induzione punibile non si configura come
attività di persuasione quanto piuttosto come vera e propria sopraffazione della vittima, la quale
non è in grado di aderire perché convinta, ma soggiace al volere del soggetto attivo (e non è
ultroneo ricordare che la Cassazione è ferma nel ribadire che “in tema di violenza sessuale in
danno di persona che si trovi in stato di inferiorità psichica o fisica, il nucleo della condotta
tipica, contemplata dalla nuova legge sulla violenza sessuale (art. 609 bis seg. CP), è
assimilabile a quello previsto dall’art. 519 stesso codice, salva l’introduzione, da parte della
nuova l. 15 febbraio 1996 n. 66, di elementi specifici che, con riferimento alla fattispecie in
esame, si individuano nella induzione, con abuso dello stato di inferiorità fisica o psichica della
persona, e che - lungi dall’essere ininfluenti ai fini della punibilità (come nell’ipotesi previgente
di congiunzione carnale con persona malata di mente) - vanno, di volta in volta, individuati dal
giudice di merito; infatti, il soggetto attivo del reato è punibile non già per l’effetto
dell’automatismo derivante dalla malattia mentale della vittima, ma per aver indotto costei al
compimento di atti sessuali abusando di tale condizione di inferiorità: l’induzione punibile,
attuata mediante l’abuso nei confronti del soggetto che si trovi in stato di «inferiorità fisica o
psichica», non si configura come attività di persuasione, cui corrisponde la «volontaria»
adesione del soggetto più debole, bensì come vera e propria sopraffazione nei confronti della
vittima, la quale non è in grado di aderire perché convinta, ma soggiace al volere del soggetto
attivo, ridotta a strumento di soddisfazione delle sue voglie”, cfr. Cass., sez. III, 28-02-1997).
Dunque: l’induzione si realizza quando, con un’opera di persuasione sottile o subdola, l’agente
spinge o convince il partner a sottostare ad atti che altrimenti non avrebbe compiuto con ciò
ponendo in essere un’attività che, nella sostanza, corrisponde a quella richiesta per concretare il
delitto di circonvenzione di incapace (per cui non è richiesto l’uso di mezzi coattivi e di artifici o
raggiri, ma è pur sempre necessaria un’attività apprezzabile di pressione morale, di suggestione
o di persuasione, cioè di spinta psicologica che non può ravvisarsi nella pura e semplice richiesta
rivolta al soggetto passivo: cfr. Cass. 13.12.1993, Di Falco)
L’abuso si verificherebbe, invece, ogni qualvolta le condizioni di menomazione sono
strumentalizzate ad accedere alla sfera intima della persona che, versando in situazione di
difficoltà, viene ad essere ridotta al rango di mezzo per il soddisfacimento della sessualità altrui.
In altre parole, perché ricorra l’abuso non basta che l’agente abbia esercitato un’attività di
pressione morale o di persuasione per ottenere il consenso ma occorre che l’agente in concreto
abbia approfittato di tali condizioni. Secondo la prospettazione del GIP veneziano, dunque, un
vero e proprio qualificato differenziale di potere connotato da uno stato di superiorità che
consenta all’agente di superare le difese della vittima tanto da essere riscontrabile una
sopraffazione nei suoi confronti.
Il provvedimento in esame, sul punto, merita [ad avviso di chi scrive] un plauso in quanto, al di
là di “facili” prese di posizione derivanti vuoi dall’odiosità del delitto trattato, vuoi dalla
particolarità con cui sarebbero state perpetrate le violenze, vuoi ancora dal clamore suscitato
dalla vicenda, specie a livello locale, compie uno sforzo ermeneutico di grandissima valenza.
Invero il GIP, nella parte motiva della sentenza, dà conto di come, l’impegno dialettico tale da
poter essere qualificato come opera di persuasione, non può, nel caso di specie, essere
considerato quale affabulazione, insistenza o altro, tali da integrare i requisiti della “induzione”
o dell’ “abuso”.
Anche a non voler considerare, ma va invece considerato, che il problema dell’induzione
assume rilevanza anche da un altro punto di vista giacchè la formula normativa e, cioè, l’uso
del gerundio, -“abusando”- e la dizione “induce a compiere o subire atti sessuali” indicano
che l’induzione deve essere, se non contemporanea, quantomeno direttamente collegata sia allo
stato di inferiorità che alla violenza sessuale. Ossia, l’agente riesce nella sua opera di
persuasione proprio perché approfitta delle condizioni mentali minorate della vittima riuscendo
in tal modo a commettere o far subire un atto sessuale.
In tale ordine di considerazioni, dunque, il GIP conclude nel ritenere che la condizione di
inferiorità psichica prescinde da fenomeni di patologia mentale, essendo riferibile a fattori di
natura diversa connotati da tale consistenza ed incisività da viziare il consenso all’atto sessuale
della persona offesa: deve trattarsi di una incisiva menomazione delle facoltà di discernimento o
di determinazione volitiva riconoscibile con certezza ab externo che deve essere di carattere
psichico, non semplicemente psicologico o tanto meno emotivo.
Nel caso di specie tale condizione di inferiorità parrebbe desumersi implicitamente
-nell’imputazione- nella situazione di soggezione della paziente durante la visita medica. Poiché
la condizione di inferiorità deve essere di carattere “psichico” e non semplicemente psicologico
o, tanto meno di carattere emotivo (ed a tal proposito correttamente la sentenza pone l’accento
sulla valenza degli stati emotivi e passionali in seno al nostro codice sostanziale nel senso che
essi non escludono né diminuiscono l’imputabilità), nel caso di specie, conclude il GIP, vi è
sicuramente stato un inganno che, tuttavia, non avrebbe generato un abuso. Donde la
declaratoria di non doversi procedere relativamente ai fatti di cui si tratta.
7. Abuso sessuale e minorata difesa. Quanto poi ai presunti “abusi” perpetrati dal medico in
sede di “visite di controllo” il GIP inquadra la fattispecie nel paradigma di cui alla prima parte
dell’art. 609 bis CP.
Invero relativamente a tali fatti, il Giudicante riferisce come la giurisprudenza li abbia sempre
inquadrati nell’ipotesi di “atti di libidine con violenza” di cui all’art. 521 CP.
Assume, dunque, anche in tale seconda ipotesi peculiare risalto la tematica afferente alla
successione di leggi penali nel tempo, in quanto i fatti sono antecedenti all’entrata in vigore della
legge 15 febbraio 1996 n. 66 e, in linea di principio, sembrerebbero riconducibili tanto alla
normativa precedente, quanto a quella sopravvenuta. Al riguardo, secondo un primo filone
giurisprudenziale, la nozione di “atti sessuali” cui fa riferimento l’art. 609 bis CP nasce dalla
semplice somma delle due nozioni di congiunzione carnale e atti di libidine e quindi, poiché
negli atti di libidine violenta venivano ricondotti tutti gli atti che fossero espressione di
concupiscenza, altrettanto dovrebbe dedursi in relazione all’attuale nozione di atti sessuali. Ne
deriva che, secondo questa ricostruzione, l’eccitamento della concupiscenza sessuale rimane
elemento ineliminabile della condotta, destinato ad incidere, anche in riferimento al nuovo art.
609 bis CP, sia sul piano della tipicità, che su quello della colpevolezza; deve perciò
necessariamente escludersi che un gesto privo della componente lasciva esuli dalla portata della
stessa norma e non possa essere ad essa ricondotto.
Una diversa interpretazione giurisprudenziale, secondo cui la nuova normativa in virtù del
diverso bene giuridico protetto privilegerebbe (rispetto a quanto avveniva in precedenza per gli
atti di libidine violenta) l’aspetto oggettivo del reato, rispetto a quello soggettivo, renderebbe
così sostanzialmente irrilevante l’elemento della concupiscenza sessuale dell’agente, con
conseguente allargamento della portata incriminatrice del nuovo art. 609 bis CP rispetto al
precedente art. 521 CP. Ma pur volendo accreditare maggiormente questa diversa chiave di
lettura, per i fatti avvenuti prima dell’entrata in vigore della novella legislativa del 1996 -non
potrebbe comunque invocarsi l’applicazione dell’art. 2 comma 3 CP, poiché questo presuppone
necessariamente un rapporto di continenza tra la norma precedente e quella successiva; ciò al
fine di scongiurare i rischi di un’incriminazione ex post mediante un ampliamento della sfera di
punibilità, che sarebbe in palese violazione del principio di irretroattività della legge penale.
Nel caso, il GIP ha ritenuto applicabile la precedente disposizione in quanto essa è certamente
più favorevole dal momento che il requisito della “violenza” è del tutto identico a quello
previsto in precedenza e stabilendo essa una pena inferiore rispetto a quella sancita dall’art.
609 bis CP tenuto conto che in un caso del genere, caratterizzato dalla pravità del
comportamento di un medico a cui la paziente affida completamente la propria intimità, non è
riscontrabile il caso di “minore gravità” di cui all’ultimo comma dell’art. 609 bis CP.
Peraltro, correttamente il requisito della violenza richiesto dalla norma incriminatrice
viene identificato non soltanto nella violenza che pone il soggetto passivo nell’impossibilità di
opporre tutta la resistenza voluta (costringimento fisico) bensì anche in quella che può
manifestarsi nel compimento insidiosamente rapido dell’azione criminosa, consentendo in tal
modo di superare la contraria volontà del soggetto passivo. E’ sufficiente anche la violenza
meramente potenziale che si verifica quando il medico operi pur sapendo che il consenso non vi
sarebbe stato e che l’opposizione o la resistenza non sarebbero mancati se fossero stati possibili.
Donde la trasmissione degli atti al PM affinchè proceda per il reato di atti di libidine
violenti di cui all’art. 519 CP commessi con la stessa violenza prevista dal vigente art. 609 bis
CP in relazione ai fatti avvenuti durante le visite mediche.
8. Conclusioni. La sentenza resa dal GIP presso il Tribunale di Venezia è, ad avviso di chi scrive,
assolutamente condivisibile per ciò che precisa come oggi la semplice conoscenza dello stato di inferiorità
non sia più elemento sufficiente affinchè si concretizzi l’estremo dell’induzione e con ciò sembra recepire
ed attualizzare le preoccupazioni che da più parti sono state sollevate dalla dottrina. Si pensi, per portare i
termini del ragionamento all’estremo, ai possibili vuoti di tutela cui un’interpretazione di segno opposto
potrebbe creare nel caso, ad esempio, in cui sia il minorato a prendere l’iniziativa dell’atto sessuale 11
ovvero alle ipotesi di c.d. “narcotizzazione insidiosa” del soggetto passivo onde abusarne sessualmente
durante lo stato di incoscienza o, ancora, agli abusi sessuali di persone già incoscienti per cause
indipendenti dal fatto del colpevole.
In conclusione, la inevitabile vaghezza dei concetti di induzione e abuso di certo
comporterà oscillazioni giurisprudenziali nella soluzione pratica dei casi concreti per i quali non
v’è che da sperare che la magistratura riesca a sintonizzarsi con la cultura specialistica e col
sentire sociale, come ha fatto con la sentenza in commento. [Marianna de’ Giudici]
=°=°=
Tribunale di Venezia – Ufficio del Giudice per l'Udienza Preliminare – Sent. n. 228 del 23.03.2004 – Est.
De Fazio – Imp. XY
Violenza sessuale – Circostanza attenuante ex art. 609 bis comma 3 cp – Condizioni di operatività –
riferibilità alla globalità del fatto ed agli elementi di cui all'art. 133 cp – Necesssità
(artt 133 e 609 bis cp)
“L'attenuante di cui all'art. 609 bis, comma 3, cp, lungi dall'essere automaticamente ravvisabile
ogniqualvolta non vi sia penetrazione, richiede una valutazione globale del fatto che tenga conto dei
mezzi, delle modalità esecutive e delle circostanze dell'azione, in una parola di tutti gli elementi di cui
all'art. 133 cp.” (Fattispecie nella quale – sul presupposto che si fosse concretata una aggressione grave
alla libertà sessuale della vittima - è stata esclusa la applicabilità dell'attenuante in una ipotesi in cui la
persona offesa era stata palpeggiata violentemente in pù parti mentre, all'interno della propria abitazione,
giaceva a letto dormendo, da un soggetto che le si era buttato addosso previa introduzione clandestina
nell'abitazione)
=°=°=
Tribunale di Venezia – Sezione del Giudice Monocratico Penale – Sent. 26.02.2004 – Est. De Curtis –
Imp. XY
Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone – Inquinamento acustico - Esercizio di una
professione o mestiere rumoroso – Principio di specialità ex art. 9 L. 689/81 – Applicabilità della
11
Il dubbio è stato sollevato da VESSICHELLI, in Guida al Diritto, 1996, fasc. 9, 21 e “risolto” da BELTRAMIMARINO, Le nuove norme sulla violenza sessuale, Napoli, 1996, attraverso la teoria dell’omissione impropria,
considerando, cioè il soggetto sano cui l’infermo rivolge la propria iniziativa sessuale come “ l’unico possibile
garante di fatto dell’integrità fisica del soggetto passivo”.
norma amministrativa speciale – Sussistenza - Conseguenze
(art. 659, co. 2, c.p., L. n. 447/95, DPR n. 459/98)
“Il conflitto normativo tra l’art. 659, co. 2, c.p. e la L. n. 447/95 deve trovare soluzione mediante
l’applicazione del generale criterio stabilito dall’art. 9 L. 689/81 in forza del quale, quando uno stesso
fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione
amministrativa, si applica la disposizione speciale. Nel caso di specie, la norma speciale è senza dubbio
quella introdotta dalla legge che detta la disciplina per lo specifico settore dell’inquinamento acustico e
deve prevalere sulla norma penale”.
NOTA
Nel caso in esame l’imputato veniva citato a giudizio in relazione al reato di cui all’art. 659 c.p. perché,
nella sua qualità di responsabile della divisione infrastrutture delle Ferrovie dello Stato, non assumeva
misure di contenimento del rumore provocato dal traffico ferroviario, determinando così emissioni
rumorose disturbanti, in quanto notevolmente superiori ai limiti massimi previsti, con pregiudizio degli
abitanti della zona sita in prossimità del tratto Mestre-Padova.
