UNIVERSITA` DEL PIEMONTE ORIENTALE “AMEDEO AVOGADRO

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UNIVERSITA’ DEL PIEMONTE ORIENTALE
“AMEDEO AVOGADRO”
Dipartimento di Studi per l’Economia e l’Impresa
Corso di laurea in Amministrazione e Gestione
Curriculum Amministrazione e Controllo
TESI DI LAUREA
In
AGGREGAZIONI AZIENDALI E OPERAZIONI
STRAORDINARIE
IL TRUST COME SOLUZIONE AL PASSAGGIO
GENERAZIONALE D’AZIENDA
Candidato:
ANNALISA AVETTA
Relatore:
PROF. ROBERTO D’IMPERIO
SESSIONE STRAORDINARIA
ANNO ACCADEMICO 2011/2012
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Indice
Introduzione
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CAPITOLO 1 Il passaggio generazionale
1.1 Evoluzione storica delle imprese italiane
1.2 L’impresa familiare
1.2.1 La family business
1.3 Il passaggio generazionale
1.3.1 Problematiche da affrontare
1.3.2 I fattori di rischio nel passaggio generazionale
1.4 L’intervento dell’Unione Europea
1.5 Il passaggio generazionale in Italia
1.6 La pianificazione del passaggio generazionale
CAPITOLO 2 Gli strumenti utilizzati nel passaggio generazionale
2.1 Il patto di famiglia
2.2 La holding familiare
2.3 La donazione d’azienda
2.4 Lo strumento testamentario
2.5 Usufrutto e nuda proprietà
2.6 Conferimento e cessione d’azienda
CAPITOLO 3 Il trust
3.1 Cenni storici sulle origini del Trust
3.2 I caratteri generali
3.3 I soggetti
3.3.1 Il disponente
3.3.2 Il trustee
3.3.3 I beneficiari
3.3.4 Il protector
3.4 Le fonti giuridiche del Trust
3.5 L’atto istitutivo di trust
3.6 I modelli specifici di Trust e classificazione
3.7 I trust istituiti da persone fisiche
3.7.1 Trust in ambito famigliare
3.7.2 I trust istituiti in ambito societario
3.8 La Convenzione dell’Aja
3.8.1 I principali articoli
CAPITOLO 4 Il trust nel passaggio generazionale
4.1 I pregi del trust
4.2. Le imposte sul trust
4.2.1 Le problematiche relative alla tassazione del trust
4.3 Le problematiche della trasmissione generazionale e le possibili soluzioni
con il trust
4.3.1 Caso 1: il trust per risolvere un passaggio generazionale
4.4 Il trust e i limiti del diritto successorio
4.4.1 Caso 2: il trust per la continuità d’impresa
4.5 Le problematiche irrisolte dal patto di famiglia e le soluzioni con l’utilizzo
del trust
4.5.1 Caso 3: la scelta del successore
4.6 Le problematiche del fondo patrimoniale e le soluzioni con l’utilizzo
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del trust
4.7 Atti di destinazione e trust
4.8 Il “non charitable purpose trust” per il passaggio generazionale
4.9 Caso pratico
Note conclusive
Bibliografia
Sitografia
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Introduzione
Uno dei momenti più cruciali per la sopravvivenza delle aziende a conduzione
familiare è quello del passaggio generazionale, si tratta di una fase critica e delicata della
vita aziendale, un momento complesso che coinvolge diverse dimensioni della gestione
dell’impresa e della famiglia: la sovrapposizione tra sistema famiglia e sistema impresa
mette in gioco dinamiche ed interessi contrapposti (scelte strategiche, processi di gestione
e di governance, cultura e valori), la necessaria convivenza aziendale fra junior e senior
coinvolge la relazione fra genitori e figli, e le peculiarità di entrambi, in un momento in cui
la propria identità e il proprio ruolo si trovano ad affrontare importanti mutamenti.
Più di un’impresa su quattro dovrà affrontare nei prossimi anni la sfida della
cessione dell’azienda, nella maggior parte dei casi si tratta di imprese costituite tra gli anni
‘70 e ‘80 che, grazie ai fondatori, sono cresciute sino a diventare decisamente floride.
Molti dei fondatori di quest’epoca oggi hanno raggiunto l’età pensionabile e devono
prendere velocemente una decisione relativa al futuro orientamento dell’impresa, in modo
tale da assicurarne la continuità.
Come tutte le situazioni in cui si realizza un processo di cambiamento, anche la
transizione generazionale presenta rischi e opportunità. Il rischio più forte è che il
passaggio non avvenga, determinando così l'interruzione dell'attività imprenditoriale,
mentre le opportunità che offre possono riguardare il fronte strategico, manageriale e
finanziario. Diventa per questo necessario pianificare la successione per tempo e gestirla
in modo strategico, per permettere all’impresa di competere e crescere con successo, senza
metterne a repentaglio la continuità.
È noto che più del 70% delle imprese a carattere familiare non sopravviva alla
prima generazione e un ulteriore 50% scompare tra la seconda e terza generazione,
secondo un luogo comune: “la prima generazione crea, la seconda sviluppa e la terza
distrugge”; ma ci sono anche molti esempi di imprese che sono state costituite molti anni
fa e sono sopravvissute per generazioni grazie a chiare regole applicate sia nella sfera
familiare sia in quelle imprenditoriale e, soprattutto, grazie alla loro bravura nel processo
di successione. Tenendo conto che le imprese familiari in Italia sono oltre cinque milioni e
influiscono sul Pil per quasi l’80% dando occupazione al 75% della forza lavoro, il
passaggio generazionale è una tematica che interessa non solo le imprese e gli stakeholders
più diretti ma anche le Istituzioni, le Università e le Società di Consulenza e Formazione,
che possono ricoprire un ruolo fondamentale per favorire e promuovere la continuità
aziendale.
La tesi si propone di analizzare le criticità che caratterizzano il passaggio
generazionale, in particolar modo per le aziende che caratterizzano il territorio italiano e le
strategie con cui viene affrontato. Dopo aver analizzato gli strumenti tradizionali come il
patto di famiglia e altri che non possono essere considerati né la soluzione corretta né tanto
meno la soluzione più efficace a causa dei ristretti ambiti di applicazione e, soprattutto, la
mancanza di un gestore che possa consentire al meglio di passare il comando di un’attività
nel tempo; verrà approfondito lo strumento innovativo del trust, dimostrando che è la
soluzione migliore per numerose situazioni grazie alle caratteristiche che lo compongono.
Il trust è conosciuto ed utilizzato in Italia da quando il nostro paese ha ratificato ed
è entrata in vigore, nel 1992, la Convenzione dell'Aja. Non è facile dare una definizione
ufficiale e precisa di trust, in considerazione del fatto che non è possibile confrontarlo con
altri istituti già conosciuti, poiché esso non ha affinità con nessuna tipologia adottata dal
diritto civile italiano. Il trust realizza una netta separazione tra il patrimonio del disponente
(di colui, cioè, che dà vita al trust stesso) e quello dell'effettivo beneficiario e del trustee
stesso. In estrema sintesi, la creazione del trust assolve a due funzioni comuni e specifiche
in tutte le fattispecie di utilizzo: la pianificazione e protezione del patrimonio conferito. In
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termini generali il trust conosciuto nei paesi di common law può definirsi come quello
strumento giuridico per mezzo del quale la proprietà su un determinato bene è divisa tra
una persona (il trustee), che ha i diritti e i poteri di un proprietario, e un’altra (il
beneficiario), a vantaggio del quale devono essere usati quei poteri. Nei sistemi di common
law il trust è un istituto di così larga utilizzazione da poter essere paragonato, senza
dimenticare le differenze strutturali tra i due istituti, al contratto del nostro ordinamento.
Il trust si prospetta come strumento valido e duttile per la programmazione e la
pianificazione della trasmissione della ricchezza familiare. E’ il caso dei family trust che
costituiscono uno strumento ottimale per questo scopo, garantendo anche dopo la morte il
mantenimento dell’unità del patrimonio di famiglia e il soddisfacimento dei bisogni di
soggetti economicamente o personalmente deboli. Tra i suoi indubbi vantaggi vi è la
separazione del patrimonio ad esso conferito che viene a costituire un bene non aggredibile
dai creditori né del disponente né del trustee e che non rientra nelle loro vicende
successorie. Inoltre è possibile regolamentare tramite l’atto istitutivo del trust sia le
modalità di gestione del bene sia la destinazione dei frutti e del patrimonio al termine del
trust che ha un limite di durata massima che varia a seconda della legge scelta.
I vantaggi di questo istituto sono notevoli sia in ambito giuridico che in ambito
fiscale. Attualmente non esistono nel nostro ordinamento strumenti negoziali che
garantiscono, attraverso l’effetto segregativo dei beni conferiti, la gestione di un
patrimonio per uno scopo o nell’interesse di determinati beneficiari. A ciò si aggiunga la
duttilità del trust, perché applicabile sia all’interno della famiglia, anche di fatto, sia
nell’impresa o società. Infatti l’estrema flessibilità del trust permette di perseguire tutte le
finalità che il pater familias si propone nell’ottica del passaggio generazionale e che non è
possibile perseguire completamente con gli strumenti tradizionali. In particolare con il trust
è possibile:
mantenere efficiente la gestione dell’azienda di famiglia;
regolamentare nell’atto istitutivo le modalità di gestione e il modo di
esercitare i diritti inerenti le partecipazioni sociali;
assicurare unitarietà al patrimonio familiare;
confidare nella certezza delle attribuzioni fatte;
assicurare reddito o mantenimento anche agli altri membri della famiglia;
segregare i beni in trust, che rimangono pertanto insensibili alle vicende
personali del trustee.
Il ricorso al trust si giustifica ad esempio quanto all’aspetto soggettivo, quando il
familiare che dovrà continuare l’attività di impresa non è un discendente in linea retta del
disponente (unica ipotesi prevista dai patti di famiglia), ovvero se l’imprenditore è privo di
discendenti ma desideri comunque assicurare continuità alla propria impresa destinandola a
un parente diverso o a quella persona che nel tempo si dimostrerà più idonea. Oppure
ancora nel caso in cui i discendenti siano ancora troppo giovani per manifestare
qualsivoglia attitudine imprenditoriale. Tra l’altro il disponente può riservare a sé il potere
(come attribuirlo ad altri soggetti) di individuare in un momento successivo i beneficiari se
non ha ancora maturato una decisione in tal senso, oppure di aggiungerne altri. Altra
ipotesi non prevista negli strumenti tradizionali è quella dell’imprenditore legato da
rapporto di convivenza.
Il trust è certamente lo strumento più idoneo nel caso in cui l’impresa sia gestita da
più rami di una stessa famiglia (ad esempio da più fratelli). I fratelli, quali disponenti,
possono istituire un unico trust, trasferendo ad un trustee la proprietà dell’azienda o
autodichiarandosi trustee, costituendo un collegio. In questo modo otterrebbero il
vantaggio di mantenere uniti il capitale e i beni produttivi, evitandone la frammentazione
fra più eredi ed assicurandone la protezione nell’ottica di una gestione unitaria
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dell’impresa. Ovviamente le utilità prodotte nel corso della durata del trust ed il fondo in
trust una volta sopraggiunto il termine della sua durata potranno essere suddivisi tra gli
appartenenti alle diverse stirpi di cui i fratelli sono capostipiti, secondo il regolamento
predisposto nell’atto istitutivo.
La flessibilità del trust si manifesta anche nella possibilità di saltare una
generazione, allorché manchi un soggetto idoneo nella precedente. Può essere anche
strutturato in modo tale da escludere dall’attribuzione di beni di famiglia i coniugi dei
discendenti, che sono a volte elemento destabilizzante negli equilibri familiari, ad esempio
in occasione della crisi del matrimonio. Nell’atto istitutivo il disponente regola a lungo
termine il trasferimento delle partecipazioni all’interno della famiglia e può dare le
prescrizioni più varie in ordine all’amministrazione, in considerazione delle capacità dei
soggetti coinvolti, potendo altresì riservarsela o individuare soggetti esterni che la
assumano.
Nel trust possono essere segregati anche altri beni del pater familias in modo da
soddisfare tutti gli eventuali legittimari, tra cui partecipazioni societarie detenute a scopo di
mero investimento o speculativo. Le utilità prodotte dai beni in trust possono essere
accumulate nel trust stesso o versate ai beneficiari del reddito, in quote prefissate o
secondo la discrezionalità del trustee, o al verificarsi di determinati eventi. Attraverso le
utilità del trust possono essere soddisfatti anche i bisogni di vita del disponente. I beni in
trust saranno devoluti ai beneficiari finali una volta sopraggiunto il termine finale di durata.
Il disponente può prevenire il rischio che le finalità del trust siano vanificate a causa di
eventuali azioni di legittimari che si pretendano lesi o pretermessi, facendo in modo che i
loro interessi economici legati al trust siano maggiori della loro pretesa, attribuendo loro
vantaggi, come ad esempio corrispondendo loro le rendite dell’attività aziendale, e
prevedendo la perdita di tali benefici in caso di azione contro il trustee.
Il trustee, in quanto portatore di un’obbligazione fiduciaria, è investito
dell’attuazione della finalità che il disponente ha individuato nell’atto istitutivo secondo il
suo oggettivo discernimento e con l’eventuale controllo di un guardiano o del collegio dei
beneficiari. Se il trust ha per oggetto partecipazioni sociali, il disponente, nell’atto
istitutivo, può prevedere una minore o maggiore ingerenza del trustee quale socio
dell’impresa di famiglia. Si può avere un trustee totalmente passivo di fronte alla gestione
degli amministratori della società, alle decisioni dei quali si rimette in modo pressoché
incondizionato. Ma il disponente può anche attribuire al trustee un ruolo estremamente
attivo, ciò soprattutto se ha il timore che, dopo la sua morte, non vi siano discendenti pronti
ad assumere il comando.
L’atto istitutivo di trust è un negozio giuridico unilaterale. Il disponente può
riservare a sé o attribuire ad altri soggetti (trustee, guardiano, comitato dei beneficiari) un
potere più o meno ampio di modificare determinati aspetti dell’atto istitutivo, senza dover
ricorrere alla necessaria compresenza e partecipazione di tutti i soggetti interessati, il che
rende molto più snello rispetto a quanto previsto per i patti di famiglia procedere ad una
revisione delle disposizioni originarie.
La tesi grazie alla descrizione di un caso pratico termina con la conclusione che
l’istituzione di un trust per gestire il passaggio del testimone nell’azienda di famiglia è
consigliabile nella maggior parte delle situazioni dato che consente l’amministrazione
unitaria di aziende in proprietà di soggetti diversi o destinate ad esserlo per motivi
successori, tenendo protetto il patrimonio aziendale dalle vicissitudini relative ai familiari
ed alla iniziale compagine sociale; inoltre garantisce nel tempo l’elargizione regolata e
misurata di redditi per la conservazione e gestione di beni e utilità appartenenti alle
famiglie, sempre proteggendo il patrimonio dalle particolari vicissitudini familiari. Lo
strumento ha ultimamente conosciuto una maggiore diffusione in Italia, anche in
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combinazione con altri strumenti giuridici messi a disposizione dal nostro ordinamento;
resta il fatto che, anche a seguito della nuova normativa fiscale, lo strumento risulta ancor
oggi particolarmente efficace ed opportuno principalmente per la gestione di complessi e
sofisticati passaggi generazionali.
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CAPITOLO 1: IL PASSAGGIO GENERAZIONALE
1.1. Evoluzione storica delle imprese italiane
Il sistema produttivo italiano è costituito da un numero ridotto di imprese di grandi
dimensioni, da un numero limitato di imprese di medie dimensioni e dall’assoluta
preponderanza di micro imprese ovvero costituite da una media di 10-20 dipendenti, presso
le quali è occupata la grande maggioranza degli addetti. Da rilevazioni Istat risulta che il
95% delle imprese non agricole italiane sono definite micro, tali imprese sono per lo più
familiari ovvero la partecipazione degli imprenditori e dei loro familiari all’attività
dell’impresa supera il 50% del totale degli addetti.
Le ragioni di questa particolare composizione imprenditoriale italiana possono
venir ricondotte a fattori di carattere politico, economico e geografico. Partendo da un
secolo e mezzo fa l’Italia era suddivisa in un insieme di piccoli Stati ed il trasferimento
delle merci tra i diversi territori, peraltro reso faticoso dalla condizione geografica, era
soggetto a dazi e restrizioni; tutto ciò ha favorito il diffondersi di un tessuto di imprese di
piccole dimensioni, rivolte a mercati prevalentemente locali.
L’evoluzione storica delle imprese italiane si delinea a partire dalla Seconda
Rivoluzione Industriale (1880) quando lo sviluppo tecnologico delle modalità di
produzione nei settori ad alta intensità di capitale impose una forte discontinuità al
configurarsi del sistema delle imprese: in questi (come quello della metallurgia, della
chimica, dell’energia e della meccanica), la possibilità di conseguire economie di scala e di
diversificazione richiedeva la presenza di grandi imprese. Accanto ad esse è di supporto la
piccola impresa che, insostituibile in specifici segmenti di mercato, fa da base per molti tipi
di forniture e da pioniera nei processi innovativi più rischiosi. Non solo, non essendo tutti i
settori colpiti dalla rivoluzione (ad esempio il tessile, l’abbigliamento, la fabbricazione di
mobili), la piccola impresa rimane in questi più che mai vivace e competitiva.
Accanto a imprese medio - grandi a partire dagli inizi del ‘900 sono attive
moltissime botteghe a conduzione familiare che vivono della domanda locale; a differenza
dei comparti avanzati caratterizzati da progresso tecnico, crescita dell’impresa, produttività
ed evoluzione organizzativa (e sicuramente anche con il ruolo del sistema finanziario), nei
settori cosiddetti leggeri meno evidente risulta l’intervento del capitale estraneo a quello
familiare considerate le scarse risorse di cui necessitano realtà aziendali modeste in cui è
prevalente la componente circolante e per il cui avvio non occorrono investimenti tecnici
elevati.
Successivamente si iniziano a creare le condizioni per la trasformazione del
laboratorio artigiano nella piccola impresa specializzata in uno o pochi segmenti del ciclo
di lavorazione: l’impresa di fase pone le premesse per la formazione dei distretti industriali
nella forma oggi conosciuta. Le figure imprenditoriali continuano però ad essere ancora
fortemente impregnate di tratti tradizionali, dove il proprietario, molto probabilmente un ex
artigiano o ex operaio, conduce in prima persona tutto il processo di lavorazione; in più il
modesto capitale di avviamento e di funzionamento, così come la forza lavoro, sono forniti
dal nucleo familiare in qualche modo coinvolto nell’attività. Anche dal punto di vista
finanziario si riscontrano tratti comuni nelle imprese dei settori leggeri, con un maggiore
ricorso all’autofinanziamento e agli istituti di credito locale.
Anche la seconda guerra mondiale, così come la prima, colpì maggiormente il
settore agricolo piuttosto che quello industriale e sovradimensionò in maniera notevole
l’apparato produttivo italiano soprattutto nei settori manifatturieri più direttamente
coinvolti, le difficoltà della successiva riconversione toccarono specialmente a quelle
imprese che si erano rese totalmente dipendenti dalla committenza pubblica. La
rivalutazione dei settori labour intensive, insieme alle difficoltà attraversate nel dopoguerra
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dalle organizzazioni di grandi dimensioni, incominciarono a creare terreno fertile per nuovi
ruoli ed ampie prospettive per le piccole imprese. La dicotomia tra artigianato evoluto e
produzione in massa, così come tra piccola e grande dimensione, coinvolgeva quasi tutti i
settori dell’economia nazionale, al punto che il tessuto imprenditoriale degli anni
dell’immediato dopoguerra era caratterizzato da un settore manifatturiero composto da
oltre un milione di attività artigiane e di microimprese e da circa 50 mila imprese
industriali, di cui il 98% aveva meno di 100 dipendenti.
Nel secondo dopoguerra la struttura produttiva italiana assunse una connotazione
veramente industriale, di conseguenza si crearono rapidamente i presupposti perché le
maggiori imprese delegassero alle imprese minori la manifattura di componenti e di
semilavorati, ciò determinò il sorgere di imprese minori caratterizzate da una notevole
flessibilità che consentì loro una capacità di adattamento ai mutamenti, sia tecnici sia
comportamentali; con la ricostruzione postbellica e la diffusione del consumismo di massa
sorse una generazione imprenditoriale capace di dar vita a nuovi segmenti produttivi con
elevata capacità innovativa e una proiezione all’esportazione soprattutto nei comparti degli
elettrodomestici, dei motocicli e della meccanica strumentale.
Oltre la metà degli anni Cinquanta la domanda interna, specie di beni essenziali al
consumo, fu il motore della crescita che tra il 1958 e il 1962 assume una rilevanza tale da
battezzare quegli anni come il miracolo economico italiano. Un interlocutore di questa
spinta industriale sicuramente era costituito dalla grande impresa caratterizzata
dall’accentramento proprietario e decisionale a livello familiare. Tra gli anni Cinquanta e
Sessanta si creano le premesse per la nascita di sistemi locali specializzati: un diffuso
selfemployment vede molti ex operai aprirsi attività in proprio, il diffondersi di consumi
nuovi creano iniziative imprenditoriali di successo, che rapidamente crescono sino al rango
di medie imprese con alcune decine di dipendenti. Sono riconducibili alla figura
dell’imprenditore capace di sviluppare rapidamente un’idea di successo, di innovare in
campo tecnologico, di espandere il proprio apparato distributivo, sempre con le radici, i
valori e la tradizione ben saldi nel mondo dell’artigianato. In questo periodo si assiste
infatti non solo ad una crescita del numero delle piccole imprese, ma anche alla crescita di
alcune di esse che raggiungono livelli dimensionali medi, ponendosi anche in più fasi del
ciclo produttivo.
Verso la fine degli anni Sessanta si presentarono le difficoltà di prendere decisioni
strategiche ed organizzative per far fronte alla differente congiuntura economica e per far
fronte al difficile passaggio generazionale tra fondatori restii al cambiamento e gli eredi
non sempre in grado di assumere comportamenti imprenditoriali; come si vedrà più avanti
questo problema è quanto mai attuale.
Durante gli anni Novanta il contesto industriale italiano subì notevoli
trasformazioni, la necessità di una visione globale al mercato richiede una trasformazione
verso aziende di medie dimensioni specializzate nei settori cosiddetti del made in Italy con
percorsi evolutivi comuni, le famiglie proprietarie esercitano un controllo diretto
sull’attività d’impresa concentrando nelle proprie mani le decisioni strategiche e quelle
operative, riconnettendo l’ampliamento dei confini generalmente alle risorse umane
disponibili in seno alla famiglia, con un management esterno che, se presente, è di
formazione interna e di provata fedeltà alla famiglia; concentrandosi in particolare su
questo tipo di aziende di seguito verranno analizzate caratteristiche pregi e difetti delle
imprese familiari, family business e gruppi familiari.
1.2 L’impresa familiare
Per impresa familiare s'intende l'impresa in cui il capitale sociale e le decisioni
fondamentali di governo economico sono controllate da un'unica famiglia o da poche
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famiglie legate tra loro da vincoli di parentela. In questa categoria rientrano tutte quelle
imprese in cui le figure fondamentali sono unite da vincoli personali e umani che
influenzano in misura notevole anche i rapporti di tipo professionale, sono cioè membri di
uno stesso gruppo emozionale, infatti il fatto di appartenere alla stessa famiglia impatta sul
modo di rapportarsi, anche per questioni di lavoro, dei soggetti coinvolti. Quando
un'attività di impresa si identifica con una famiglia proprietaria o dirigente la gestione
tradizionale, improntata a principi di economicità, efficienza e produttività, non
necessariamente conduce a risultati apprezzabili. La presenza di un coinvolgimento
familiare non solo rende tutto più complesso, ma in qualche modo condiziona il
funzionamento stesso dell'azienda in ragione delle implicazioni di carattere emotivo relazionale.
Tra le possibili classificazioni di impresa familiare una delle più interessanti è
quella che distingue tra imprese familiari in senso stretto e imprese familiari allargate, le
variabili chiave per la definizione dei raggruppamenti sono la concentrazione della
proprietà e del controllo (inteso come copertura delle funzioni imprenditoriali e
direzionali) nelle mani della famiglia imprenditoriale. Dal lato della concentrazione della
proprietà, essa può essere alta (un numero limitato di soggetti molto legati tra loro possiede
le quote dell'impresa) o bassa (le quote sono ripartite tra un numero più elevato con legami
meno forti). Dal lato del controllo si può spaziare da situazioni in cui le funzioni
imprenditoriali e direzionali sono svolte dalla famiglia proprietaria a quelle in cui queste
sono delegate in parte a soggetti esterni fino ad arrivare alla delega totale che caratterizza
l'impresa come non familiare.
Figura 1: Imprese familiari in senso stretto e allargato
Fonte: Mezzadri “Il passaggio del testimone”, 2005
Le imprese familiari in senso stretto sono quelle che tendono a disporsi nei
quadranti in alto a sinistra: in esse la proprietà è fortemente concentrata nelle mani di pochi
soggetti che svolgono contestualmente anche ruoli d'indirizzo strategico, si tratta di
aziende generalmente di prima o seconda generazione in cui il senso di appartenenza è
molto forte e sono gestite di solito con metodi e procedure informali tipiche del padre di
famiglia.
Le imprese allargate, nei quadranti in basso a destra, sono solitamente di
generazione superiore alla seconda, in cui le quote dell'impresa sono più disperse tra un
numero ampio di soggetti, in cui i vincoli di parentela sono meno forti. Inoltre, solo alcuni
tra questi svolgono ruoli di direzione mentre altri hanno solo lo status di azionista (o di
dipendente) e sovente sono presenti manager esterni.
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Il carattere distintivo dell'impresa familiare è il legame tra famiglia e impresa,
istituti profondamente diversi. La prima, con l'obiettivo di sostenere e curare i propri
membri, ha in genere come valori fondanti elementi quali unità, solidarietà, parità di
trattamento tra i membri, stabilità, tradizione; la seconda si ispira a parametri quali
dinamismo, selezione meritocratica, competitività e razionalità economica. Tale legame
può risolversi in un fatto positivo o negativo: i valori familiari possono cioè rivelarsi un
plus o un minus per l'azienda.
Tra i punti di forza delle aziende familiari si coglie in primo luogo il modo in cui
famiglia e impresa vengono percepite dal fondatore, in special modo nelle prime fasi del
ciclo di vita esse vengono considerate come un tutt'uno: per alcuni l'impresa è una sorta di
figlio. A fronte di ciò si instaura una forte dedizione da parte della famiglia imprenditoriale
nel garantire un impegno di medio/lungo termine; in secondo luogo rispetto alle public
company, le aziende di famiglia sono oggetto di minori pressioni al risultato a breve da
parte di mercato e investitori istituzionali e godono di maggior libertà d'azione. In tal modo
la prospettiva di approccio decisionale è quasi sempre orientata al lungo periodo, garanzia
di continuità per tutti gli stakeholder interessati all'azienda. Sul lato pratico questo si
traduce in una fiducia prolungata da parte di comunità e banche, che va oltre il mero
interesse finanziario. L'orientamento al futuro è inoltre garanzia di stabilità (fisica e
temporale) per i lavoratori.
Un altro aspetto rilevante è l’impegno mirato a garantire la sopravvivenza
dell’azienda familiare in armonia con il territorio e la struttura sociale nel suo insieme e
che si può tradurre anche in una serie di vantaggi per la società nel suo complesso per una
serie di motivi. Come primo aspetto va evidenziato che le piccole imprese familiari
tendono ad assumere, con maggior facilità delle grandi, donne, giovani, anziani e personale
a tempo parziale. In secondo luogo è molto difficile che le aziende familiari trasferiscano i
propri dipendenti, difficilmente questo tipo di azienda si trasferisce. Inoltre le famiglie
titolari di imprese svolgono generalmente un ruolo attivo nella comunità locale: fanno
parte dei consigli di associazioni di servizio sociale, di beneficenza, culturali, sportive, ecc.
In tal modo queste famiglie contribuiscono in maniera significativa alla stabilità ed al
benessere della comunità locale. Va aggiunto che le avventure e disavventure delle grandi
aziende coinvolte in fusioni e acquisizioni non toccano solitamente le piccole imprese, il
tutto si traduce in una maggiore stabilità del sistema di relazioni ed in una difesa del
patrimonio culturale di riferimento.
Riguardo ai punti di debolezza, la trasposizione totale di un senso di solidarietà e di
democrazia interna alla famiglia può determinare l'ingresso in azienda spesso anche in
posizioni di rilievo di tutti i membri familiari che lo desiderino, indipendentemente dalle
capacità e competenze possedute e dal reale fabbisogno. In questo caso un malinteso senso
di appartenenza al nucleo familiare rischia di provocare un appesantimento della struttura
aziendale con un relativo peggioramento della performance economica. Inoltre, se la regola
decisionale utilizzata è quella dell'unanimità tra i membri il pericolo è quello di un
ingessamento del processo strategico e direzionale che fa perdere all'azienda familiare
quella flessibilità che spesso ne è un punto di forza. Il forte legame esistente tra famiglia e
impresa costituisce un'ulteriore fonte di pericolo nel momento in cui problemi
interpersonali in uno dei due ambiti finiscano per riversarsi anche sull'altro, innescando un
circolo vizioso che può portare a conseguenze molto dannose. Anche il fatto di operare
nello stesso ambiente, con le stesse persone, non permette di usare la famiglia come
valvola di sfogo delle tensioni in ambito lavorativo e viceversa.
Infine spesso le imprese familiari sono accusate di una scarsa o nulla apertura a
contributi esterni non soltanto in termini di competenze ma anche di capitale. La volontà di
chiudere le porte all'ingresso di soci terzi per salvaguardare la natura familiare del business
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porta spesso al di là di certe dimensioni, a bloccare le opportunità di crescita e sviluppo
dell'azienda costringendola a ripiegarsi su se stessa all'interno di una nicchia non sempre
remunerativa e in grado di assicurarne la continuità nel tempo.
Tenendo conto che circa il 90% delle imprese italiane è di tipo familiare e di
dimensioni ridotte (circa 20 dipendenti), una ricerca condotta dalla Banca d’Italia sulla
proprietà e il controllo delle imprese italiane, ha esaminato in senso dinamico “Cosa è
cambiato nel decennio 1993 – 2003?” su un campione di 1.875 imprese, i risultati
evidenziano la predominanza netta (circa il 66%) del controllo di tipo individuale o
familiare delle imprese italiane con meno di 50 addetti. Inoltre l’indagine condotta da
Unioncamere nel 2001mostra che nelle imprese di dimensioni minori aumentano le
frequenze osservate dei legami di parentela tra i soggetti controllanti; in particolare nella
maggior parte di queste la proprietà è esercitata da un solo o, al massimo, da due o da tre
soggetti, essenzialmente persone fisiche (con una percentuale del 98,9% se si considerano
le sole aziende artigiane manifatturiere); che il 76% degli attuali proprietari sia anche il
fondatore dell’azienda, e per circa il 64,8% del totale delle imprese prevalgono legami di
parentela tra le persone proprietarie.
Nelle imprese familiari, sempre secondo l’indagine considerata, i sistemi di
conduzione si sostanziano nel modo in cui la famiglia proprietaria decide di impostare il
proprio rapporto con l’azienda, in particolare per quel che riguarda la distribuzione dei
ruoli di responsabilità e, di conseguenza, lo svolgimento dei processi decisionali. Rispetto
ai legami economici, i dati dimostrano che circa l’80% dei membri della famiglia è
impegnato a tempo pieno in azienda, ricoprendo anche più di un ruolo (nel 66% dei casi) e
il capitale impiegato nell’affare impresa è pari addirittura ai due terzi di quello familiare
(frequenza riscontrata nel 57% dei casi).
Le famiglie italiane pretendono l’assoluto controllo dell’impresa, mantenendo
saldamente in mano il 100% del capitale. La famiglia possiede una quota totalitaria nel
71% dei casi, una quota compresa tra il 51% e il 99% nell’11%, laddove solo una
percentuale dell’11% corrisponde ad una proprietà del capitale inferiore alla metà. Inoltre
quando nel capitale sono presenti terze persone si tratta, nella maggioranza dei casi, di
parenti lontani o amici assimilabili per molti aspetti ai familiari. La maggioranza delle
imprese italiane è stata fondata dal suo stesso proprietario e, tra questi, solo il 13,8%
sarebbe disposto a venderla e solo il 5% a trasferire la propria quota ad un non familiare.
Si può sottolineare che il ruolo della famiglia è stato, ed è, fondamentale allo
sviluppo economico di tutti i principali Paesi ed è dalla famiglia che in Italia parte
l’iniziativa imprenditoriale. Purtroppo troppo spesso lo scontro di interessi tra famiglia e
impresa è diventato da fattore di crescita a fattore di freno alla crescita, infatti la piccola
dimensione delle imprese è spesso un’arma a doppio taglio. Nelle imprese familiari è
molto sofferto, ad esempio, il passaggio generazionale nel caso in cui il capitale sociale è
totalmente detenuto nelle mani della prima generazione; questo aspetto può essere un
vincolo alla crescita, per la presenza contemporanea di due forze contrapposte: da una
parte quella dell’impresa che, per essere competitiva ha bisogno di crescere e dall’altra
quella della famiglia, che non permette la perdita di controllo.
Circa un terzo delle imprese familiari italiane è oggi ancora nelle mani della prima
generazione, il 40% è guidato dalla seconda, ma la percentuale si dimezza repentinamente
allorché si passa alla terza (21%), per scendere addirittura fino all'8% con la quarta
generazione di imprenditori. I motivi di questa tendenza risalgono al background sociale e
culturale, tipico della nostra realtà, dove la famiglia è ritenuta il centro nevralgico di ogni
decisione, istituzione sempre solidissima nel contesto nazionale; ma il momento del
passaggio generazionale può minare l’equilibrio e le sorti delle imprese famigliari, come
verrà analizzato di seguito.
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1.2.1 La family business
Le dimensioni su cui si fonda il family business sono famiglia, azienda e
patrimonio, il successo della family business e più è legato al grado di equilibrio esistente
tra le tre dimensioni. Se famiglia e patrimonio sono in equilibrio automaticamente anche
l'azienda lo sarà; se al contrario, la famiglia è in preda alle conflittualità o il patrimonio è
mal tutelato, nessuna riorganizzazione aziendale potrà mai produrre esiti miracolosi. Larga
parte delle realtà familiari nostrane, purtroppo, risultano sbilanciate su uno o più di questi
versanti. Le tre bilance si possono trovare in due contesti differenti: il primo, contesto
familiare di serenità e armonia; il secondo, contesto di familiari litigiosi, pretenziosi, poco
inclini a impegnarsi in azienda e, di conseguenza, fonte di problemi aggiuntivi per la
family business. In questo ultimo caso il pensiero di sfamiliarizzare, seppure
temporaneamente, l'azienda potrebbe risolvere il problema dato che notoriamente il tasso
di mortalità delle family business è collegato alla fragilità del legame famiglia-interessi
aziendali.
Secondo lo studio di Zocchi “Il family business” (figura 2) risulta che quattro
imprese di famiglia su cinque sono guidate dalla prima generazione, la quale ancora
beneficia della guida imprenditoriale del fondatore. Tuttavia, già al passaggio della
proprietà e del controllo gestionale dagli iniziatori agli eredi un 7% delle aziende viene
venduto a terzi; solo il 13% circa delle family business di seconda generazione viene
trasferito alla terza generazione e meno del 3% registra, nel corso di questo processo, uno
sviluppo aziendale. É proprio il passaggio dalla seconda alla terza generazione che si rivela
particolarmente critico, poiché di norma segna lo spartiacque tra le compagini proprietarie
concentrate, composte da consanguinei tutti attivamente coinvolti in azienda e le
compagini proprietarie frammentate, in cui i soci hanno legami più deboli e sono spesso
portatori di attese alquanto differenziate,
con il conseguente rischio di tensioni e conflittualità che possono rivelarsi fatali per la vita
aziendale. Non a caso, i disaccordi tra i soci figurano tra gli elementi di massima
preoccupazione per le imprese di famiglia italiane.
Figura 2: Il ciclo di vita delle family business
Fonte: Zocchi 2004
Pertanto dopo aver tracciato alcune delle problematiche inerenti l’impresa di famiglia,
l’obiettivo della seguente analisi sarà quella di focalizzarsi sul passaggio generazionale e
successivamente analizzare gli strumenti a disposizione per l’imprenditore volti ad
13
ottimizzare tale processo di successione all’interno dell’azienda, concentrandosi su un
particolare strumento: il trust.
1.3Il passaggio generazionale
Il tema del passaggio generazionale è di grande attualità e rappresenta una delle più
importanti sfide con cui milioni di micro e piccole imprese in Italia e in Europa sono o
saranno a breve costrette a confrontarsi. Si tratta di un momento complesso della vita
aziendale che richiede di essere affrontato con un approccio sistematico, un progetto di
sviluppo ed un monitoraggio continuo. Può essere definito come il trasferimento della
proprietà, del potere e del controllo di un'impresa familiare da una generazione a un'altra,
esso costituisce un momento estremamente delicato per le sorti dell’impresa, in particolar
modo per le realtà imprenditoriali di dimensioni medio piccole essendo fortemente
incentrate sulla figura dell’imprenditore/fondatore che, nella maggioranza dei casi, è
l’unico custode del know-how aziendale.
E’ un evento dove entrano in gioco fattori fiscali, amministrativi e giuridici, ma nel
quale rivestono un forte peso anche le relazioni psicologiche che si sviluppano tra gli attori
coinvolti. Tali relazioni possono produrre situazioni e dinamiche che rendono ancora più
difficile la gestione del processo e, se sottovalutate, possono seriamente minacciare la
sopravvivenza di un’impresa.
Nonostante l’inevitabilità del passaggio generazionale non è facile pianificare per
tempo questo momento così delicato e decisivo del ciclo di vita aziendale; nei prossimi
anni il passaggio generazionale dovrà essere affrontato dal 50% delle aziende italiane e
diventerà ancora più problematico in considerazione di alcune caratteristiche delle piccole
e medie imprese, quali la struttura dimensionale organizzativa e la marcata connotazione
familiare. Al fine di comprendere al meglio le proporzioni del fenomeno socio-economico
legato al passaggio generazionale, consideriamo alcuni dati elaborati da Unioncamere nel
2007:
il 43% degli imprenditori italiani supera i 60 anni ed il numero di imprese
che nei prossimi 10 anni dovranno affrontare il problema risulta essere il
40% del totale, mentre gli imprenditori che manifestano l’intenzione di
lasciare l’azienda ad un familiare è nell’ordine del 68%;
solo il 20% delle imprese arriva alla terza generazione; la parte restante è
capace solo di passare il testimone, in qualche modo, da padre a figlio, ma
non da nonno a nipote (figura 3);
oltre il 95% delle aziende italiane si caratterizza, sul piano dell’impiego
medio, per un organico inferiore ai dieci addetti;
dalle statistiche si rileva che il 10% dei fallimenti annui delle aziende è
derivante dalla mancata pianificazione e gestione del passaggio
generazionale;
due aziende su tre scompaiono entro 5 anni dal passaggio dalla prima alla
seconda generazione;
per il 30% delle aziende il processo di ricambio generazionale coincide con
la fine della realtà aziendale.
14
Figura 3: Tasso di sopravvivenza delle aziende familiari
Fonte:www.intesasanpaoloimprese.com
Il passaggio d’impresa deve essere progettato con largo anticipo e può chiedere un
arco di tempo piuttosto ampio, affinché il subentrante possa sviluppare al meglio le
caratteristiche necessarie a svolgere il suo ruolo imprenditoriale. Per quanto concerne
l’azienda di famiglia tale fenomeno conduce ad una serie di conseguenze estremamente
negative sotto il profilo dell’ottimizzazione organizzativa, ovvero:
1. invalidazione del sistema meritocratico familiare: la presenza di figli non verrebbe
meno anche se non evidenziassero particolari capacità imprenditoriali;
2. svalutazione di figure aziendali meritevoli: la circostanza per cui in merito al
decision making, verrebbero a trovarsi in aperto contrasto con il componente della
famiglia imprenditoriale costituisce un forte disincentivo a sostenere tesi
disallineate;
3. la creazione di colli di bottiglia, frutto di un incompleto flusso di informazioni dalla
famiglia alle figure di staff, teso a proteggere un ipotetico ambito di riservatezza.
In occasione dell’indagine annuale “L’Italia delle imprese” (2007), curata dalla
Fondazione Nord-Est per il Sole 24 Ore, il tema è stato oggetto di analisi ed
approfondimento; i risultati mostrano che il 45% delle aziende italiane sta attraversando la
fase del passaggio generazionale, il 14,3% lo affronterà in futuro, l’11,3% lo ha già
affrontato in passato e solo per il 29,4%, invece, la questione non si pone nel futuro
prossimo e non si è posta per il passato. La stessa indagine ha anche sondato gli umori
degli imprenditori per delineare il giudizio dato dai diretti interessati al fenomeno oggetto
d’indagine: i dati sono incoraggianti se si osserva che il 54,4% degli intervistati ha
dichiarato di vedere il passaggio generazionale come un momento di criticità, ma
superabile. Circa un terzo degli intervistati su scala nazionale nutre poi un atteggiamento
ancor più improntato all’ottimismo, sostenendo che il passaggio generazionale può essere
gestito senza particolari problemi. La quota dei pessimisti, infine, è piuttosto bassa e non
raggiunge il 15%. In riferimento alla strategia da adottare per superare il passaggio
generazionale il 68% degli intervistati sceglie il mantenimento della proprietà e della
gestione all’interno della famiglia, il ricorso a manager esterni mantenendo la proprietà è
contemplato dal 18%, mentre l’apertura del capitale a soggetti esterni viene considerata da
una percentuale ridotta. L’aspetto negativo è che consuetudini e accordi verbali continuano
a prevalere su assetti societari atti a favorire la governabilità, mancano in genere dei
disegni strategici per preparare la successione in maniera armoniosa e sono poco diffusi i
meccanismi di delega.
15
1.3.1 Problematiche da affrontare
Il percorso del ricambio generazionale è complesso e coinvolge trasversalmente
aspetti comportamentali dell’imprenditore, che devono unirsi a conoscenze legali e
certezze nella valutazione del patrimonio familiare. La complessità deriva soprattutto
perché con l’ingresso delle nuove generazioni nell’azienda possono entrare in conflitto due
obiettivi: quello della funzionalità e quello della continuità familiare nell’impresa.
Assicurare la funzionalità dell’impresa significa fare in modo che i nuovi soggetti
imprenditoriali abbiano le necessarie capacità per gestire l’impresa. Garantire la continuità
significa invece consentire che l’impresa passi di generazione in generazione e continui ad
essere gestita nell’ambito della famiglia.
Non sempre ciò che salvaguarda la continuità assicura anche una buona gestione
per il futuro dell’impresa, può accadere che la funzionalità dell’impresa sia meglio
assicurata se il fondatore viene sostituito da un suo collaboratore che possiede capacità di
gestione e notevole esperienza, pur non appartenendo alla famiglia. Ciò accade soprattutto
se le nuove generazioni non hanno ancora maturato capacità imprenditoriali o addirittura
non hanno alcun interesse alla vita dell’azienda. In questi casi privilegiare la funzionalità
significherebbe creare discontinuità nella successione, mentre voler garantire continuità
nella successione potrebbe condurre a livelli bassi di funzionalità.
Il successo del passaggio generazionale dipende da una pluralità di condizioni e
comportamenti aziendali. In generale, è necessario che il rapporto tra famiglia ed impresa
venga concepito in modo da garantire l’autonomia dell’impresa. In altri termini, all’interno
della famiglia occorre che l’impresa venga considerata come un’entità che ha vita
autonoma e per quanto possibile distinta dalle questioni familiari. Condizione
estremamente importante per il successo del passaggio generazionale è preparare
adeguatamente le nuove generazioni ad assumere il controllo e la gestione dell’impresa. Il
subentro va gestito garantendo alle nuove generazioni non solo istruzione ma anche un
significativo periodo di esperienza lavorativa nella stessa azienda di famiglia oppure in
altre aziende anche di settori diversi.
Il passaggio generazionale dunque è un problema che l’imprenditore deve
necessariamente affrontare e risolvere per tempo, attraverso un’accurata fase di
pianificazione tesa ad individuare il soggetto (o i soggetti) destinato a guidare l’impresa,
nonché gli strumenti che si presentano maggiormente idonei per garantire la successione
generazionale, senza lasciare nulla al caso, onde evitare la dissoluzione del valore
aziendale creato nonché ricadute di natura sociale, in considerazione della forza lavoro
impiegata nell’impresa.
1.3.2 I fattori di rischio nel passaggio generazionale
I fattori che concorrono maggiormente ad aumentare il rischio di sopravvivenza
dell’impresa in fase successoria sono: rischio di continuità generazionale, dissolvimento
della leadership e conflitti; di seguito verranno analizzati.
Il dissolvimento della leadership: la leadership nell’impresa familiare può essere definita
come la capacità riconosciuta ad un soggetto di conseguire il fine dell’impresa; il rischio di
non continuità dell’impresa familiare dipende certamente ed in maniera significativa dalla
possibile distruzione della leadership che, in alcuni momenti e, in particolare in prossimità
di una successione, risulta reale. Tale fattore di rischio specifico può essere valutato sulla
base dei seguenti indicatori:
l’età del leader uscente. L’anzianità del leader configura certamente un
indicatore segnaletico del tempo disponibile per pianificare e intervenire,
quindi, in tempo, per garantire una trasmissione del ruolo imprenditoriale
nella maniera meno traumatica possibile. In Italia, lo sviluppo
16
imprenditoriale, concentratosi nei due decenni 60’ e 70’, fa sì che una
grossa parte dell’imprenditoria italiana si trovi attualmente ad affrontare il
complesso problema della successione.
l’adeguatezza delle competenze e delle capacità della nuova leadership con
le nuove esigenze dell’impresa. Diverse sono le capacità di cui
l’imprenditore deve essere dotato: la capacità di cogliere le opportunità ed i
segnali deboli del contesto, la capacità di ascolto degli altri stakeholder, la
capacità di dialogo e di negoziazione e l’orientamento di lungo periodo.
i rapporti tra leadership entrante ed uscente. Tali rapporti possono essere
giudicati tenendo conto del grado di fiducia reciproca, della presenza di
canali di comunicazione franchi e costruttivi, del livello di intenzionalità
nella conservazione dell’impresa all’interno della famiglia e della
disponibilità alla delega.
il nepotismo, inteso come l’avanzamento o la designazione di parenti in
base a criteri diversi dalla meritocrazia. Tale fenomeno presenta aspetti
negativi tra i quali la difficoltà ad attrarre nell’impresa manager di elevata
professionalità riconosciuta sul mercato.
la deriva generazionale. È un fenomeno naturale caratterizzato da un
progressivo aumento del numero dei membri di una dinastia allo scorrere
delle generazioni. La pressante richiesta di inserimento di componenti
familiari nella struttura aziendale può alterare gli equilibri organizzativi a
cui il leader è pervenuto nel tempo. Pertanto, la verifica dell’esistenza di
chiare e condivise regole di inserimento delle nuove leve nell’impresa di
famiglia, rappresenta un segnale per valutare l’incidenza che il fenomeno di
deriva generazionale può esercitare sul rischio di distruzione della
leadership.
Il grado di conflittualità all’interno della famiglia: la possibilità dell’impresa familiare di
sopravvivere e di prosperare nel tempo deriva in larga misura dalla capacità della famiglia
di restare a lungo unita e coesa, gli aspetti che possono essere analizzati per procedere alla
valutazione di tale fattore di rischio sono:
la composizione della famiglia imprenditoriale. Ogni famiglia è diversa dalle altre
in quanto è composta da persone con caratteri diversi, ha la sua storia e sviluppa
una cultura che si basa su norme, principi e comportamenti specifici. Quando poi
una famiglia lega la propria esistenza alla creazione ed alla gestione di un’azienda,
essa si pone in relazione quasi simbiotica con un’altra entità e si trasforma in
famiglia imprenditoriale.
la qualità dei legami familiari. È necessario esaminare innanzitutto la complessità
dei principali rapporti esistenti tra il padre e i figli, tra fratelli e tra tutti i parenti.
il grado di separazione del patrimonio della famiglia dal patrimonio dell’impresa. A
livello teorico si possono distinguere due modelli, il modello dell’impresa riccafamiglia povera e il modello della famiglia ricca-impresa povera. Il primo modello
è rappresentativo di una situazione dove esiste una forte vocazione industriale
combinata con una sentita identificazione con il business. Tali caratterizzazioni
inducono la famiglia proprietaria a lasciare investito in azienda gran parte del
valore che essa produce, questa determinazione all’autofinanziamento, se da un lato
limita l’accrescimento del patrimonio familiare extra-aziendale, dall’altro evidenzia
come la famiglia governi l’impresa secondo logiche indipendenti dai suoi interessi
e scopi particolari i quali sono subordinati alla finalità di sopravvivenza
dell’impresa stessa. Nel secondo modello invece la famiglia proprietaria, per motivi
di carattere fiscale, per volontà di diversificazione patrimoniale, per desiderio di
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ostentazione o di status, preleva periodicamente gran parte del valore prodotto
dall’impresa, lasciandola nella perenne condizione di sottocapitalizzazione e di
pesante indebitamento.
l’attrattività del business per i potenziali entranti. Non tutti i business sono
ugualmente ambiti dalle nuove generazioni della famiglia, in quanto le competenze
richieste o le opportunità offerte possono essere considerate limitative o non
sufficientemente stimolanti per il giovane. Maggiori opportunità per i membri della
famiglia aiutano a mantenere la pace al suo interno e permettono di conservare fra i
familiari la fiducia e l’interesse nel business. È ipotizzabile, pertanto, che i conflitti
siano elevati quando il business non è in grado di offrire opportunità sufficienti per
soddisfare le richieste di tutti i membri della famiglia, i quali saranno costretti a
competere per cogliere le opportunità disponibili.
La scelta dell’erede: l’imprenditore vive con la propria impresa un rapporto generativo
dato che è una sua creatura e verso di essa agiscono comportamenti e aspettative, un
legame così forte tra impresa e imprenditore può portare quest’ultimo, ma anche gli eredi
stessi, a credere che la sua figura non sia sostituibile, che nessun altro possa ricoprire il
ruolo di padre verso l’impresa.
Pur non essendoci una soluzione perfetta molto può essere fatto e anche molti possono
essere gli strumenti adeguati per aiutare l’imprenditore ad affrontare questo problema:
Pianificare il passaggio generazionale (analizzato a fine capitolo), prendere in
considerazione per tempo il problema dell’individuazione di colui o coloro che
dovranno prendere il posto di comando.
Tenere in considerazione che l’imprevedibilità degli eventi della vita possono
manifestarsi all’improvviso, come nel caso della scomparsa o malattia precoce
dell’imprenditore o dell’erede prescelto.
Creare e stimolare interesse dei figli verso l’impresa. Spesso i figli vengono inseriti
o presi in considerazione solo dopo che hanno completato gli studi e magari fatto
esperienza in altre aziende. Ma così facendo una volta inseriti nell’azienda di
famiglia spesso non riescono a ricevere il consenso e la stima delle persone che ci
lavorano e dell’imprenditore genitore stesso.
Accettare la propria unicità rispetto all’azienda. La consapevolezza che
l’imprenditore non possa essere clonato deve fare posto al nuovo
erede/imprenditore, che certamente dovrà portare la propria impronta in base alle
proprie caratteristiche culturali e lavorative.
Superare i pregiudizi. La diffidenza o il pregiudizio nei confronti degli eredi può
impedire a priori la possibilità di un rinnovo generazionale e una nuova gestione
corretta.
Il coraggio di fare scelte impopolari all’interno della famiglia. Quando non ci sono
eredi che potrebbero portare avanti l’impresa di famiglia per incapacità o anche
solo per mancanza di interesse in quello specifico campo, o per eccessivi conflitti, o
competizione fra eredi, occorre avere la determinazione di fare in modo che la
gestione dell’impresa venga portata avanti da manager professionali. La
generazione successiva all’imprenditore non gestisce, ma sceglie chi deve gestire.
La prontezza nel prendere decisioni drastiche. A volte non è possibile pianificare il
passaggio e quindi occorre rapidità di decisioni nel dare immediata esecuzione a
inserimenti di management esterno anche solo pro tempore, fin tanto che non si
supera ad esempio un gap generazionale, o un momentaneo distacco
dell’imprenditore.
Le liti: il conflitto principale riguarda l’identificazione di un preciso figlio come erede
prescelto alla continuazione dell’attività imprenditoriale, essa potrà essere equa ed
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ineccepibile da un punto di vista economico e patrimoniale ma insostenibile per gli altri
eredi che si potrebbero sentire sminuiti.
Inoltre vi sono le contrapposizioni tra senior e junior che si possono suddividere in
due macrocategorie: la prima raggruppa le ipotesi in cui c’è una contrapposizione tra
senior e junior, in quanto il primo non ritiene che il secondo (o i secondi, in caso di più
figli) sia idoneo a proseguire nell’attività imprenditoriale; la seconda invece comprende i
casi in cui la volontà del senior di mantenere il comando dipende dall’estrema litigiosità
dei figli che si contendono il ruolo di comando dell’azienda. In entrambi i casi le scelte del
senior sono a loro volta distinguibili in base al target: la tutela dell’azienda o la
preservazione/conservazione del patrimonio familiare. Per evitare o almeno prevenire liti e
conflitti collegati al passaggio generazionale sono presenti alcuni strumenti che verranno
analizzati nei capitoli successivi.
1.4 L’intervento dell’Unione Europea
Secondo i risultati delle ricerche condotte dalla Commissione Europea nel 2005
emerge che nei prossimi anni, oltre un terzo delle imprese europee si troverà ad affrontare
il problema legato alla successione generazionale: in termini numerici significa che circa
600.000 imprese, nelle quali lavorano complessivamente oltre 2 milioni di persone,
dovranno sciogliere il nodo relativo al ricambio generazionale. L’importanza del problema
del passaggio generazionale fu evidenziata a livello comunitario già negli anni ’90, quando
la Raccomandazione della Commissione del 7 dicembre 1994 sulla successione nelle
piccole e medie imprese, muovendo dalla constatazione che circa il 10% delle
dichiarazioni di fallimento verificatesi nella Comunità sono dovute a successione mal
gestite, invitò gli Stati membri ad indurre l’imprenditore a preparare la successione
dell’impresa finché è ancora in vita e li sollecitò al fine di assicurare la sopravvivenza delle
imprese ed il mantenimento dei posti di lavoro.
La Commissione, attribuendo le difficoltà legate al processo successorio
all’insufficiente preparazione del processo e all’inadeguatezza di alcune parti della
legislazione degli Stati membri indirizzò il suo intervento in due fondamentali direzioni:
interventi diretti, interni alle singole imprese al fine di formare
l’imprenditore ad una corretta gestione del processo. Nella visione europea
era quindi necessario incoraggiare le iniziative pubbliche e private che
hanno per oggetto la sensibilizzazione, l’informazione e la formazione degli
imprenditori e, quindi, la preparazione della loro successione, al fine di
assicurare il buon esito del processo nelle piccole e medie imprese;
interventi indiretti, esterni all’impresa e volti alla creazione di un contesto
giuridico-fiscale favorevole al trasferimento dell’azienda. Il legislatore
europeo auspicò in questa prospettiva l’applicazione di sgravi fiscali e la
predisposizione di adeguati strumenti giuridici in grado di facilitare gli
aspetti procedurali-burocratici del processo di successione d’impresa.
La centralità della tematica a livello europeo è stata ribadita in più occasioni nel
corso degli anni, sino ad arrivare nel 2008 alla promulgazione dello Small Business Act for
Europe, il cosiddetto Atto per la Piccola Impresa che abbraccia come slogan “Think Small
First” ovvero “Pensare anzitutto in piccolo”. All’interno di questo documento si dichiara
che il passaggio generazionale è un tema centrale che richiede un’attenzione maggiore di
quella oggi dedicatagli. Semplificare a tutti i livelli le condizioni per la successione delle
imprese rientra tra i principi guida per la formulazione e l’attuazione delle politiche
nazionali e trans-nazionali. Gli stati membri dell’Unione Europea sono stati quindi invitati
ad attivare misure e progetti volti a fornire assistenza e sostegno ai trasferimenti delle
imprese e tra il 2008 e il 2010, con il supporto della Commissione, si sono impegnati
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nell’attuazione di diverse azioni per alleviare gli oneri amministrativi alle PMI, facilitarne
l'accesso ai finanziamenti e sostenere l’entrata in nuovi mercati.
Nel febbraio 2011 è stata pubblicata la revisione dello Small Business Act for
Europe, che presenta una panoramica dei progressi compiuti dell'attuazione dello stesso e
definisce le nuove azioni per rispondere alle sfide derivanti dalla crisi economica. Risulta
che a distanza di pochi anni sebbene la maggior parte delle iniziative previste siano state
avviate, dalla sintesi degli interventi sinora attivi emerge la necessità di incrementare le
misure di supporto alle micro e PMI, anche in tema di trasmissione d'impresa.
1.5 Il passaggio generazionale in Italia
L’Italia ha tentato di introdurre nell’ordinamento novità sostanziali al fine di
recepire le raccomandazioni e le direttive europee. Ad esempio, in data 31 gennaio 2006 è
stata approvata definitivamente dal Senato la proposta di legge n. 3870/95 in merito
all’introduzione dei cosiddetti patti successori di impresa attraverso la previsione del
nuovo articolo 734 bis del codice civile. La proposta aveva lo scopo dichiarato di
“introdurre nel nostro ordinamento una deroga al generale principio di divieto dei patti
successori di cui all’articolo 458 del codice civile, prevedendo la liceità di accordi diretti a
regolamentare la successione dell’imprenditore o di chi è titolare di partecipazioni
societarie”.