Giova premettere che l’art. 659 c.p. contiene due diverse fattispecie di
reato, rispettivamente al primo ed al secondo comma: la prima realizzabile
da chiunque non impedisca che fonti di rumore, di qualsiasi tipo, rientranti,
comunque, nella sfera di controllo, disturbino per la loro intensità o per le
loro caratteristiche il regolare svolgersi della vita in privato o in pubblico;
la seconda, invece, è una fattispecie di reato proprio, a forma vincolata, che
può essere commessa soltanto da colui che eserciti una professione o un
mestiere rumoroso in contrasto con le disposizioni di legge o le prescrizioni
emanate dall’Autorità per regolare l’attività medesima.
La Corte di Cassazione, a tal riguardo, precisa che “nella seconda delle
ipotesi di contravvenzione, il rumore, anche se oggettivamente idoneo per
le sue caratteristiche a disturbare il regolare svolgersi delle attività
individuali o collettive, debba, tuttavia, essere tollerato quando venga
contenuto nei limiti fissati dalla legge e dall’Autorità, in considerazione
del superiore scopo sociale connesso all’attività che ne costituisce la
fonte” (v. Cass. Pen. Sez. I sent. del 29.11.1996).
Il Giudice Monocratico, quindi, conformandosi al chiaro principio espresso
dalla Suprema Corte, collocava il caso in esame nell’ambito della norma
incriminatrice prevista dal comma 2 dell’art. 659 c.p., ritenendo che la
gestione di linee ferroviarie rientrasse tra le attività pubbliche essenziali
che hanno insita la produzione di rumore e, pertanto, soggetta ad una
specifica regolamentazione. Ad avallare la decisione del Tribunale è lo
stesso legislatore che, nel dettare le norme della legge quadro relativa
all’inquinamento acustico (L. 447/95), ha espressamente inserito le linee
ferroviarie nell’ambito dei servizi pubblici essenziali (insieme alle linee
metropolitane, alle autostrade ed alle strade statali) per i quali debbono
essere adottati dei piani pluriennali per il contenimento delle emissioni
sonore prodotte nello svolgimento dell’attività. Successivamente all’entrata
in vigore della legge quadro è stato emanato il regolamento di esecuzione
(DPR n. 495/98) che, tra l’altro, ha fissato i valori limite di immissione del
rumore prodotto dalle infrastrutture. Per le Ferrovie dello Stato, inoltre, il
rispetto di suddetti limiti deve essere conseguito mediante l’attività
pluriennale di risanamento, attuata in via prioritaria nei confronti dei
ricettori presenti negli insediamenti abitativi. E’ a dirsi che l’adozione di
tale attività, secondo la L. 447/95, compete allo Stato.
L’art. 10 della L. n. 447/95, inoltre, ha configurato quale illecito
amministrativo la condotta di chiunque (anche del gestore delle linee
ferroviarie) nell’esercizio o nell’impiego di una sorgente fissa o mobile di
emissioni sonore, superi i valori di emissione od immissione stabiliti per
legge.
Tutto ciò premesso, risulta evidente il conflitto normativo tra l’art. 659, co.
2, c.p. e la depenalizzazione dell’art. 10 L. n. 447/95.
Tale conflitto viene risolto dal Giudice di cognizione stabilendo che si deve
applicare il criterio dell’art. 9 L. 689/81 in forza del quale, quando uno
stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione
amministrativa, si applica quella speciale (in senso conforme: Cass. Pen.
Sez. I, sent 12.03.1997; Cass. Pen. Sez. I sent. 8.09.1997).
Il Giudice, peraltro, ha precisato che la norma speciale non è abrogatrice di
quella generale, ma semmai ha l’effetto di restringerne l’applicabilità. Ciò
significa che ogni altra violazione diversa da quella riguardante la
regolamentazione dell’inquinamento ambientale, non sarà prevista come
illecito amministrativo da altra norma di carattere speciale, ma rimarrà
sottoponibile alla sanzione penale dell’art. 659 c.p.
Nel caso di specie, il Giudice di cognizione, ritenuto che la norma speciale
amministrativa fosse senza dubbio quella introdotta dalla legge che detta la
disciplina per lo specifico settore dell’inquinamento acustico applicabile
all’attività ferroviaria, in conclusione, proscioglieva l’imputato ex art. 129
c.p.p. perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. [Tiziana
Ceschin]
=°=°=
Tribunale di Padova – Ufficio del Giudice Monocratico di Este – Sent. N. 101 del 25/06/2004 – Est.
Bordon – Imp: XY
Gestione di discarica abusiva – Omessa bonifica del suolo – Condotta omissiva – Obbligo di
impedire l’evento – Insussistenza
(artt. 40 cp, 10, 11, 14, 17, 51 D. L.vo 22/97)
“Il mero mantenimento nell’area di rifiuti abbandonati da altri costituisce gestione di discarica
abusiva, a condizione che sia normativamente prevista una posizione di garanzia. L’art. 40 cpv. c.p.
prevede infatti che solo il non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a
cagionarlo, diversamente, se non sia ravvisabile la violazione di un obbligo giuridico di impedire
l’evento, non si può essere chiamati a rispondere di un illecito penale, per il semplice fatto di non essersi
attivati per scongiurare la lesione del bene giuridico dallo stesso tutelato”
La sentenza così motiva:
(omissis) “Agli imputati è contestato di non essersi attivati per bonificare l’area della zona industriale in
modo da porre rimedio all’avvelenamento delle acque di falda (….)
Atteso che l’obbligo di garanzia può trovare la sua fonte anche in una norma penale, appare importante
richiamare l’indirizzo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. S.U. 5 ottobre 1994 – 28.12.94,
n. 12753) sui concetti di realizzazione e gestione di discarica, indirizzo espresso in un caso in cui si
trattava di valutare la
responsabilità del legale rappresentante di una società di capitali per il
mantenimento di una discarica non autorizzata di rifiuti speciali nel terreno fortilizio aziendale. Entrambe
le condotte possono –secondo la Corte- assumere la forma di reato permanente: la prima fino
all’ultimazione dell’opera; la seconda, che presuppone l’apprestamento di un’area per raccogliere i rifiuti e
consiste nell’attivazione di un’organizzazione articolata o rudimentale di persone, cose, macchine diretta
al funzionamento della discarica, è permanente per tutto il tempo in cui l’organizzazione è presente e
attiva, anche se per un certo intervallo di tempo, per circostanze contingenti, i rifiuti non vengono
scaricati. Se il reato di discarica abusiva può essere di natura permanente, ciò non significa che esso
comprenda anche il mero mantenere nell’area rifiuti scaricati da altri, visto che per il detentore non
sussiste un obbligo di controagire, e cioè d’intervenire per la rimozione dei rifiuti presenti nel terreno
entrato nella sua disponibilità. Con tale presa di posizione è stato disatteso, in nome del principio di stretta
legalità, l’opposto orientamento seguito dalla Corte di merito, fondato sul rilievo che anche il
mantenimento dei rifiuti costituisce una condotta non meno dannosa o pericolosa di quella che dà avvio
alla discarica.
Né l’indirizzo giurisprudenziale è mutato con l’art. 51, III comma D.lgs. 5.2.97, n.22, essendo stato
riaffermato anche alla luce della norma incriminatrice in tema di realizzazione o gestione di discariche non
autorizzate, che la condotta di chi –disponendo di una determinata area- si limiti a non attivarsi per la
rimozione di rifiuti abbandonati in epoca pregressa, non è penalmente illecito (Cass. Sez III, 2.7.97,
n.8944).
Analogo principio è stato affermato anche nell’art. 17 del D.Lvo 5.2.97 n.22, prima norma che si occupa
degli obblighi di bonifica e ripristino ambientale di aree inquinate in caso di superamento di determinati
limiti di accettabilità fissati con il D.M. 25.10.99 n.471, in vigore dal 16.12.99. L’art. 17 comma II
individua una forma di responsabilità civile soggettiva per i soggetti che hanno cagionato un inquinamento
o un pericolo di inquinamento.
Tali obblighi non sono posti a carico del proprietario, che, in quanto tale, non è destinatario della diffida
comunale a procedere ai necessari interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale. Sul
proprietario del sito inquinato –in mancanza di una cooperazione colposa al superamento dei valori limite
–gravano solo l’onere reale ed il conseguente privilegio speciale immobiliare previsti dai commi 10 ed 11
dell’art. 17.
Non diversamente in tema di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti, come disciplinato dall’art. 14,
III comma D.Lvo cit, alla rimozione è tenuto, in solido con il soggetto responsabile, il proprietario o il
titolare di diritti reali o personali sull’area, solo nel caso in cui la violazione sia a lui imputabile a titolo di
dolo o di colpa.” (omissis)
NOTA
La pronuncia in esame offre svariati spunti di riflessione e la possibilità di effettuare un percorso
ricostruttivo della controversa giurisprudenza che sul punto si è espressa prima e dopo l’entrata in vigore
del decreto “Ronchi”.
Il Giudice patavino ha sostanzialmente abbracciato la tesi propugnata dall’orientamento giurisprudenziale
formatosi all’epoca della legislazione previgente (D.P.R. 10 settembre 1982 n.915) e segnatamente dalla
Corte di Cassazione- Sezioni Unite, 5 ottobre 1994 – 28.12.94, n. 12753, Zaccarelli 12, che invero si è a
suo tempo soffermata sulla natura intrinseca della fattispecie di gestione di discarica abusiva, definendola
sicuro esempio di reato permanente 13: essa infatti presuppone “l’apprestamento di un’area per raccogliervi
i rifiuti e consiste nell’attivazione di un’organizzazione articolata o rudimentale non importa, di persone,
cose e/o macchine (come ad esempio quelle per il compattamento dei rifiuti) diretta al funzionamento
della discarica” e la permanenza sussiste “in tutto il tempo in cui l’organizzazione è presente e attiva”.
Purtuttavia, prosegue la Suprema Corte, che il reato sia permanente, non significa che esso comprenda
anche il mero mantenere nell’area i rifiuti scaricativi o fattivi scaricare da altri, quando ormai la discarica
sia stata chiusa o soltanto disattivata, “con la conseguenza che è estraneo al reato chi sia subentrato e si
12
Le Sezioni Unite risolvettero un contrasto sorto originariamente in dottrina, tra coloro i quali sostenevano che la
discarica abusiva sostanziasse un reato istantaneo ad effetti permanenti, sul presupposto che il momento
consumativo coincidesse con il compimento della singola attività di abbandono del rifiuto e la conservazione
ulteriore o la mancata rimozione un post-factum non annoverabile nell’ambito dell’elemento oggettivo dell’illecito
(così anche Cass. Pen. 14.02.1992); e i sostenitori della tesi secondo la quale si tratterebbe di un reato permanente,
caratterizzato da attività duratura e ripetitività della condotta.
Non si dimentichi però che è pacifica la tesi dottrinale secondo la quale la discarica può sorgere per effetto di uno
scarico isolato di rifiuti, capace di deturpare l’ambiente circostante, dando origine ad un reato istantaneo: si
perfeziona con un solo atto.
13
Unanimemente accolta è l’equiparazione tra realizzazione e gestione di discarica abusiva e costruzione abusiva: in
quest’ultima fattispecie la permanenza del reato si ha con la realizzazione della costruzione e cessa con
l’ultimazione dei lavori del manufatto (Cass. Pen. Sez. III, 5.7.1994).
ritrovi l’area con i rifiuti ammassativi da quegli che in precedenza vi aveva gestito la discarica”.
Così sentenziando, il Supremo Collegio si attiene strettamente ai principi cardine del diritto penale,
salvaguardando i principi di tassatività e di offensività, che ben sappiamo essere tra loro indissolubilmente
avvinti14, tuttavia sorgono taluni dubbi in ordine ad un’eventuale vacatio legis, che impedisca la piena
salvaguardia di un bene giuridico, quale il diritto a vivere in ambiente salubre, ch’è tematica negli ultimi
anni particolarmente sentita dalla collettività.
Com’è noto, la comminazione della sanzione penale postula la necessità di individuare nel fatto umano
l’esatta condotta descritta nella fattispecie incriminatrice, che per sua natura considera lesivi del bene
giuridico penalmente tutelato soltanto determinati comportamenti, tassativamente descritti: la linea di
confine tra concezione sostanziale e formale del reato è sottile, il buonsenso vorrebbe sempre far prevaler
il primo, ma è inevitabile la necessità di soddisfare la forma, che dà ragion d’essere al diritto nel suo
aspetto fenomenico, e così il giudice, che ha il compito di verificare se l’offesa sia stata realizzata con le
modalità legislativamente tipizzate, soddisfacendo anche il principio di materialità, giustamente rileva la
non conformità della condotta alla norma che infligge la sanzione: il risultato è scontato, è stato offeso il
bene giuridico, quelle acque non sono più sicure, ma la responsabilità non è addebitabile a chi non ha
rimosso i rifiuti, invero non è addebitabile ad alcuno, se non –forse- a chi in tempi lontani ha effettuato
quei depositi, ma tale questione non riguarda il diritto penale, che è diritto di fatti, non di autori.
Il ragionamento ordito dai giudici di Cassazione e seguito dall’estensore patavino è dunque formalmente
ineccepibile, poiché, se si parte dalla premessa che la gestione di discarica abusiva postula una condotta
commissiva che sostanzia un reato permanente, sarà materialmente estraneo alla commissione di quel
reato, colui il quale non interviene affatto con alcuna azione.
Ci si trova di fronte, dunque, ad un evento senza autore, dinanzi al quale il giudice, vassallo della legge,
non può che prendere atto.
L’entrata in vigore del D.Lgs. 5 febbraio 1997 n.22 non ha cambiato i termini della questione: seccamente,
la terza sezione della Corte di Cassazione afferma: “non dà luogo alla configurabilità del reato di
realizzazione o esercizio di discarica abusiva, la condotta di chi, avendo la disponibilità di un’area sulla
quale altri abbiano abbandonato rifiuti, si limiti a non attivarsi perché questi ultimi vengano rimossi”
(Cass. Pen. Sez..III, 2 luglio 1997, n.8944). Le pronunce sono dunque concordi, tutt’al più correttive o
esplicative di quanto affermato ai tempi della legislazione previgente 15, si ricordi ad es. Sez. III, 18
dicembre 1991, Sacchetto, secondo cui, con un incipit che può avere il sapore dell’ovvietà, “anche in
materia ambientale un dato comportamento omissivo acquista il connotato dell’antigiuridicità solamente
in funzione di una norma che imponga al soggetto di attivarsi per impedire l’evento naturalistico di lesione
dell’interesse tutelato”.
L’indagine effettiva che deve compiere il giudice riguarda pertanto la sussistenza del reato omissivo
improprio e la conseguente esistenza di un obbligo giuridico in capo al soggetto di impedire l’evento
dannoso o pericoloso, poiché è notoria la necessità di soddisfare l’imperativo del legislatore di stabilire
positivamente i casi d’equivalenza normativa tra il non impedire l’evento e cagionarlo. Gestione di
discarica abusiva come reato commissivo, dunque: allora bisogna ricercare tra i testi di legge un eventuale
dettato normativo che imponga al nuovo proprietario dell’area di rimuovere i rifiuti accumulati da altri,
per cercare di ricostruire una nuova fattispecie legale, autonoma rispetto all’originaria 16, sostenuta da chi
aveva rintracciato nell’omesso asporto o smaltimento dei rifiuti una condotta non meno pericolosa o
dannosa dell’immetterli o depositarli o ammassarli. Il risultato di questa ricerca è, nel caso di specie,
negativo, poiché, spiega il giudice di Este, nessun dettato normativo impone “d’attivarsi per porre rimedio
ad un fenomeno d’inquinamento che non si ha in alcun modo contribuito a creare”, a maggior ragione
perché storicamente non è rintracciabile un obbligo di bonifica a carico degli imputati, amministratori di
una società.
L’assoggettamento a sanzione penale prevista dall’art. 51 co.3 del “Ronchi” pone in definitiva il giudice
dinanzi ad un aut aut: o l’imputato ha gestito una discarica abusiva mediante condotta commissiva,
ovvero, se ha omesso di asportare i rifiuti, deve sussistere l’obbligo normativamente previsto di porre
14
15
16
Tesi propugnata tra gli altri da Pagliaro, Principi di diritto penale, Parte generale, Milano, 1987, pag.227: “La
contrapposizione tra tipicità e offensività è illusoria…”.
Significativa anche Sez. I, 17 novembre 1995, Insinna, secondo cui “destinatario della norma penale contenuta nel
comma I dell’art. 25 del D.P.R. 915/82, che punisce la realizzazione di discarica abusiva, è il gestore dell’impianto
di raccolta e non il proprietario del terreno sul quale si attua lo smaltimento di rifiuti speciali non autorizzato. Che
quest’ultimo soggetto, quale extraneus, possa concorrere nel “reato proprio” commesso dal gestore, è fuori
discussione, ove il concorso esterno materiale (cogestione di fatto) o morale (istigazione, rafforzamento,
agevolazione) si realizzi con condotta commissiva, ovvero con condotta omissiva- in linea teorica- ma sempre che il
non agere si innesti in uno specifico obbligo di impedire l’evento”.
Così Romano, Commentario sistematico del codice penale, Vol. I, Milano 1995, pag. 353, che in ciò individua la
funzione primaria della disposizione di cui all’art. 40, co.2, “riduttivamente collocata dal legislatore del ’30 nel
contesto del problema causale”.
rimedio ad una situazione originata da altri.
Per concludere, la sensazione è quella di trovarsi dinanzi ad un vuoto legislativo che andrebbe
opportunamente colmato per veder tutelato pienamente un bene così importante: in assenza di interventi
normativi in questo senso, non si può che condividere il ragionamento rigoroso del giudice di Este, che ha
contribuito a salvaguardare i principi di tassatività, personalità, offensività, legalità. [Giulia Gavagnin]
=°=°=
Tribunale di Padova – Ufficio del Giudice Monocratico Penale – Decr. 12.02.2004 – Est Sgubbi – Ric.
XY
Difesa e difensori – Liquidazione dell'onorario e delle spese al difensore d'ufficio ex art. 116 DPR
115/2002 – Compenso liquidabile – Onorari maturati nel corso del processo penale – Sussistenza –
Spese relative alle procedure di recupero esperite con esito negativo – Esclusione
(art. 116 DPR 115/2002)
“L'art. 116 del DPR 115/2002 deve essere interpretato come segue: il difensore d'ufficio può
chiedere al proprio assistito i compensi ritenuti congrui alla luce della tariffa professionale (anche per
importi superiori a quelli che il giudice può liquidare ex artt. 82 e 116 decreto citato) e, in caso di
mancato pagamento, può attivare la procedura di recupero che ritiene più opportuna; nel caso in cui la
procedura di recupero venga esperita con esito negativo, il difensore potrà ottenere, in via anticipata
dallo Stato, solo la parte del suo credito costituita dagli onorari maturati nel processo penale (nei limiti
di cui agli artt. 82 e 116 citati), ma non, invece, il rimborso delle spese inerenti le esperite procedure di
recupero.”
=°=°=
Tribunale di Trento – Ufficio del Giudice Monocratico Penale – Ord. 04.03.2004 – Est Benini - Ric. XY
Difesa e difensori – Liquidazione dell'onorario e delle spese al difensore d'ufficio ex art. 116 DPR
115/2002 – Compenso liquidabile – Onorari maturati nel corso del processo penale – Sussistenza –
Spese relative alle procedure di recupero esperite con esito negativo – Sussistenza
(art. 116 DPR 115/2002)
“Ai sensi dell'art. 116 DPR 115/2002 l'attività di recupero del proprio credito, che il difensore
d'ufficio deve porre in essere nei confronti dell'assistito, costituisce un presupposto necessario perchè si
possa dar luogo alla liquidazione in surrogazione da parte dello Stato. Il difensore d'ufficio deve,
pertanto, essere remunerato anche per tale attività: la diversa alternativa interpretazione del dato
notmativo si appaleserebbe come scarsamente rispettosa dell'art. 24 Cost., posto che, per poter agire a
difesa del proprio diritto al compenso per la sua prestazione professionale, il difensore sarebbe costretto
ad affrontare – oltre che attività dispendiose in termini di tempo – anche degli esborsi dei quali non
sarebbe prevista la rifusione”
=°=°=
Tribunale di Venezia - Ufficio del Giudice per l' Udienza Preliminare - Ord. 06.05.2004 - Est. Gallo Imp. XY
Patrocinio a spese dello Stato - Esclusione dall’ammissione per l’indagato, l’imputato o il
condannato di reati commessi in violazione delle norme per la repressione dell’evasione in materia
di imposte sui redditi e sul valore aggiunto - Questione di legittimità costituzionale in parte qua
dell’art. 91 D.P.R. 115/2002 - Rilevanza e non manifesta infondatezza della medesima - Ragioni.
(Artt. 91 D.P.R. 115/2002, 3 e 24 Cost.)
L’art. 24, co. 3 della Costituzione, che assicura a tutti i non abbienti i mezzi per esercitare il
diritto di difesa, senza esclusione alcuna, non consente al Legislatore di escludere dall’ammissione al
patrocinio a spese dello Stato coloro che, pur rientrando nei limiti di reddito tipizzati espressamente dal
combinato disposto degli artt. 76 e 92 D.P.R. 115/2002, siano indagati o giudicati per un reato
finanziario. (Fattispecie in cui il Giudice dell’Udienza Preliminare dichiarava la non manifesta
infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 91 D.P.R. 115/2002 per violazione degli
artt. 3 e 24 Cost. siccome sollevata dalla Difesa di persona imputata del reato di cui all’art. 8 D.L.vo
74/2000, rimettendo gli atti al Giudice delle Leggi).
L’ordinanza così motiva:
(omissis) “Va premesso che a parere di questo giudice, contrariamente a quanto sostenuto dal P.M., la
questione ha rilevanza decisiva in questo processo dal momento che riguarda il fondamentale diritto di
difesa dell’imputato.
E tale diritto di difesa è assolutamente tutelato dall’art. 24 Costituzione non solo dal punto di vista
procedurale ma anche sotto l’aspetto economico.
Infatti, in generale è chiaramente stabilita la prescrizione della tutela difensiva ed in particolare la tutela
per il non abbiente per cui le norme non possono creare una situazione di disparità a danno del cittadino
indigente nei confronti del cittadino abbiente.
Il principio era già stato evidenziato dalla Corte Costituzionale che aveva chiarito, a proposito di altra
questione, che nella disposizione di cui all’art. 24, primo comma, l’uso del termine “tutti” ha chiaramente
lo scopo di ribadire la uguaglianza di diritto e di fatto di tutti i cittadini per quanto concerne la tutela
giurisdizionale, e, conseguentemente, il diritto di difesa previsto dai commi successivi (Corte Cost., 331/3/1961, n. 21).
La norma costituzionale prescrive soltanto la tutela difensiva dei non abbienti senza alcuna limitazione
per cui non è consentito al legislatore escludere coloro che si trovano nelle relative condizioni
economiche sol perché è stato loro ascritto un particolare tipo di reato.
Tanto crea semplicemente una presunzione assoluta per cui chi è indagato ovvero imputato di un reato
finanziario non può essere in condizioni economiche disagiate o, comunque, non è meritevole della tutela
a spese dello Stato.
Ciò non solo è in contrasto con altra disposizione costituzionale per cui la persona non può essere
considerata colpevole fino alla condanna definitiva (art. 27, secondo comma) ma anche con un semplice
criterio di ragionevolezza giacché è evidente che taluno possa essere incriminato erroneamente e venire
poi assolutamente assolto.
La limitazione introdotta dal legislatore crea un’ingiustificata disparità di trattamento nei confronti degli
indagati o imputati di altre violazioni penali in violazione del principio di cui all’art. 3 Costituzione.
Nel caso di specie, inoltre, è stata contestata non già una condotta di vera e propria evasione fiscale bensì,
per così dire, una condotta di favoreggiamento dell’evasione di altri.
Pertanto, la dedotta questione di legittimità non appare manifestamente infondata e richiede una
pronuncia da parte del giudice delle leggi” (omissis).
NOTA
Il Giudice dell’Udienza Preliminare di Venezia, con l’ordinanza più sopra massimata ha ritenuto la
rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 91 D.P.R.
115/2002 per violazione degli artt. 3 e 24 della Carta Fondamentale, nella parte in cui esclude la
possibilità di accedere al patrocinio a spese dello Stato per i soggetti indagati, imputati o condannati per
reati commessi in violazione delle norme per la repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi
e sul valore aggiunto, sollevata dalla Difesa di persona imputata del reato di cui all’art. 8 D.Lgs. 74/2000
per aver, secondo l’assunto della Pubblica Accusa, emesso fatture relative ad operazioni inesistenti.
Ed, invero, una tale eccezione era stata formulata solo in via subordinata rispetto alla richiesta di
ammissione dell’istante al beneficio fondata sulla prospettazione dell’opportunità di un’interpretazione
restrittiva dell’art. 91 del prefato decreto presidenziale, in considerazione della peculiare fattispecie
criminosa contestata all’imputato, come tale inidonea, ad avviso della Difesa, a concretare un reato di
evasione fiscale in senso stretto, bensì, al più, un ipotetico illecito prodromico ad un’eventuale evasione
fiscale di terzi, dalla stessa, tuttavia, soggettivamente ed oggettivamente scollegato, comunque, non
direttamente lesivo dell’interesse erariale.
Il Giudice veneziano, per parte sua, ha ritenuto valide ed assorbenti le argomentazioni poste a sostegno
della dedotta questione, evidenziando come il diritto alla tutela difensiva dei non abbienti non incontri
limitazioni di sorta nel dettato costituzionale, sostanziandosi nell’estrinsecazione del fondamentale diritto
di difesa riconosciuto in capo alla generalità dei consociati, e rilevando, altresì, che, diversamente
opinando, si creerebbe una presunzione assoluta per cui l’indagato per reati finanziari sarebbe per ciò
stesso immeritevole di adire l’istituto da ultimo disciplinato dal D.P.R. 115/’02 anche se successivamente
assolto, e ciò in palese violazione tanto del principio di cui all’art. 27, co. 2 Cost., quanto di quello di
ragionevolezza.
Giova in sede di commento sottolineare come il Giudice delle Leggi, con ordinanza n. 94 del 8 - 12
marzo 200417 abbia dichiarato la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale
sollevate dal Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Brescia 18 e dalla Corte d’Appello di
17
18
Cfr., Corte Cost., Ord. 94/04, in www.cortecostituzionale.it;
Cfr., Tribunale Ordinario di Brescia, Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari, Ord. 18.0.02, in Gazzetta Ufficiale della Repubblica, prima
serie speciale, n. 3/2003;
Torino19, senza, quindi, affrontarne il merito, dal momento che la prima riguardava un procedimento
relativo a fatti di bancarotta, cioè reati diversi da quelli per i quali la disposizione censurata nega
l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, mentre la seconda, se da un lato poneva in luce il contrasto
dell’art. 91 D.P.R. 115/2002 con l’art. 24, co. 2 e 3 della Costituzione sul rilievo che, ai fini
dell’ammissione al beneficio in parola, introdurrebbe un requisito ulteriore rispetto a quello della non
abbienza dell’interessato, unico richiesto secondo il chiaro disposto del secondo capoverso della prefata
norma, dall’altro, inopinatamente, ritenendo ragionevole l’esclusione dal beneficio dei soggetti indagati,
imputati o condannati per i reati espressamente indicati, prospettava il contrasto della medesima
disposizione con l’art. 3 della Carta Fondamentale, per la irragionevole non estensione dell’esclusione a
reati diversi da quelli considerati, che del pari consentirebbero di accumulare ricchezze sottratte al
prelievo fiscale. In proposito, la Corte ha ritenuto che dal testo dell’ordinanza di rimessione non fosse
emerso che il contrasto col principio di ragionevolezza era stato prospettato in via subordinata al mancato
accoglimento della questione sotto il profilo della violazione dell’art. 24, co. 3 della Costituzione, di tal
che, sulla base della costante giurisprudenza della Consulta al riguardo 20, trattandosi di questioni con le
quali venivano sollecitati interventi correttivi aventi finalità contraddittorie tra loro, non poteva che
conseguirne la declaratoria di manifesta inammissibilità. Pur tuttavia, appare significativo il fatto che i
Giudici costituzionali, nel motivare siffatta pronuncia, abbiano inteso precisare che la sanzione
processuale adottata nello specifico è intimamente connessa col modo in cui la questione è stata
formulata, lasciando uno spiraglio in ordine alla fondatezza nel merito della medesima che fa ben
presagire in vista della discussione del giudizio di legittimità costituzionale sollecitato dal Giudice
dell’Udienza Preliminare di Venezia. [Federico Cappelletti]
=°=°=
Tribunale di Venezia – Ufficio del Giudice per l’udienza preliminare – Ord.