Il problema della compatibilità delle disposizioni successorie con il contenuto
dell’articolo 458 del codice civile è un problema datato ma sempre di grande attualità;
infatti ai sensi di tale norma “è nulla ogni convenzione con cui taluno dispone della propria
successione. È del pari nullo ogni atto con il quale taluno dispone dei diritti che si possono
aspettare su una successione non ancora aperta, o rinunzia ai medesimi”. Tale norma, letta
insieme all’articolo 457 del codice civile, sta a significare che l’eredità si devolve solo per
legge per testamento mentre è esclusa la delazione contrattuale. Il fenomeno, iniziato nella
seconda parte del Novecento, della progressiva separazione tra proprietà e gestione delle
società, sta segnando il passo in favore di un ritorno delle famiglie ad una gestione diretta
delle proprie aziende. Ciò significa che il problema della continuità dell’impresa familiare
è, e sarà sentito ancor più nei prossimi anni, su tutto il territorio italiano, in quanto il
sistema economico-produttivo nazionale ha come principale punto di riferimento aziende
familiari, che dovranno fare i conti non soltanto con la crisi dei mercati e con la
concorrenza interna e straniera, ma anche soprattutto con la corretta gestione delle risorse
familiari.
Dato che circa il 90% delle imprese italiane siano governate da un imprenditore o
da nuclei familiari chiusi, caratterizzati da un forte accentramento gestionale si viene così a
creare una gestione dell’azienda che risulta priva di una struttura manageriale di supporto.
La delicatezza del tema è dimostrata dal fatto che il ricambio generazionale ha un forte
impatto sulla sopravvivenza stessa dell'organizzazione è dunque vitale per il prosieguo
dell'attività imprenditoriale che la fase di successione alla guida sia, per quanto possibile,
preparata e pianificata.
Purtroppo nel nostro paese questo aspetto è ampiamente sottovalutato, gli
imprenditori italiani dedicano a progettare la loro sostituzione una quantità ridotta del loro
tempo, inferiore a quella, già bassa, dedicata alla formulazione e alla verifica delle
strategie. Rispetto agli altri imprenditori europei e americani gli imprenditori familiari
italiani mostrano una bassa propensione a definire in anticipo la loro uscita, tendendo a non
formalizzare le modalità di trasferimento dei ruoli direzionali e imprenditoriali alla
generazione successiva e possedendo una vaga conoscenza delle implicazioni fiscali del
processo successorio.
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Infine vi è da dire che anche il mercato è spesso severo verso il passaggio
generazionale attuato da padre a figlio, i terzi e gli stakeholders giudicano i figli e
paragonano le loro capacità e caratteristiche, i loro atteggiamenti e le loro decisioni con
quelle che avrebbero assunto i padri, traendone conclusioni non sempre positive.
1.6 La pianificazione del passaggio generazionale
Come evidenziato, la successione rappresenta un momento ricco di minacce
potenziali per i sistemi che compongono le imprese familiari e il family business: impresa,
famiglia e patrimonio; quindi anche la pianificazione deve tener conto di diverse
prospettive:
la strategia aziendale;
gli obiettivi della famiglia;
la disponibilità di risorse aziendali e familiari.
Ecco perché la pianificazione della transizione rappresenta il momento più indicato
per dare soluzioni a situazioni problematiche diverse ma tra loro fortemente interconnesse:
considerare la permanenza della famiglia nella proprietà e nel governo, individuare gli
obiettivi e i valori che l’impresa familiare intende perseguire nel futuro, definire i ruoli e le
responsabilità da coinvolgere nel progetto futuro dell’impresa.
L’attività di pianificazione è un vero e proprio processo e presuppone una fase di
valutazione di checkup aziendale seguita da un peculiare check-up generazionale.
Attraverso il check-up aziendale si delinea lo stato dell’azienda e quindi si costruisce un
quadro completo dell’impresa familiare sulla base del quale è possibile avviare le
riflessioni sulle scelte in tema di ricambio generazionale e sulle possibilità di crescita ed
evoluzione. Al tradizionale check-up aziendale occorre affiancare uno specifico check-up
generazionale mediante il quale è possibile stabilire il progetto di successione della
leadership e il piano della successione patrimoniale.
La pianificazione della leadership dovrebbe prevedere punti condivisi dai
componenti della famiglia in cui dovrebbero emergere chiaramente i seguenti punti:
il percorso di formazione e selezione dei candidati;
il progressivo passaggio di consegne tra la leadership uscente e quella
emergente;
lo sviluppo del piano di ritiro per l’imprenditore uscente;
la definizione dei tempi e dei modi con cui monitorare il piano.
Allo stesso modo la pianificazione patrimoniale, nel definire l’entità dei fabbisogni
finanziari necessari alla realizzazione delle strategie aziendali, individuate nel check-up
aziendale, deve considerare le esigenze finanziarie della famiglia attraverso:
la salvaguardia della funzionalità economica del business;
la valutazione di una sufficiente disponibilità di risorse necessarie per la
generazione uscente;
il perseguimento dell’equità tra i membri della generazione emergente;
la possibilità di fronteggiare problematiche di natura fiscale.
E’ importante sottolineare che la successione può rappresentare uno strumento di
rivitalizzazione in grado di attivare nuova imprenditorialità, non tralasciando tuttavia di
preservare nel nuovo gruppo gli elementi culturali e strategici tradizionali; è quindi
fondamentale che esista sempre un rapporto tra processo di sviluppo aziendale e processo
di successione imprenditoriale. L’ottica privilegiata è quella della continuità, l’unica in
grado di trasformare la successione da momento critico a evoluzione dell’impresa
familiare.
21
Il processo è articolabile in fasi strutturate, risulta possibile quindi schematizzare
ulteriormente il processo di pianificazione del ricambio generazionale distinguendo in tre
fasi che lo compongono: analisi, pianificazione, implementazione e monitoraggio.
In riferimento alla prima fase, si tratta di procedere ad un’analisi delle potenzialità
del business, dell’azienda e del management attraverso check-up specifici sui tre sistemi.
Più precisamente:
un’analisi aziendale in grado di rilevare il profilo dell’impresa in termini
legali, societari e fiscali, le potenzialità di mercato, il posizionamento
strategico, le potenzialità di sviluppo dell’impresa capaci di creare valore;
un’analisi sulla famiglia con lo scopo di verificare la condivisione o meno
della mission aziendale tra i familiari, i rapporti interpersonali, il
coinvolgimento attuale o futuro dei singoli, gli eventuali conflitti, il ruolo, le
aspettative, le risorse, le competenze e l’impegno che ogni erede è disposto
a dare verso la proprietà, il governo e la gestione;
un’analisi del patrimonio volta a quantificare il valore dei beni familiari.
Il risultato della prima fase è un report, il punto di partenza della pianificazione in
grado di definire il momento in cui avviare la successione, i tempi della successione, gli
attori coinvolti e le problematiche di diversa natura da affrontare.
Nella seconda fase viene effettuata una diagnosi che mira ad individuare le possibili
soluzioni gestionali e organizzative connesse al passaggio generazionale, occorre quindi
definire l’obiettivo strategico, le politiche, le linee guida e lo sviluppo organizzativo atteso
e possibile dell’impresa specificando, ad esempio, le eventuali operazioni di finanza
straordinaria (fusioni, scissioni etc.) ed i sistemi di corporate governance a sostegno delle
imprese di famiglia, l’eventuale costituzione di patti di famiglia, di trust e di family office
(che verranno analizzati nel capitolo successivo). Si tratta anche di:
definire la proprietà futura in rapporto alle esigenze finanziarie aziendali,
alla vigente legislazione in materia di diritto tributario e societario,
all’apertura del capitale a terzi, al ruolo degli investitori istituzionali;
valutare i progetti di investimento attraverso un utilizzo integrato delle
diverse tecniche esistenti;
individuare le modalità di copertura del fabbisogno finanziario anche alla
luce di quelli che sono i recenti provvedimenti di Basilea.
L’ultima fase consiste nell’implementazione e nel successivo monitoraggio del
piano di continuità aziendale. Quindi all’adeguamento organizzativo, all’avvio di
operazioni straordinarie, al reperimento delle risorse finanziarie, seguiranno percorsi di
formazione e sviluppo dei successori, attività di assistenza di specialisti tributari, civilistici
e societari etc. Tale fase si conclude con il concreto trasferimento della leadership e quindi
con il subentro effettivo della generazione entrante alla generazione uscente.
A ciascuna delle fasi sarà necessario affiancare un’azione di monitoraggio costante
capace di consentire interventi correttivi tempestivi. In conclusione, l’esigenza di
perseguire nel tempo la continuità del family business, in una fase così delicata qual è il
passaggio del testimone, è frutto di un modo di considerare l’azienda come un bene da
salvaguardare e tramandare e quindi dipende dall’impegno di una generazione nei
confronti di quella che la segue.
Dopo aver tracciato le linee della pianificazione del passaggio generazionale, nei
capitoli successivi verranno analizzati gli strumenti a disposizione degli imprenditori
italiani.
22
CAPITOLO 2: GLI STRUMENTI UTILIZZATI NEL PASSAGGIO
GENERAZIONALE
Gli strumenti che possono essere utilizzati per realizzare il passaggio generazionale
nell’impresa sono svariati e vanno analizzati in relazione alle caratteristiche dell’impresa;
concentrandosi sugli strumenti idonei alla successione interna nell’impresa varranno
analizzati:
patto di famiglia;
holding familiare;
donazione d’azienda;
lo strumento testamentario;
usufrutto e nuda proprietà;
conferimento e cessione d’azienda.
Quelli elencati sono solo alcuni degli strumenti utilizzabili per realizzare il
passaggio generazionale nell’impresa, ognuno degli strumenti presenta uno specifico
profilo giuridico e fiscale che va tenuto adeguatamente in considerazione quando si
pianifica la successione dell’impresa.
2.1 Il patto di famiglia
Secondo l'articolo 768-bis del c.c.: “È patto di famiglia il contratto con cui,
compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle
differenti tipologie societarie, l'imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l'azienda, e il
titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno
o più discendenti”. Scopo dell’istituto è garantire il passaggio generazionale nell'azienda,
nel segno della continuità familiare con l’obiettivo di dare certezza alla continuazione
dell’attività, lo strumento mira:
a preservare l’unità del bene produttivo;
a favorire l’univocità del controllo, evitando il frazionamento della proprietà
che si determina con la successione ereditaria;
a gestire in anticipo il trasferimento dell'impresa, in particolar modo quelle
di tipo familiare.
Lo strumento permette l’incontro tra due opposti interessi:
da un lato, quello dell'imprenditore di scegliere liberamente tra i propri
discendenti il successore della propria impresa senza incorrere nelle rigidità
del divieto dei patti successori1;
dall'altro, quello dei legittimari a essere tutelati nei propri diritti, attraverso
opportune ed adeguate compensazioni patrimoniali, nell'eventualità che
vengano esclusi dalla proprietà dell'impresa o delle quote di partecipazioni
sociali. In questo modo sarà possibile pianificare fin da subito quale tra gli
eredi proseguirà l’attività di impresa e quale, invece, verrà remunerato in
altro modo (tipicamente in denaro o mediante l’assegnazione di altri beni)
fino a concorrenza della propria quota di legittima.
Il patto di famiglia è definito dalla legge un contratto, la stipula deve essere redatta
per atto pubblico e lo scioglimento o la modifica è possibile solamente con l’intervento di
tutti i soggetti coinvolti. Dal contratto scaturiscono precisi e determinati effetti giuridici
1
L’articolo 458 c.c., relativo al divieto di patti successori prevede che “Fatto salvo quanto disposto dagli artt. 768-bis e
seguenti, è nulla ogni convenzione con cui taluno dispone della propria successione. È del pari nullo ogni atto col quale
taluno dispone dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta, o rinunzia ai medesimi”.
23
che si identificano in precise e determinate attribuzioni patrimoniali, che si realizzano da
un lato nel trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni sociali dal disponente ad uno o
più discendenti, dall’altro nelle prestazioni eseguite dall’assegnatario dell’azienda o delle
partecipazioni a favore dei legittimari, consistenti nel pagamento di una somma di denaro o
nel trasferimento di beni in natura.
L’istituto si presenta come un negozio bilaterale, parti del contratto sono:
il disponente, ovvero l’imprenditore che trasferisce in tutto o in parte
l’azienda e il titolare di partecipazioni societarie che trasferisce in tutto o in
parte le proprie quote;
i discendenti assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie, il
legislatore ha voluto delimitare il gruppo dei possibili assegnatari ai soli
figli e nipoti, escludendo il coniuge e i fratelli con l’intento di prediligere la
successione in linea retta.
Inoltre possono esservi i legittimari ovvero le persone a favore delle quali la legge
riserva una quota di eredità o altri diritti nella successione, il coniuge, i figli legittimi o
naturali, gli ascendenti legittimi. A queste categorie la legge prevede che venga
necessariamente attribuita una quota del patrimonio del de cuius, la quota di riserva,
contrapposta alla quota disponibile che è quella di cui il soggetto può disporre liberamente
in vita.
L’oggetto del trasferimento può essere l’azienda o le quote sociali, in tutto o in
parte; quindi anche il semplice ramo d’azienda o la concessione di un diritto di usufrutto
sull’azienda.
La figura contrattuale in esame presenta un aspetto oneroso connesso alla
definizione degli accordi tra i destinatari e gli altri eredi esclusi, la gratuità del meccanismo
è realizzabile solamente nel caso in cui i legittimari beneficiati rinuncino espressamente
alla liquidazione della parte loro spettante; nel caso contrario invece è presumibile che la
definizione dei patti risulti complessa e laboriosa poiché volta alla conciliazione e al
raccordo di differenti pretese. Il patto di famiglia è pertanto orientato all’individuazione e
alla ridefinizione degli equilibri economici e giuridici alterati dalle scelte del capofamiglia.
Infatti gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni devono compensare gli altri
partecipanti al contratto (i legittimari non beneficiati) con il pagamento di una somma (o
trasferimento di beni in natura) pari al valore delle quote di legittima.
Nel caso di eredi sopravvenuti (ovvero non esistenti alla stipula del patto) è
riconosciuto che questi possano richiedere il pagamento di una somma corrispondente alla
rispettiva quota di legittima accresciuta degli interessi legali, e nel caso contrario agire per
l’annullamento del patto.
Relativamente agli aspetti fiscali del patto di famiglia è presente una disciplina
specifica solo per taluni effetti di tale istituto ai fini dell’imposizione indiretta, ma va anche
considerata la variegata articolazione e qualificazione delle movimentazioni di ricchezza
che possono essere generate da questi patti, con il pericolo di generare una tassazione non
programmata. Nella legge che ha introdotto il patto di famiglia, gli aspetti fiscali erano stati
completamente ignorati e ciò ha ostacolato l'immediata applicazione delle nuove norme.
Una novità importante è arrivata con la legge finanziaria 2007 che in seguito alla
reintroduzione delle imposte sulle successioni e donazioni, ha disposto a certe condizioni2
l'esenzione dall'imposta di successione e donazione per i trasferimenti di aziende o rami di
azienda, di quote sociali e di azioni a favore dei figli e degli altri discendenti e ha previsto
espressamente che essa si applica anche ai trasferimenti effettuati tramite i patti di
2
Le condizioni a cui si fa riferimento riguardano il fatto che i beneficiari del patto di famiglia proseguano l’esercizio
dell’attività d’impresa detenendo il controllo per un periodo non inferiore a cinque anni e redigano una dichiarazione
con la quale si impegnano ad osservare le condizioni stabilite.
24
famiglia. Dal 2007 quindi i trasferimenti di aziende o rami di azienda, di quote sociali e di
azioni a favore dei figli e degli altri discendenti nell'ambito dei patti di famiglia sono esenti
dall'imposta di donazione e successione. Se l'azienda comprende beni immobili, il
trasferimento è esente anche dalle imposte ipotecarie e catastali che dovrebbero gravare su
di essi. L'esenzione si applica a tutte le aziende e a tutte le quote di partecipazione in
società di persone (s.n.c., s.a.s. e società semplici), indipendentemente dal loro ammontare.
Se invece si tratta di azioni o quote di s.r.l. l'esenzione si applica solo alle partecipazioni
che consentono al beneficiario di acquisire o integrare il controllo della società attraverso
la maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria.
La legge ha previsto anche due ipotesi di scioglimento del patto di famiglia:
il patto può essere sciolto con un nuovo contratto, stipulato dai medesimi
partecipanti e sempre nella forma di atto pubblico. In questo caso, l'azienda
o le partecipazioni societarie ritornano al disponente, e i legittimari devono
restituire ciò che avevano ricevuto dall'assegnatario;
per recesso di uno dei contraenti con atto pubblico se nel patto è stata
espressamente prevista questa possibilità.
Nato con l’intento di ridurre eventuali dissidi, e rendere più lineare un
avvicendamento generazionale, lo strumento presenta tuttavia alcune difficoltà applicative
che ne possono compromettere le finalità:
è inapplicabile a favore di familiari diversi dai discendenti
dell’imprenditore, beneficiario del patto di famiglia non può essere qualsiasi
familiare (ad esempio i fratelli) ma solo un discendente del disponente;
è inapplicabile senza l’intervento ed il consenso di tutti i legittimari di cui
sia nota o conoscibile l’esistenza al momento della stipula del contratto (il
rifiuto dei medesimi di presenziare ed autorizzare il negozio esclude la
possibilità per l’imprenditore di avvalersi di tale strumento);
inapplicabilità nei confronti di eventuali legittimari sopravvenuti alla stipula
del patto di famiglia;
inapplicabilità nel caso in cui il beneficiario non disponga e non sia in grado
di reperire le risorse necessarie per la liquidazione della quota dei legittimari
e questi non rinuncino in tutto o parzialmente a tale liquidazione;
inapplicabilità a fronte di partecipazioni sociali non qualificate costituenti
semplice investimento patrimoniale;
inapplicabile nelle s.a.s. e in genere alle società di persone senza il consenso
di tutti i soci;
l’istituto non è idoneo a risolvere il problema della divisione tra eredi,
ovvero attribuzione agli altri legittimari non assegnatari, di beni della
proprietà dell’imprenditore disponente diversi dall’azienda, ramo di azienda
o dalla partecipazione sociale;
rischi di applicazione della normativa fiscale antielusione in relazione alle
operazioni straordinarie strumentali o successive al patto di famiglia.
Ma non bisogna dimenticare il principale vantaggio: la possibilità per
l’imprenditore di utilizzare l’istituto per pianificare il passaggio generazionale gratuito
nella propria azienda in modo tale da escludere fin da subito un certo bene azienda o
partecipazione sociale dalla futura massa ereditaria, in modo che l’operazione possa essere
messa in discussione dagli altri familiari.
Il patto di famiglia certamente non costituisce la soluzione per qualsiasi difficoltà
legata alla gestione del passaggio generazionale d’impresa, né da solo può risolvere le liti
che mettono in pericolo la coesione familiare, tuttavia esso ha sicuramente l’effetto di
prevenirle e in una certa misura impedirle.
25
VANTAGGI:
- consente un’assegnazione mirata agli eredi prescelti;
- evita gli inconvenienti delle donazioni;
- rafforza l’unità della famiglia proprietaria e ottimizza la governance;
- permette di pianificare per tempo i rapporti tra famiglia e azienda;
- garantisce maggiore trasparenza nelle relazioni famiglia-impresa.
SVANTAGGI:
- il beneficiario deve reperire la liquidità necessaria per pagare la liquidazione
degli altri eredi;
- consente di trasferire aziende e quote di partecipazione, non altri beni;
- situazioni familiari particolarmente complesse potrebbero rendere
difficoltosa l’individuazione dei legittimari;
- l’individuazione della base di calcolo della quota spettante al legittimario
sopravvenuto e la determinazione di chi debba rimborsarlo rappresenta una
criticità.
2.2 La holding familiare
Lo strumento che appare attualmente più utilizzato dalle imprese e gruppi familiari
allo scopo di mantenere la coesione tra i soci è la costituzione di una holding familiare (o
cassaforte di famiglia), con il termine holding s’intende una società che detiene quote di
proprietà di altre società. È possibile distinguere due tipologie di holding: la holding pura e
la holding mista, la prima è una società finanziaria la cui funzione consiste esclusivamente
nella gestione delle partecipazioni detenute nelle diverse società del gruppo e nel
coordinamento strategico delle stesse, mentre la seconda raggruppa in sé le funzioni della
holding pura e quelle tipiche di un’impresa operativa.
Nel caso specifico dell’impresa familiare la holding ha il compito di gestire le
partecipazioni che la famiglia ha nelle società operative ed eventualmente anche altri beni
patrimoniali familiari, senza però entrare nelle problematiche gestionali delle singole
imprese controllate. Essa svolge dunque la funzione di separare la gestione operativa delle
imprese familiari dalle problematiche proprietarie, realizzando la separazione tra ruolo
proprietario, ruolo imprenditoriale e ruolo di controllo manageriale la cui sovrapposizione
è fonte frequente di conflitti. Infatti, realizzare una distinzione giuridica tra livello della
proprietà (rappresentato nella holding) e livello imprenditoriale e manageriale
(rappresentato nelle società operative) permette di far confluire in un unico soggetto tutti i
soci familiari. Con ciò la holding viene a rappresentare l’unica sede nella quale:
possono essere discusse ed eventualmente definite le problematiche legate
alle divergenze tra familiari;
vengono delineate le strategie di governo delle imprese operative, senza
però che vengano prese decisioni che permettano di tradurre in azioni
concrete gli obiettivi contenuti nelle linee strategiche di base.
La separazione tra ambito proprietario ed ambito gestionale, realizzato tramite la
holding, permette di considerare anche l’evento successorio sotto tale duplice aspetto.
Succedere nell’impresa familiare sotto l’aspetto proprietario significherà infatti partecipare
attivamente alla gestione strategica delle attività imprenditoriali assicurando velocità e
funzionalità a tale processo (istituzionalmente confinato nella holding), mentre succedere
nella gestione operativa delle attività aziendali significherà poter garantire professionalità e
motivazioni all’altezza dei compiti richiesti da tale tipo di attività (istituzionalmente svolto
unicamente nelle unità operative).
Nella holding familiare potranno entrare anche soggetti esterni in grado di
apportare risorse finanziarie aggiuntive, senza che con ciò venga alterata l’unità di
26
comando; la holding dunque può risultare un ottimo strumento per consentire l’attribuzione
del potere operativo gestionale solo ad alcuni soci e contemporaneamente l’attribuzione di
uguali utili a tutti i soci; ad esempio nel caso di un padre imprenditore con due o più figli
non tutti interessati alla gestione dell’impresa di famiglia, ma non per questo da
discriminare dal punto di vista economico. Inoltre con una maggiore partecipazione nel
capitale della holding è possibile attribuire il controllo della gestione nella società
operativa all’erede interessato a essa e quindi sicuramente più in grado di garantire una
buona continuazione dell’attività aziendale.
Sono possibili diverse modalità per costituire una holding:
attraverso l’acquisizione di partecipazioni di controllo; questa operazione
consiste nell’acquisto, da parte di una società della maggioranza delle azioni
o quote costituenti il capitale sociale di altre società. Per effetto
dell’operazione di compravendita la società acquirente diviene a tutti gli
effetti una società capogruppo, mentre le società acquisite divengono le
controllate;
con il conferimento di partecipazioni di controllo; si verifica quando i
titolari dei pacchetti di controllo di determinate aziende conferiscono a una
società tali partecipazioni in parola, in cambio di azioni o quote della nuova
società; è particolarmente utilizzato in presenza di gruppi familiari che,
dopo molte generazioni, presentano una compagine societaria estremamente
polverizzata;
con il conferimento di rami d’azienda; questa modalità consiste nel
conferimento, da parte di una società esistente, di propri rami aziendali ad
altre società in cambio di azioni o quote del capitale sociale delle società
medesime.
Diversi possono essere i vantaggi derivanti dalla costituzione di una holding di
famiglia. Per quanto riguarda l’ambito fiscale, un primo aspetto è quello di poterle intestare
successivamente tutti i beni acquistati utilizzando anche la disponibilità liquida derivante
dai flussi finanziari percepiti dalle società operative controllate, senza che tali flussi
finanziari siano distribuiti alle persone fisiche (familiari) e quindi tassate; un secondo
aspetto di natura fiscale sfruttabile è quello derivante dalla eventuale utilizzazione della
tassazione di gruppo fini Iva e ai fini delle imposte dirette.
Anche finanziariamente la holding può risultare molto vantaggiosa dato che può
favorire una ordinata distribuzione di utili ai soci (familiari), raccogliendoli delle varie
controllate anche in modo diseguale; può valutare le esigenze finanziarie dell’intero
gruppo e decidere come distribuire la liquidità senza dover ricorrere ai soci per far fronte
alle singole necessità aziendali.
Inoltre anche dal punto di vista societario la holding consente alcuni vantaggi:
prima di tutto offre la possibilità di creare un’unica struttura sociale al vertice di tutte le
società; consente ai familiari di valutare le varie società operative secondo valori normali
in un’ottica di medio-lungo periodo, evitando di doverlo fare al momento della
successione; in caso di possibili battaglie legali fra i membri della famiglia, le stesse
avvengono sopra le società operative senza che ne possano risentire.
Tutto ciò premesso, bisogna però ricordare che la costituzione della holding può
generare anche alcuni elementi negativi, quali ad esempio l’obbligo di redazione del
bilancio consolidato, il rischio di rientrare nella disciplina delle società di comodo con la
conseguente tassazione minima obbligatoria, la possibile duplicazione dell’imposta di
registro in caso di aumento di capitale in una controllata finanziata con un aumento di
capitale nella stessa holding per mancanza di altri fondi, la possibile rilevanza dei costi di
27
riorganizzazione, una duplicazione di costi societari e l’insorgere di una maggiore rigidità
operativa all’interno del gruppo.
La holding di famiglia può assumere diverse configurazioni giuridiche che
dipendono dalle esigenze della famiglia. La scelta della forma giuridica deve essere in ogni
caso una scelta chiara e duratura nel tempo dato che la finalità di fondo è la continuità
dell’impresa familiare, garantire la certezza del ritorno reddituale per i membri della
famiglia ed agevolare il passaggio di proprietà ai figli. Giuridicamente, la holding di
famiglia può assumere una delle seguenti forme:
società in accomandita per azioni;
società per azioni o società a responsabilità limitata;
fondazione;
società semplice.
La deriva generazionale è una caratteristica tipica delle aziende o gruppi familiari
interessati da fenomeni successori in presenza di più eredi rappresentando un elemento di
disgregazione di maggioranze azionarie precostituite. Questo fenomeno comporta una
ripartizione delle quote, ciascuna delle quali tende immediatamente a scendere al di sotto
della soglia di controllo. Un elemento da tenere in considerazione, riguarda la relazione tra
tasso di crescita dell’azienda e tasso di sviluppo degli eredi, derivante dall’effetto
moltiplicativo della deriva generazionale (se il fondatore ha tre figli, ciascuno dei quali ha
tre figli, nell’arco di due generazioni il numero di soggetti che vantano aspettative sulla
proprietà aziendale passa da uno a nove): con il passare delle generazioni l’effetto
moltiplicativo tende a diventare talmente elevato che risulta difficile che l’azienda
familiare (spesso diventata gruppo) possa manifestare un simile tasso di crescita. La
naturale frantumazione della proprietà azionaria dovuta alla deriva generazionale può
portare a una crescita dell’azionariato a valle o a monte della holding attraverso la quale si
esercita il controllo sul gruppo familiare:
in caso di deriva generazionale a valle si assiste a una frantumazione del
gruppo;
la deriva generazionale a monte implica invece un mantenimento del
controllo familiare sul gruppo, fondato su delicati equilibri.
Come rimedio alle problematiche individuate è possibile attuare alcune strategie
insite nella holding con l’obiettivo di preservare il controllo della famiglia sull’azienda:
la deriva generazionale può essere attenuata o eliminata attraverso un
processo di selezione in cui la trasmissione del controllo avviene solo ad
alcuni membri della famiglia e gli altri vengono indennizzati con il
patrimonio extra-aziendale (che deve essere sufficientemente capiente);
si può procedere a scissioni di alcune attività aziendali non rientranti nel
core business, anche al fine di ripartirle tra una pluralità di eredi, a patto che
la suddivisione del patrimonio aziendale non ne pregiudichi il valore
complessivo;
si può sviluppare la leva azionaria, che consente di diluire sensibilmente l’esborso
necessario per continuare a mantenere il controllo all’interno della famiglia.
VANTAGGI:
- si mantiene unità nei diritti di voto e sociali;
- obbliga i familiari a trovare una composizione dei loro diversi orientamenti
nella holding;
- consente di accedere a istituti che possono garantire una fiscalità agevolata;
- è possibile concedere garanzie unitarie verso il sistema bancario.
SVANTAGGI:
28
-
la normativa sulla deducibilità degli interessi passivi è penalizzante per la
holding;
occorre garantire un flusso reddituale per non cadere nella normativa delle
società di comodo;
in certi casi sono richiesti adempimenti ulteriori.
2.3 La donazione d’azienda
Uno degli strumenti più utilizzati per la trasmissione generazionale è senza dubbio
la donazione, poiché con essa si attua un trasferimento a titolo gratuito. Il proprietario di un
bene destinato ad un figlio può aver bisogno di mantenerne la proprietà; nell’ambito della
successione programmata, egli deve garantire a uno dei figli che tale bene gli verrà
trasferito alla propria morte, in cambio del suo consenso ad altra operazione.
Si tratta di un anticipo dell’eredità che presuppone il passaggio del testimone, con il
conseguente vantaggio di poter affiancare per un periodo di training il donatario. La
donazione dunque, costituisce lo strumento tipicamente utilizzato dall’imprenditore per il
trasferimento in vita dell’azienda ai propri eredi, ma realizzando una sorta di anticipata
successione, incontra il limite della tutela degli eredi legittimi del donante non assegnatari
dell’azienda. Tale eventualità può realizzarsi quando nell’asse ereditario non vi siano altri
beni oltre all’azienda donata sufficientemente capienti per soddisfare le quote di legittima
dei coeredi legittimari.
Dal 1997 la donazione d’azienda può essere considerata un’operazione fiscalmente
neutrale se al momento della stessa, il donatario (il beneficiario) assume l’azienda ai
medesimi valori fiscali riconosciuti in capo al donante e se vi è prosecuzione dell’attività
da parte di tutti i beneficiari della donazione. Pertanto, se sussistono più donatari,qualora la
prosecuzione dell’attività avvenga ad opera di uno soltanto o di alcuni di essi, il regime
della neutralità non opera e il donante deve assoggettare a tassazione la differenza tra il
valore normale dell’azienda donata e il costo fiscalmente riconosciuto della stessa.
Sotto il profilo civilistico, la donazione deve essere fatta per atto pubblico, pena la
nullità della stessa. Va tuttavia osservato come per configurare la donazione non basta
un’attribuzione senza corrispettivo, infatti serve anche l’intenzione di beneficiare.
La tutela dei legittimari è realizzata, in primo luogo, in mancanza di espressa
volontà contraria del defunto, mediante l’obbligo della collazione: i legittimari devono
conferire nella massa attiva del patrimonio ereditario quanto ricevuto dal defunto a titolo di
donazione al fine di mantenere tra i coeredi la proporzione stabilita nel testamento o per
legge. La dispensa da collazione non produce effetti se non nei limiti della quota
disponibile. In ogni caso, anche quando il donante abbia esonerato il beneficiario dalla
collazione, gli atti dispositivi a titolo gratuito sono soggetti a riduzione quando violano i
diritti dei legittimari (coniuge e discendenti). Infatti i beni pervenuti al donatario sono
assoggettabili, in seguito alla morte del donante e all'apertura della sua successione,
all'azione di riduzione esperibile dai legittimari che vedano lesa la loro quota di legittima:
ne consegue per il donatario (e per gli eventuali terzi da questi aventi causa) l'obbligo di
restituire quanto ricevuto a titolo di donazione. L'effetto reale dell'azione si spiega non solo
nei confronti del donatario ma anche di coloro cui il bene donato è stato successivamente
trasferito, rendendo in tal modo instabili gli effetti della donazione stessa. Inoltre, che sia ai
fini della collazione sia ai fini della riduzione il valore dei beni donati in vita è quello che
essi hanno all'apertura della successione, sicché donazioni a diversi legittimari che
all'epoca dell'atto risultavano di pari valore possono invece essere contestate in relazione al
diseguale valore dei beni stessi all'apertura della successione.
VANTAGGI:
29
-
i beneficiari non devono procurarsi risorse finanziarie dato che non vi è un
corrispettivo da pagare;
- se il figlio assume l’azienda agli stessi valori fiscali che aveva in capo al
padre non vi è alcuna plusvalenza tassata (neutralità fiscale);
- si effettua una distribuzione controllata dell’azienda in favore dell’erede
prescelto.
SVANTAGGI:
- nelle donazioni gli eredi esclusi possono dichiarare la violazione dei diritti
ereditari;
- il figlio donatario, per sottrarsi a rischi fiscali pregressi deve ottenere
l’apposito certificato che garantisce che non vi sono contestazioni in corso,
posto che la disposizione prevede che è responsabile l’acquirente.
2.4 Lo strumento testamentario
Attraverso lo strumento testamentario l’imprenditore dispone delle sue sostanze per
il momento in cui avrà cessato di vivere. Esso è un atto strettamente personale e non può in
alcun caso compiersi a mezzo di rappresentante, appartiene alla categoria del negozio
giuridico nella quale si caratterizza per essere un atto unilaterale a causa di morte.
Caratteristiche del testamento sono:
revocabilità: è sempre possibile per il testatore eliminare o modificare l'atto;
unilateralità: esso produce i suoi effetti a prescindere dall'accettazione del
chiamato all'eredità;
tipicità: non esistono altri atti con i quali è possibile disporre delle proprie
sostanze per il tempo in cui si sarà cessato di vivere;
personalità: da cui consegue la nullità di ogni atto col quale si attribuisce
all'arbitrio di un terzo la scelta dell'erede o del legatario o la determinazione
delle quote ad essi spettanti. Il terzo al più potrà essere chiamato a scegliere
il legatario tra più individui o enti indicati espressamente dal testatore;
formalismo: la legge prevede espressamente i modi in cui il testatore può
redigere il testamento. È in ogni caso sempre necessario redigere il
testamento in forma scritta.
L’imprenditore potrà quindi lasciare in eredità l’impresa al successore che egli
ritenga più preparato per la sua conduzione, questa soluzione presenta un grosso
inconveniente: il successore prescelto alla conduzione dell’impresa si troverà a capo della
stessa solo nel momento in cui il testamento diverrà efficace (ossia quando l’imprenditore
senior avrà cessato di vivere), con tutte le conseguenze che ciò comporterà nel caso in cui
il soggetto non possegga ottime doti manageriali e imprenditoriali. Inoltre vi sarà un
problema di ordine successorio in quanto bisognerà verificare la complessiva capienza
dell’asse ereditario per evitare di incorrere nella lesione delle quote degli eventuali eredi
legittimari (per esempio, nel caso in cui, oltre al figlio chiamato a succedere nell’impresa,
vi siano altri figli o il coniuge). Sarà utile perciò un’attenta valutazione del patrimonio
imprenditoriale e delle problematiche fiscali per gestire al meglio tale operazione.
Se il donatario assume l'azienda agli stessi valori fiscali che essa aveva in capo al
de cuius non si ha alcuna plusvalenza tassata a carico dell'eredità. Se l'azienda perviene
invece a tutti gli eredi poiché il genitore non si è preoccupato di disciplinare in via
testamentaria l'asset ereditario, senza una ripartizione in base alle capacità e attitudini dei
figli e di tutti gli eredi, le conflittualità tra i diversi soggetti non potranno che comportare
gravi ripercussioni sull'attività. Gli eredi, subentrando nel possesso dell'azienda si fanno
carico in questo modo anche di eventuali irregolarità fiscali già commesse nell'esercizio
dell'attività svolta, ma questo senza sanzioni.
30
VANTAGGI:
- è il livello minimo della pianificazione del trasferimento d’azienda;
- prevede una destinazione ragionata del patrimonio nei limiti della quota
liberamente disponibile e del rispetto della parità di trattamento.
SVANTAGGI:
- è un impostazione culturale datata che persegue finalità generali e
equitative, prevale l’aspetto sociale rispetto a quello economico.
2.5 Usufrutto e nuda proprietà
Lo strumento si basa sulla distinzione, presente nel nostro ordinamento, per la quale
la piena proprietà di un bene può essere suddivisa in due parti distinte, nuda proprietà ed
usufrutto, ognuna delle quali può divenire oggetto di distinti accordi contrattuali e
concedere determinati diritti al titolare. Chi dispone della nuda proprietà lascia il bene nella
disponibilità di chi ha il diritto di usufrutto per un determinato periodo di tempo o tutta la
vita, la riunione di usufrutto e nuda proprietà avviene poi automaticamente alla scadenza
del diritto (spesso coincidente con il decesso dell’usufruttuario). In quel momento il bene,
senza necessità di altri atti, passa nella completa disponibilità di chi aveva acquistato la
nuda proprietà.
Tale istituto viene ampiamente utilizzato nella gestione del passaggio
generazionale, l’attuazione dello strumento avviene quando l’imprenditore titolare della
totalità delle azioni dell’impresa di famiglia, trasferisce la nuda proprietà delle azioni agli
eredi (figli o altri eredi designati), il trasferimento può avvenire a titolo oneroso o per
donazione.
Per quanto riguarda il passaggio generazionale, esso è particolarmente indicato nei
casi di trasmissione del patrimonio (aziendale o immobiliare), ad un unico erede. Nel caso
di una pluralità di eredi bisogna distinguere la tipologia di beni oggetto del contratto,
infatti:
nel caso di beni immobili l’istituto può svolgere efficacemente il suo
compito (attribuisco ad ogni singolo erede la nuda proprietà di un
determinato immobile);
nel caso di successione d’impresa, dove alla necessità di una efficiente
pianificazione successoria si aggiunga la necessità di strumenti di equilibrio
tra più eredi designati magari in conflitto tra di loro, esso evidenzia qualche
lacuna (ad esempio nel caso di passaggio d’impresa alla terza generazione
dove i potenziali eredi siano una pluralità e senza che nessuno abbia una
maggioranza assoluta), in questo caso lo strumento dovrà essere
necessariamente affiancato da altri istituti (patti parasociali, patti di
famiglia, trust, ecc.).
Lo strumento viene utilizzato prevalentemente in riferimento a immobili e
partecipazioni. Per quanto riguarda gli immobili esso può prevedere la donazione o la
vendita della nuda proprietà di uno o più immobili ad uno o più figli, riservando nel
contempo la possibilità di usufrutto in favore dei genitori. In tal modo, i genitori sono
tutelati circa la possibilità di utilizzo degli immobili di cui hanno trasferito la nuda
proprietà, sino alla fine dei loro giorni pur avendo la certezza che gli
immobili, alla loro morte, diverranno di proprietà piena del figlio o dei figli ai quali la nuda
proprietà è stata trasferita.
Per quanto riguarda le partecipazioni di controllo, l’imprenditore mantiene l’usufrutto a
suo favore al fine di:
avere a disposizione una rendita vitalizia, data dai dividendi che saranno distribuiti
dalla società;
31
continuare ad esercitare il diritto di voto ed indirizzo nelle assemblee;
gestire in modo graduale il passaggio delle consegne alla nuova generazione, e non
essere in vita bruscamente estromesso dall’impresa familiare.
Un’altra ipotesi di pianificazione successoria, tramite utilizzo dell’istituto
dell’usufrutto è quella in cui oggetto del contratto è l’intera azienda, oppure, anche un
ramo aziendale. Il ricorso a tale tipo di contratto ha come obiettivo il trasferimento della
gestione operativa dell’azienda contenuta nell’impresa di famiglia agli eredi che hanno
dichiarato l’intenzione o si ritiene abbiano la capacità di gestire, escludendo altri eredi che
si sono dichiarati non interessati o che si ritengano non capaci di proseguire la gestione. Gli
eredi interessati a gestire l’azienda disporranno dei frutti da essa ricavati, in relazione al
rischio imprenditoriale, mentre i soci dell’impresa familiare non interessati a gestirla
percepiranno una specie di rendita.
L’istituto dell’usufrutto e della nuda proprietà sono da tempo presenti nel nostro
ordinamento e hanno le seguenti caratteristiche:
facilità di utilizzo, è sufficiente un atto notarile e la sua registrazione negli
appositi registri;
semplicità e tipicità, essendo un contratto tipico è uno strumento alla portata
della maggior parte degli utenti;
il patrimonio oggetto del contratto può essere anche di modesta entità;
l’istituto non richiede, di norma, costi di implementazione significativi;
gode di un regime fiscale non punitivo;
sotto il profilo strettamente economico, esso non ha particolari costi
di implementazione al di fuori di quelli strettamente burocratico amministrativi.
Bisogna tener presente alcune possibili controindicazioni nel suo utilizzo, ad
esempio:
se il genitore usufruttuario ha bisogno urgentemente di denaro in vita, potrà
alienare il bene solo con l’assenso dei figli titolari della nuda proprietà;
non va sottovalutata la possibilità che venga a mancare prima il figlio del
genitore, in questo caso la nuda proprietà passa al genero/nuora o ad un
nipote;
con tale istituto rimane irrisolta la problematica della governance familiare
od aziendale del patrimonio una volta venuto meno il titolare della stessa;
lo strumento consente di attribuire la nuda proprietà del patrimonio secondo
certi criteri, ma non di incidere sulle modalità di assunzione delle decisioni
da parte degli eredi circa la gestione del patrimonio, né su quelle di
ricomposizione di eventuali divergenze tra gli eredi designati.
Quindi lo strumento, nonostante sia presente da tempo nel nostro ordinamento, in
combinazione con altri strumenti giuridici disponibili nel panorama nazionale ed
internazionale ha ampliato il suo ambito di applicazione. In particolare lo strumento risulta
efficace, affidabile ed economico per la gestione di passaggi generazionali dove il livello di
complessità, sia in termini di beni oggetto del contratto che di soggetti coinvolti, non sia
elevato, e nel rendere disponibile in via anticipata dei redditi derivanti da proprietà
immobiliari, senza rinunciare all’utilizzo (usufrutto), degli stessi da parte dei cedenti.
VANTAGGI:
- viene ceduta solamente la nuda proprietà ai figli, mentre i genitori
mantengono l’usufrutto;
- il genitore mantiene il diritto di voto e agli utili controllando le leve di
comando e i frutti dell’attività;
32
alla morte del genitore l’usufrutto si unisce alla nuda proprietà e l’erede
acquisisce l’intera proprietà senza oneri fiscali.
SVANTAGGI:
- i figli devono avere disponibilità monetaria per acquistare la nuda
proprietà.
-
2.6 Conferimento e cessione d’azienda
La trasformazione dell’azienda individuale in società rappresenta l’operazione
attraverso la quale l’imprenditore pilota il passaggio generazionale, sono due le strade
percorribili: conferire l’azienda in una società costituenda oppure cedere l’azienda ad una
società costituita.
L’operazione di conferimento d’azienda o di un ramo di azienda consiste
nell’acquisizione di una partecipazione in cambio dell'azienda conferita. Il conferimento
dell’azienda individuale in una società in cui sono presenti o subentrano dei familiari
interessati alla gestione aziendale è uno strumento apposito per l’imprenditore che vuole
preordinare gradualmente la trasmissione della titolarità dell’azienda, facendo entrare nella
proprietà d’azienda a pieno titolo un familiare che già la gestisce insieme al titolare. In
questo modo prima si fa coincidere l’assetto giuridico con la struttura di fatto di
conduzione dell’azienda e successivamente si provvede alla cessione delle azioni o quote,
scontando un’imposizione successoria più favorevole.
Infatti se sussistono le seguenti condizioni:
oggetto del conferimento è un’azienda;
conferente e conferitaria sono imprese commerciali;
conferente e conferitaria sono residenti in Italia;
La determinazione della plusvalenza da conferimento avviene sulla base del
confronto tra l’ultimo costo fiscalmente riconosciuto dei beni oggetto del conferimento ed
un valore pari al valore attribuito nella contabilità dell’impresa conferente alle
partecipazioni della società conferitaria ricevute in cambio. La regola di determinazione
della plusvalenza consente di effettuare conferimenti d’azienda fiscalmente neutri, essendo
sufficiente che l’operazione avvenga nel rispetto della continuità dei valori tra la
conferente e la conferitaria. Mentre le imposte catastali e di registro si applicano in misura
fissa.
I soggetti del conferimento sono:
il conferente, colui che apporta l’azienda ricevendone partecipazioni; può
trattarsi di: imprenditore individuale, società, ente, titolare di diritto di
proprietà o altro diritto reale;
il conferitario, colui che riceve l’azienda, aumentando di conseguenza il
proprio capitale; può trattarsi di: società, ente.
L’oggetto del conferimento è l’azienda, intesa come il complesso dei beni
organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa, o un ramo di essa, inteso come
uno specifico settore dell’intero complesso aziendale.
Le motivazioni che portano al conferimento possono mirare a diverse finalità:
il riassetto organizzativo-produttivo, più problematico nelle imprese di
grandi dimensioni;
la ristrutturazione finanziaria, per diversificare le diverse aree d’affari
all’interno dell’impresa;
la liquidazione di parte del patrimonio dell’impresa, ad esempio in caso di
presenza di settori in perdita;
33
la concentrazione di imprese, nel caso in cui in un particolare settore
economico la grande dimensione rappresenti un vantaggio economico, ad
esempio per far fronte alla concorrenza;
come strumento per il passaggio generazionale.
L’atto di conferimento richiede sempre la forma scritta, e in particolare:
società di capitali: atto pubblico redatto da un notaio;
società di persone: scrittura privata autenticata.
In ogni caso devono essere osservate le forme stabilite dalla legge per il
trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda, la data di effetto del
conferimento è quella di stipula dell’atto di conferimento, senza possibilità di
retro/postdatare gli effetti dell’operazione.
L’aspetto positivo è che il genitore ha la possibilità di monitorare l'attività del figlio
sino al momento in cui decide definitivamente di passare l’azienda, inoltre il genitore può
non comprendere nell'azienda conferita uno o più immobili per garantirsi una sostanziale
liquidazione per l'opera svolta sin a quel momento. Può poi concedere in locazione
l'immobile fruendo di una rendita. Ma bisogna anche tener conto del fatto che il figlio per
poter partecipare deve possedere risorse finanziarie per sottoscrivere il capitale sociale di
propria pertinenza.
VANTAGGI:
- il conferente senza realizzare plusvalenze e pagare imposte può trasferire
tutto o una parte di patrimonio agli eredi;
- il conferente può mantenere dei beni che gli assicurino una rendita vitalizia.
SVANTAGGI:
- da valutare la definitività del trasferimenti rispetto ai diritti dei legittimati
se non avviene a valori correnti.
Con il contratto di cessione d’azienda il cedente trasferisce il complesso aziendale
ad un acquirente, il cessionario, dietro corrispettivo. L’azienda viene ceduta unitariamente,
con debiti e crediti e con subentro nei rapporti contrattuali in essere. La cessione d’azienda
a titolo oneroso permette la trasmissione dell’impresa individuale ai figli.
Formalmente la cessione dell’azienda richiede l’autenticazione delle firme, il
contratto è quindi effettuato necessariamente in forma scritta e si dovrà indicare che: il
cedente deve dichiararsi titolare del complesso dei beni organizzati in azienda,
specificando anche il tipo di attività che svolge l’azienda; il cedente deve dichiarare di
voler cessare l’attività e di avere interesse a reperire chi è disponibile ad acquistare tale
azienda; il cessionario deve, a sua volta, dichiararsi disponibile ad acquistare la predetta
azienda. La cessione comprende tutti i beni mobili che arredano e corredano l’azienda, è
altresì compresa la ditta costituita dalla sigla e l’insegna aziendale.
L’aspetto positivo è che il figlio, dopo aver ottenuto dall'Ufficio delle Entrate l'apposito
certificato che garantisce che non vi sono contestazioni in corso, non si accolla i rischi
fiscali pregressi. Il genitore può non comprendere nell'azienda ceduta uno o più immobili,
conservando la proprietà dei medesimi e garantendosi così una liquidazione per l'opera
svolta. Può inoltre concedere in locazione l'immobile all'impresa del figlio, ottenendo in
questo modo una rendita.
L’aspetto negativo è che la compravendita comporta il pagamento di un
corrispettivo che, per quanto possa essere dilazionato, comporta al figlio la necessità di
procurarsi le necessarie risorse finanziarie.
Infine è anche possibile attuare una progressiva cessione di partecipazioni sociali in
capo
al successore che consiste nell’organizzare in vita l’assetto proprietario dell’azienda
attraverso un’equa distribuzione delle quote della società in capo ai familiari discendenti.
34
Tale soluzione risulta particolarmente apprezzabile quando vi sia la compresenza di più
figli e si voglia conferire a tutti la possibilità di partecipare, pro quota, ai proventi
dell’impresa, ed eventualmente concedere ad uno solo di essi, attraverso la previsione di
cessione di una percentuale maggiore di quote, la guida futura dell’azienda, affiancandolo
a sé nella conduzione dell’impresa fino al momento del passaggio delle consegne (e del
relativo pacchetto di maggioranza, che potrà avvenire per esempio per testamento).
VANTAGGI:
- si effettua una distribuzione controllata dell’azienda nei confronti
dell’erede prescelto;
- se il valore pagato è congruo rispetto ai valori correnti gli altri eredi non
possono eccepire violazioni dei diritti testamentari.
SVANTAGGI:
- l’erede deve avere disponibilità finanziaria per pagare il corrispettivo,
anche in modo dilazionato;
- l’atto di cessione è soggetto ad accertamento da parte dell’Agenzia delle
Entrate;
- la stessa operazione fatta attraverso cessione o donazione a certe condizioni
potrebbe essere più conveniente.
Dopo aver analizzato i principali strumenti a disposizione per gli imprenditori
italiani, il capitolo successivo analizzerà lo strumento del trust dimostrando, come sostiene
la tesi, la sua innovatività e la sua predisposizione ad affrontare il passaggio generazionale
con il minor rischio possibile rispetto agli strumenti tradizionali.
35
CAPITOLO 3: IL TRUST
3.1 Cenni storici sulle origini del Trust
Il trust trovò le sue radici nel diritto inglese in epoca medioevale, il vocabolo
inglese trust significa fiducia, fede e la sua origine storica si collega a due condizioni
caratteristiche del sistema giuridico di Common Law3: l’esistenza di una giurisdizione di
equità e la differente concezione del diritto di proprietà caratteristica del sistema
anglosassone e difforme da quella romanistica.
Nel 1300 infatti si venne a sviluppare nel mondo anglosassone un sistema di
giurisdizione complementare e parallelo a quello della Common Law, denominato equity4,
consistente nell’amministrazione del diritto attraverso la giurisdizione personale di un
funzionario reale, il Cancelliere del Re, detentore della coscienza del Re, con la sua
giurisdizione di equity, rimediava alle lacune della Common Law: quando sulla base del
diritto non era possibile dirimere adeguatamente una questione, il Cancelliere inoltrava una
petizione al Re e se il comportamento del convenuto era contrario alla coscienza reale, il
Cancelliere poteva intervenire in nome del sovrano per evitare tale comportamento
scorretto.
Nel corso degli anni si erano così gettate le basi per la nascita della giurisdizione di
equity della Corte del Cancelliere, quale sistema di giustizia rivolto alla tutela dei
cosiddetti “equitable interests” e come tale, complementare rispetto alla giurisdizione di
common law. Proprio la nascita della giurisdizione equity fu propedeutica alla creazione
del trust. Tale istituto nacque per diversi motivi, tra i quali:
superare i limiti che il sistema giuridico feudale inglese poneva al feudatario
di trasferire mortis causa la proprietà del feudo;
eludere il divieto posto agli ordini religiosi di acquistare e disporre
liberamente beni immobili;
rispondere alle esigenze di tutela di una pluralità di soggetti tra cui i crociati
(gli affidanti). Essi affidavano durante la loro assenza la gestione dei propri
beni ad una persona di fiducia (l’affidatario) con l’obbligo di detenerli,
amministrarli, restituirli in caso di ritorno o trasferirli ai loro eredi in caso di
morte; a fronte dell’inadempimento dell’obbligo di restituzione avevano la
possibilità di rivolgersi al Cancelliere che, in forza del potere di grazia
delegato dal re, poteva assicurare loro una tutela equitativa, considerando
l’affidatario alla stregua di un trustee.
Non solo i Cancellieri si espressero ripetutamente a favore dei proprietari originari,
ma riconobbero ad essi anche il diritto a riavere i beni originariamente trasferiti. Poiché i
decreti emanati dalla Cancelleria avevano forza esecutiva, quello che inizialmente era un
semplice obbligo morale divenne col passare del tempo un vero e proprio obbligo
giuridico, tipicizzato in quello che fu chiamato l’istituto del “trust”. Con il trust si poteva
3
Il common law è il sistema giuridico dei paesi anglosassoni. La formazione del diritto ha origine prevalentemente dalle
decisioni del giudice e dalle sentenze del sistema giudiziario anziché da norme giuridiche generali e da codici.
Nell'emettere una sentenza il giudice è vincolato dalle sentenze emesse su casi analoghi. Ha origine nei paesi in cui
mancano codificazioni generali del diritto, non è recepita la tradizione del diritto romano e prevale una formazione
pratica del giurista rispetto a quella accademica. Il sistema common law si contrappone al sistema civil law che, al
contrario, fonda l'origine del diritto esclusivamente nelle fonti legislative.
4
L'Equity è il nome attribuito ad un insieme di principi di diritto seguiti nei Paesi dotati di un sistema di common law,
che intervengono ogniqualvolta l'applicazione dello stretto diritto risulti iniqua, operando come criterio di giustizia che
tiene conto delle particolarità del caso di specie e delle correlate circostanze umane, al fine di realizzare la cosiddetta
"giustizia del caso concreto". È spesso contrapposta alla "legge" scritta.
36
trasferire la proprietà del bene immobile a favore di un terzo il quale era obbligato a
trasferire le rendite (se si trattava della proprietà di un fondo) al primo proprietario o, alla
morte di questi al soggetto da egli indicato. Questa funzione sussidiaria, svolta nella sfera
della giurisdizione di equity, si è sviluppata per tutelare l’affidamento, per offrire
protezione di giustizia sostanziale ed impedire all’affidatario di avvantaggiarsi del
tradimento della fiducia in esso riposta, obbligandolo a tener fede all’obbligo assunto.
La tutela garantita agli interessi sottesi al trust dal giudizio di equità fu possibile in
funzione della particolare struttura riconosciuta al diritto di proprietà negli ordinamenti di
stampo anglosassone, nei quali esso si presenta con caratteristiche notevolmente differenti
da quelle appartenenti agli ordinamenti civil law come quello italiano.
Secondo il diritto inglese sia il trustee che il beneficiario (ovvero il destinatario dei
beni in trust e dei redditi da essi prodotti) sono proprietari dei beni costituiti in trust, ma in
modi tra loro differenti e soprattutto, nessuno dei due riconducibile al diritto di proprietà
noto ai sistemi giuridici a base romanistica: il trustee è titolare del cosiddetto legal estate,
ha la proprietà formale secondo il diritto comune ed è tenuto all’amministrazione ed alla
custodia dei beni a vantaggio del beneficiario, il quale è titolare dell’equitable estate, cioè
della proprietà sostanziale, secondo le regole dell’equity.
Dunque nel trust si ha uno sdoppiamento del diritto di proprietà tra un soggetto (il
trustee) che è proprietario dei beni al solo fine della gestione, ed un altro soggetto (il
beneficiario) che ne è proprietario al fine del godimento; ciò in conseguenza della
particolare concezione del diritto di proprietà proprio degli ordinamenti di common law e
dell’evoluzione della giurisdizione della Cancelleria Reale che, nell’elaborare le regole
dell’equity, permise la frammentazione illimitata della proprietà secondo la libera volontà
del disponente del trust.
3.2 I caratteri generali
Una definizione generale di trust può essere: “A trust is an equitable obligation,
binding a person (who is called a trustee) to deal with property over which he has control
(which is called the trust property), for the benefit of persons (who are called the
beneficiaries), of whom he may himself be one, and any one of whom may enforce the
obligation”. Ovvero il trust implica che un soggetto A (settlor o disponente) trasferisca con
atto fra vivi ad un soggetto B (trustee) la proprietà di uno o più beni, conferendogli
l’incarico di utilizzare i medesimi (che costituiscono il patrimonio del trust) a vantaggio di
un ulteriore soggetto C (beneficiario, che può essere anche più di uno) ovvero per il
perseguimento di un certo scopo.
La fattispecie costitutiva del trust si compone di due negozi funzionalmente
collegati:
il negozio (unilaterale) istitutivo, che contiene le regole cui il trustee dovrà
attenersi nell’amministrazione del trust fund;
il negozio dispositivo, che attua il trasferimento dei beni dal disponente al
trustee, cioè la dotazione del trust.
In attuazione del negozio istitutivo del trust non viene ad esistenza alcun nuovo
soggetto di diritto, ma quanto trasferito al trustee (che è il nuovo proprietario dei beni)
diviene oggetto di un patrimonio separato, ovvero segregato, dal suo patrimonio personale
e conseguentemente inattaccabile dai creditori personali sia del disponente, sia del trustee,
sia del o dei beneficiari. Questo patrimonio infatti è destinato unicamente al
soddisfacimento delle obbligazioni contratta dal trustee nell’amministrazione di esso.