16.07.2004 – Est. Gallo – Imp. XY ed altri
Reato associativo – Luogo di consumazione ai fini della determinazione della
competenza per territorio – Assenza di dati certi circa la genesi del vinvcolo
associativo - Criterio di determinazione presuntivo – Luogo di operatività
della struttura criminosa – Rilevanza (1)
(artt. 8 cpp, 74 DPR 309/90)
Indagini collegate – Occasionalità giuridicamente rilevante tra reati – Nozione - Riunione dei
procedimenti – Necessità (2)
(art. 17, 371, comma 2 lett. B, cpp)
Associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope – Delitti di cui
all’art. 73 DPR 309/90 – Sussistenza della connessione teleologica - Necessità – Fattispecie (3)
(artt. 73 e 74 DPR 309/90)
Associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope – Delitti fine di cui
all’art. 73 DPR 309/90 – Presunzione di connessione sul piano probatorio – Sussistenza (4)
(artt. 371 comma 2 lett. b), cpp, 73 e 74 D.P.R. 309/90)
(1) “Ai fini della individuazione del luogo di consumazione del reato associativo, che determina
la competenza per territorio, trattandosi di reato permanente, in difetto di elementi storicamente certi in
ordine alla genesi del vincolo associativo, soccorrono criteri presuntivi che valgono a radicare la
competenza territoriale nel luogo in cui il sodalizio criminoso si manifesti all’esterno ovvero in cui si
concretino i primi segni della sua operatività, ragionevolmente utilizzabili come elementi sintomatici
della genesi dell’associazione nello spazio.”
(2) “Deve parlarsi di collegamento di indagini ai sensi dell’art. 371, comma 2 lett. b), cpp
laddove sussista un’occasionalità giuridicamente rilevante tra due reati.
Ai fini della suddetta occasionalità è’ necessario un certo grado di collegamento causale tra essi, dal
19
20
Cfr., Corte d’Appello di Torino, Ord. 10.4.03, in Gazzetta Ufficiale della Repubblica, prima serie speciale, n. 32/2003;
Cfr., Corte Cost., Sent. n. 123/88; Ordd. nn. 458/98, 373/99 e 7/03.
momento che “occasione” è il motivo, il pretesto, l’opportunità, un insieme di fatti che favoriscono il
risultato, pur non assurgendo a una causa vera; deve sussistere inoltre tra i reati sia uno stretto rapporto
temporale (un nesso cronologico di contemporaneità o di breve distanza) sia una colleganza non
meramente accidentale, così che uno possa dirsi occasionato dall’altro e trovare la sua spiegazione nel
fatto principale. In tali casi deve dispporsi la rionione dei procedimenti ex art. 371 comma 2 lett. b),
cpp.”
(3) “La condotta del reato di cui all’art. 74 DPR 309/90 consiste proprio nell’associarsi allo
scopo di commettere più delitti tra quelli previsti dall’art. 73 DPR 309/90, di talchè il carattere
specialistico del programma criminoso, finalizzato alla commissione di reati connessi al traffico illecito
di sostanze stupefacenti, non consente di negare, sulla base di una semplice massima di esperienza, che i
singoli reati fine siano stati ideati sin dal momento costitutivo dell’associazione.
Al fine di riconoscere tra il reato associativo e i singoli reati fine il rapporto di connessione teleologica
non si deve pretendere che gli associati debbano, fin dall’inizio, conoscere esattamente modalità e
circostanze dei singoli delitti di acquisizione della droga: si deve ritenere sufficiente, infatti, che i reati
siano frutto di determinazioni risalenti ad un’unica elaborazione di fondo.”
(4) “Sul piano probatorio i reati associativi e i reati fine denotano indefettibili e significativi
momenti di connessione: l’esistenza dell’associazione costituisce, già di per sé, un grave indizio oggettivo
della commissione dei delitti di cui all’art. 73 DPR 309/90 da parte degli stessi associati o di altri
soggetti e, per converso, la rilevanza dell’accertamento dei singoli reati fine sta nell’efficacia probatoria
che tale accertamento può avere al fine di dimostrare la riconducibilità di essi non ad occasionali
accordi criminosi ma ad un accordo sociale stabile, qualificante la fattispecie associativa.”
L'ordinanza così motiva
- (omissis) “Si ritiene di esaminare i reati distinguendoli per tipologia in tre
categorie: A) i delitti di cui all’art. 74 DPR 309/90, B) i delitti di cui all’art. 73
DPR 309/90, C) tutti gli altri reati differenti da quelli relativi a violazioni alla
normativa sugli stupefacenti.
A) Per quanto concerne i reati associativi secondo un orientamento della suprema Corte si deve attribuire
rilievo al momento dell’accordo per cui il delitto si consuma nel momento e nel luogo di perfezionamento
del vincolo associativo (v. Cass, sez. I, sent. 6171, 25 novembre / 12 dicembre 1996, ric. Chierchia ed
altri ovvero sez. VI, sent. 3784, 6 ottobre 1994/7 aprile 1995, ric. Celone ed altri).
Questa tesi appare la più corretta corrispondendo al criterio stabilito dall’art. 8 c.p.p. ma presuppone che
si conoscono con certezza il momento ed il luogo dell’ accordo.
Secondo un altro orientamento bisogna aver riguardo al requisito effettivo dell’organizzazione per cui la
consumazione del reato si verifica nel momento della effettiva costituzione di un’organizzazione
permanente, cioè quando l’associazione diventa concretamente operante (v. Cass., sez. II, sent. 993, 25
febbraio /7 aprile 1999, rit. Cohan in Foro It. 2000, II, 2081 o sez. I, sent. 4761, 26 ottobre/1 dicembre
1994, Conf. Comp GIP Tribunale Brescia e Trib. Milano in proc. Arighetti, in CED – R.V. 199964)
In tale momento si realizza quel minimum di mantenimento della situazione antigiuridica necessaria alla
sussistenza del delitto di costituzione di associazione a delinquere (Cass. sez. II, sent. 6946, 28/1/1998 –
10/6/1998 in CASS. PEN. UTET; sez. VI, 26/1/1993, ric. Del Monte ed altri, in Mas. Pen. Cass., 1993,
fasc. 7, 83; Cass. Pen., 16/12/1989, ric. Almiak, in Riv. Pen. , 1991,191).
In tale prospettiva, e’ stato precisato che per la determinazione della competenza territoriale il locus
commissi delicti va individuato non il quello di stipulazione dell’accordo (col quale il delitto non si
consuma) ma in quello in cui e’ concretamente iniziata la vita e la permanenza dell’associazione (v.
ancora Cass., sez. VI, sent. 03037, 26/01/1993 – 26/03/1993, ric. Del Monte ed altri, in Ced RV. 193617
proprio a proposito del reato di cui all’art. 74 d.P.R. 309/90).
Si difetta la prova relativa al luogo ed al momento della costituzione dell’associazione soccorrono criteri
sussidiari per cui occorre far riferimento al luogo in cui ha sede la base ove si svolgono le attività di
programmazione e di ideazione riguardanti l’associazione, essendo irrilevante il luogo di commissione dei
singoli reati riferibili all’associazione.
In pratica, ai fini della individuazione del luogo di consumazione del reato associativo, che determina la
competenza per territorio, trattandosi di reato permanente, in difetto di elementi storicamente certi in
ordine alla genesi del vincolo associativo – proprio come nel caso che ci si occupa – soccorrono criteri
presuntivi, che valgono a radicare la competenza territoriale nel luogo in cui il sodalizio criminoso si
manifesti all’esterno ovvero in cui si concretino i primi segni della sua operatività, ragionevolmente
utilizzabili come elementi sintomatici della genesi dell’associazione nello spazio (Cass. , sez. I, sent.
06648, 18/12/1995 – 02/02/1996, Conf. Comp. GIP Trib. Lagonegro in proc. Dilandro, in Ced RV.
203609).
Oltretutto, qualora ci si trovi in presenza di un’organizzazione criminale composta di vari gruppi operanti
su di un vasto territorio nazionale ed estero, come nel caso di specie, la competenza per territorio a
conoscere del reato associativo non può essere individuata sulla base di elementi i quali, pur essendo
rilevanti ai fini probatori per l’accertamento della responsabilità dei singoli imputati, non sono
particolarmente significativi ai fini della determinazione della competenza territoriale, essendo in
contrasto con altri elementi ben più significativi i quali lasciano desumere un diverso luogo di
programmazione e di ideazione dell’attività riferibile all’associazione (v. cass., sez. I, sent. 06171
25/11/1996-19/12/1996, Confl. Comp. In proc. Chierchia ed altri, in CED RV. 206261).
Insomma, per la determinazione della competenza territoriale si deve prescindere da circostanze ed
avvenimenti secondari che sono riferibili ad altri luoghi e si deve tener conto essenzialmente del luogo
ove l’associazione si manifesta e principalmente agisce perché ivi ha i suoi interessi.
E nel caso di specie è di tutta evidenza come qualunque traffico di stupefacenti sarebbe stato organizzato
per svolgersi nel Veneto.
Ciò posto, esaminato i vari capi d’imputazione relativi alle associazioni tenendo presente che la
contestazione è, almeno per quanto riguarda la parte essenziale del fatto, vincolante nel senso che in
questa fase non solo costituisce l’unico elemento da prendere in considerazione ma anche che non può
certo essere modificata o integrata dal giudice salvo che, a proposito della competenza, non venga
riscontrata una evidente difformità con quanto risulta dagli atti.
In ordine al reato di cui al capo 1) si rileva come sia stata contestata espressamente una sola associazione
a cui peraltro, sembra di capire che avrebbero aderito in tempi diversi i vari imputati come si deduce dal
fatto che sono state incriminate varie persone a cui sono ascritte condotte del tutto diverse ed indipendenti
e sono indicati uno spazio temporale di alcuni anni e, soprattutto, molteplici luoghi di commissione del
reato in Italia ed all’estero.
Quel che rileva, però, ai fini che ci interessano è il fatto che il nucleo fondamentale di questa associazione
sarebbe stato costituito, nella prospettazione accusatoria, dai veneti Zanghierato, Cecconello, Lucchiari e
Dorio e che l’eventuale traffico di stupefacenti sarebbe stato finalizzato principalmente, se non
esclusivamente, a far arrivare la droga in Veneto dove, poi, come indicano gli altri capi d’imputazione,
essa sarebbe spacciata, segnatamente in Padova e provincia.
Pertanto, anche indipendentemente dal luogo, in cui si è manifesta l’associazione, essa si sarebbe
costituita certamente in provincia di Padova, luogo ove risiedono e vivono tre delle quattro persone
predette e luogo ove essi si incontravano.
E si deve affermare la competenza ratione loci del giudice del luogo in cui ha avuto inizio la
consumazione del reato associativo, quando nel territorio facente capo a tale giudice debba ritenersi
intervenuto e perfezionato l’accordo di tre o più soggetti per la costituzione di quel vincolo comune teso
alla commissione di pluralità di reati in tema di sostanze stupefacenti ( Cass., sez. VI, sent. 03784,
06/10/1994-07/04/1995, imp. Celone ed altri, in CED R.V. 201849)
Le medesime considerazioni valgono in merito di cui al capo 8) giacché anche in questo caso il nucleo
fondamentale dell’associazione, a cui di volta in volta e secondo le circostanze avrebbero aderito gli altri
imputati, sarebbe stato costituito dal padovani Cecconello, Lucchiari e Dorio.
In ordine al reato di cui al capo 12) è indicata specificamente Padova come luogo del commesso reato e
non v’e’ alcun motivo per ritenere diversamente dal momento che tutti gli imputati vivevano in quella
provincia.
In ordine al reato di cui al capo 30), ribadito che anche in questo caso è contestata l’esistenza di una sola
associazione, per i motivi esposti in precedenza si deve tener conto del fatto che qualunque traffico di
stupefacente sarebbe stato posto in essere per rifornire il mercato veneto.
In tutti questi casi, quindi, è riscontrabile la competenza funzionale del Giudice dell’Udienza Preliminare
di Venezia ai sensi del comma 1 bis dell’art. 328 c.p.p.
B) Per quanto riguarda le altre violazioni alla normativa sugli stupefacenti occorre distinguere quelli che,
almeno allo stato alla luce dei capi d’imputazione, appaiono essere i reati-fine delle associazioni da quelli
che, invece, ne sono del tutto indipendenti.
Posta come detto la competenza funzionale per i reati associativi, ai fini della determinazione della
competenza per gli altri reati associativi, ai fini della competenza per gli altri reati occorre considerare non
solo gli elementi di connessioni, ai sensi dell’art. 12 c.p.p., quanto soprattutto la opportunità della riunione
di cui alla lett. C) dell’art. 17 c.p.p.
La riunione di processi disciplinata dall’art. 17 c.p.p. ovvero collegamento di indagini ex art. 371, comma
2 lettera b), c.p.p.
Le altre ipotesi di connessione già previste dalla abrogata lett. C) dell’art. 12 (connessione conseguenziale
e connessione occasionale) divengono appunto motivi di collegamento delle indagini in base alla attuale
formulazione dell’art. 371, secondo comma, lett. b).
In particolare, la lettera b) del secondo comma dell’art. 371 prevede, anche in relazione all’art. 12, il
predetto collegamento nei seguenti casi:
1)connessione probatoria, in caso di influenza della prova di un reato o di una circostanza sulla prova di
un altro reato o di un’altra circostanza;
2)connessione occasionale, in caso di reati commessi gli uni in occasione degli altri;
3)connessone reciproca, in caso di reati commessi da più persone in danno reciproco;
4)connessione teleologica, in caso di reati commessi per assicurare a sé o ad altri il profitto, il prezzo il
prodotto o l’impunità.
E qualora si accerti la connessione fra i reati per cui è processo, la “normale” competenza territoriale di
ciascun reato viene derogata onde consentire la trattazione unitaria delle questioni avanti al medesimo
giudice; nella fattispecie, con l’attribuzione della competenza a questo giudice.
Per inciso appare necessario precisare a questo punto che non può essere condivisa l’opinione del P.M.
secondo cui non rileverebbe il problema della competenza dal momento che per tutti i reati per cui si
procede sarebbe competente l’A.G. di Padova.
A parte il fatto che in alcuni, sia pur limitati, casi sarebbero competenti i giudici di altre località sussiste
sempre un problema di competenza dal momento che vari reati dovrebbero essere giudicati di altre
località sussiste sempre un problema di competenza dal momento che vari reati dovrebbero essere
giudicati dal Tribunale in composizione monocratica con citazione diretta.
Ritenuta la competenza di questo giudice, invece, conseguirebbe un eventuale rinvio a giudizio davanti al
collegio all’esito dell’udienza preliminare.