L’effetto traslativo produce un’ulteriore conseguenza: l’attribuzione al beneficiario
di una posizione giuridica qualificata come equitable estate ed è opponibile, sia pure entro
certi limiti, ai terzi. Quindi all’esito dell’istituzione del trust il trustee è proprietario dei
37
beni trasferitigli dal disponente ma il suo diritto non è pieno, infatti egli potrà utilizzare i
beni del trust fund solamente nel rispetto delle prescrizioni contenute nell’atto istitutivo del
trust, onde attuarne le finalità. Il disponente, essendosi privato dei beni, ne perde non solo
la titolarità definitivamente ma anche il controllo, avendo demandato al trustee l’attuazione
delle finalità consacrate nell’atto istitutivo.
L'effetto più importante che il trust produce è rappresentato dalla cosiddetta
segregazione patrimoniale, i beni posti in trust costituiscono un patrimonio separato
rispetto ai beni residui che compongono il patrimonio del disponente, del trustee e dei
beneficiari. La conseguenza più importante è che qualunque vicenda personale e
patrimoniale che colpisca queste figure non travolge mai i beni in trust. La segregazione fa
sì che i beni in trust non possano essere aggrediti dai creditori personali del trustee, del
disponente e dei beneficiari e il loro eventuale fallimento non vedrà mai ricompresa nella
massa attiva fallimentare i beni in trust. I beni in trust risultano quindi efficacemente
sottoposti ad un vincolo di destinazione (essi sono destinati al raggiungimento dello scopo
prefissato dal disponente nell'atto istitutivo) e ad un ulteriore vincolo di separazione (cioè
giuridicamente separati sia dal patrimonio residuo del disponente sia da quello del trustee).
I beni in trust sono quindi, secondo una terminologia anglosassone, earmarking cioè
marchiati affinché non si confondano con quelli delle altre parti citate. Da ultimo il trust,
proprio per gli effetti immediati che esso produce, non può esistere senza proprietà e i beni
futuri non possono esserne oggetto.
Figura 4: la struttura del trust
Fonte: Sforza, Il trust, 1997
3.3 I soggetti
Secondo la configurazione classica il trust è composto da tre soggetti:
1. il disponente o settlor, il quale trasferisce un bene al trustee;
2. il trustee, il quale acquista la proprietà legale del bene a vantaggio del
beneficiario;
3. il beneficiario, il quale acquista la proprietà equitativa del bene stesso.
Tuttavia un soggetto può istituire un trust del quale sia egli stesso tanto il trustee
quanto uno dei beneficiari. Di seguito si presenta uno schema utile ad inquadrare la
struttura organizzativa del trust.
38
3.3.1 Il disponente
Il disponente è colui che dà vita al trust. Più precisamente, viene considerato
disponente ogni soggetto che:
istituisce il trust mediante un atto volontario e unilaterale;
fissa nell’atto istitutivo le norme di funzionamento del trust;
dispone in trust beni o diritti di sua proprietà, trasferendoli al trustee.
Il disponente può essere persona fisica o giuridica. Per poter istituire un trust una
persona deve essere capace di agire e quindi essere maggiorenne, non essere interdetta o
inabilitata. Ciascun trust può avere più di un disponente, ciò si verifica quando una
pluralità di soggetti ha provveduto ad istituirlo, conferendo a tal fine una parte dei rispettivi
patrimoni.
Con il conferimento il disponente perde completamente e definitivamente la
proprietà dei beni, questo significa che egli non è più il proprietario, né direttamente, né
indirettamente del patrimonio conferito. Inoltre egli non gode nemmeno di alcun diritto
giuridicamente valido di rientrare in possesso dei beni. Ne consegue che gli stessi non sono
più rivendicabili neppure dai suoi creditori o dal fisco, fatta salva la possibilità di ricorrere
all’azione revocatoria qualora ne sussistano i presupposti. Esso è comunque in grado di
esprimere nell’atto istitutivo le linee che dovranno essere seguite dal trustee, sia nella
gestione dei beni sia nei confronti dei beneficiari, ogni atto istitutivo contiene disposizioni
di questo tipo espresse dal disponente alle quali il trustee deve obbligatoriamente attenersi.
É inoltre possibile prevedere degli specifici accorgimenti giuridici che consentano
al disponente di esercitare un controllo successivo al conferimento, anche se indiretto,
sull’operato del gestore:
ricorrendo alle letter of wishes (lettere d’intento), inviate dal disponente al
trustee, contenenti una serie di consigli sulle regole di condotta da seguire
nella gestione; esse contengono consigli e nulla più, non sono cioè
vincolanti e possono essere disattese.
nominando uno o più protector, previsti all’atto della costituzione da parte
del disponente, a cui demandare il potere sia di controllare l’operato del
trustee che di influenzarne le scelte di gestione. Inoltre lo stesso disponente
può ricoprire il ruolo di protector.
3.3.2 Il trustee
Il trustee rappresenta la figura cardine dell’istituto, egli è il soggetto che acquisisce
il diritto di proprietà sui beni conferiti in trust. Tuttavia l’esercizio di tale diritto è
sottoposto a una serie di limitazioni a favore dei beneficiari. In qualità di gestore del
patrimonio conferito, il trustee è tenuto ad amministrare e disporre dei beni in trust
secondo le istruzioni impartite nell’atto istitutivo. Inoltre i beni oggetto del trust
costituiscono una massa distinta dal patrimonio personale del trustee, essi pertanto non
rientrano nel suo attivo ereditario, né possono essere reclamati dai suoi creditori personali.
Il ruolo del trustee incorpora un’ampia gamma di doveri, quelli principali sono:
rispettare le disposizioni dell’atto istitutivo e della legge regolatrice del
trust;
agire con prudenza e diligenza nella gestione dei beni;
assicurare che la titolarità dei beni in trust faccia capo a sé medesimo o,
qualora si serva di un’altra persona, mantenere comunque il pieno controllo;
assumere personalmente nei confronti dei terzi le obbligazioni riguardanti il
trust;
39
mantenere separati i beni oggetto del trust dal suo patrimonio personale, nel
caso in cui sia trustee di più trust dovrà mantenere ciascun patrimonio
separato dagli altri;
astenersi dal compiere atti che perseguano l’interesse proprio (o di altri
soggetti) anziché quello dei beneficiari;
agire nell’interesse di tutti i beneficiari, secondo criteri di imparzialità;
tenere i conti dell’attività svolta e rendere conto sull’andamento della
gestione.
Al di fuori dei vincoli elencati, il trustee gode di tutte le facoltà che la legge
riconosce al normale proprietario. L’esercizio di tali facoltà è rimesso alla sua personale
discrezione, senza obbligo di consultare i beneficiari o il disponente né di rispettarne le
ulteriori indicazioni, quello della libertà di gestione è da considerarsi un requisito
essenziale del trust.
Un elenco dei poteri tipicamente attribuibili al trustee è il seguente:
acquisire, ritenere e disporre dei beni;
gestire il fondo in tutta una gamma di investimenti di qualsiasi genere, in
qualsiasi parte del mondo;
disporre di conti bancari e trasferire i relativi fondi;
disporre di proprietà fondiarie e non fondiarie;
permettere l’uso o l’occupazione di beni;
contrarre prestiti, dare garanzie per i debiti dei beneficiari;
assicurare i beni;
assegnare beni ad un beneficiario;
delegare;
costituire società e sottoscrivere azioni;
liquidare società o variare diritti azionari;
erogare compensi ai trustees o ai protectors;
assicurare tutela ai diritti dei beneficiari minori di età;
pagare le tasse, imposte e tributi;
nominare nuovi trustees;
rinunciare ad alcuni o a tutti i poteri discrezionali conferiti.
Ovviamente i trustee sono soggetti che godono della fiducia del disponente, le
modalità per la loro designazione e sostituzione sono ampiamente discrezionali e fissate
dall’atto istitutivo; essi possono essere anche persone giuridiche, questa è di norma la
soluzione preferita per evitare gli inconvenienti che potrebbero insorgere al decesso del
trustee persona fisica.
Risulta primario nella figura del trustee la professionalità dato che comporta in
linea di principio la capacità di assumere decisioni consapevoli, in Italia non è richiesta
alcuna qualifica professionale per lo svolgimento dell’attività di trustee, ma è ovvio che lo
svolgimento consapevole di tale attività comporti una dose di conoscenza e di esperienza
che non può essere patrimonio dell’uomo della strada.
Spesso il ruolo di trustee è ricoperto da una persona giuridica che svolge
professionalmente tale attività, si tratta delle cosiddette Trust Companies, società che nei
Paesi anglosassoni hanno raggiunto una consolidata tradizione ed un’elevata affidabilità
nella gestione di patrimoni conferiti in trust. Altrettanto di frequente il ruolo di trustee è
affidato ad una banca. Nella maggior parte dei casi la legge non riconosce al trustee alcun
diritto a ricevere un compenso, di norma tuttavia l’atto istitutivo prevede espressamente
una remunerazione per l’attività svolta, specie qualora vi sia il ricorso a trustees
professionali.
40
3.3.3 I beneficiari
Il beneficiario è il soggetto che, in sede di costituzione del trust o con decisione
intervenuta successivamente, è stato designato destinatario dei beni e dei redditi da essi
prodotti. Chiunque può essere beneficiario di un trust: persone fisiche (capaci o incapaci
legalmente), persone giuridiche ed enti di svariata natura.
L’individuazione dei soggetti viene fatta nell’atto istitutivo mediante un elenco
nominativo o definendo il gruppo o la categoria che permette di identificarli, ad esempio
possono essere nominati beneficiari i discendenti del disponente, i soci di un’associazione,
gli amministratori o i dipendenti di una società.
Il beneficiario non è proprietario dei beni, spesso neppure sa di essere beneficiario
fino alla morte del disponente, bensì del diritto a ricevere i benefici economici (ossia i
redditi prodotti nonché, al termine del trust, i beni stessi). La legge consente di rinunciare a
tale diritto perdendo così il ruolo di beneficiario. Nei limiti concessi dal Deed of Trust5 il
titolare può anche disporre del diritto cedendolo a terzi, facendone l’oggetto di donazione,
di divisione, ecc.
La legge tutela inoltre il beneficiario, riconoscendogli specifiche azioni esperibili
nel caso in cui il trustee non adempia agli obblighi assunti o nel caso in cui trasferisca i
beni a un terzo in violazione del trust. Anche se di norma i beni restano di proprietà del
trustee fino al termine del trust, l’atto istitutivo può prevedere la possibilità che parte di
essi sia trasferita al beneficiario prima di tale scadenza. Nel Deed of Trust sono stabiliti
anche i criteri per la ripartizione e la distribuzione dei benefici economici da erogare agli
interessati. L’atto può tuttavia rimettere al trustee o al protector la scelta delle modalità con
cui procedere alle erogazioni. Quando ciò si verifica il trust viene solitamente definito
discrezionale. Nei trust discrezionali i trustees/protectors possono anche decidere di
distribuire solo una parte del reddito maturato capitalizzando il rimanente, oppure di non
distribuire nulla.
In ogni legislazione che disciplina il trust sono presenti norme specifiche atte a
garantire ai beneficiari strumenti giuridici di tutela dei loro diritti, questi strumenti sono
utilizzabili prevalentemente nei confronti dei trustees nei casi in cui non abbiano
adempiuto correttamente agli impegni assunti o abbiano abusato del loro ruolo per ottenere
vantaggi personali. La fattispecie considerata rientra in quello che convenzionalmente
viene definito breach of trust (letteralmente abuso, violazione di fiducia). In questi casi la
soluzione più immediata resta comunque quella di procedere alla sostituzione dei trustees,
purché ciò sia stato previsto nell’atto istitutivo. Se il comportamento scorretto dei trustees
dovesse aver causato dei danni economici, gli stessi potranno essere citati in giudizio
utilizzando le azioni previste dalla legge per ottenere il risarcimento del danno o per
rendere inefficaci gli atti compiuti in breach of trust. Tuttavia nella pratica l’insorgere di
controversie di questo tipo è un evento raro dato che l’essenza stessa del trust si fonda sul
concetto di fiducia, sentimento che deve necessariamente legare i soggetti interessati.
3.3.4 Il protector
Il protector è quel soggetto al quale il disponente, nell’atto istitutivo, può attribuire
una serie di poteri e di prerogative nei confronti dei trustees e del loro operato. Il protector
è di solito una persona strettamente legata al disponente da legami di amicizia e di stima, al
5
E’ un documento comprovante la costituzione del trust che, oltre le regole di funzionamento, contiene le
indicazioni del disponente sulla destinazione dei beni segregati, sui poteri spettanti al trustee e al protector,
sulla durata del trust e sulla nomina o esclusione di beneficiari. Si tratta di un negozio giuridico a forma
libera: nella maggior parte delle legislazioni esso può essere redatto sia verbalmente che in forma scritta.
41
quale egli affida il compito di controllare e indirizzare l’operato dei trustees, accertando
che essi ottemperino effettivamente alle indicazioni contenute nell’atto istitutivo.
Il ricorso al protector è ormai diventata una prassi diffusa in tutti i paesi, essa trova
il proprio fondamento giuridico nella facoltà, riconosciuta al disponente, di ritenere per sé,
ma anche di attribuire a terzi, alcune prerogative sottraendole ai trustees. Nei confronti di
quest’ultimi il protector può avere poteri molto ampi, infatti egli può non solo limitarsi a
funzioni di controllo o di consultazione preventiva, ma anche promuovere e indirizzare le
loro decisioni operative ed opporre il proprio veto nelle scelte più importanti. Di norma al
protector vengono conferite le seguenti attribuzioni:
vigilanza sulla gestione;
potere di veto alle scelte di gestione;
nomina e revoca di trustees;
modifiche alla lista dei beneficiari;
sostituzione della legge regolatrice del trust;
quantificazione dei benefici economici da distribuire ai beneficiari;
nomina di altri protector.
Analogamente a quanto accade per il trustee, le obbligazioni del protector vedono
come soggetto attivo il beneficiario, e non il disponente. Ovviamente il protector non potrà
mai trasformarsi in un gestore, poiché in tal caso sarà anch’egli considerato un trustee, con
le relative implicazioni sul piano della responsabilità.
3.4 Le fonti giuridiche del trust
Per comprendere meglio la fattispecie del trust è utile compiere una distinzione,
secondo il diritto inglese, tra trusts espressamente istituiti e trusts non espressamente
istituiti. I primi, la fattispecie più frequente, hanno come fonte una dichiarazione espressa
di volontà (denominata atto istitutivo o costitutivo del trust), emessa dal disponente con
atto inter vivos o mortis causa (ossia mediante testamento), la quale contiene la
regolamentazione del trust stesso ed ha natura di negozio unilaterale; i secondi sono la
conseguenza della valutazione legale di un atto o fatto volontario non espressamente o
sufficientemente indirizzato alla istituzione di un trust.
L’atto istitutivo di trust è stato definito da Buttà nei Quaderni della Rivista “Trusts
e attività fiduciarie” (2002) come un atto la cui causa consiste nell’intento programmatico
di segregare posizioni giuridiche per raggiungere uno scopo meritevole di tutela e tale
effetto è soddisfatto mediante il trasferimento al trustee delle posizioni stesse. Il negozio
istitutivo può essere recettizio oppure no, a seconda che il trustee e il disponente siano
persone diverse o meno. Si avrà un negozio non recettizio nell’ipotesi in cui il disponente
si autodichiari trustee, mentre si tratterà di negozio recettizio qualora trustee e disponente
siano persone distinte.
Quindi l’atto istitutivo è un atto unilaterale, perché il disponente costituisce un trust,
dettando un programma che deve essere realizzato dal trustee e quest’ultimo può solo
accettare o rifiutare l’incarico, ma non può incidere con la propria volontà sul contenuto
del negozio. La dichiarazione del trustee diretta ad accettare o no l’incarico offertogli,
contestuale o meno alla creazione del trust, è sempre a forma libera. Di solito il trustee che
intendesse non accettare l’incarico avrà l’accortezza di esprimere tale volontà attraverso un
atto formale e ciò proprio per evitare che possa ritenersi che abbia accettato per fatti
concludenti.
Una volta che il trust sia validamente sorto, e che il trustee abbia accettato
l’incarico, si assiste alla degradazione dell’interesse del disponente, il quale perde titolo
all’attivazione dei rimedi contro l’infedele amministrazione del trustee, essendo questa
valutabile soltanto nell’interesse del beneficiario del trust. Una delle caratteristiche del
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trust, infatti, è l’assunzione da parte del trustee di obbligazioni che sono strumentali alla
realizzazione degli interessi individuati nell’atto istitutivo, nei confronti di soggetti che non
sono parte di tale atto, ai quali spetta in via esclusiva la legittimazione a pretenderne
l’osservanza. Ne deriva che l’unico soggetto la cui presenza è essenziale è il trustee, dal
momento che, da un lato, possono mancare i beneficiari (come accade nei trust di scopo) e,
dall’altro, può mancare la figura del disponente nei casi in cui questo costituisca un trust
nominando se stesso come trustee, detenendo così i beni non più nell’originale veste
giuridica ma nell’interesse di terzi beneficiari o per altri scopi.
3.5 L’atto istitutivo di trust
L’atto istitutivo di un trust solitamente si compone delle seguenti parti:
comparizione della parti,
premessa,
trustee,
beneficiari,
guardiano,
reddito del trust,
disposizioni generali.
Il protocollo deve contenere il luogo e la data di redazione dell’atto e le generalità del
disponente, cioè colui che istituisce il trust disponendo di un proprio diritto che trasferisce
al trustee. Prima delle disposizioni generali e operative vengono inserite una serie di
premesse con il compito di delineare lo scopo del trust istituito, in particolare è possibile
evidenziare: il trasferimento dei beni al trustee con l’indicazione della trust company alla
quale sono trasferiti i beni e il carattere revocabile o irrevocabile del trust e la
denominazione; le premesse concludono con il richiamo alla Convenzione dell’Aja del1°
Luglio 1985 sui trust ed il loro riconoscimento.
Sempre nella premessa vengono inserite le definizioni con lo scopo di identificare lo
status di un individuo e per evitare di ripetere l’intero nome di una persona o società, la
definizione più importante riguarda i beneficiari dato che vengono individuati i soggetti
che hanno il diritto di godere dei frutti del fondo del trust. Una clausola importante è la
durata del trust ovvero il periodo compreso tra il termine iniziale, generalmente
l’accettazione della nomina del trustee, e il termine finale.
Nella sezione dedicata al trustee è buona regola specificare:
i poteri, che possono estendersi oltre alla stretta gestione ed incidere sulla
gestione del trust (ad esempio nominare nuovi beneficiari o variare la durata del
trust);
il tipo di investimenti che è autorizzato ad effettuare in modo da conseguire il
maggior profitto possibile;
le deleghe che legittimino il trustee a delegare i poteri gestionali;
l’inventario dei beni in trust e la verifica contabile che annualmente il trustee
deve redigere;
il compenso, accordato tra le parti;
le dimissioni o la revoca del trustee.
Nella sezione dedicata ai beneficiari si espongono le obbligazione del trustee circa la
distribuzione del reddito, la periodicità delle erogazioni e la distinzione tra i beneficiari del
reddito e i beneficiari finali del trust.
Per quanto riguarda il guardiano, non sempre utilizzata, nell’atto istitutivo vengono
elencati i suoi poteri e doveri, la possibilità di nominare un successore, la sua revoca e il
compenso.
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Per reddito del trust si intende ogni frutto, dividendo o interesse percepito a nome del
trust; esso, assolto ogni costo inerente l’amministrazione dei beni in trust, è mantenuto nel
patrimonio e successivamente potrà essere corrisposto ai beneficiari del reddito.
Nelle disposizioni generali viene indicato: la legge regolatrice, la sede
dell’amministrazione, la forma degli atti, la Giurisdizione in caso di controversie e la
procedura obbligatoria in caso di conciliazione.
3.6 I modelli specifici di trust e classificazione
La manifestazione originaria di questo schema negoziale è quella affermatasi
nell’ordinamento inglese, quindi la versione inglese può essere considerata come la prima
tipologia legislativa di trust. Essa trova la sua massima espressione nel Trustee Act 1925,
che può essere considerata la Legge più importante del diritto anglosassone in tema di trust
in quanto riproduce in formule normative cristallizzate gli strumenti di tutela sviluppate nel
corso dei decenni in cui ha trovato applicazione la giustizia equitativa.
La principale caratteristica del modello inglese è quella di aver riconosciuto la
contemporanea presenza di due distinte posizioni giuridiche tutelate: la prima fa
riferimento alla posizione del trustee, il quale riceve e detiene i beni della trust property a
titolo di legittimo proprietario e i cui interessi sono tutelati dai principi e dalle norme della
common law, vincolata nella gestione di questi dal perseguimento dello scopo fissato nel
trust deed; la seconda posizione tutelata è quella dei beneficiari del trust, cui spetta il diritto
di pretendere dal trustee, direttamente o a mezzo del protector , l’adozione di tutti gli atti e
comportamenti necessari alla realizzazione dello scopo fissato dal disponente. Questo
modello, sintesi di convivenza pacifica tra istituti del diritto equitativi ed istituti di
common law, rappresenta lo schema base di ogni forma di trust ma non è l’unico possibile
e conosciuto dalle moderne economie. Infatti, prendendo spunto dall’esperienza e dal
modello inglese, altri ordinamenti hanno sviluppato modelli diversi che oggi si propongono
come alternativi rispetto a quello.
La classificazione può essere fatta in base alla localizzazione fra i trust interni ed i
trust esterni: i primi sono quelli costituiti in Italia, anche se regolati da una legge che il
disponente può scegliere in una giurisdizione straniera (es. Inghilterra, Bahamas, British
Virgin Islands, ecc.). I secondi sono quelli costituiti all'estero, anche se comprendono beni
situati in Italia. Ogni trust deve essere ritagliato su misura conformemente alle esigenze
delle parti interessate ma in linea di massima si ritiene che:
ai fini di un'efficace pianificazione fiscale internazionale i trust esterni sono
generalmente preferibili in quanto non soggiacciono alla normativa
tributaria italiana che è estremamente rigida;
i trust interni sono invece preferibili per la pianificazione dei rapporti
patrimoniali familiari, nel diritto successorio e per l'intestazione di beni
mobili ed immobili.
Un’altra distinzione, in base alle finalità, è fra i trust difensivi ed i trust di scopo: i
primi sono costituiti al fine di proteggere un determinato patrimonio dalle pretese di terzi
(es. creditori, curatori fallimentari, coniugi in corso di separazione, ecc.). I secondi invece
vengono costituiti per il raggiungimento di un determinato scopo programmato dal
disponente (es. minimizzare l'imposizione fiscale su determinati beni, garantire il
sostentamento economico futuro ad un figlio disabile, garantire la prosecuzione della
propria impresa nel caso di evidente incapacità imprenditoriale degli eredi, ecc.).
Un ulteriore distinzione può essere fatta tra i trust irrevocabili e quelli revocabili. Il
trust in genere ha una durata massima variabile fra gli ottanta ed i cento anni e
normalmente è irrevocabile ma è tuttavia ammissibile la costituzione di un trust i cui effetti
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possano essere fatti cessare prima della scadenza su richiesta del settlor, il quale in tal
modo rientra in possesso dei beni conferiti.
Inoltre il trust si definisce fisso quando il disponente, nell'atto istitutivo, indica
espressamente i beneficiari ed i relativi diritti nei confronti del trust e si tratta della forma
di trust più diffusa. Mentre viene nominato discrezionale quando il trustee ha la possibilità
di scegliere i beneficiari (attenendosi alle indicazioni generali ricevute dal settlor) come
spesso avviene nei trust di beneficenza, oppure ha il potere di modificare i soggetti
beneficiari o i benefici di cui essi godono.
3.7 I trust istituiti da persone fisiche
Il trust si presta in maniera molto efficace a ridurre o eliminare i problemi che
normalmente si presentano nella successione mortis causa. In primo luogo, il testatore può
ricorrere al trust come sussidio giuridico attraverso il quale assicurare l’effettiva
realizzazione di volontà testamentarie espressamente consentite dalle norme civilistiche in
materia successoria. In secondo luogo, il trust, qualora istituito per tempo (ossia prima
della morte del disponente), grazie alla sua estrema versatilità consente di conseguire
risultati che vanno al di là di quanto sarebbe possibile realizzare attraverso le previsioni
normative in materia successoria vigenti nel nostro ordinamento. Di seguito sono descritti
in maniera sintetica alcuni esempi:
Trust e fiducia testamentaria: mentre l’accordo fiduciario non è considerato efficace
in giudizio nel nostro ordinamento, il ricorso al trust consente di far pervenire al
beneficiario effettivo il patrimonio a lui devoluto; quest’ultimo può inoltre esperire
le eventuali azioni di tutela nei confronti del trustee per ottenere che siano
effettivamente rispettate le volontà del disponente.
Trust e usufrutto successivo: l’istituto consente di attribuire ai beneficiari diritti
equiparabili a quelli di usufrutto, articolandoli su più generazioni successive, senza
sottostare alla norma che ne limita l’efficacia unicamente nei confronti del primo
beneficiario designato.
Trust ed esecutore testamentario: nei casi in cui il disponente desideri che la
divisione dei beni fra gli eredi non sia motivo di contrasti familiari può attribuire ad
un trustee le stesse funzioni di un esecutore testamentario. Questi, in quanto
legittimo proprietario, ha margini di manovra molto più ampi dell’esecutore
testamentario e può quindi rispondere meglio ai voleri del costituente deceduto. egli
inoltre non è sottoposto a ristretti limiti temporali di un anno per l’esercizio della
propria funzione.
Trust per la libera determinazione delle quote spettanti agli eredi: tutte le forme di
utilizzo fin qui elencate permettono di realizzare situazioni equivalenti alla
devoluzione successoria, ma da un punto di vista strettamente giuridico esse non
hanno nulla a che vedere con la successione, in quanto vengono realizzate prima
del decesso del disponente.
Il conferimento, a titolo gratuito o a titolo oneroso, produce inequivocabilmente il
trasferimento della proprietà in capo al trustee che diventa a tutti gli effetti il solo legittimo
proprietario dei beni. Alla morte del de cuius le norme in materia successoria saranno
pienamente vigenti sul resto del patrimonio che a quella data sarà ancora di sua proprietà.
3.7.1 Trust in ambito famigliare
Il trust può essere istituito anche per rispondere ad una molteplicità di esigenze
nascenti in seno alla famiglia del disponente, da questo punto di vista esso rappresenta una
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valida alternativa al fondo patrimoniale previsto nel nostro ordinamento. É possibile
distinguere:
Living trust: è istituito con i fondi messi a disposizione da uno o entrambi i
coniugi, oppure anche da terzi, allo scopo di far fronte alle esigenze
familiari. Le modalità da seguire per la distribuzione dei benefici economici
variano a seconda delle disposizioni contenute nell’atto istitutivo, essendo
rimesse alla completa discrezionalità del disponente; di norma il Deed of
trust dispone affinché il negozio si estingua, oltre che a seguito di divorzio,
alla morte di entrambi i coniugi.
Trust di protezione familiare: il negozio può assumere la forma di trust di
protezione familiare, in questo caso il disponente che desideri conservare
l’integrità del patrimonio conferito ed impedire che esso venga dissipato da
persone immature o inesperte, può disporre affinché il trustee riconosca ai
beneficiari una rendita a vita derivante dai fondi conferiti, rendita destinata
tuttavia ad interrompersi non appena vi sia il tentativo da parte dei
beneficiari di alienare o assegnare i loro diritti a terzi o di avvalersene per
fini non conformi ai desideri del disponente; per quanto riguarda l’utilizzo
in ambito aziendale verrà approfondito nel capitolo successivo.
Trust di accumulazione e mantenimento: la rendita viene riconosciuta solo
qualora vi sia la necessità di coprire le spese per il mantenimento o
l’istruzione dei beneficiari; diversamente, i redditi derivanti dal patrimonio
conferito vanno ad incrementare il patrimonio stesso, che sarà
definitivamente trasferito ai beneficiari quando essi avranno raggiunto
un’età prefissata.
Trust a favore di invalidi: un’altra variante è rappresentata dal trust istituito
per garantire una rendita vitalizia o per costituire un fondo con cui far fronte
alle esigenze di mantenimento e cura dei familiari sofferenti di infermità
mentale o di grave invalidità fisica.
3.7.2 I trust istituiti in ambito societario
La gestione unitaria dei gruppi societari, in presenza di assetti proprietari anche
molto complessi, può essere efficacemente realizzata attraverso strutture societarie
imperniate sul trust, che rende possibile la puntuale realizzazione degli accordi raggiunti
dai membri del gruppo, evitando le difficoltà che spesso insorgono con il ricorso ai normali
procedimenti societari. Il negozio rappresenta un ottimo strumento con cui realizzare i
desideri del disponente/fondatore in merito alla ripartizione degli assetti proprietari, alla
distribuzione dei dividendi, alle responsabilità imprenditoriali da assegnare ai vari membri
della famiglia.
Soluzioni sostanzialmente simili possono essere utilizzate, anche a prescindere
dalla presenza di intenti devolutori e al di fuori dell’ambito familiare, ogni qual volta si
ritenga opportuno approntare strutture che siano effettivamente in grado di assicurare il
rispetto degli impegni assunti da parte dei soci. In questi casi il ricorso al trust ha il pregio
di consentire una gestione unitaria, tesa il più possibile al raggiungimento degli scopi
prefissati. La sostituzione di una pluralità dei soci con un unico titolare delle quote
azionarie, che agisce super partes secondo le direttive impartite nell’atto istitutivo,
consente infatti di abbreviare i tempi per la composizione dei conflitti e di prevenire le
situazioni di stallo.
Nei gruppi societari il trust consente inoltre di impedire intromissioni non
desiderate da parte di soggetti estranei alla compagine originaria. Questo è possibile in
quanto gli interessati, non avendo più la titolarità delle azioni, non possono alienare la
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propria quota azionaria, al massimo potrebbero cedere il loro diritto ai benefici, ma anche
in questo caso, se il trust è discrezionale, i trustees potrebbero interrompere le erogazioni.
Nulla vieta invece alle predisposizioni di specifiche procedure affinché i trustees liquidino,
in denaro, la quota al beneficiario che intenda recedere; in questo caso l’unica conseguenza
è la rideterminazione delle quote fra i rimanenti. Allo stesso modo è possibile prevedere
l’ingresso di nuovi soggetti, a titolo gratuito o oneroso, qualora quest’ultimi risultino
graditi ai soggetti già coinvolti nel trust (ad es. subordinando l’ingresso all’assenso da parte
dei protectors, che avranno preventivamente interpellato i beneficiari).
Il ricorso al trust rappresenta in molti casi anche un’occasione per razionalizzare la
struttura societaria del gruppo, ai trustees infatti sono di norma trasferite le sole azioni
della capogruppo, che a sua volta controlla le varie società operative.
3.8 La Convenzione dell’Aja
L’attitudine del trust a soddisfare le esigenze del disponente dipende molto dalla
legge regolatrice adottata. Infatti, la scelta della legge regolatrice può comportare
importanti differenze per quanto attiene la redazione-strutturazione dell’atto istitutivo di
trust6; occorre porre molta attenzione a questo aspetto anche perché la redazione di
clausole del trust non conformi alle disposizioni della legge applicabile comporta la nullità
del trust. Inoltre ciascuna legge intesa a regolare l’istituto si differenzia, in maniera più o
meno sostanziale, da quelle vigenti negli altri paesi.
Per eliminare ogni incertezza riguardo alla disciplina applicabile nei singoli casi
concreti si è giunti all’approvazione di una convenzione di diritto internazionale che
disciplina la legge applicabile ed impone il riconoscimento del trust: la Convenzione
dell’Aja del primo luglio 1985.
L’ordinamento italiano, sebbene ancora privo di una disciplina interna dell’istituto
in esame, ha dimostrato una grande sensibilità internazionale ratificando per primo tra i
paesi di tradizione giuridica romanistica la Convenzione con la legge n°364 del 16 ottobre
1989 entrata in vigore il 1 gennaio 1992. Le finalità della Convenzione erano
fondamentalmente due:
1. garantire l’efficacia transnazionale dei trust, specie nei paesi che li ignorino,
fissando criteri univoci per il riconoscimento;
2. predisporre un sistema di regole di conflitto7, in modo da attenuare il rischio
di assoggettare il trust a discipline contraddittorie e di assicurare al giudice
dei riferimenti normativi che risolvano i problemi di qualificazione della
fattispecie.
La Convenzione rispondeva essenzialmente alle esigenze di quei paesi che,
prevedendo l’istituto del trust, erano interessati ad assicurarne la validità anche all’estero,
ma la ratifica della Convenzione portò dei vantaggi anche ad un paese, come l’Italia, che
non prevedeva il trust nel proprio ordinamento. Ciò essenzialmente per due motivi: in
primo luogo perché il crescente ricorso al trust, nei paesi in cui esso è regolato, ha portato
ad interessare assetti patrimoniali localizzati in paesi diversi e quindi, potenzialmente,
anche in Italia. In secondo luogo perché, con l’eliminazione degli ostacoli alla libera
6
A seconda della legge scelta varie opzioni si configurano nell’istituzione dell’atto di trust, tra cui ad esempio: la durata
del trust, particolari formalità in merito alla struttura del trust, la necessità di prevedere almeno due trustees, la
necessità di avere un trustee residente nello stato la cui legge è stata indicata nell’atto istitutivo di trust come legge
regolatrice.
7
Per sistema di norme di conflitto si intendono quelle che stabiliscono se il giudice, nei confronti di un trust regolato da
legge straniera, debba applicare le disposizioni di detta legge o piuttosto quelle vigenti nel proprio o in altri
ordinamenti.
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circolazione dei capitali che in precedenza potevano rappresentare una specie di filtro
internazionale, l’istituto era ormai diventato uno strumento utilizzabile dagli stessi soggetti
residenti in Italia, mediante l’istituzione all’estero di trust sottoposti a una legge straniera.
Tuttavia la Convenzione non consentì di superare tutti i problemi connessi al
riconoscimento del trust in un paese civil law, essa lasciò alcuni aspetti irrisolti e per altri
versi ne pose addirittura di nuovi che potranno essere superati solo attraverso
l’introduzione nell’ordinamento di un complesso di norme in materia di trust, ma al
momento in Italia tale eventualità non sembra essere ipotizzabile nell’immediato futuro.
Come previsto dall’art. 27 la Convenzione può essere sottoscritta solo dagli Stati
membri della Conferenza dell’Aja di diritto internazionale privato al momento della sua
quindicesima sessione. Si tratta, più precisamente, della sessione del 20 ottobre 1984 in
occasione della quale la Convenzione venne adottata ed in cui gli Stati rappresentanti
erano: Argentina, Australia, Austria, Belgio, Canada, Cipro, Cecoslovacchia, Danimarca,
Egitto, Finlandia, Francia, Repubblica Federale Tedesca, Giappone, Grecia, Irlanda,
Israele, Italia, Jugoslavia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno
Unito, Spagna, Stati Uniti, Suriname, Svezia, Svizzera, Turchia, Uruguay e Venezuela. Ad
oggi di detti Stati hanno proceduto alla sottoscrizione solo Australia, Canada, Cipro,
Francia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Regno Unito, Stati Uniti e Svizzera; la data del
primo gennaio 1985 attribuita alla Convenzione coincide appunto con quella in cui i primi
Stati – cioè Italia, Lussemburgo e Pesi Bassi – vi apposero la propria firma.
3.8.1 I principali articoli
La Convenzione si compone di 32 articoli, ed è strutturata in cinque capitoli. Il
primo capitolo delimita le fattispecie alle quali la Convenzione si applica, includendovi
una serie di rapporti giuridici non necessariamente corrispondenti al solo concetto di trust
nel modello inglese. Il secondo capitolo enuncia la norma fondamentale secondo la quale il
trust è retto dalla legge scelta, esplicitamente o implicitamente, dal disponente, oppure, in
mancanza, dalla legge alla quale il trust appare più strettamente collegato. Il terzo capitolo
enuncia un ulteriore principio fondamentale, in base al quale un trust istituito in conformità
alla legge determinata secondo il capitolo secondo è riconosciuto come trust, intendo per
riconoscimento l’applicazione nel foro della legge (ovviamente straniera) regolatrice del
trust. Il quarto ed il quinto capitolo contengono disposizioni di carattere generale. Di
seguito i principali articoli.
L’articolo 1 stabilisce che:”la Convenzione stabilisce la legge applicabile al trust e
regola il suo riconoscimento”; mentre l’articolo 2 indica tutti gli elementi che devono
concorrere perché si possa avere l’effettiva applicazione della Convenzione: “Ai fini della
presente Convenzione, per trust si intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona, il
costituente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il
controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico”; mentre il
secondo comma descrive le caratteristiche del trust. Il trust presenta le seguenti
caratteristiche:
a) i beni del trust costituiscono una massa distinta e non fanno parte del
patrimonio del trustee;
b) i beni del trust sono intestati a nome del trustee o di un’altra persona per
conto del trustee;
c) il trustee è investito del potere e onerato dell’obbligo, di cui deve rendere
conto, di amministrare, gestire o disporre dei beni secondo i termini del trust
e le norme particolari impostegli dalla legge”.
L’articolo 3 integra la descrizione del trust dicendo che l’operatività della
Convenzione dell’Aja sui trust viene espressamente limitata ai solo trust “costituiti
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volontariamente e comprovati per iscritto”, ovvero i trust che traggono origine
direttamente dall’atto che ne prevede l’istituzione in forza di una manifestazione di volontà
e i trust desumibili da fatti concludenti, nel caso in cui sia possibile fornire la
comprovazione scritta della volontà istitutiva del disponente.
L’articolo 6 stabilisce che “il trust è regolato dalla legge scelta dal costituente”
quindi il costituente ha il ruolo di arbitro assoluto in materia, la forma scelta deve essere
“espressa oppure risultare dalle disposizioni dell’atto che costituisce il trust o portandone la
prova”.
Qualora la legge scelta dal disponente conduca ad un ordinamento che non prevede
l’istituto del trust è previsto un criterio sussidiario introdotto dall’articolo 7, secondo il
quale la legge applicabile sarà quella che in concreto risulti più legata al trust in base a dei
parametri indicati dallo stesso articolo, che sono:
il luogo di amministrazione del trust, designato dal costituente;
il luogo in cui sono situati i beni;
la residenza o la sede degli affari del trustee;
gli obiettivi del trust e i luoghi in cui devono essere realizzati.
L’articolo 11 stabilisce che “un trust costitutivo in conformità alla legge
specificata dovrà essere riconosciuto come trust”, ciò implica che i beni del trust siano
separati dal patrimonio personale del trustee quindi i creditori personali del trustee non
possono sequestrare i beni in trust ed essi non sono aggredibili in caso di insolvenza o
bancarotta del trustee.
Di fondamentale importanza è l’art. 19 della Convenzione: “La Convenzione non
pregiudicherà la competenza degli Stati in materia fiscale”, che taglia in tronco ogni
discussione sui dubbi di legittimità del trust quale fenomeno indiziato di essere uno
strumento di evasione fiscale. In base alla legislazione italiana il negozio istitutivo del trust
possa essere sindacato dall’Amministrazione Finanziaria e dalle Commissioni Tributarie
quale meccanismo di elusione o di evasione fiscale e disatteso nelle forme consentite dalle
norme tributarie.
Dopo aver considerato le caratteristiche del trust, nel capitolo successivo verrà
analizzato l’utilizzo di tale strumento nel passaggio generazionale; viste le sue peculiarità
si potranno superare alcune difficoltà che caratterizzano questo processo così delicato,
come sostiene la tesi.
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CAPITOLO 4: IL TRUST NEL PASSAGGIO GENERAZIONALE
Il presente capitolo evidenzia le peculiarità del trust in rapporto agli altri mezzi utili
per la gestione della successione generazionale. Tale istituto risponde in modo completo
alle esigenze richieste di questo delicato processo, ossia:
programmare nei tempi giusti delle varie fasi;
adottare una visione di lunghissimo periodo (il trust può essere previsto per
gestire il passaggio generazionale di almeno tre generazioni);
proteggere e garantire l’unità del patrimonio;
attenuare i conflitti familiari;
evitare l’apertura della successione;
sostenere efficacemente i beneficiari esistenti o individuabili aventi diritto
verso il trustee di resoconto dell’amministrazione del patrimonio in trust e
altri minori diritti così come agire contro il trustee qualora quest’ultimo
abbia violato i suoi obblighi e le sue prerogative;
assicurare la continuità e la funzionalità dell’attività imprenditoriale;
mantenere la continuità della governance societaria;
riservatezza e continuità dello strumento;
combinato con una cassaforte familiare garantisce anche una protezione del
controllo verso possibili scalate esterne;
è estremamente flessibile, consente facilmente al disponente di modificare
la sua volontà a seguito di eventi futuri in precedenza non preventivati.
Il trust può essere utilizzato in svariati modi con l’obiettivo del passaggio
generazionale, i casi più frequenti sono: un trust discrezionale in cui il titolare di una quota
di partecipazione ad una società la trasferisca al trustee con l'incarico di distribuire gli utili
ai figli del disponente quali beneficiari iniziali e quindi, una volta che questi ultimi abbiano
raggiunto la maggiore età o al momento del decesso del disponente, di attribuire la stessa
quota sociale a quei figli del disponente che il medesimo trustee ritenga idonei a continuare
l'attività di impresa. Oppure nel caso in cui il disponente titolare d’impresa individuale
abbia intenzione di assicurare la continuità della gestione per il tempo in cui lo stesso abbia
cessato di esserne titolare e a tal fine trasferisca la proprietà dell'azienda ai trustees A e B
affinché la gestiscano unitariamente, nell'interesse dei figli del disponente e poi ne
trasmettano la titolarità ai beneficiari medesimi non appena il più giovane degli stessi abbia
raggiunto la maggiore età; o in alternativa, trasferiscano la proprietà a quello o quelli dei
beneficiari che manifestino l'intenzione di continuare l'attività d'impresa, in forma
individuale o societaria, e liquidando in denaro la quota spettante al beneficiario, od ai
beneficiari, che non intendano continuare detta attività. Ulteriori esempi sono quelli in cui
al trustee venga conferito un incarico ad amministrare le azioni di una società che sia
patrimonio di famiglia, di attribuire i redditi ai figli del disponente, e di trasferire la
proprietà del pacchetto azionario solo quando i beneficiari saranno idonei ad assicurare la
continuità e managerialità nella direzione dell’azienda; oppure quella di un trust
irrevocabile e a titolo gratuito, con la prescrizione che il trust cessi alla morte del
disponente, e i beni siano distribuiti a beneficiari determinati e non più modificabili; o
ancora quella di un trust che determini attribuzioni beneficiarie successive con incarico al
trustee di destinare il reddito dei beni in trust ad A, B e C, ciascuno alla morte dell’altro, e
di attribuire poi la proprietà all’ultimo nato di C.
In questo contesto tuttavia, nonostante i pregi, nel nostro paese il trust ancora non
sembra avere quella diffusione che meriterebbe dato che si tratta di un istituto nuovo e
quindi di difficile comprensione e ancora non disciplinato giuridicamente e anche dal
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punto di vista psicologico, trattandosi di una vera e propria spoliazione, da parte del
disponente, della propria proprietà e del potere di disposizione e gestione della stessa,
anche in funzione delle stesse finalità dell’istituto, lo strumento incontra significative
resistenze psicologiche da parte dei potenziali utilizzatori.
Quindi ai fini di un passaggio generazionale indolore sarebbe necessario strutturare
e regolamentare il trust in ogni sua minima parte ed avere piena consapevolezza dei risvolti
familiari e legali che ne seguiranno. Ecco perché il seguente capitolo cercherà di dare un
taglio prettamente aziendale, con lo scopo di evidenziare le numerose implicazioni di
natura economica derivanti dall’utilizzo del trust.
4.1 I pregi del trust
Il trust rappresenta un valido strumento di programmazione e pianificazione diretto
a prevenire il sorgere di possibili attriti familiari i quali rischiano, il più delle volte, di
determinare la polverizzazione del patrimonio aziendale. I pregi del ricorso al trust si
possono così sintetizzare:
unitarietà della titolarità delle partecipazioni;
regolamentazione, tramite l’atto istitutivo del trust, delle modalità di
gestione e dell’esercizio dei diritti inerenti alle partecipazioni sociali;
segregazione delle partecipazioni sottoposte al trust con conseguente
indifferenza rispetto alle vicende dei singoli soggetti;
mantenimento di un’elevata flessibilità gestionale dell’impresa, tale da
consentire di assumere con rapidità decisioni di carattere strategico
necessarie ad assicurare un corretto sviluppo dell'impresa.
Per quanto riguarda le aziende familiari si riscontra il problema della divisione tra
amministrazione e beneficio al momento in cui il titolare desidera pianificare il passaggio
generazionale; spesso l’imprenditore non vuole passare subito la gestione e desidera poter
conservare, fino al momento della propria permanenza in vita, la carica di amministratore
della sua azienda, volendo ancora dirigere in prima persona l’attività d’impresa. Con
l’istituzione del trust l’azienda viene trasferita ad un trustee che viene incaricato di gestire
e conservare il tutto in favore dei figli, normalmente è consentito al trustee di servirsi di
consulenti ed amministratori dei beni in trust. In questo modo la responsabilità del trustee
cambia da una responsabilità per la gestione ad una responsabilità di scelta e controllo.
Con il trust viene affidato al trustee il controllo proprietario dell’impresa; ciò
consente di mantenere l’unita degli assetti proprietari e, nel caso frequente in cui oggetto di
trust siano non l’azienda ma le partecipazioni sociali che la rappresentano, di continuare ad
affidare la gestione agli amministratori in carica (fino a che quest’ultimi non debbano
essere sostituiti), senza dunque alcuna discontinuità relativamente alla politica aziendale. I
beneficiari potranno essere, quanto alle rendite, lo stesso imprenditore disponente ed i suoi
familiari; quanto all’attribuzione finale dei beni i suoi discendenti.
Nel contempo la costituzione del trust si rivela un efficace strumento attraverso cui
individuare il degno successore al vertice aziendale. Ad esempio, in presenza di due o più
successori, si potrebbe porre il problema della scelta di chi dovrà assumere il comando
dell’azienda. Attraverso la costituzione del trust è possibile stabilire determinate condizioni
al verificarsi delle quali la proprietà dell’azienda di famiglia venga attribuita ad un figlio
anziché ad un altro. Contestualmente, lo stesso atto istitutivo può prevedere il
riconoscimento, a chi sia rimasto fuori dall’impresa, di una percentuale degli utili fino al
raggiungimento di un valore che possa garantire un trattamento imparziale. Solo al
verificatasi di tale condizione il trust potrà considerarsi concluso e l’azienda di famiglia
diventerà effettivamente di proprietà del designato. In tal modo, è assicurato il
proseguimento dell’attività al riparo da possibili conflitti o eventuali ingerenze di terzi. In
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tutto questo, fondamentale è il ruolo svolto dal trustee che, acquistando la titolarità dei beni
costituenti l’azienda, si dovrà occupare della gestione del patrimonio in trust, fino al
verificarsi della condizione stabilita nell’atto istitutivo. Un’altra circostanza che può
indurre alla costituzione del trust è rappresentata dalla necessità dell’imprenditore di
individuare un successore competente. In quest’ottica, risulta opportuno ricorrere
all’istituzione di un trust all’interno del quale siano espressamente indicate delle clausole
inerenti il percorso di crescita personale e professionale del successore. Si potrebbe,
perfino, ricorrere ad un trust di tipo discrezionale, delegando al trustee l’individuazione del
beneficiario. Potrebbe, infatti, accadere che il disponente perisca prima che si verifichino le
condizioni previste nell’atto istitutivo del trust e che i potenziali beneficiari siano ancora
troppo giovani e non abbiano completato il percorso formativo. È evidente, in tale ipotesi,
l’utilità del ricorso all’istituto in oggetto, atteso che la gestione aziendale è attribuita
temporaneamente ad un soggetto esperto (trustee) designato dal disponente. Il ricorso al
trust consente all’azienda di continuare ad operare, anche al riparo dalle vicende personali
del disponente ed ai potenziali beneficiari di avere tutto il tempo per acquisire la maturità,
nonché le conoscenze e le competenze necessarie per assumere le redini dell’impresa.
Logicamente, potrebbe verificarsi il caso che nessuno dei potenziali beneficiari soddisfi le
caratteristiche richieste nell’atto istitutivo, con il conseguente sorgere di differenti
problemi successori, fermo restando che il disponente potrebbe aver previsto tale ipotesi,
indicando nell’atto stesso un terzo soggetto. In tal modo sarebbe assicurata la continuità
aziendale ed ai figli potrebbe essere garantita la quota di legittima attribuendo loro, per
esempio, il restante patrimonio personale ed, eventualmente, anche una partecipazione agli
utili. Infatti, è utile evidenziare come il trasferimento di uno o più beni in trust, compresa
l’ipotesi del trasferimento dell’impresa di famiglia o di un ramo di essa, comporti
necessariamente la riduzione del patrimonio del disponente; ciò, in taluni casi, potrebbe
determinare la lesione della legittima spettante ai legittimari del disponente medesimo.
Tuttavia, l’art. 15 della Convenzione, nell’elencare le limitazioni all’efficacia del trust,
anche nel caso in cui lo stesso sia stato riconosciuto, prevede l’applicazione della legge
nazionale in tema di testamenti e di devoluzione di beni successori. Di conseguenza, un
trust le cui disposizioni siano lesive della legittima non sarà nullo, bensì assoggettabile
all’azione di riduzione nella misura in cui ciò risulti necessario per la reintegrazione della
quota di riserva. É opportuno, infine, che il trust preveda la figura del guardiano, per
limitare i rischi di abusi.
Dalla Convenzione dell’Aja si ricava che i beni del trust costituiscono una massa
distinta e non fanno parte del patrimonio del trustee, che essi sono intestati a nome del
trustee o di un’altra persona per conto del trustee e che il trustee è investito del potere e
onerato dell’obbligo di amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle
disposizioni del trust e secondo le norme di legge. Inoltre, il riconoscimento del trust
comporta che i creditori personali del trustee non possano rivalersi sui beni del trust, i
quali, dunque, costituiscono un patrimonio separato; che i beni in trust siano segregati
rispetto al patrimonio del trustee, in caso di insolvenza di quest’ultimo o di suo fallimento;
che i beni del trust non rientrino nel regime matrimoniale o nella successione del trustee e
che la rivendicazione dei beni in trust sia permessa nella misura in cui il trustee, violando
le obbligazioni risultanti dal trust, abbia confuso i beni in trust con i propri o ne abbia
disposto.
Non bisogna dimenticare che sotto il profilo strettamente economico, l’istituto può
avere costi di esecuzione e gestione importanti, spesso la strutturazione di tali strutture
coinvolge figure professionali straniere con un aggravio dei costi. Sotto il profilo dei limiti
operativi possono ricordarsi:
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la difficoltà da parte del disponente di modificare le regole operative del
trust una volta finalizzata l’istituzione del trust stesso;
la difficoltà di modificare la struttura del trust qualora le condizioni che
hanno dettato la stessa nascita del trust vengano a cambiare;
la difficoltà dell’istituto di far fronte in modo compiuto e legittimo alle
previsioni di successione necessaria o legittima del nostro ordinamento;
la non possibilità (a meno che non ci si trovi in un trust auto dichiarato) per
il disponente di gestire il patrimonio in trust.
Sarà opportuno poi che l’atto istitutivo contenga chiare e precise istruzioni per il
trustee sulla gestione e amministrazione dell’impresa:
previsioni disponenti il divieto di disponibilità o ristrutturazione
dell’impresa qualora il disponente stesso sia ancora in vita o qualora i
beneficiari non abbiano ancora raggiunto una determinata età o non abbiano
manifestato una determinata decisione in relazione all’amministrazione
dell’impresa in questione;
previsioni che prendono in considerazione l’ammissione da parte del trustee
dell’ingresso nella compagine sociale di determinati eredi del disponente o
altre specifiche entità o che permettano al trustee di definire e ripartire, nella
compagine degli eredi a ciò preposti, l’amministrazione e gestione
dell’impresa o quelle diverse mansioni tese a soddisfare le affinità dei
singoli eredi;
previsioni tese alla progressiva dismissione dell’impresa familiare;
tutte quelle altre forme di ristrutturazione societarie atte a far prendere
valore all’impresa familiare per poi liquidarne il contenuto tra i relativi
beneficiari e liquidare l’impresa;
previsioni per cui il disponente continua ad essere coinvolto
nell’amministrazione dell’impresa familiare ma non sarà più proprietario
della stessa e avrà diritto unicamente al compenso di amministratore a meno
che non sia anche allo stesso tempo uno dei beneficiari.
4.2. Le imposte sul trust
Un ulteriore pregio che riguarda lo strumento del trust è l’imposizione fiscale
vantaggiosa, non esiste una norma civilistica sul trust in Italia, pur nella vigenza del
principio della Convenzione dell’Aja del 1° Luglio 1985, quindi la regolamentazione
tributaria è tratta dai principi generali dell’ordinamento italiano in materia; ma visti i
molteplici scopi dello strumento non è possibile identificare una soluzione impositiva
univoca.
Dopo la Finanziaria 2007 il passaggio generazionale d’impresa nell’ambito della
famiglia è esente dal tributo successorio, è stato infatti inserito nel testo del decreto
istitutivo sulle successioni un articolo che esenta “i trasferimenti, effettuati anche tramite i
patti di famiglia a favore dei discendenti e del coniuge di aziende o rami di esse, di quote
sociali e di azioni non soggette all’imposta”. Bisogna tenere conto del fatto che il beneficio
si applica a condizione che gli aventi causa proseguano l’esercizio dell’attività d’impresa o
detengano il controllo per un periodo non inferiore a cinque anni dalla data del
trasferimento rendendo, contestualmente alla presentazione della dichiarazione di
successione o all’atto di donazione, apposita dichiarazione in tal senso; il mancato rispetto
della condizione comporta la decadenza del beneficio. La finalità è quindi quella di
favorire attraverso la leva fiscale il passaggio generazionale delle aziende di famiglia.
La Circolare 6 Agosto 2007 ha esteso l’ambito di applicazione dell’esenzione anche
ai trasferimenti di azienda e partecipazioni in trust istituiti in favore dei discendenti e del
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coniuge dell’imprenditore precisando che “sono esenti dall’imposta sulle successioni e
donazioni i trasferimenti di aziende o rami di esse, di azioni e quote sociali, attuati in
favore dei discendenti e del coniuge mediante disposizioni mortis causa, donazioni, atti a
titolo gratuito o costituzioni di vincoli di destinazione, nonché mediante patti di famiglia..”
definendo la possibilità di fruire dell’agevolazione anche nell’ipotesi di vincoli di beni in
trust. Quanto alla dichiarazione di impegno circa il proseguimento o la detenzione cui è
condizionata la non assoggettabilità all’imposta, è stato individuato come soggetto
obbligato il trustee. Un ulteriore presupposto riferito all’ipotesi di attribuzione al trustee
delle partecipazioni o dell’azienda è quello dell’immodificabilità del vincolo, ovvero non
possono essere modificati dal disponente o dal trustee i beneficiari finali dato che non è
ammissibile il riconoscimento dell’esenzione laddove, in seguito alla dotazione del trust
fund e alla dichiarazione resa dal trustee, lo stesso o il disponente possono liberamente
scegliere a chi destinare il patrimonio finale o revocare l’intero trust; perché in tale ipotesi
verrebbe a mancare la condizione che i beneficiari del trasferimento siano il coniuge o i
discendenti del disponente. Infine il trustee deve proseguire l’esercizio dell’attività
d’impresa o detenere il controllo per un periodo non inferiore ai cinque anni dalla data del
trasferimento e deve rendere contestualmente al trasferimento un’apposita dichiarazione
sulla sua volontà di proseguire l’attività d’impresa o detenere il controllo.
Inoltre bisogna tener conto delle norme in materia di imposte dirette introdotte dalla
finanziaria 2007 e della reintroduzione dell’imposta sulle successioni e donazioni, decreto
262/2006.
Il comma 74 dell’articolo 1 della legge finanziaria 2007 ha previsto l’introduzione
del trust tra gli enti commerciali e non commerciali, nell’ambito dei soggetti che scontano
l’IRES. Il legislatore ha in tal modo riconosciuto al trust un’autonomia soggettiva tributaria
rilevante ai fini dell’imposta tipica delle società, degli enti commerciali e non commerciali
prevedendo così quale regola generale che i redditi del trust dovranno essere tassati in capo
al trust personificato che, a seconda dei casi, verrà qualificato come ente commerciale o
non commerciale. Considerata la flessibilità dell’istituto, il legislatore ha individuato, ai
fini dell’imposizione dei redditi, due principali tipologie di trust:
i trust trasparenti: con beneficiari individuati, i cui redditi vengono imputati per
trasparenza ai beneficiari stessi;
i trust opachi: senza beneficiari, con beneficiari individuabili ma non individuati,
con beneficiari individuati ma in base alle clausole del trust hanno diritto al reddito a
determinate condizioni o in un momento successivo; i cui redditi vengono tassati
direttamente in capo al trust che agisce come soggetto passivo di imposta.
Il comma 74 ha pertanto definitivamente sancito l’appartenenza dei trust ai soggetti
passivi dell’imposta sul reddito delle società (IRES). In particolare, sono soggetti a tale
imposta:
i trust non residenti nel territorio dello Stato che hanno per oggetto esclusivo o
principale l’esercizio di attività commerciali (enti commerciali);
i trust residenti nel territorio dello Stato che non hanno per oggetto esclusivo o
principale l’esercizio di attività commerciali (enti non commerciali).