E dagli artt. 33 quinquies e ss c.p.p. si rileva l’obbligo di osservare della competenza tanto più che ai
sensi dell’art. 124 del codice di rito, i giudici hanno l’obbligo di osservare le norme processuali anche se
non sia prevista alcuna nullità.
Né si deve dimenticare il diritto dell’imputato ad essere giudicato dal giudice naturale.
Orbene, ritiene questo giudice che sussistano tra ipotesi di connessione occasionale.
Perché sussista l’occasionalità giuridicamente rilevante tra i due reati occorre che la condotta e l’evento
successivo nascano dalla particolarità di circostanze simultanee o contestuali al primo accadimento: è
necessario quindi un certo grado di collegamento casuale tra essi, dal momento che “occasione” è il
motivo, pretesto l’opportunità, un insieme di fatti che favoriscono il risultato, pur non assurgendo a causa
vera (v. cass., sez. IV,04/05/1993, ric. Davì, in cass. Pen. 1994, 640; sez. V, sent. 01245, 21/01/199831/01/1998, imp. Cusani, in Ced RV. 210026)
Deve sussistere, inoltre tra i reati sia uno stretto rapporto temporale (un nesso cronologico di
contemporaneità o di breve distanza) sia una colleganza non meramente accidentale, cosicché uno possa
dirsi occasionato dall’altro e trovare la sua spiegazione nel fatto principale.
In sostanza le condizioni create da un reato devono offrirne altrettante utili a favorire la commissione di
un altro illecito penale.
Le organizzazioni delittuose di cui si occupa avrebbero indubbiamente creato le condizioni utili ed
indispensabili del commercio degli stupefacenti dal momento che avrebbero agito per immettere la droga
sul mercato locale.
Sussisterebbe, inoltre, il nesso cronologico suindicato poiché sarebbe stato ovviamente in stretto
collegamento temporale con l’arrivo della droga e, quindi, con la sua disponibilità giacché essa sarebbe
stata quanto prima distribuita e non sarebbe stata quanto prima distribuita e non sarebbe certo rimasta in
giacenza per lunghi periodi.
È ravvisabile, poi, a parere di questo giudice la connessione teleologica tra il delitto di cui all’art. 74
d.P.R. 309/90 ed i reati di detenzione e cessione di droga.
In passato si è sostenuto che sussisteva connessione teleologica tra i reati-programma e le singole attività
delittuose che ne costituiscono l’attuazione finalistica (in tal senso Cass., 02/09/1981, ric. Gelli in Foro It.,
1982, II, 1 ovvero Giust. Pen. 1982, III, 265).
Attualmente si ritiene in genere che tra il reato associativo e singoli reati-fine non sia ravvisabile un
vincolo rilevante ai fini della continuazione e meno ancora della connessione teleologica, posto che,
normalmente, al momento della costituzione delle associazione, i reati-fine sono previsti solo in via
generica.
Tra l’altro, si è anche affermato che in tema di competenza per connessione, l’ipotesi prevista dall’art. 12,
comma 1, lett. b) c.p.p. si riferisce a più reati commessi da una sola persona con una sola azione od
omissione ovvero con più azioni o omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, sicché
richiede, perché ricorra il vincolo della connessione, l’esistenza di atti deliberativi e volitivi unitari.
Conseguentemente il generico programma criminoso costituente elemento essenziale del delitto di
associazione a delinquere di per sé solo, in mancanza di altri elementi, non configura un rapporto di
connessione tra il reato associativo e gli eventuali singoli reati posti in essere dagli associati – o,
addirittura, da altri – e non è, pertanto, idoneo a determinare uno spostamento di competenza per materia
o per territorio (cass. sez., I, 15/02/2001, n. 16620, ric. Carannante, in CED RV. 218872)
Tuttavia, si è ritenuto che tale rapporto possa ritenersi sussistente nella eccezionale ipotesi in cui risulti
che fin dalla costituzione del sodalizio criminoso o dalla adesione ad esso, un determinato soggetto,
nell’ambito del generico programma criminoso, abbia già individuato uno o più specifici fatti di reato, da
lui poi effettivamente commessi (Cass. sez., I, sent. 06530, 18/12/1998-02/02/1999, imp. Zagaria V, in
CED RV. 212348).
Questo è il concetto che si attaglia al reato di cui all’art. 74 d.P.R. 309/90 la cui condotta consiste proprio
nell’associarsi allo scopo di commettere più delitti tra quelli previsti dall’art. 73 e che, quindi, non ha
affatto un generico programma bensì sorretto da una intenzione ben precisa degli associati.
Più volte, infatti, si è dovuto ammettere che “il carattere specialistico del programma criminoso,
finalizzato alla commissione di reati connessi al traffico illecito delle sostanze stupefacenti, non consente
di negare, sulla base di una semplice massima d’esperienza, che i singoli reati-fine siano stati ideati sin dal
momento costitutivo dell’associazione (Cass. , sez. VI, sent. 27419, 12/05/2003-25/06/2003, imp.
Mascolo, in CED RV. 225690 ovvero sez. VI, sent. 34479, 12/05/2003-14/08/2003, imp. Piccolo, in CED
RV. 226751).
Insomma, una tale associazione viene costituita proprio al fine di porre in essere i reati di cui all’art. 73
d.P.R. 309/90 per cui non essere contestato che tali reati, persino nell’eccezione comune del termine,
siano connessi tra di loro.
Né si può pretendere che gli associati debbano fin dall’inizio conoscere esattamente modalità e
circostanze dei singoli delitti di acquisizione della droga: si deve ritenere sufficiente ai fini che ci
interessano che i reati siano frutto di determinazioni risalenti ad un’unica elaborazione di fondo (v. in
tema di continuazione, ad esempio, Cass., sez. I, sent02529, 1/06/1992-27/7/1992, ric. Pantellaro, in CED
RV 191459).
Vero è che, come si è accennato, secondo la prevalente giurisprudenza “lo spostamento della competenza
per territorio, determinato da ragioni connessione soggettiva (art. 12 lett. b c.p.p.)non opera qualora la
connessione riguardi taluno soltanto dei soggetti” (Cass. Sez. V, 30 luglio 1993, Bernardini), per cui si
ritiene che “quando l’agente agisce per la commissione di u reato in concorso con altre persone, ignare del
programma individuale ed estranee ai reati precedenti o successivi attuativi dell’unico piano criminoso,
non determina l’estensione agli altri di una connessione derivata” (Cass. Sez. VI, 19 novembre 1997, n.
3444 Cunetto). (v. sez. I, sent 03357, 08/06/1998-26/06/1998, Confl.comp.in proc.Sama e altri, in CED
RV. 210882; sez. I, sent03962, 02/07/1998-16/07/1998Confl.comp.in proc.Di Carlo, in CED RV 211170;
sez. I, sent 03385, 09/03/1995-28/03/1995, imp. Pischedda ed altri, in CED RV. 200701; sez. I, sent.
06908, 18/12/1996-25/01/1997, Confl.comp.tra GIP NA e SA in proc. Ietto ed altri, in CED RV.
206560).
Secondo questo orientamento, in pratica, ai fini della configurabilità della connessione di cui all’art. 12
lett. c) è necessario che ricorrano due condizioni e cioè che sussista il nesso teleologico ovvero di
occasionalità tra i due reati, ed inoltre che i reati siano stati realizzati dalla stesa persona cosicché è stato
spesso ribadito che non si verifica spostamento della competenza per connessione prevista dall’art. 12 lett.
b) e c) c.p.p. qualora i reati siano stati commessi da soggetti diversi (cfr. ancora Cass., sez. III, sent.
02731, ud. 26 novembre 1999, udienza 7 marzo 2000, ric. Bonassisa ed ltro, in CED RV. 215762).
Tale orientamento, tuttavia, non è condiviso da tutti giacché più volte si è affermato che per l’operatività
della connessione di cui alla lettera c) dell’articolo 12 c.p.p. contrariamente a quanto statuito per la ipotesi
di cui alla precedente lettera b) dello stesso articolo , non è richiesto che i reati siano ascritti allo stesso
imputato (cfr. Cass., sez. V, sent. 10041, 13/06/1998-22/09/1998, imp Altissimo ed altri 5, in CED RV.
211391; sez. IV, 10 luglio 1998/10 settembre 1998, Pomicino in CASS. PEN. UTET; Cass, sez. I, sent.
05363, 24/10/1995-1/12/1995, Confl. Comp. GIP Pret. E GIP Trib. Taranto in proc. Urbano, in CED RV
203038; sez. VI, sent. 19 ottobre 2001/7 novembre 2001, n. 39452ric. Berlusconi ed altri, in CASS. PEN.
UTET).
Inoltre, la giurisprudenza ammette che la connessione soggettiva si possa avere anche in relazione ad una
molteplicità di azioni (od omissioni) poste in essere da agenti diversi, in concorso tra loro, ma a
condizione che essi “condividano” il progetto criminoso cui sono finalizzati i vari reati.
Nel caso di specie si deve riconoscere che la tipologia dei reati indica che il disegno criminoso
genericamente inteso, era comune a tutti gli imputati, i quali avrebbero posto in essere tutta la serie di
attività criminose contestate nei capi d’imputazione proprio al fine di lucrare sul commercio della droga
che costituisce l’unico scopo dei delitti sia di associazioni, hanno trafficato nella droga non potevano non
essere consapevoli dell’esistenza di un’organizzazione che procurava loro quantitativi certo non
insignificativi di stupefacente, traendo concreto profitto dalla sua attività.
In ogni caso, non può essere contestato ed è risoluto il fatto che sussiste una evidentissima
interconnessione probatoria fra i reati come previsto dalla lett. b) dell’art. 371 c.p.p.
Sul piano probatorio i reati associativi ed i reati-fine denotano indefettibili e significativi momenti di
connessione: l’esistenza dell’associazione costituisce, già di per sé, un grave indizio oggettivo della
commissione dei delitti di cui all’art. 73 d.P.R. 309/90 da parte degli stessi associati o di altri soggetti e
per converso, la rilevanza dell’accertamento dei singoli reati-fine sta nell’efficacia probatoria che tale
accertamento può avere al fine di dimostrare la riconducibilità di essi non ad occasionali accordi
criminosi, ma ad un accordo sociale stabile, qualificante la fattispecie associativa(v. cass. 8 luglio 1991,
Mendella, in Cass. pen. 1992, 3027).
Per altro verso, nel presente processo va tenuto nel massimo conto il fatto che l’accertamento di quasi tutti
i reati in materia di stupefacenti è fondato sulle dichiarazioni accusatorie di chiamanti in correità a cui
devono essere applicate innanzitutto le disposizioni dell’art. 192 c.p.p.
E la norma di cui al terzo comma dell’art. 192 istituisce un collegamento fra i reati da intendersi come un
vero e proprio rapporto di connessione probatoria.
Un collegamento ravvisabile quando un unico elemento di fatto proietti la sua efficacia probatoria in
rapporto ad una molteplicità di leciti penali tutti contemporaneamente da esso dipendenti per quanto
attiene alla prova della loro esistenza ed a quella della relativa responsabilità (v. Cass., sez. VI, sent.
08153, 30/03/1992-22/07/1992, ric. Macrì, in CED RV. 191405)
Quando un imputato renda dichiarazioni accusatorie plurime, la valutazione probatoria, ai sensi dell’art.
192, comma terzo, c.p.p. tenuto conto della stretta connessione delle vicende oggetto delle dichiarazioni
risultante tra i fatti oggetto delle dichiarazioni direttamente riscontrate ed i fatti di cui alle ulteriori accuse,
per essere gli uni prodromi degli altri, impone una unitaria valutazione della loro attendibilità (Cass., sez.
II., sent. 04000, 19/02/1993-26/04/1993, ric. Fedele ed altri; in CED RV 193923; sez. VI, sent. 02856,
14/10/1993-27/11/1993, ric. Corlito ed altri, in CED RV. 198452; sez. VI, sent. 04108, 17/02/199619/04/1996, ric. Cariboni ed altri, in CED RV. 2044399.
Al riguardo, le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno fatto presente che “le dichiarazioni rese da
persona imputata di un reato collegato a quello per cui si procede nel caso previsto dall’art. 371, comma
2 lett. b) c.p.p., da valutare unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità, ai
sensi dell’art. 192, quarto comma, c.p.p., sono quelle rese da imputato di un reato che sia collegato a
quello per cui si procede con un vero e proprio rapporto di connessione probatoria, ravvisabile quando
un unico elemento di fatto proietti la sua efficacia probatoria in rapporto ad una molteplicità di illeciti
penali, tutti contemporaneamente da esso dipendenti per quanto attiene alla prova della loro esistenza ed
a quella della relativa responsabilità (Sezioni Unite, sent. 01048, del 01/02/1992, ud. 06/12/1991 imp.
Scala e altri, in CED RV 189181).
Nell’occasione è stato anche precisato che si tratta di una ben definita ipotesi di connessione materiale
oggettiva per sui essa si applica al di là delle limitazioni che si sono richiamate a proposito della
connessione soggettiva.
In definitiva, non può nono essere rilevato che l’attuale codice contiene una disciplina, sia in tema di
connessione di procedimenti (art. 12) – più rigorosa e restrittiva rispetto a quella prevista nel codice
abrogato -, sia in materia di riunione e separazione dei processi (artt. 17 e 18) dalla quale emerge nel
complesso un evidente favor per la separatezza dei processi, ritenuta utile soprattutto al fine di una
maggior speditezza degli stessi.
Ma tale scelta del legislatore, la quale può o deve, in varie ipotesi, comportare la celebrazione separata di
procedimenti pur tra loro connessi o collegati non può, senza violare il principio di ragionevolezza, avere
influenza alcuna sia sua regime probatorio degli atti sia alla valutazione delle prove dal momento che il
compito del processo penale è l’accertamento della verità.
Pertanto, la scelta della riunione dei procedimenti costituisce una valutazione assolutamente discrezionale
tanto vero che non esiste alcuna forma di impugnazione avverso la decisione in materia anche perché
appare assolutamente ragionevole e conforme a giustizia, sulla falsariga di quanto dettato dalle stesse
previsioni normative, valorizzare la necessità della migliore valutazione probatoria.
Questo giudice, quindi, ritiene oltremodo opportuno che restino uniti nel presente procedimento quei reati
per i quali si rilevano decisivi che l’accertamento della loro sussistenza e delle responsabilità individuali
non solo l’esame dei reati associativi ma anche una valutazione globale di tutto il materiale processuale.
Di conseguenza in tale ottica si ravvisa la necessità riuniti ai reati associativi, tenuto conto sia della
connessione in generale che degli aspetti di interconnessione probatoria come detto, i reati di cui ai capi
2), 3), 4), 5), 6), 7),9), 10), 11), 13), 14), 15), 16), 17), 18), 19), 24), 25), 26), 27), 28), 29) 30) in
riferimento alla detenzione, vendita e trasporto di stupefacente, 31), 32), 34), 35), 36), 38), 39), 40), 41),
44), 45), 46), 48), 49), 53), 54), 55), 56), 59), 60).
Sussistono, inoltre, chiare esigenze probatorie per la provenienza delle accuse, tenuto conto del contesto
del traffico di stupefacente, i relazione ai reati di cui ai capi 20), 21), 23), 50), 51), 57), 58) e 61).
Non sussiste, invece, alcuna ipotesi di connessione in ordine ai reati di cui ai capi 62) e 68) che devono
essere trasmessi all’A.G. normalmente competente.
C) Infine, gli altri reati non attinenti agli stupefacenti sono completamente avulsi da tutto il resto del
processo per cui non si ravvisano ragioni perché restino in questa sede riuniti agli altri di cui si è detto” (omissis).
=°=°=
Tribunale di Verona – Ufficio del Giudice per l'Udienza Preliminare – Sent. n. 218 del 12.02.2003 – Est.
Sperandio – Imp. XY
Sequestro di persona di cui all'art. 3 L. 718/85 – Presupposti della fattispecie – Minaccia di morte
rivolta all'ostaggio finalizzata a costringere un terzo a tenere o a desistere dal tenere una
determinata condotta – Sufficienza – Fattispecie in tema di rapina
(art. 3 L. 718/1985)
(*)
“La grave violazione di cui allla L.718/1985 sussiste solo per il fatto che si sia posto sotto
minaccia di morte un ostaggio allo scopo di indurre un soggetto, comprese le forze dell'ordine, dal
desistere dal compiere un atto, quale è quello di arrestare i colpevoli di una rapina”
=°=°=
Corte d'Appello di Venezia – Terza Sezione Penale – Sent. n. 2186 del 05.12.2003 - Pres. ed Est. Scarpari
– Imp. XY
Sequestro di persona di cui all'art. 3 L. 718/85 - Norma introdotta a
ratifica ed esecuzione di convenzione internazionale contro la cattura
degli ostaggi in funzione della lotta al terrorismo – Rilevanza sotto il profilo
interpretativo/applicativo della norma di tale origine - Esclusione
(art. 3 L. 718/1985) (*)
“La L. 718/85 è, in effetti, stata varata dal Parlamento italiano in esecuzione della Convenzione
Internazionale di New York del 18/12/1979 che disponeva in merito alla cattura degli ostaggi e che fa
parte di un complesso di norme volte a contrastare il terrorismo; tuttavia l'origine di tale normativa non
può stravolgere il significato letterale delle disposizioni poi effettivamente deliberate dalle nostre
Camere.
Conseguentemente l'art. 3 della legge citata - nella parte in cui prevede la sanzione penale per chi
sequestra una persona al fine di costringere un terzo, sia questi una persona fisica o giuridica, a
compiere un qualsiasi atto o ad astenersene, subordinando la liberazione della persona sequestrata a tale
azione od omissione - non presuppone che la condotta delittuosa abbia connotazione terroristica”
(*).
La fattispecie, presa in esame nell'ambito del medesimo procedimento dall'autorità giudiziaria veronese
prima (nel giudizio di primo grado) e veneziana poi (nel giudizio d'appello) era - in sintesi - la seguente:
nel corso di una rapina, gli esecutori del delitto avevano puntato una arma giocattolo al collo di un
dipendente dell'ufficio postale rapinato, lo avevano minacciato ripetutamente di morte e lo avevano
utilizzato quale “scudo umano”, al fine di far desistere i Carabinieri, accorsi sul luogo del fatto,
dall'intervenire, così da riuscire ad allontanarsi. Nel processo, oltre al delitto di rapina, veniva contestato
anche il grave reato previsto dall'art. 3 L. 718/1985 che sia il primo Giudice che la Corte d'Appello hanno
ritenuto configurabile nel caso di specie, ancorche tale delitto sia stato introdotto nel nostro ordinamento
in esecuzione di una Convenzione Internazionale contro la cattura di ostaggi stipulata al fine di contrastare
il terrorismo.
Sul delitto di cui all'art. 3 L. 718/1985 non si rinvengono significativi
precedenti giurisprudenziali editi.
=°=°=
Tribunale di Venezia – Ufficio del Giudice Monocratico Penale – Sent. n. 1035 del 11.06.2004 – Est.
Bitozzi – Imp. XY
Infortuni sul lavoro – Destinatari delle norme – Datore di lavoro – Comportamento anomalo del
lavoratore idoneo ad interrompere il nesso di causalità – Requisiti
(art. 589 cp, DPR 164/1956)
“Le norme antinfortunistiche sono dettate al fine di ottenere la sicurezza delle condizioni di
lavoro e di evitare incidenti ai lavoratori in ogni caso e cioè anche quando essi per disattenzione,
leggerezza, imprudenza o sprezzanza del pericolo, possono aver contribuito a cagionare l'evento. Ne
consegue che, solamente una condotta del lavoratore del tutto anomala in quanto esorbitante dal sistema
di lavorazione predisposto dal datore di lavoro ovvero dalle direttive organizzatinve ricevute dallo
stesso, può integrare gli estremi di una colpa tale (in capo al lavoratore) da escludere la responsabilità
del datore di lavoro”
=°=°=
Tribunale di Venezia – Ufficio del Giudice Monocratico Penale – Sent. n. 492 del 19.03.2004 – Est.
Bitozzi – Imp. XY
Infortuni sul lavoro – Destinatari delle norme – Qualifica di preposto – Esame delle mansioni
effettivamente svolte – Necessità
(Artt. 4 DPR 547/1955 e 1, comma 4 bis, D. L.vo 626/94)
Infortuni sul lavoro – Destinatari delle norme – Preposto - Obbligo di predisporre i mezzi
antinfortunistici – Esclusione – Obbligo di vigilare sull'attuazione delle misure di sicurezza –
Sussistenza
(Artt. 4, 26 e 27 DPR 547/1955 e 1, comma 4 bis, D. L.vo 626/94)
“Le norme di cui agli artt. 4 del DPR 547/55 e 1, comma 4 bis D.L.vo 626/94 vanno interpretate
nel senso che la qualifica di preposto si ricava, non da attribuzioni, investiture e deleghe formali, quanto
con riferimento alle mansioni effettivamente svolte nell'impresa, secondo il cosiddetto 'principio di
effettività'. Ne consegue che chiunque si trovi, di fatto, in una posizione tale da poter dirigere,
sovrintendere l'attività lavorativa di altri operai soggetti ai suoi ordini ed istruzioni, assume la qualifica
di preposto ed è tenuto, a norma dei suddetti articoli, all'attuazione delle prescritte misure di sicurezza ed
al controllo del loro rispetto da parte dei lavoratori.“
“Al preposto non compete, certo, la predisposizione dei mezzi antinfortunistici, essendo questo
un obbligo esclusivo del datore di lavoro (salvo che non vi sia la prova rigorosa di una delega
espressamente e formalmente conferita al preposto). Diversamente compete senz'altro al preposto, per la
mera posizione fattuale di supremazia rispetto agli altri lavoratori, l'obbligo di vigilare sull'attuazione
delle misure di sicurezza, l'obbligo di informare i lavoratori circa i rischi cui sono esposti, l'obbligo di
verificare la conformità alla legge dei presidi antinfortunistici predisposti dal datore di lavoro e,
conseguentemente, l'obbligo di impedire l'utilizzazione di quelli che - per inidoneità originaria o
sopravvenuta - siano pericolosi per l'incolumità del lavoratore che li utilizza.” (Fattispecie nella quale –
riconosciuta la qualifica di preposto in capo al responsabile di un laboratorio di analisi ambientali – è stata
pronunciata sentenza di condanna per il reato di lesioni personali colpose, aggravato dalla violazione della
normativa antinfortunistica, in quanto il preposto aveva consentito che un lavoratore utilizzasse una scala
ed una impalcatura senza presidi di sicurezza volti a scongiurare il pericolo di cadute a terra dall'alto.)
=°=°=
Tribunale di Asti – Sezione del Riesame – Ord. n. 69 del 29.07.2004 – Pres. Bernardini – Est. Lippi – Ind.
XY
Pornografia minorile – Attvità di contrasto della P.G. ai sensi dell'art. 14 L. 269/98 – Acquisto
simulato di materiale pornografico in assenza di autorizzazione preventiva della Autorità
Giudiziaria – Inutilizzabilità
(artt. 191 cpp e 14 L.269/1998)
Pornografia Minorile – Reato di detenzione di materiale pornografico di cui all'art. 600 quater cp –
Elementi di prova acquisiti tramite intercettazioni di comunicazioni informatiche e telematiche –
Inutilizzabilità – Ragioni
(artt. 600 quater cp, 191, 266, 266 bis cpp, 12 L. 269/1998)
“L'art. 14 L. 269/98 disciplina rigorosamente le attività di contrasto, come l'acquisto simulato di
materiale pedopornografico o l'attivazione sotto copertura di siti che lo commercializzano, stabilendo
che, in vista della gravità e dell'allarme sociale di specifici reati ( artt. 600 bis primo comma, 600 ter
commi primo, secondo e terzo e quinquies del codice penale) la polizia giudiziaria - in forza di
provvedimento del giudice - sia autorizzata a svolgere, in via del tutto eccezionale, un vero e proprio
ruolo di agente provocatore. Ove l'attività di contrasto sia svolta in assenza di autorizzazione della
Autorità Giudiziaria si verifica una inutilizzabilità rilevabile d'ufficio in qualsiasi stato e grado del
procedimento ai sensi dell' art. 191 cpp.”
“Gli elementi di prova del reato di detenzione di materiale pornografico di cui all'art. 600
quater cp, che siano stati acquisiti nell'ambito di attività di contrasto di cui all'art. 14 L. 269/98 e/o
mediante intercettazioni telematiche disposte ex art. 266 bis cpp, sono assolutamente inutilizzabili ai
sensi dell'art. 191 cpp; infatti la attività di contrasto e le operazioni di intercettazione suddette sono
possibili, ex lege, solo ai fini dell'accertamento dei delitti di cui agli artt. 600 bis primo comma, 600 ter,
commi primo, secondo, terzo e 600 quinquies del codice penale, onde - ove si oltrepassino i rigorosi
limiti fissati dalla norma - l'acquisizione delgi elementi di prova deve considerarsi, non solo irregolare o
illegittima, ma addirittura illecita” (Fattispecie nella quale la polizia giudiziaria, al fine di accertare la
attività delittuosa connessa alla commercializzazione di materiale pedopornografico, aveva effettuato
degli acquisti simulati di detto materiale senza chiedere ed ottenere l'autorizzazione della autorità
giudiziaria di cui all'art. 14 L. 269/98; sulla base degli elementi acquisiti tramite l'attività di contrasto non
autorizzata erano state disposte delle intercettazioni dei flussi telematici ed emessi dei decreti di
perquisizione e sequestro)
=°=°=
Tribunale di Sorveglianza di Venezia - Ord. n. 1929/04 del 29.6.04 - Pres. Est. Cappelleri - Ist. XY
Liberazione anticipata - Istanza formulata da persona affidata in prova ai servizi sociali per scopi
terapeutici - Ammissibilità - Ragioni.
(Artt. 3 e 4 L. 277/2002, 47 e 54 L. 354/1975, 94 D.P.R. 309/1990)
“E’ ammissibile l’istanza volta ad ottenere la liberazione anticipata in relazione alla pena
espiata in regime di affidamento in prova per scopi terapeutici.” (Fattispecie in cui il Tribunale di
Sorveglianza di Venezia, a seguito di reclamo, annullava in parte qua l’ordinanza emessa dal Magistrato
di Sorveglianza di Venezia che aveva ritenuto inammissibile la richiesta di detrazione di pena avanzata da
condannato affidato in prova ex art. 94 D.P.R. 309/1990).
L’ordinanza così motiva:
(omissis) - “Il Tribunale ritiene che la questione di ammissibilità vada rimeditata, rispetto a precedenti
pronunce di questo stesso giudice, dovendosi ritenere per contro l’ammissibilità dell’istanza.
Invero, se innegabilmente la norma prima menzionata (art. 3 L. 277/2002, n.d.r.) è formulata in maniera
ambigua, perché non distingue ai fini dell’applicazione della liberazione anticipata tra i due regimi di
affidamento in prova, non includendo espressamente l’affidamento terapeutico nella propria dizione,
tuttavia non può essere sottovalutato l’argomento per cui, estendendo la liberazione anticipata agli affidati
al servizio sociale (sic), la legge si è riferita ad un genus, dentro il quale le forme specifiche di
affidamento sono species incluse. La più diretta letteralità della norma indica, allora, in tal modo, tutti gli
istituti dell’affidamento, nulla essendo statuito in diverso senso.
Del resto, il comma 6 dell’art. 94 DPR 9.10.1990 n. 309 stabilisce che all’istituto della prova terapeutica,
introdotto con tale disposizione, “si applica, per quanto non diversamente stabilito, la disciplina prevista
dalla L. 26.7.1975 n. 354 come modificata dalla L. 10.6.1986 n. 663”; dunque, anche normativamente le
due forme di affidamento ex art. 47 L. n. 354/’75 ed ex art. 94 DPR Stup. sono affiancate salvo quanto
non venga diversamente (ma allora, espressamente) stabilito. Nel caso in esame, la legge che ha esteso la
concedibilità della liberazione anticipata, non ha distinto in nulla tra i due regimi; non vi sono motivi
quindi per ritenere che ad entrambi non debba applicarsi la medesima e comune regola.
E’stato ritenuto (e ciò fonda la decisione del Magistrato qui reclamata) che l’intera conformazione
dell’istituto di cui all’art. 94 cit. è differente rispetto all’affidamento ordinario, essendo l’esperimento
speciale improntato a finalità specificamente terapeutiche, alle quali è sotteso uno sviluppo incompatibile
con le scorciatoie di pena, perché la terapia necessita di tempistiche cadenzate e prestabilite, in definitiva
non mutabili senza discapito dell’esperimento di recupero.