Un soggetto IRES si considera residente nel territorio dello Stato al verificarsi di
almeno una delle condizioni sotto indicate per la maggior parte del periodo di imposta:
a) sede legale nel territorio dello Stato;
b) sede dell’amministrazione nel territorio dello Stato;
c) oggetto principale dell’attività svolta nel territorio dello Stato.
Inoltre si presume la residenza in Italia dei trusts istituiti in Paesi con cui non è
previsto lo scambio di informazioni nei quali:
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a) almeno uno dei disponenti e almeno uno dei beneficiari siano fiscalmente
residenti in Italia;
b) quando, dopo la costituzione, un soggetto residente in Italia effettui in favore del
trust un’attribuzione che importi il trasferimento di proprietà dei beni immobili o la
costituzione o il trasferimento di diritti reali immobiliari, anche per quote, e vincoli di
destinazione.
Considerando le caratteristiche del trust, di norma i criteri di collegamento al
territorio dello Stato sono la sede dell’amministrazione e l’oggetto principale. La
giurisprudenza italiana afferma che per individuare la sede amministrativa effettiva è
necessario comprendere “ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di
direzione, e cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l’accentramento nei
rapporti interni e con i terzi degli organi e degli uffici societari”. Ma il criterio della sede
dell’amministrazione è spesso inutilizzabile in quanto spesso le scelte di gestione dell’ente
vengono prese a livello di atto istitutivo e che l’oggetto principale è un criterio di difficile
applicabilità. In generale la residenza del trust dovrebbe essere individuata facendo
riferimento al luogo in cui il trustee esercita effettivamente i poteri decisionali previsti
dall’atto istitutivo di trust, nel caso in cui vi sia una pluralità di trustees residenti in diverse
giurisdizioni si fa riferimento al luogo in cui risiede la maggioranza di essi. Accertata la
residenza fiscale in Italia del trust, esso sarà soggetto alla tassazione del reddito ovunque
prodotto, per il principio della tassazione del reddito mondiale. Mentre il trust non
residente verrà tassato solo sui redditi prodotti nel territorio dello Stato, in base al principio
della cosiddetta local taxation.
Un’altra questione riguarda l’individuazione dei beneficiari, considerato che i
beneficiari dei redditi prodotti dal patrimonio segregato in trust di fatto possono essere
diversi dai beneficiari del patrimonio alla scadenza fissata e che le percentuali di
partecipazione ai frutti o al patrimonio possono non coincidere. Secondo lo studio
elaborato dalla Fondazione Luca Pacioli (Documento n. 12 del 7 giugno 2007), sono
possibili tre interpretazioni:
per individuare i soggetti destinatari del patrimonio segregato alla scadenza fissata,
per cui i redditi da tassare sono quelli derivanti dalla gestione di tale patrimonio e sarebbe
quindi coerente individuare i soggetti passivi della tassazione di tali redditi nei destinatari
finali del patrimonio;
per soggetti beneficiari intende i soli destinatari dei redditi prodotti dal trust.
Dunque l’imputazione dei redditi prodotti dal trust avverrebbe soltanto quando l’atto di
costituzione del trust o i documenti successivi abbiano conferito al trustee il potere di
assegnare i redditi del patrimonio segregato secondo i criteri e verso i destinatari da lui
scelti o individuati dal disponente;
basandosi sulle disposizioni antielusive, considerato che il termine “beneficiari
individuati” è generico, potrebbe sostenersi che tali vanno considerati sia quelli destinatari
del patrimonio sia quelli eventualmente destinatari dei redditi. Pertanto, in linea di
principio, dovrebbero considerarsi “beneficiari individuati” i soggetti ai quali sia destinato
il patrimonio alla scadenza stabilita dal disponente.
Il presupposto per l’applicazione dell’imposta è il possesso di redditi, quindi per
beneficiari individuati si intendono i beneficiari di reddito individuato ovvero il soggetto
che esprime una capacità contributiva attuale sul reddito in questione; quindi il beneficiario
dovrebbe essere individuabile e risultare titolare del diritto di pretendere dal trustee
l’assegnazione della parte di reddito che gli viene imputata.
Durante la vita del trust è frequente che vengano corrisposte delle somme ai
beneficiari, bisogna verificare se tali somme possono configurare redditi tassabili in capo
al beneficiario e che non abbiano alcuna valenza reddituale; è rilevante la natura delle
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somme in esame e in particolare se derivano da semplici smobilizzi del patrimonio del
trust. In tale ipotesi la cessione di beni non genera alcuna fattispecie reddituale in capo al
trust e quindi il successivo passaggio delle somme al beneficiario non costituirà alcuna
fattispecie imponibile ai fini delle imposte sul reddito. Più articolato è invece l’aspetto
delle somme che vengono corrisposte al beneficiario che non derivano da smobilizzi
patrimoniali non imponibili, come la locazione di immobili e utili d’impresa, dove è
possibile un’eventuale imposizione anche in capo al beneficiario con la generazione di una
doppia imposizione. Nella maggior parte dei casi il presupposto impositivo si realizza
esclusivamente in capo al trust, non potendo ritenersi che l’esistenza di un obbligo in capo
al trustee di trasferire al beneficiario determinate somme possa modificare la soggettività
passiva del trust e i relativi obblighi fiscali.
La cessione di beni durante la vita del trust non presenta particolari problemi
applicativi nel settore delle imposte sul reddito, la disciplina fiscale sarà quella
ordinariamente applicabile per le specifiche operazioni poste in essere. Qualora le cessioni
di beni siano poste in essere nell’esercizio d’impresa la disciplina fiscale sarà quella
specifica per le singole categorie di beni con la conseguenza che potranno realizzarsi
componenti positive di reddito; mentre nel caso di cessioni di beni non effettuate
nell’esercizio d’impresa potranno realizzarsi le fattispecie reddituali non rilevanti dal punto
di vista fiscale in quanto non inquadrabili in nessuna delle ipotesi previste. Per il calcolo
della plusvalenza nel caso di beni trasferiti al trust, anche successivamente all’istituzione
dello stesso, dovrà farsi riferimento ai valori fiscalmente riconosciuti in capo al disponente,
fermo restando che il trasferimento dei beni dal disponente al trustee non interrompe il
decorso del quinquennio; mentre nel caso di cessioni di beni acquistati dal trust dovrà farsi
riferimento al prezzo pagato.
L’atto istitutivo di trust può prevedere la corresponsione periodica di compensi a
favore del trustee, ciò non modifica la natura gratuita dell’atto di trust. I compensi
assumono rilevanza ai fini dell’imposizione sul reddito e dell’imposta sul valore aggiunto
in relazione alla qualifica professionale del trustee: se l’attività del trustee è connessa allo
svolgimento dell’arte o della professione, ovvero dell’impresa, le somme corrisposte
avranno la natura di compensi o ricavi da assoggettare a tassazione secondo gli ordinari
principi; mentre se i compensi non sono inquadrabili nell’attività di lavoro autonomo o
d’impresa saranno imponibili ai soli fini dell’imposizione diretta in quanto relativi ad
assunzioni di obblighi da fare.
Per quanto riguarda le imposte indirette l’Agenzia delle Entrate, con la Circolare n.
48/E del 6 agosto 2007, ha fatto conoscere le proprie linee guida sul trattamento fiscale del
trust, sotto il profilo dell’applicazione delle imposte indirette agli atti di apporto di beni e
diritti al trust, affrontando così l’ambito dove esistevano le maggiori difficoltà
interpretative della nuova normativa. Sotto questo profilo, l’Agenzia delle Entrate
stabilisce che attualmente la costituzione dei vincoli di destinazione è soggetta all’imposta
sulle successioni e donazioni. Dunque, il conferimento dei beni nel trust va assoggettato
all’imposta sulle successioni e donazioni in misura proporzionale, due sono le conclusioni
a cui perviene l’Agenzia delle Entrate:
bisogna applicare l’imposta di donazione oltre che al trust con il quale la titolarità
di determinati beni o diritti passa dal disponente al trustee, anche al cosiddetto trust
autodichiarato (trust ove il disponente nomina se stesso quali trustee e pertanto non vi è
trasferimento di beni);
l’individuazione dell’aliquota dell’imposta di donazione applicabile (e
dell’eventuale franchigia di cui ci si possa avvalere) va fatta riferendosi all’eventuale
rapporto di parentela o di affinità sussistente tra disponente e beneficiario (e non a quello
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tra disponente e trustee). Secondo la Circolare la tassazione varia così a seconda dei tipi di
trust.
Quindi la costituzione di un trust non è un atto equiparabile ad un trasferimento a
titolo oneroso, perché non vi è corrispettivo, né ad una donazione difettandone la causa,
ma ad un atto a titolo gratuito, neutro dal punto di vista fiscale, soggetto ad imposizione
indiretta (imposta di registro, ipotecaria e catastale) in misura fissa, attraverso il quale il
disponente realizza il proprio intento di arricchire spontaneamente un terzo, facendo
affidamento sul trustee e sull’obbligo da costui assunto di adempiere alle direttive impartite
dal beneficiante medesimo.
Nella struttura di trust per l’amministrazione di beni occorre distinguere la fase
dell’istruzione che si manifesta con l’atto istitutivo vero e proprio dal conseguente apporto
dei beni destinati al trust. Per quanto riguarda le imposte di registro e sul valore aggiunto i
momenti fiscalmente rilevanti ai fini delle imposte indirette sono:
l’atto istitutivo;
l’atto dispositivo;
il trasferimento dei beni del trust in occasione della successione del trustee,
il trasferimento dei beni del trust per alienazione da parte del trustee,
il trasferimento dei beni del trust dal trustee ai beneficiari,
le cessioni da parte dei beneficiari dei loro interessi nel trust.
In generale è raccomandabile la redazione dell’atto istitutivo di trust per atto
pubblico o per scrittura privata autenticata al fine di attribuire data certa al documento
costitutivo; si possono distinguere tre differenti casi:
quando il negozio istitutivo contiene un obbligo del disponente a compiere
trasferimenti in favore del trustee l’atto sarà soggetto ad imposta di registro di 168 euro;
quando il negozio costitutivo contiene una mera facoltà per il disponente il
documento sarà assoggettato all’obbligo di registrazione, solo se redatto in forma pubblica
o con scrittura privata autenticata e verrà applicata l’imposta di registro in misura fissa;
quando il negozio istitutivo contiene un atto dispositivo del disponente avente per
oggetto una dotazione iniziale di una piccola somma di denaro si fa riferimento al decreto
262/2006.
Secondo l’Agenzia delle Entrate l’atto di costituzione del trust, che realizza il
trasferimento della proprietà dei beni segregati, integra la fattispecie impositiva del tributo
sulle successioni e donazioni. Qualora invece l’atto istitutivo di trust non sia anche atto di
dotazione patrimoniale, avvenendo la segregazione dei beni in un momento successivo, lo
stesso, se redatto per atto pubblico o scrittura privata autenticata, è tassato con imposta
fissa di registro (pari a 168,00 euro) in quanto atto privo di contenuto patrimoniale.
L’interpretazione fornita dall’Amministrazione finanziaria vede emergere l’unitarietà
causale del trust, ai fini dell’imposizione indiretta, e quindi dei diversi momenti giuridici e
diversi effetti traslativi. Il trust sarebbe idoneo, in quanto “vincolo di destinazione”, a
realizzare una prospettiva, giuridicamente inequivoca e suscettibile di tutela, di un
vantaggio patrimoniale tangibile in favore del soggetto beneficiario, diverso dall'autore del
vincolo funzionale. A livello applicativo ciò comporta l’immediata imposizione, all’atto
della costituzione del vincolo, senza dover attendere i successivi atti di attribuzione,
eventualmente posti in essere anche a notevole distanza di tempo. Ogni successiva
attribuzione ai beneficiari risulta, infatti, irrilevante ai fini del tributo in oggetto, sia nel
caso in cui il trasferimento riguardi gli stessi beni segregati, sia quando ai beneficiari
vengano trasferiti gli incrementi del patrimonio del trust.
L’atto dispositivo: il conferimento dei beni in trust o il costituito vincolo di
destinazione che ne è l’effetto va assoggettato all’imposta sulle successioni e donazioni in
misura proporzionale, sia esso disposto mediante testamento o per atto inter vivos. Ai fini
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della determinazione di aliquote e franchigie, che si differenziano in dipendenza del
rapporto di parentela e affinità, occorre guardare al rapporto intercorrente tra disponente e
beneficiario. Nel trust di scopo cioè quello gestito per realizzare un determinato fine, senza
indicazione di beneficiario finale, l’imposta sarà dovuta con l’aliquota dell’8% prevista per
i vincoli di destinazione a favore di altri soggetti. La costituzione del vincolo di
destinazione in un trust disposto a favore dei discendenti del disponente non è soggetto
all’imposta qualora abbia ad oggetto aziende o rami di esse, quote sociali e azioni. Sia
l’attribuzione con effetti traslativi di beni immobili o diritti reali immobiliari al momento
della costituzione del vincolo, sia il successivo trasferimento dei beni medesimi allo
scioglimento del vincolo, nonché i trasferimenti eventualmente effettuati durante il
vincolo, sono soggetti alle imposte ipotecaria e catastale in misura proporzionale.
Se lo scopo perseguito dal disponente attraverso il trust è quello di devolvere il
patrimonio ai beneficiari finali, il trasferimento di beni dal trustee ai predetti soggetti
rappresenta la realizzazione di finalità di natura liberale che trovano la loro fonte nella
volontà del disponente. Si configura una sorta di liberalità indiretta che costituisce il
presupposto per l’applicazione dell’imposta di donazione nei confronti dei beneficiari
finali, ove ne ricorrano le condizioni. Durante la vita del trust il trustee può compiere
operazioni utili per la gestione del patrimonio, eventuali atti di acquisto o vendita di beni
saranno soggetti alle ordinarie imposte di registro con le aliquote proprie dei beni in
oggetto. Al trustee nominato con l’atto istitutivo di trust possono succederne altri in seguito
a morte, revoca o sostituzione; poiché in tal caso la titolarità dei beni in trust deve essere
trasferita al nuovo trustee, qualora si sia in presenza dei presupposti di registrazione
dell’atto si renderà applicabile come nel primo atto l’imposta di registro in misura fissa.
Figura 5: Tipi di trust e relativa tassazione
Fonte: Agenzia delle Entrate, comunicato stampa 06/08/2007
Nel 2010 la Consob ha risposto a un quesito concernente l’inapplicabilità della
disciplina dell’Opa obbligatoria in caso di scioglimento di trust, l’argomento è di
fondamentale importanza per tutte le aziende interessate al passaggio generazionale. La
Commissione ha confermato implicitamente l’attualità di tale istituto che offre una risposta
alla richiesta costante di strumenti giuridici idonei a garantire la pianificazione del futuro
sviluppo aziendale. All’esame della Consob è stato sottoposto un trust tipico: il caso di un
disponente, che al fine di pianificare il passaggio generazionale dell’azienda, ha costituito
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un trust e tra i vari beni vi è la partecipazione al capitale della società non quotata A da lui
interamente posseduta; l’intento è quello di separare tale massa di patrimoniale e affidarla
in gestione ad un trustee che amministri nell’interesse dei beneficiari. La peculiarità del
caso è che la società A è a sua volta titolare di un pacchetto azionario di B, con la
conseguenza che indirettamente oggetto di gestione in trust siano anche le azioni della
società quotata. Con lo scioglimento del trust, la partecipazione alla società non quotata è
stata assegnata a due beneficiari, in particolare a uno è stata attribuita la nuda proprietà
delle azioni e all’altro l’usufrutto delle stesse; quindi in seguito all’assegnazione
dell’usufrutto delle azioni della società non quotata A il beneficiario ha acquisito anche il
controllo indiretto della società quotata B, con la possibilità di un obbligo Opa ai sensi
degli articoli del Tuf e del regolamento sugli acquisti indiretti. La Consob ha tuttavia
escluso tale disciplina ritenendo che l’assegnazione al beneficiario del controllo della
società B sia atto gratuito appartenente agli atti mortis causa e di liberalità. Con tale
pronuncia la Commissione ha aderito all’indirizzo assunto dalla normativa fiscale italiana
in ordine all’assoggettamento del trust all’imposta sulle successioni e donazioni, dove si
precisa che l’atto di costituzione del trust è assoggettato all’imposta sulle successioni in
misura proporzionale secondo le aliquote derivanti dal rapporto di parentela tra disponente
e beneficiari. L’unicità della causa, che caratterizza l’intera operazione, imporrebbe la
corresponsione dell’imposta solamente al momento della sua costituzione con la
conseguenza che l’eventuale trasferimento finale dei beni al beneficiario non debba essere
tassato. A confermare la natura gratuita dell’acquisto dei beneficiari depone, oltre alla
normativa fiscale italiana, anche la funzione concreta dell’intera operazione negoziale: il
trasferimento ai beneficiari è confermato dalla causa concreta dell’operazione consistente
nel mantenimento, educazione e benessere dei beneficiari, tale da escludere l’uso distorto
del trust elusivo della disciplina Opa. L’intervento della Consob sottolinea l’idoneità del
trust nel passaggio generazionale grazie alla sua duttilità d’uso e conformazione.
4.2.1 Problematiche relative alla tassazione del trust
La lettura fornita dall’Agenzia pone un importante problema in tutti quei casi in cui
il vantaggio per i beneficiari non si configuri in termini di sicuro arricchimento, di
posizione giuridica incontrovertibile e tutelata che avviene quando il diritto dei beneficiari
è sottoposto a condizione (tipico è il caso del bene attribuito al beneficiario se e quando
quest’ultimo conseguirà un determinato risultato), come pure in talune ipotesi di trust
discrezionale in cui non sia certa la futura attribuzione a beneficiari. In simili circostanze la
legittimità dell’imposizione al momento della costituzione del vincolo non appare
giustificabile visto che, proprio per la specifica struttura negoziale del trust, non è possibile
considerare quest’ultimo espressivo di un incremento patrimoniale certo, ancorché futuro,
connesso al trasferimento di ricchezza. Sembrerebbe invece maggiormente coerente, nelle
fattispecie considerate, rinviare l’imposizione al momento della attribuzione al beneficiario
o, quanto meno, al momento in cui è determinata la posizione giuridica del beneficiario
stesso.
Considerazioni in parte analoghe sembrano doversi fare per le ipotesi di trust con
beneficiari non ancora determinati al momento della istituzione del trust e segregazione dei
beni. Secondo la prassi amministrativa, quando l’individuazione sia rimessa ad un atto
successivo (normalmente, del disponente o del trustee), l’imposizione dovrà essere la più
elevata, perché nessuna franchigia e nessuna esenzione potrà applicarsi, perché dovrà
essere considerata l’aliquota massima dell’8%. Una simile soluzione appare però
criticabile, perché non del tutto in linea con le stesse giustificazioni che stanno alla base
della scelta dell’Agenzia di tassare il trust al momento della costituzione del vincolo sui
beni segregati. Scelta che si motiva solo in quanto sia possibile determinare un
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collegamento, rilevante giuridicamente, tra la costituzione del vincolo e l’incremento
patrimoniale connesso al futuro trasferimento di ricchezza. Collegamento che, nel caso del
trust, si evidenzia nella struttura del negozio e che ha alla base l’unitarietà in termini
causali delle diverse fattispecie negoziali poste in essere. In questa prospettiva,
l’incremento patrimoniale connesso al trasferimento futuro di ricchezza in favore del
beneficiario rappresenta la capacità contributiva colpita dal tributo e la tassazione, che
avviene in un momento precedente, si giustifica solo in quanto il vincolo è costituito in
funzione di tale successivo trasferimento di ricchezza al beneficiario.
Secondo quanto afferma la stessa prassi amministrativa l’elemento che invece deve
necessariamente verificarsi al momento della costituzione del vincolo, affinché il
presupposto si realizzi, è il trasferimento dei beni. L’Agenzia ritiene, in questo senso, che
la “costituzione di vincoli non traslativi non è soggetta all’imposta sulle successioni e
donazioni”. Ed è proprio sulla distinzione tra vincoli di destinazione non traslativi e vincoli
di destinazione traslativi che la circolare da ultimo citata fonda la propria ricostruzione
teorica, così come le specifiche soluzioni interpretative. Distinzione da cui dovrebbe
conseguire l’estraneità al campo applicativo dell’imposta in esame del trust auto dichiarato.
Nella fattispecie non si realizza, infatti, alcun effetto traslativo, in quanto il bene rimane
nella titolarità giuridica del disponente e non si trasferisce ad un terzo. La mancata
imposizione sulla costituzione del vincolo non traslativo, eventualmente rilevante ai fini
del tributo di registro, dovrebbe però completarsi con l’applicazione dell’imposta sulle
successioni e donazioni in relazione alle successive attribuzioni a favore dei beneficiari (se
poste in essere), in quanto atti che naturalmente rientrano nel campo dell’imposta.
L’Amministrazione, invece, ritiene che l’attribuzione dei beni in trust, anche in assenza di
formali effetti traslativi, debba essere assoggettata all’imposta sulle successioni e
donazioni. Esaminando il problema dal punto di vista dell’Agenzia delle Entrate, appare
chiaro come la tassazione immediata anche in ipotesi di trust auto dichiarato riesca a
soddisfare esigenze di facilità di applicazione, oltre che di certezza di gettito. Gli Uffici
possono in questo modo disinteressarsi delle vicende traslative successive, formalizzate e
non, visto che già si è assolta l’integrale imposizione. Altrettanto chiaro è però che tali
considerazioni non possono prevalere sulle esigenze di coerenza sistematica e sul rispetto
del principio della capacità contributiva.
Per ciò che attiene l’applicabilità delle agevolazioni fiscali, l’Agenzia delle Entrate,
considerata la possibilità di adattare l’istituto alle molteplici esigenze del disponente, ha
ritenuto che l’applicabilità delle norme agevolative vada valutata caso per caso, tenendo
conto del contenuto del negozio risultante dalla legge regolatrice del trust e dalle clausole
contrattuali in esso contenute. Simile impostazione è senz’altro da condividersi,
soprattutto alla luce della estrema eterogeneità di ratio che caratterizza le diverse norme di
agevolazione nel nostro sistema tributario. Le disposizioni di agevolazione devono trovare
applicazione considerando non il trasferimento meramente strumentale dal disponente al
trust, che di per sé non appare in grado di esprimere capacità contributiva, bensì il
trasferimento a favore del beneficiario e le condizioni soggettive di quest’ultimo.
Diversa appare invece la prospettiva quando si tratti di applicare trattamenti
agevolativi in relazione a tributi che colpiscono trasferimenti onerosi di ricchezza. Risulta
infatti evidente che gli acquisti onerosi, benché strumentali, compiuti dal trustee, nello
svolgimento della propria attività di gestione del patrimonio segregato, risultano già in
grado di esprimere la capacità contributiva oggetto della imposizione, con la conseguenza
che è agli stessi che occorre riferire eventuali fattispecie di agevolazione. Occorrerà quindi,
di volta in volta, un’analisi dettagliata dei presupposti applicativi delle disposizioni di
agevolazione, valutando la ratio delle medesime e considerando questi aspetti peculiari
dell’istituto del trust.
60
In conclusione non possano essere incluse nella fattispecie imponibile dell’imposta
sulle donazioni tutte le ipotesi di trasferimenti di situazioni giuridiche soggettive a
contenuto patrimoniale con funzione solo strumentale alla realizzazione di assetti finali
onerosi. Ma anche dove l’assetto negoziale complessivo sia diretto a risultati liberali, il
trasferimento iniziale non giustifica di per sé l’applicazione dell’imposta, in quanto l’indice
di capacità contributiva, si realizzerà solo successivamente.
Il beneficiario finale risulta essere quindi l’unico soggetto passivo dell’imposta.
Solo in capo a quest’ultimo infatti si producono stabilmente quegli incrementi patrimoniali
che costituiscono presupposto del tributo in considerazione. In quest’ottica, gli atti di
destinazione puri e semplici non sembrerebbero quindi rivelatori di alcuna capacità
contributiva. Pertanto, è possibile ritenere che tali atti siano assoggettabili all’imposta di
registro in misura fissa e, qualora siano trascrivibili, scontino l’imposta ipotecaria
anch’essa in misura fissa.
4.3 Le problematiche della trasmissione generazionale e le possibili
soluzioni con il trust
Il problema della gestione del passaggio generazionale attraverso il trust è quello
della verifica a priori (ossia nel momento in cui ci si accinge a redigere il regolamento del
trust e a prevedere la conseguente attribuzione di beni da parte del disponente o di terzi al
trust) della tenuta di tale strumento nei confronti di eventuali impugnazioni degli eredi, in
particolare dei legittimari, onde consentire una certezza nella attribuzione dei diritti e
doveri fin dalla nascita del trust. In merito Hayton D. (2004) ha precisato che i coniugi o
gli eredi legittimari possono desistere dal proposito di agire contro il trustee con azione
reale o personale se i loro interessi economici legati al trust sono maggiori o
potenzialmente maggiori dell’entità della loro pretesa giudiziale o qualora l’atto di trust
stabilisca che il loro interesse cessa automaticamente nel caso in cui gli stessi sollevino
azione contro il trustee con l’intento di intaccare beni in trust e di accrescere il loro
patrimonio personale. In questo caso, la loro pretesa economica sui beni in trust viene
trasferita o ad una persona determinata o ad un ente con fine benefico ovvero accresce la
quota degli altri membri della classe di beneficiari alla quale gli attori appartenevano. Il
potere di aggiungere, retroattivamente, in qualsiasi momento alla classe dei beneficiari un
beneficiario escluso in forza di tale previsione conferisce al trust una flessibilità assai
utile”.
Nella strutturazione del trust è rilevante poi il livello informativo riservato ai
beneficiari, riguardo a tale problematica due sono le scuole di pensiero: la prima ritiene che
si faccia l’interesse dei beneficiari dando loro il minor numero di informazioni possibili, in
modo da permettere loro di condurre una vita normale senza troppe preoccupazioni; la
seconda ritiene invece che il trustee e i beneficiari dovrebbero lavorare insieme
nell’interesse del trust al fine di:
rendere trasparente l’attività del trustee;
evitare fraintendimenti a volte pericolosi con i beneficiari;
favorire la migliore realizzazione dello scopo del trust.
In questo senso, anche le lettere d’intento dovrebbero essere messe a disposizione
dei beneficiari al fine di renderli consapevoli di situazioni familiari che possono richiedere
attenzione o discrezione particolare.
Sempre secondo Hayton D. il trustee che agisce con la cooperazione dei beneficiari
già adulti, deve premurarsi di utilizzare i beni in trust in modo tale da far sì che le giovani
generazioni abbiano consapevolezza del potere e della responsabilità legati alla ricchezza
ed abbiano una completa ed adeguata educazione e formazione rispetto a tali valori. Il
trustee può avere un ruolo educativo anche nei confronti dei beneficiari già adulti, esigendo
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da loro un comportamento maturo in assenza del quale può decidere di non provvedere a
tempo debito alle loro attribuzioni ovvero di destinarle a beneficiari successivi”. In seguito
verranno riportati alcuni casi esemplificativi tratti dal sito www.il-trust-in-italia.it, con lo
scopo di chiarire le problematiche e le possibili soluzioni offerte dal trust.
4.3.1 Caso 1: il trust per risolvere un passaggio generazionale
Tizio, Caio, Mevio e Sempronio, fratelli capistirpe soci della holding di famiglia
Alfa S.r.l., in previsione di un passaggio generazionale hanno intestato fiduciariamente le
loro partecipazioni di maggioranza di Alfa ai rispettivi discendenti, ritenendo di
mantenerne il controllo attraverso un’architettura giuridica fondata su più mandati
incrociati in virtù dei quali tutti i poteri connessi alla proprietà effettiva continuano ad
essere in realtà effettivamente esercitati dai capistirpe, attraverso una società fiduciaria a
cui sono state intestate le azioni con un tradizionale mandato. I suddetti capistirpe e i loro
discendenti hanno fiducia che tale struttura sia in grado di assicurare anche per le
generazioni future quanto, fino alla generazione dei capistirpe, è derivato da assoluta
armonia ed unità di intenti, ovvero un controllo unitario dell’impresa nell’interesse di tutti i
componenti della famiglia, evitando che la posizione di ciascuno possa venire sacrificata a
vantaggio di altri. Tuttavia, la morte di Tizio e la concentrazione dei poteri nei suoi fratelli
ha creato disarmonie familiari e ha confermato l’inidoneità della struttura a produrre i
risultati voluti. In effetti, il mandato non impedisce al mandante, che rimane sempre
proprietario, di esercitare i diritti connessi inscindibilmente alla posizione di proprietario:
infatti non è con il mandato che una persona si può spogliare dei poteri connessi alla sua
qualità di proprietario, né imporre un vincolo fiduciario nella gestione della proprietà. Il
limite consiste nel fatto che la fiducia, anche ove possa essere dimostrato, non potrebbe
assumere la rilevanza desiderata, né creare alcun vincolo di destinazione al patrimonio
oggetto di tale patto opponibile ai soggetti interessati ed ai terzi.