Ma in contrario va osservato che in realtà anche l’affidamento ordinario è ancorato a un percorso di
recupero sociale, benchè non terapeutico, il quale pure, a causa dell’abbreviazione del tempo (di misura
alternativa) originariamente stabilito per il suo corso, può soffrire delle medesime incompletezze di
svolgimento. Senza addentrarsi nella problematica inerente alla effettiva natura di malattia della
tossicodipendenza, e solo evocando anche le posizioni scientifiche che negano trattarsi di una malattia in
senso proprio, e che riportano invece lo stato di tossicodipendenza ad una situazione di disagio sociale
non qualificabile in senso patologico (col che, ancor più si accosta il parallelo fra le due forme di
affidamento in discussione); rimane, decisivamente, in ordine alla compatibilità della riduzione di pena
con gli effetti socialpreventivi e c.d. terapeutici, l’osservazione per cui l’intervento modificativo della
durata della misura alternativa, demandato al giudice mediante la recente modifica della misura della
riduzione della pena, può operare positivamente o negativamente sul percorso (terapeutico o non che sia)
di recupero sotteso alle misure di probation, tanto rispetto al percorso ordinario che a quello terapeutico.
Spetta allora al giudice, a ciò delegato, di non determinare indebite inefficienze del recupero sociale,
operando mediante una oculata analisi del merito della vicenda. Se in sostanza il recupero già maturato è
di tal grado da rispondere ai parametri di legge (che sono differenti e più impegnativi rispetto a quelli
ordinariamente applicati al detenuto) per poter ritenere la relativa completezza già del percorso
rieducazionale, fino al punto di rendere inutile l’integrale espiazione, allora risulta logico ridurre il corso
della misura anche rispetto ad una terapia che potrebbe risultare inutilmente allungata; in caso contrario,
dovrà ritenersi che la stessa necessiti ancora del suo integrale corso.” (omissis).
NOTA
L’ordinanza in commento assume particolare rilievo dal momento che con essa il Tribunale di
Sorveglianza di Venezia ha sovvertito la propria consolidata giurisprudenza, secondo cui la richiesta di
liberazione anticipata avanzata dal condannato in regime di affidamento in prova terapeutico, ex art. 94
D.P.R. 309/’90, era da ritenersi inammissibile 21. Tale orientamento era mutuato dai provvedimenti in
materia del Magistrato di Sorveglianza veneziano, che si fondavano su un triplice ordine di
considerazioni.22
In primis, si attribuiva rilevanza determinante al fatto che la novella introdotta dall’art. 3 della L. 277/2002, avesse
esteso l’applicabilità dell’istituto della liberazione anticipata ai soli periodi espiati in regime di affidamento in prova
ordinario, senza far menzione dell’istituto disciplinato dall’art. 94 D.P.R. 309/’90.
Tale dato di fatto sarebbe idoneo a rivestire qualche pregio se dalla ratio della citata L. 277/2002 trasparisse la precisa
volontà del Legislatore di escludere l’affidamento in prova in casi particolari dall’estensione prevista per
l’affidamento in prova ordinario.
Così, tuttavia, non è, dal momento che analizzando i lavori parlamentari sottesi alla normativa in parola, si
evince che, anzi, l’applicabilità del beneficio di cui all’art. 54 O.P. a chi si trovi in stato di affidamento in
prova ai servizi sociali, è stata ritenuta in Commissione Giustizia, dopo l’intervento decisivo sul punto del
Senato, come “elemento di giustizia sostanziale”, “segnale “importante, favorevole all’omogeneizzazione
del sistema”, nell’ottica di “incoraggiare tutte le forme di reinserimento sociale “rendendole ancora più
premiali” 23.
Acclarato, pertanto, come le motivazioni che hanno portato all’approvazione definitiva dell’art. 3 L.
277/2002, per il loro contenuto generale, ben si attaglino all’istituto contemplato dall’art. 94 D.P.R.
309/’90, appare evidente che la sua mancata previsione nell’ambito della citata norma, più che ad una
scelta consapevole, debba ricondursi ad una mera svista del Legislatore.
Il Magistrato di Sorveglianza, poi, poneva a sostegno della propria tesi la sentenza n. 377/1997 della Corte
Costituzionale che avrebbe posto una fondamentale distinzione fra l’affidamento in prova terapeutico e quello
ordinario, tale da rendere i due istituti per nulla sovrapponibili.
Giova, tuttavia, rammentare come con la prefata pronuncia il Giudice delle Leggi abbia ritenuto
l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento all’art. 32 Cost.,
dell’art. 67 L. 689/’81, in relazione all’art. 94 D.P.R. 309/’90, nella parte in cui il divieto di concessione
dei benefici dell’affidamento in prova ai servizi sociali e della semilibertà previsto, ex art. 67 L. 689/’81,
per i condannati in espiazione di pena detentiva derivante dalla conversione delle pene sostitutive della
semidetenzione o della libertà controllata, si estenderebbe all’affidamento in prova in casi particolari
disciplinato dall’art. 94 D.P.R. 309/’90.
E’ con riferimento a questa specifica problematica che la Consulta ha ritenuto di mettere in luce gli elementi
caratterizzanti l’affidamento in prova a fini terapeutici rispetto a quello ordinario, tenendo ben presente il fatto che la
questione della quale era stata investita, concerneva, secondo il Giudice rimettente, l’applicazione analogica in malam
partem del divieto sancito dall’art. 67 L. 689/’81 alla concedibilità dell’affidamento ex art. 94 D.P.R. 309/’90,
fattispecie, quindi, diametralmente opposta a quella che riguarda.
Da ultimo, veniva ravvisata l’incompatibilità della perdurante vigenza di un programma terapeutico con il requisito
dell’ “intervenuto recupero sociale posto dalla legge a fondamento della decisione di riduzione della pena per
liberazione “anticipata”.
Una siffatta premessa in ordine al presupposto oggettivo per la concessione del beneficio in parola - individuato,
rispettivamente, dall’art. 54 O.P., nell’aver dato il condannato “prova di partecipazione all’opera di rieducazione”, e
dall’art. 47, co. 12 bis O.P., nella prova fornita dal medesimo, nel periodo di affidamento, “di un suo concreto
recupero sociale, “desumibile da comportamenti rivelatori del positivo evolversi della sua personalità” - finisce,
inevitabilmente, per compromettere la validità delle conclusione secondo cui la durata del piano trattamentale previsto
dall’art. 94 D.P.R. 309/’90 non potrebbe subire “riduzioni non tecniche, cioè non legate al reale recupero del
soggetto”.
Al riguardo, appare opportuno osservare come la prova del concreto recupero sociale che è chiamato ad offrire il
condannato tossicodipendente, il quale si trovi affidato in prova a’sensi dell’art. 94 D.P.R. 309/’90, sia decisamente
più rigorosa di quella richiesta all’affidato in prova ex art. 47 O.P., dal momento che, oltre ad attenersi
scrupolosamente alle prescrizioni impostegli dal Tribunale di Sorveglianza, egli deve, altresì, osservare il programma
terapeutico concordato.
E’ così che la positiva valutazione effettuata dagli Organi preposti a relazionare il Magistrato di Sorveglianza,
relativamente al rispetto tanto delle prescrizioni, quanto del programma terapeutico da parte del condannato, che siano
sintomo di un concreto recupero sociale, da intendersi qui come riscatto da una scelta di tossicodipendenza, e non
21
Cfr., Tribunale di Sorveglianza di Venezia, Ord. /03, con nota di F. Bassetto in Bollettino della Camera Penale Veneziana, n. 1/2003, pag.
12;
22
23
Cfr., Magistrato di Sorveglianza di Venezia, Ord. 19.1.04, n. 942/03 LA;
Cfr., resoconto stenografico della seduta di mercoledì 4 dicembre 2002, in seno alla Commissione Giustizia della Camera dei
Deputati,
intervento dell’On.le Vitali, pag. 4, in www.camera.it.
come rimozione della tossicodipendenza, fa sì che la riduzione di pena operata per la concessione della liberazione
anticipata comporti anche un giudizio inevitabilmente connesso col progresso del soggetto verso il suo “ reale
recupero”.
Il Tribunale distrettuale, nell’aderire alla richiesta difensiva di applicazione estensiva, in bonam partem, dell’art. 47,
co. 12 bis O.P., siccome introdotto dall’art. 3 L. 277/2002, all’ipotesi di affidamento in prova in casi particolari
disciplinata dall’art. 94 D.P.R. 309/’90, ha ritenuto l’ammissibilità della richiesta ponendo l’accento, in particolar
modo, sul fatto che è compito del Giudice, cui è demandata la valutazione dell’opportunità o meno della concessione
della riduzione della pena per la liberazione anticipata, non determinare indebite inefficienze del recupero sociale
sotteso alle misure di probation, abbiano esse finalità terapeutiche o non, affrontando con estrema attenzione il merito
della vicenda, di tal che se il recupero già maturato in capo al condannato rientri nei parametri di relativa completezza
dell’iter rieducazionale previsti dalla Legge, tanto da rendere superflua l’integrale espiazione, allora risponderà a
logica operare una riduzione della durata della misura anche nei confronti di un programma terapeutico che non si
avrebbe motivo di prolungare. [Federico Cappelletti]
SEZIONE SECONDA – DIRITTO PROCESSUALE PENALE
°*°*°
Tribunale di Venezia – Ufficio del Giudice per l'Udienza Preliminare – Ord. 21.6.2004 - Est. G. Gallo –
Imp. XY
Competenza penale – Reati indicati all'art. 51, comma 3 bis, cpp - Competenza funzionale del
G.U.P. indicato agli artt. 328, comma 1 bis, cpp e 4 bis D.L. 82/2000 – Illegittimità costituzionale
delle due norme per violazione dell'art. 25 Cost. - Manifesta infondatezza - Ragioni
(art. 25 Cost, art. 328 co. 1 bis cpp, art. 4 bis D.L. 7 aprile 2000 n. 82)
“E' manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 328, co. 1 bis,
cpp e 4 bis D.L. 82/2000 sollevata con riferimento alla violazione del principio del giudice naturale (art.
25 Cost.) in relazione alla .previsione secondo cui, nei procedimenti per i delitti indicati all' art. 51,
comma 3 bis, cpp, le funzioni di G.U.P. siano esercitate dal Magistrato del Tribunale del capoluogo del
distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente. Invero il criterio normale per determinare la
competenza per territorio è quello individuato dall'art. 8 c.p.p. (il giudice del luogo in cui si è verificato
il reato, cd. 'forum commissi delicti'), ma ben possono esistere delle previsioni normative che
privilegiano altri criteri di determinazione della competenza in ragione di interessi ritenuti dal
legislatore ugualmente meritevoli di tutela.
Il principio sancito dall'art. 25 Cost.- secondo la lettura datane più volte dalla Corte Costituzionale - va
inteso solo come esigenza del giudice precostituito per legge. Ed, a proposito dei delitti di cui all'art 51
ter cpp, il legislatore ha stabilito una speciale attribuzione ad un determinato P.M. ed una speciale
competenza funzionale del giudice dell'udienza preliminare (ed eventualmente del giudizio abbreviato);
si tratta di una valutazione discrezionale che non può essere sindacata dalla Corte Costituzionale.”
=°=°=
Tribunale di Venezia – Ufficio del Giudice per l'Udienza Preliminare – Ord. 21.6.2004 - Est. G. Gallo –
Imp. XY
Prova – Prova a contenuto dichiarativo formatasi anteriormente all'entrata in vigore della L.
63/2001 – Rinnovazione dell'interrogatorio ai sensi dell'art. 26 L. 63/2001 – Necessità di pedissequa
ripetizione delle precedenti dichiarazioni – Esclusione – Mera generica conferma di quanto in
precedenza dichiarato - Sufficienza
(artt. 64 cpp, 197 bis cpp, art. 26, comma 2, L. 1 marzo 2001)
“Ai fini dell'utilizzabilità delle dichiarazioni, rese da taluno dei soggetti indicati negli artt. 64 e
197 bis c.p.p. dei quali il pubblico ministero abbia dovuto rinnovare l'interrogatorio ai sensi dell'art. 26,
comma 2, della legge 1 marzo 2001 sul cd. “giusto processo”, non è necessario che la rinnovazione
avvenga mediante pedissequa ripetizione delle precedenti affermazioni, essendo sufficiente che la
persona interrogata si limiti a confermare il contenuto di quanto in precedenza dichiarato.”
=°=°=
Tribunale di Venezia – Ufficio del Giudice Monocratico Penale – Ord. 28/09/2004 –
Est. Bitozzi – Imp. XY + altri
Parte civile - Costituzione – Enti e associazioni rappresentativi – Tutela dell’ambiente –
Legittimazione ex artt.185 cp, 74 cpp, 2043 cc – Sussistenza Condizioni (1)
(Artt. 74 91 cpp, 185 cp, 2043 cc)
Parte civile – Estensione dell'azione al responsabile civile citato da altri e costituitosi
in giudizio – Ammissibilità – Ragioni (2)
(artt. 74, 76,78,83, 843, 85,86 cpp)
(1) “In ipotesi di reato di pericolo e/o di danno nei confronti dell'ambiente, va riconosciuta la
legittimazione a costituirsi parte civile degli enti e delle associazioni ambientaliste (anche quelle non
riconosciute ax art 13 della legge 349/86) il cui fine statutario sia volto alla tutela di interessi
riconosciuti e protetti dalla carta costituzionale, come quello alla salute o all'ambiente salubre, e delle
quali sia dimostrato un fattivo intervento per il raggiungimento dello scopo sociale nell'ambito
territoriale interessato dall'azione criminosa. La costituzione di p.c. è ammessa sia per la lesione del
diritto soggettivo alla salubrità dell'ambiente riferito all'ente esponenziale della comunità ove si trova il
bene collettivo aggredito dall'azione delittuosa, sia per la lesione del diritto di personalità del sodalizio
che si estrinseca mediante il raggiungimento del suo scopo. Il fondamento di detta tutela va ravvisato
nella generale azione aquiliana di cui all'art 2043 c.c”
(2) “Giurisprudenza ormai consolidata riconosce la possibilità per la parte
civile che non abbia citato il responsabile civile di estendere la domanda contro il
responsabile civile che sia stato citato da altra parte o che sia volontariamente
intervenuto nel processo, in quanto il decreto autorizzatorio alla citazione del R.C. è
necessario solo per l'introduzione di detta parte nel giudizio, ma non per l'ulteriore
proposizione di domande nei confronti da parte di altre parti civili”
L'ordinanza così motiva:
(omissis) - “Secondo ormai consolidata giurisprudenza di legittimità (vedi, tra le più recenti, Cass. III
sez 26.09.96 n. 8699) e di merito, anche di questo Tribunale (vedi note ordinanza del GUP di Venezia
23.07.97, 13.03.01, e del giudice monocratico di Venezia 29.05.01, 31.10.02), che il sottoscritto giudice
condivide pienamente, va riconosciuta la legittimazione a costituirsi parte civile degli enti e delle
associazioni ambientaliste (anche quelle non riconosciute ax art 13 della legge 349/86) il cui fine
statutario sia volto alla tutela di interessi riconosciuti e protetti dalla carta costituzionale, come quello
alla salute o all'ambiente salubre, e delle quali sia dimostrato un fattivo intervento per il raggiungimento
dello scopo sociale nell'ambito territoriale interessato dall'azione criminosa. Quando, cioè, l'interesse
diffuso (salute, ambiente salubre) da esse perseguito sia volto alla salvaguardia di una situazione
storicamente circostanziata, la quale sia stata fatta propria come scopo specifico del sodalizio e ragione
della sua esistenza, ogni pregiudizio a detta finalità, che esprime l'affectio societatis, comporta una
lesione al diritto di personalità del'associazione per la frustrazione e l'afflizione degli associati. La
costituzione di p.c. è, dunque, ammessa sia per la lesione del diritto soggettivo alla salubrità
dell'ambiente riferito all'ente esponenziale della comunità ove si trova il bene collettivo aggredito
dall'azione delittuosa, sia per la lesione del diritto di personalità del sodalizio che si estrinseca mediante
il raggiungimento del suo scopo. Il fondamento di detta tutela, anche a non voler "scomodare" la
previsione specifica di cui all'art 18 della legge istitutiva del Ministero dell'Ambiente (che secondo una
lettura meramente formale datane da dottrina e giurisprudenza parrebbe riconoscere l'azione per danno
ambientale solo allo Stato ed agli enti territoriali minori, riservando alle associazioni ambientaliste un
mero potere di intervento ex artt 91 e segg c.p.p. nei giudizi per danno ambientale promossi dai primi),
va ravvisato nella generale azione aquiliana di cui all'art 2043 c.c. La speciale previsione dell'art 18
Legge 349/86, infatti, non esclude la configurabilità di ulteriori posizioni giuridiche meritevoli di tutela
in capo a soggetti, diversi dagli enti territoriali, i quali abbiano fatto del fine di tutela dell'ambiente e del
perseguimento dell'interesse collettivo all'ambiente salubre, il proprio scopo sociale. In detti casi,
l'identificazione dello scopo dell'associazione con la finalità di tutela di beni di primaria importanza
come quelli citati, la cui tutela è affidata istituzionalmente agli enti territoriali, non esclude la
differenziazione in capo alle formazioni sociali, mediante le quali si esplica la personalità umana, di un
interesse che non può più definirsi come meramente diffuso bensì come proprio dell'ente privato, in
quanto rivolto ad esprimerne la personalità, e la cui lesione legittima l'azione risarcitoria ex 2043 c.c.
Venendo al caso di specie, entrambe le associazioni di protezione ambientale (WWF Italia e Medicina
Democratica) oltre ad avere finalità statutarie di tutela dell'ambiente e della salute, svolgono da decenni
un'azione continuativa di salvaguardia del territorio ove insiste lo stabilimento teatro dei fatti di cui
all'odierno processo. La documentazione prodotta infatti consente di apprezzare il concreto ed effettivo
interessamento delle formazioni de quibus nel territorio veneziano (ed in particolare in quello lagunare)
anche medianti articolazioni locali, con attività di informazione, di denunzia (da cui hanno avuto origine
anche numerosi procedimenti penali) e di promozione di iniziative atte a tutelare l'ecositema lagunare e
le condizioni di salubrità e sicurezza del comparto petrolchimico di Porto Marghera, circostanze tutte
che, a parere del sottoscritto giudicante, provano il livello di immedesimazione tra l'interesse collettivo
perseguito e lo scopo degli enti predetti. Non vi è dubbio, quindi, che i reati contestai agli imputati, in
quanto produttivi di danno o di pericolo di danno per l'ambiente lagunare, abbiano compromesso o
quantomeno ostacolato le finalità di tutela dell'ambiente e della salute fatte proprie dalle suddette
associazioni e costantemente perseguite...” - (omissis)
=°=°=
Tribunale di Venezia – Sezione distrettuale del Riesame – Ord. 12.08.2003 – Pres ed Est. Liguori – Ind.
XY
Misure cautelari personali – Condizioni e criteri di applicabilità – Esigenze cautelari – Pericolo di
inquinamento probatorio – Nozione
(art. 274 lett. a cpp)
“Il pericolo di inquinamento probatorio presuppone specifiche ed inderogabili esigenze attinenti
alle indagini fondate su precise circostanze di fatto: tali essendo tutte quelle situazioni dalle quali sia
possibile evincere che l'indagato possa realmente turbare il processo formativo della prova
ostacolandone la ricerca o inquinando le relative fonti.” (Fattispecie nella quale il Tribunale del Riesame
ha escluso la ricorrenza dell'esigenza cautelare in parola, che - viceversa - era stata ritenuta sussistere dal
Gip in relazione alla affermata necessità di individuare i fornitori di persona arrestata con circa quaranta
grammi di cocaina)
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Tribunale di Venezia – Sezione distrettuale per il riesame – Ord. 15.01.2004 – Pres. Ed Est. Risi – Ind.
XY
Misure cautelari personali – Revoca o sostituzione – Istanza fondata su elementi nuovi o diversi da
quelli già valutati – Provvedimento di reiezione adotato senza previo interrogatorio dell'indagato
che ne aveva fatto richiesta . Legittimità – Condizioni
(artt. 178 lett. C, 273, 299 cpp)
“Gli elementi nuiovi o diversi rispetto a quelli già valutati in sede di emuissione della misura
cautelare che impongono la rinnovazione dell'interrogatorio dell'indagato ai sensi dell' art. 299, terzo
comma ter, cpp , devono avere e necessariamente rivestire natura e valenza oggettiva e fattuale e, come
tali, essere concretamente idonei a contrastare gli indizi di colpevolezza e le esigenze cautelari già
valutate. In altri termini, in tema di revoca delle misure cautelari, l'art. 299, terzo comma ter, cpp, va
interpretato in stretta correlazione con il suo primo comma che evoca 'le condizioni prevsite dall' art.
273'; un precetto dal quale è possibile ricavare il grado di incidenza del sopravvenire di una modifica in
senso favorevole all'indagato, nel quadro probatorio offerto dall'accusa, determinato dalla
prospettazione di nuovi fatti capaci di contrastare il valore indiziante degli elementi considerati e
valorizzati in sede di adozione della cautela” (Fattispecie nella quale il Tribunale del Riesame ha ritenuto
che la negazione dell'accusa, la presentazione di una denuncia per calunnia contro il coindagato
chiamante in correità, la richiesta di ascolto di una delle intercettazioni già valutata nel compendio
indiziario da parte del Gip al momneto dell'adozione della misura potessero costituire elementi nuovi e
diversi sopravvenuti ai sensi dell'art. 299, terzo comma ter, cpp; legittimanmte, pertanto, ad avviso dei
Giuidici del Riesame, il GIP aveva rigettato la richiesta di revoca e/o sostituzione della misura formulata
nell'interesse dell'indagato in vinculis senza previamente procedere all'interrogatorio di quest'ulitmo,
incombente che era stato - peraltro - solo prospettato come eventualità nell'istanza respinta.)
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Tribunale di Venezia – Ufficio del Giudice per l'Udienza Preliminare – Ord. 21.6.2004 - Est. G. Gallo –
Imp. XY
Udienza preliminare – Richiesta di rinvio a giudizio – Declaratoria di nullità per insufficiente
enunciazione del fatto - Abnormità
(artt. 417cpp)
Udienza preliminare – Richiesta di rinvio a giudizio – Insufficiente enunciazione del fatto – Nullità
– Esclusione – Tassatività delle nullità
(artt. 417, 429, 177 cpp)
“Sarebbe abnorme l'ordinanza del giudice dell'udienza preliminare che dichiarasse la nullità
della richiesta di rinvio a giudizio per l'insufficiente enunciazione del fatto e disponesse la restituzione
degli atti al P.M.
“Anche a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 16 dicembre 1999 n. 479, nessuna
nullità è prevista per il caso in cui la richiesta di rinvio a giudizio manchi dei requisiti indicati nell'art.
417 cpp e, in particolare, di quello di cui alla lett. b) della norma, attinente all'enunciazione, in forma
chiara e precisa, del fatto. Cosicchè, per il principio di tassatività delle nullità di cui all'art. 177 c pp, non
è consentito al giudice di sanzionare con una tale dichiarazione un'eventuale illegittimià.
La nullità è sanzionata solo dal secondo comma dell'art. 429 cpp in relazione al decreto che dispone il
giudizio e, quindi, riguarda un momento successivo all'udienza preliminare.
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Tribunale di Venezia – Ufficio del Giudice Monocratico Penale – Ord. 17.6.2004 – Est Moretti – Imp.
XY
Dibattimento – Nuove contestazioni – Contestazione supplettiva effettuata dal P.M. in via
preliminare e prima della dichiarzione di apertura del dibattimento – Ammissibilità - Ragioni
(artt. 516, 517, 522 cpp)
“E' ammissibile l'iniziativa del Pubblico Ministero di contestare un reato concorrente subito
dopo il controllo della regolare costituzione delle parti e prima della dichiarazione di apertuta del
dibattimento; deve condividersi, infatti, l'orientamento giurisprudenziale che colloca nella generica fase
del dibattimento, senza specifici limiti temporali o di fonte, l'eventuale esercizio del potere del Pubblico
Ministero di procedere alla modifica dell'imputazione o alla formulazione di nuove contestazioni.”
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Tribunale di Venezia – Prima Sezione Penale Collegiale – Ord. 12.05.2004 – Pres. Risi
– Imp. XY
Dibattimento – Istruzione dibattimentale – Coimputato nel medesimo reato che ha definito la sua
posizione con sentenza irrevocabile resa ex art. 444 cpp - Assunzione della qualifica di testimone
assistito ex art. 197 bis cpp - Sussistenza – Utilizzabilità delle dichirazioni rese prima della novella
di cui alla L. 63/2001 - Esclusione
(artt. 64, 197 bis, 444, 500 cpp)
“Al coimputato nel medesimo reato - che abbia definito la sua posizione con sentenza di
applicazione della pena divenuta irrevocabile, e che sia stato tratto a suo tempo a giudizio prima
dell'entrata in vigore della l. 63/2001 – si applica, in virtù del disposto dei cui all'art. 26 legge citata,
direttamente la disciplina ex novo introdotta; conseguentemente, trovando applicazione i riferimenti
normativi di cui agli artt. 197 e 197 bis cpp, al coimputato nel medesimo reato nei cui confronti sia stata
pronunciata sentenza irrevocabile, va riconosciuta la qualifica di testimone assistito, Peraltro la
discilplina attualmente vigente esclude l'utilizzabilità, ai fini dele contestazioni ex art. 500 cpp, delle
dichiarazioni rese prima dell'entrata in vigore della L. 63/2001 senza la consapevolezza dell'asssunzione
di un dovere di verità”
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Corte d’Appello di Venezia – Seconda Sezione Penale – Ord. 10.06.2004 – Pres.
Aliprandi - Imp. XY
Appello – Rinnovazione dell’istruzione dibattimentale richiesta da una delle
parti – Condizioni – Novità e concreta utilità ai fini decisori delle nuove
prove – Necessità
(artt. 190, 495 603, I° e II° comma, cpp)
Appello – Rinnovazione dell’istruzione dibattimentale disposta d'ufficio –
Eccezionalità dell'istituto – Condizioni – Assoluta indispensabilità delle
nuove prove ai fini della decisione
(art. 603, II° comma, cpp)
“La rinnovazione dell’istruzione, la riassunzione di prove già assunte o
l'assunzione di prove nuove preesistenti o sopravvenute o scoperte
successivamente al giudizio di primo grado possono avvenire, ad istanza di parte
(salvo il diritto delle controparti alla controprova) solo se, in rito, richieste
nell’atto di appello o nei motivi aggiunti e, nel merito, necessarie per la
decisione altrimenti allo stato degli atti non possibile, ovvero - per le sole prove
sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado - nei limiti previsti
dall’art. 495, comma 1, c.p.p. e, dunque, ove sussistenti i requisiti richiesti
dall’art. 190, comma 1, c.p.p.: non divieto di legge, non irrilevanza, non
superfluità; concetti, questi due ultimi, strettamente connessi allo stato di
conoscenza oggettivo del processo e, quindi, soggetti a valutazione ovviamente
condizionata dallo stato o grado in cui versa il procedimento con il suo bagaglio
di evidenze in fatto e di arresti in diritto. Onde, se non può parlarsi
categoricamente di necessità, di decisività in modo assoluto di tali nuove prove
sopravvenute, purtuttavia - imprescindibile il requisito della novità - deve,
comunque, emergere la concreta utilità a fini decisori della nuova acquisizione.
“La rinnovazione può avvenire d’ufficio solo se ritenuta dal giudice
assolutamente necessaria, nessun diritto alla prova in tal caso sussistendo in
capo alla parte che abbia eventualmente sollecitato l’iniziativa.”
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Tribunale di Venezia – Ufficio del Giudice per l'Udienza Preliminare – Ord. 21.6.2004 - Est. G. Gallo –
Imp. XY
Cosa giudicata – Divieto di secondo giudizio– Medesimezza del fatto – Nozione
(art. 649 c.p.p.)
“La preclusione di un secondo giudizio ricorre quando vi sia assoluta identità tra tutti gli
elementi del fatto giudicato e di quello attribuito nel nuovo procedimento alla stessa persona con
riferimento all'intera materialità del reato e, cioè, alla condotta del reo, all'evento ed al nesso causale.
Ai fini della preclusione del giudicato, costituisce fatto diverso quello che, pur violando la stessa norma
ed integrando gli estremi del medesimo reato, è l'ulteriore estrinsecazione dell'attività del soggetto
diversa e distinta da quella posta in essere in precedenza.
L'identità del fatto, pertanto, è configurabile solo quando questa si realizza nelle medesime condizioni di
tempo, di luogo e di persone.”
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