Al contrario, il trust è sicuramente l’istituto giuridico che offre alla fattispecie in
esame il suo naturale inquadramento consentendo, nel più completo rispetto delle intese
originarie intercorse tra capistirpe e soci discendenti, il raggiungimento dei risultati
prefissati. Nel caso in esame, i pregi del ricorso al trust si possono così sintetizzare:
unitarietà e controllo della titolarità delle partecipazioni, attraverso il trustee
e il guardiano;
regolamentazione a lungo termine del trasferimento delle partecipazioni
all’interno della famiglia e quindi del gradimento sui futuri soci;
regolamentazione a lungo termine degli organi amministrativi e quindi
miglior selezione delle persone deputate al futuro governo della impresa;
codificazione delle modalità di gestione e dell’esercizio dei diritti inerenti le
partecipazioni azionarie all’interno dell’atto istitutivo del trust;
segregazione delle partecipazioni sottoposte al trust con conseguente
indifferenza delle vicende dei singoli soggetti;
giusta modulazione degli interessi economici e non della famiglia, anche
attraverso la distinzione tra reddito da capitale e reddito da attività.
Il trust si rivela uno strumento efficiente anche nel caso in cui non vi sia un
successore, un esempio può essere quello di una signora avanti con gli anni senza figli né
parenti e vedova da poco; a seguito della scomparsa del marito riceve per successione la
partecipazione quale unico socio di una società che svolge da sempre un importante attività
commerciale. La signora non vuole cedere l’azienda in quanto, anche dopo la sua morte,
desidera:
garantire la continuazione della storica attività dell’azienda;
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conservare lo spirito ed i valori impressi dal marito nella gestione della
stessa;
mantenere l’occupazione agli attuali dipendenti, a cui si sente legata da un
rapporto di stima ed affetto;
continuare a ricevere, vita naturale durante, i redditi prodotti dall’azienda.
Non esistendo alcun discendente che può succedere nell’azienda, alla signora
giungono numerose proposte di acquisto, ma la cessione dell’azienda non garantisce la
soddisfazione dei suoi desideri. Inoltre nessuno ordinario strumento del nostro
ordinamento giuridico è completamente idoneo a soddisfare i suoi interessi, mentre con un
apposito trust progettato e strutturato per lo specifico caso si possono conseguire e tutelare
i meritevoli interessi della signora.
4.4 Il trust e limiti del diritto successorio
L’introduzione del trust nell’ordinamento italiano è apparso sin dall’inizio
un’operazione non facile, in quanto trapiantare in un sistema di tradizione civilistica un
istituto di common law dall’origine completamente diversa, è apparsa impresa assai
complessa. Infatti prima del 1992 la giurisprudenza italiana aveva in più occasioni, sulla
base di diversi argomenti, negato l’operatività dell’istituto in Italia. In aggiunta agli
ostacoli giuridico formali il trust non sembra essere molto apprezzato
dall’Amministrazione finanziaria per i possibili risvolti elusivi o evasivi che si potrebbero
presentare.
Dopo l’approvazione della Convenzione dell’Aja dell’1 luglio 1985, resa esecutiva
in Italia con la legge 364/1989, molteplici sono state le statuizioni giurisprudenziali che
hanno affrontato il trust, la sua ammissibilità e le sue caratteristiche fondamentali.
L’ammissibilità sostanziale confermata dalle stesse ha posto delle problematiche
riguardanti la compatibilità del trust rispetto ad alcuni principi dell’ordinamento italiano.
Il trust interno è un trust istituito da parte di un cittadino italiano residente in Italia,
su beni siti nel nostro ordinamento a favore di un beneficiario italiano, residente in Italia,
sia o meno il trustee residente in Italia, sempre che la legge scelta dal disponente sia
straniera. In realtà la definizione di trust interno si applica anche a tipologie i cui elementi
importanti (l’ubicazione dell’oggetto del trust, la nazionalità del disponente e del
beneficiario), o anche alcuni di essi soltanto, sono più strettamente connessi all’Italia.
Nonostante alcune obbiezioni, la giurisprudenza ha riconosciuto la liceità dei trust creati da
connazionali trasferendo beni presenti nel nostro paese a trustee italiani, tali trust devono
essere, comunque, costituiti e gestiti seguendo la legge di uno stato straniero in quanto non
esiste una normativa italiana per l’istituzione e l’amministrazione dei trust. L’utilizzo di
una legge straniera non consente di evitare, almeno presso un tribunale italiano,
l’applicazione delle leggi inderogabili del nostro ordinamento quali, ad esempio, le norme
che regolano la successione necessaria.
Margini di potenziale conflitto del trust successorio con l’ordinamento nazionale
sono stati individuati in particolare rispetto al divieto dei patti successori, rappresentati da
tutte quelle convenzioni con cui taluno dispone in vita della propria successione, è da
precisare che il trust non può in alcun modo essere assimilato ad un vero e proprio patto
successorio per il semplice fatto che manca nel negozio di trust l’essenziale presupposto
per un patto successorio costituito dal rapporto bilaterale tra il costituente e il beneficiario.
Inoltre, a differenza di quanto accade in seguito a una convenzione che violi il divieto dei
patti successori, dove il trasferimento della proprietà del bene avviene comunque dopo la
morte del testatore, nel trust l’efficacia del negozio di trasferimento è immediata, quando il
disponente è ancora in vita e i beni non possono essere considerati come facenti parte della
sua successione, si tratta per tanto di un atto che interessa non l’asse ereditario bensì il
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patrimonio è quindi un negozio inter vivos e non mortis causa. Inoltre il beneficiario non
conclude con il disponente alcun contratto o patto, infatti il trust è istituito con atto
unilaterale del disponente, che il trustee accetta successivamente quando si costituisce.
Il trust, come sostiene la tesi, potrebbe rivelarsi molto utile per la soluzione del
problema della successione nell’azienda, particolarmente sentito in quei casi in cui per
l’incapacità degli eredi l’azienda rischia di dissolversi, garantendo la continuità della linea
di gestione sulla base delle indicazioni date dal disponente, anche mediante apposite lettere
di desiderio. Sempre in ambito aziendale-familiare, l’utilità di questo strumento potrebbe
essere rappresentata dalla volontà del disponente di trasferire ai propri familiari l’intero
complesso aziendale e contemporaneamente tenerli esenti dalle eventuali vicende negative
occorrenti all’impresa. Le questioni relative alla compatibilità del trust con i ricordati
principi del diritto successorio non sono più attuali.
4.4.1 Caso 2: il trust per la continuità d’impresa
Nell’ambito del passaggio generazionale delle aziende di famiglia, il trust
garantisce unitarietà e continuità nell’impresa. L’imprenditore può regolamentare
l’assegnazione degli incarichi e delle responsabilità da assegnare ai vari componenti della
famiglia, la distribuzione dei dividendi e la ripartizione degli assetti proprietari,
prevedendo ad esempio che la partecipazione sociale venga trasferita all’erede a
determinate condizioni, ovvero che tale partecipazione venga liquidata all’erede da parte
dei soci superstiti o della società, con contestuale inserimento nello statuto sociale delle
clausole di successione e di continuazione obbligatoria o facoltativa. Ad esempio, la
regolamentazione del passaggio generazionale ottenuta utilizzando il trust è avvenuta nel
caso della società Alfa S.p.a. in cui i quattro soci, fratelli, hanno istituito un trust
autodichiarato e si sono riuniti in un collegio di trustees.
Il regolamento del trust ha previsto la definizione di quattro classi di beneficiari,
una per ciascuna stirpe e di cui ciascun trustee ne era l’espressione. Si è garantita così la
continuità nell’impresa prevedendo una successione nell’ufficio del trustee dei beneficiari
appartenenti a ciascuna classe di riferimento, garantendo peraltro ai beneficiari
l’opportunità di uscire dal trust ricevendo in beneficio parte del reddito, al momento della
successione del trustee.
4.5 Le problematiche irrisolte dal patto di famiglia e le soluzioni con
l’utilizzo del trust
Si è visto in precedenza come numerosi problemi siano lasciati irrisolti dal patto di
famiglia, ad essi sembra che il trust sia idoneo a rispondere in modo più efficiente. É il
caso ad esempio dell’imprenditore legato da un rapporto di convivenza, oppure il problema
della disciplina puntuale dei profili non attributivi e non meramente patrimoniali della
pianificazione del trasferimento della ricchezza familiare, essenziali per dettare le regole di
governo che riflettono anche assetti di governance familiare (la ripartizione degli incarichi
gestori, l’esercizio del controllo) e che garantiscono il passaggio efficace del testimone.
Tali inadeguatezze del patto di famiglia spiegano perché in altri contesti
l’attuazione delle regole venga piuttosto affidata ad un soggetto terzo, il trustee, estraneo al
nucleo familiare che, recependo le volontà dell’imprenditore finché in vita e
successivamente adeguandole a quelle dei suoi familiari, le adatti al mutare delle
circostanze, secondo la sua valutazione discrezionale, il suo oggettivo buonsenso o
secondo le indicazioni dettate dal disponente nelle lettere d’intento, da un soggetto indicato
dal disponente (il guardiano) o dalla collettività organizzata dei beneficiari (collegio dei
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beneficiari), senza che questo debba ogni volta coinvolgere l’unanime decisione di tutti gli
aderenti al patto, la cui stessa identificazione nel tempo può essere assai difficoltosa.
Spesso ostacolo alla soluzione pacifica di una pianificazione successoria è la
consegna della stessa alle determinazione dei soggetti portatori degli interessi in conflitto:
l’affidamento dell’esecuzione degli intenti del disponente ad un soggetto estraneo alla
famiglia riduce anche il rischio, assai frequente, di non esecuzione degli obblighi che fanno
carico ai familiari e garantiscono che i beni segregati in trust siano esclusivamente destinati
al soddisfacimento dei diritti dei legittimari presenti o sopravvenuti. Rispetto alla pretese di
questi, a fronte dell’inadempimento degli obblighi dei legittimari assegnatari, il patto di
famiglia non ha strumenti di coercizione né efficaci strumenti di sanzione.
Il trust ha una funzione di patto di famiglia, nel momento in cui è istituito con lo
scopo di:
mantenere la gestione efficiente delle aziende di famiglia;
assicurare l’unità del patrimonio immobiliare familiare;
attribuire il controllo delle partecipazioni a qualsiasi soggetto terzo e
imparziale che cura gli interessi di tutti i discendenti congiuntamente ;
dare certezza alle attribuzioni in vita disposte dal disponente;
addivenire ad un accordo di tutti i legittimari in merito alle avvenute
attribuzioni in modo da evitare l’instaurarsi di successive azioni di riduzione
o di impugnazioni del patto.
E’ importante ricordare che il trust, a differenza del patto di famiglia, permette il
passaggio generazionale di tutto i patrimonio dell’imprenditore e non della sola impresa. In
questo senso, il trust può:
prevedere il salto di una generazione;
impedire frazionamenti della proprietà immobiliare;
unificare il patrimonio per un tempo sufficientemente lungo;
evitare pregiudizio per le attività di impresa;
evitare interferenze nella gestione da parte di terzi estranei alla famiglia o
anche di familiari non in grado di gestire il patrimonio;
evitare le aggressioni dei creditori del trustee e dei beneficiari;
soddisfare mediante le utilità del trust i bisogni del disponente e della
propria famiglia nel tempo e al variare delle circostanze.
Inoltre, attraverso tale struttura, l’imprenditore riesce a:
prevedere l’estromissione dei propri figli, ritenuti non idonei a gestire, da
incarichi di amministrazione delle società di famiglia, ma, al contempo,
garantire loro un reddito da partecipazione;
affidare tali incarichi, oltre che a se stesso finché è in vita, ad alcuni membri
del collegio dei trustees;
attribuire la gestione del patrimonio immobiliare al collegio dei trustees,
incaricati di attribuire i beni e distribuire i redditi secondo le volontà e le
esigenze dell’imprenditore e dei suoi familiari allo stato viventi;
determinare la destinazione dei beni in trust ai discendenti, al termine del
trust, secondo regole ben definite;
dettare una linea decisa del governo d’impresa da rispettare anche dopo che
l’abbia trasferita, in modo da poter lasciare la sua impronta sulla gestione
aziendale ovvero trasmettere la cultura d’impresa;
continuare a dividere con tutti i propri famigliari i redditi dell’impresa.
L’imprenditore può anche stabilire liberamente le regole per la nomina del
successore del trustee, prevedendo che sia un altro dei suoi famigliari oppure dettandone i
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requisiti o ancora prevedere che siano tutti i beneficiari a maggioranza a nominare il
successore; mentre con il patto di famiglia in caso di morte dell’assegnatario i beni si
devolvono secondo le regole della sua successione e il destinatario non può assicurarsene il
controllo.
Diversamente, il trust previene il rischio di vanificare gli intenti del disponente e
garantisce la stabilità delle previsioni relative alla pianificazione generazionale non già
incidendo, come scelto dal patto di famiglia, sul regime di validità dell’atto che può essere
impugnato in base alle norme sui vizi del consenso in caso di mancato rispetto delle
previsioni relative al pagamento delle quote spettanti dei legittimari non partecipanti, ma
prevedendo che il beneficiario che agisca contro il trustee, e quindi alteri l’esecuzione a
questi affidata delle disposizioni del trust, perda la sua posizione di beneficiario.
Altra necessità assai avvertita dal disponente è quella di conservare una qualche
forma di controllo sui beni trasferiti, ancorché tale controllo sia di fatto esercitato da un
soggetto terzo, il trustee, con il quale il disponente stesso, o il guardiano come persona da
lui indicata, interagisce. L’analisi economica condotta sul sistema di avvicendamento delle
aziende familiari mostra come una delle finalità maggiormente perseguite dai genitoriimprenditori sia quella di anticipazione sulla futura successione secondo meccanismi che
consentono una forma di rendita per i genitori stessi, anche a causa dell’allungamento della
vita media, e un certo grado di controllo sulla ricchezza trasferita.(Manes P, 2006)
Infatti, è esigenza spesso avvertita dall’imprenditore, fortemente convinto dello
stretto legame tra successo dell’impresa e proprie capacità gestorie, quella di continuare ad
esercitare il controllo o ricoprire incarichi gestori anche a seguito del trasferimento
dell’azienda o delle partecipazioni. In questo senso, il patto di famiglia consentirebbe di
esercitare tale forma di controllo all’imprenditore finché in vita solo con la previsione della
riserva di usufrutto sull’azienda trasferita, con tutti i problemi che il conflitto generazionale
tra genitori usufruttuari e figli nudi-proprietari. Altra possibilità offerta dal patto di
famiglia è quella attuata dalla cessione solo parziale delle partecipazioni accompagnata
dalla previsione di diritti particolari (nomina degli amministratori o dell’unico
amministratore) inerenti le partecipazioni che restano in capo al disponente o l’inserimento
nel patto di clausole che prevedono il coinvolgimento del disponente nelle decisioni
aziendali.
Ciò che nel patto di famiglia è conseguito con difficoltà è invece del tutto coerente
con la struttura dei trust imprenditoriali/familiari nei quali il disponente può continuare a
far parte dell’organo esecutivo e dove i trustees/azionisti in presenza di un amministratore
efficiente, devono dimostrare giustificati motivi per revocarlo. Accanto alla finalità di
assicurare un passaggio efficace delle competenze gestorie dell’impresa, è inoltre avvertita
la necessità che al disponente sia assicurata una forma di mantenimento, esigenza
soddisfatta dal contratto ereditario e dai trust imprenditoriali familiari e invece disattesa dal
patto di famiglia. In particolare, in questa ultima ipotesi il disponente è beneficiario del
solo reddito finché in vita e per quanto necessario alle sue esigenze: al termine del trust la
capitalizzazione del reddito non distribuito va ai soli beneficiari finali, i discendenti,
destinatari dei beni in trust.
Il punto fondamentale è che il trasferimento dell’impresa al trustee consente di
realizzare la stabilita attribuzione del patrimonio affidata ad un soggetto dotato di
competenza gestoria e professionalità ma soprattutto terzo rispetto ai soggetti familiari e
quindi capace di attuare le indicazioni del disponente con neutralità e in assenza di
conflitto di interessi. In più, il trustee è in grado di adeguare le disposizioni al mutare delle
circostanze e di darne attuazione nel lungo periodo in quanto titolare di un ufficio per il
quale sono previsti meccanismi di successione e cooptazione che assicurano la continuità
per le future generazioni.
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Infine, sono spesso richiesti meccanismi di devoluzione delle partecipazioni che
assicurino ai soli discendenti dell’imprenditore, e non, in assenza di loro figli, ai coniugi di
questi, la titolarità delle partecipazioni. Accanto a tale finalità, può accadere che per motivi
legati ad incapacità, interdizione o inabilitazione della prima generazione, il disponente
voglia o debba saltare la generazione dei figli e trasmettere l’azienda ai nipoti, ma intenda
garantire il mantenimento ai figli con le rendite che l’azienda di famiglia produce, in
questo caso è necessario l’intervento di un soggetto terzo che traghetti la gestione
dell’azienda fino al momento in cui i nipoti del disponente siano in grado di gestirla.
Il valore aggiunto che ancora il trust presenta rispetto al patto di famiglia è
rappresentato:
dalla possibilità di lasciare l’esercizio del controllo dell’azienda di famiglia
all’imprenditore;
dalla possibilità di adeguare costantemente al mutare delle circostanze le
determinazioni assunte al tempo della redazione dell’atto istitutivo e senza
modifica dell’atto che regola la pianificazione patrimoniale;
dalla garanzia di esecuzione della volontà del disponente che viene affidata
non ai singoli interessati ma ad un soggetto terzo e neutrale, al di sopra degli
interessi dei quali i familiari sono portatori;
dalla garanzia di poter pianificare anche oltre la vita del disponente e per
varie generazioni la devoluzione della ricchezza familiare perché affidata
non a persone fisiche ma ad un soggetto, il trustee persona fisica o giuridica,
titolare di un ufficio dotato di meccanismi di cooptazione e successione che
garantiscono la continuità della gestione e della realizzazione degli interessi
per il l’intero arco di tempo previsto dal disponente e non per la sola vita
fisica dei partecipanti al patto.
La proprietà dell’azienda o delle partecipazioni è a tutti gli effetti trasferita al
trustee, o meglio ai trustees, dato che spesso in questi trust l’ufficio è ricoperto da più
persone o da una trust company: ma l’atto istitutivo contiene precise disposizioni che
permettono al disponente di vedere realizzate le proprie intenzioni manifestate nell’atto
istitutivo o nelle lettere di desiderio. Non è detto ad esempio che il trustee debba mantenere
intatto il pacchetto di comando che il disponente gli trasferisce: lo farà se questo realizza
l’interesse dei beneficiari ma, in caso contrario, ben potrà alienare parte delle azioni
investendo quanto ricavato secondo le indicazioni dell’atto istitutivo. La surrogazione reale
tipica del trust impone però che quanto ricavato dalla vendita sia affetto dallo stesso
vincolo di destinazione reale che gravava sulle partecipazioni.
Infine, il trust consente di evitare il rischio che delle azioni diventino titolari figli
minori, ciò che comporterebbe l’usufrutto del soggetto esercente la potestà genitoriale che
potrebbe non essere un discendente dell’imprenditore, ma il suo coniuge: è infatti possibile
prevedere, compatibilmente con il termine massimo di durata del trust previsto dalla legge
regolatrice, come termine finale del trust il raggiungimento di una certa età da parte di tutti
i beneficiari piuttosto che una data determinata. Ma accanto alle partecipazioni, altri beni,
dei quali ciascun disponente è titolare, possono essere trasferiti in trust: beni immobili,
titoli, altre partecipazioni sociali che nulla hanno a che vedere con la società di famiglia,
sempre al fine di assicurare una unitaria, efficiente gestione da parte di soggetti qualificati.
Ecco anche il perché della scelta di un collegio di trustees: alcuni di essi si occuperanno
della gestione degli immobili, altri potranno avere ruoli gestori nella società, accanto, oltre
o in sostituzione (dopo la sua morte) del disponente.
Il soggetto individuato a guidare l’impresa è tenuto a farlo in favore di tutti i
discendenti e non viene arricchito in modo esclusivo all’assegnazione; gli altri discendenti
non ricevono il controllo ma a loro spetta la loro quota di ricchezza e di redditi generati
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dalle partecipazioni oggetto di trust. Da un punto di vista economico, essi quindi non sono
danneggiati in nessun modo da una gestione del passaggio generazionale attuato tramite
trust. Non dovrebbero quindi avere da lamentarsi per la violazione della loro quota di
legittima, anche se essa deve essere attribuita in piena proprietà e non gravata da pesi o
oneri, mentre il trust attribuisce a loro la spettanza della ricchezza incorporata nelle
partecipazioni, ma non il controllo e la proprietà delle stesse. In assenza di un pregiudizio
economico, quindi non vi sarebbe ragioni per agire in riduzione nei confronti del
trasferimento delle partecipazioni in trust, soprattutto nei casi dove il soggetto che prende il
posto del capostipite viene scelto congiuntamente da tutti i discendenti; il consenso di tutti
è necessario per creare un trust ben funzionante. Tuttavia vi sono diverse tecniche per
assicurare al trust i medesimi effetti del patto di famiglia, in termini di assicurazione di
stabilità della sistemazione a fronte delle possibili azioni di riduzione dei discendenti che
successivamente all’istituzione del trust cambiassero idea.
La prima, preferibile nei casi in cui il soggetto da nominare trustee sia un
discendente dell’imprenditore al quale si può applicare il patto di famiglia, è quella di
combinare proprio il patto di famiglia con un trust. Quindi si stipula un patto di famiglia e
l’assegnatario delle partecipazioni è uno dei discendenti dell’imprenditore, che riceve sulla
base del patto di famiglia ma riceve anche in qualità di trustee di un trust istituito dallo
stesso imprenditore o dagli altri suoi discendenti; in questo modo si ottengono i vantaggi di
entrambi gli strumenti. Una seconda tecnica comporta la stipulazione di una donazione da
parte dell’imprenditore delle partecipazioni ai propri legittimari in quote legali; in questo
modo non può esserci violazione della quota di legittima e quindi nemmeno azione di
riduzione nei confronti del trust, successivamente istituito. Non appena i legittimari
abbiano ricevuto i beni attraverso la donazione, essi li trasferiranno in un trust con un atto
istitutivo stipulato dall’imprenditore o dai legittimari per gestire il passaggio generazionale
della ricchezza; in questo modo si gestisce il passaggio generazionale e si assicura la
stabilità del programma con cui è stato attuato.
4.5.1 Caso 3: la scelta del successore
Per comprendere meglio le differenze tra patto di famiglia e trust si considera la
situazione di Mevio, imprenditore, con tre figli, Tizio (18 anni) Caio (20 anni) e
Sempronio (23 anni) tutti e tre studenti universitari. Il sopraggiungere di problemi di
salute, fa sorgere l’esigenza di pianificare il passaggio generazionale nella sua società e
l’attribuzione degli altri beni che compongono il suo patrimonio. Al momento però Mevio
non è in grado di scegliere quale dei suoi tre figli abbia le doti necessarie per assumere un
ruolo di riferimento, in quanto ancora giovani e privi di esperienza lavorativa. Mevio,
finché sarà in vita vorrebbe concorrere ad individuare l’assegnatario ed intenderebbe
perseguire i seguenti obiettivi:
assegnazione della proprietà di una quota di controllo della società e dei
relativi poteri gestionali a quello tra i figli che avrà nel tempo manifestato le
seguenti doti: merito scolastico, capacità di esercitare una leadership, spirito
imprenditoriale e capacità di sacrificio.
assegnazione agli altri due figli di quote di minoranza della società.
ripartizione degli altri beni che compongono il patrimonio in modo che, al
momento dell’assegnazione definitiva, i valori dei beni ricevuti siano uguali
tra i tre figli.
La società dovrà nel tempo restare nelle mani dei tre figli, senza che la morte o
vicissitudini coniugali di uno di essi possa comportare il trasferimento di partecipazioni a
coniugi, ma consentendo di attribuire la disponibilità e i frutti di alcuni beni alla sua
convivente.
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In una situazione del genere la naturale duttilità del trust risulta idonea al
raggiungimento degli obiettivi di Mevio, ma ancora di più se il trust presentasse alcuni dei
requisiti richiesti dalla disciplina si consoliderebbe la conformità di quanto determinato in
esecuzione del trust con le norme in materia di successione necessaria.
Come nei più diffusi trust di famiglia, le finalità del trust che Mevio dovrebbe
istituire saranno caratterizzate da un intento liberale a favore dei suoi figli o dei suoi
discendenti, al fine di garantire loro una sicurezza economica nel futuro. Ma molte delle
regole e dei programmi contenuti nell’atto istitutivo, quando il disponente è un
imprenditore, sono ispirate da una volontà da un lato di conservare e di incrementare il
valore della società mediante una gestione unitaria delle partecipazioni sociali, dall’altra di
salvaguardare il futuro dell’azienda di famiglia, a volte anche penalizzando l’interesse di
uno o più dei figli beneficiari, e questo proprio nell’interesse degli stessi beneficiari del
trust. La continuità dell’impresa nel tempo, infatti, costituisce garanzia di mantenimento e,
magari, di incremento di ricchezza per la famiglia e per questo motivo l’imprenditore tende
ad inserire nell’atto istitutivo del trust, in cui l’impresa confluirà, disposizioni a
salvaguardia di quest’ultima.
Ovviamente il bene principale che confluirà nel fondo in trust è l’azienda di
famiglia, non importa se condotta come ditta individuale, società di persone o società di
capitali. Ma non solo: oggetto del trust saranno anche gli altri beni che compongono il
patrimonio di Mevio e che rappresenteranno pertanto la liquidazione dei figli che non
risulteranno, alla fine del trust, assegnatari della quota di maggioranza dell’azienda. In
questo modo si viene a colmare una delle lacune del patto di famiglia, e cioè il modo in cui
il discendente assegnatario, in genere di giovane età e privo di idoneo patrimonio, può
reperire la provvista necessaria per liquidare gli altri legittimari, senza fare ricorso ad altri
beni della famiglia. Nel trust è il trustee che si sostituisce al discendente assegnatario
nell’attività liquidatoria a favore degli altri legittimari, ma avendo la possibilità di attingere
dagli altri beni messigli a disposizione dal disponente.
Per quanto attiene i beneficiari, l’atto istitutivo definirà come beneficiari i tre figli
di Mevio ed i loro discendenti, lasciando alla discrezionalità del trustee la scelta della
ripartizione del fondo e dei relativi redditi tra i beneficiari con le modalità e secondo le
finalità da Mevio indicate nello stesso atto.
In considerazione degli obiettivi posti da Mevio la durata idonea del trust dovrebbe
essere compresa tra i quindici ed i venti anni.
Una delle esigenze più frequenti per un imprenditore in fase di pianificazione del
passaggio generazionale è quella di differire il momento dell’individuazione del successore
a cui assegnare il ruolo imprenditoriale, sia perché, come nel caso di Mevio, non è in
possesso di tutti gli elementi per effettuare tale scelta, spesso in considerazione della
giovane età dei figli, sia perché intende mantenere a sé tale ruolo finchè sarà in grado di
svolgerlo in modo efficace. Come già accennato, tale esigenza mal si concilia con la rigida
struttura del patto di famiglia, che prevede la contestuale individuazione dell’assegnatario
ed il trasferimento dell’azienda o dei diritti sulla stessa. L’obiettivo invece sarebbe
raggiungibile con un trust che preveda lo svolgimento delle seguenti funzioni da parte del
trustee:
nel periodo tra la costituzione del trust ed il raggiungimento dell’età di 25
anni di Tizio, il trustee dovrà far sì che ognuno dei tre figli abbia un ruolo in
azienda, eventualmente anche a rotazione tra gli stessi, compatibile con gli
impegni universitari e coerente con gli studi svolti, salvo l’esplicito
disinteresse di alcuno dei tre figli.
al compimento del 25 anno di Tizio, il trustee dovrà individuare, con il
concorso del disponente, se ancora in vita, il futuro assegnatario della quota
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di controllo al quale verranno subito attribuiti poteri gestionali e la
corrispondente quota degli utili distribuiti, ed agli altri due quote di
minoranza e contestualmente il trustee dovrà individuare e trasferire le
quote di partecipazione residue ed i beni da assegnare ai due fratelli non
assegnatari della quota di controllo della società in modo tale che il valore
dei beni assegnati ai tre figli sia paritetico, ed imputare loro i relativi redditi;
il trustee dovrà individuare, con le stesse modalità, un nuovo assegnatario
della quota di controllo tra gli altri due fratelli o tra i nipoti di Mevio, a cui
affidare ruoli gestionali, riallocando di conseguenza gli altri beni ed i
relativi redditi, in caso di:
o ripetuti risultati negativi della società; tale possibilità consentirebbe
al trustee di rivedere la scelta fatta in considerazione della manifesta
inidoneità dell’assegnatario a condurre l’azienda, di fatto
subordinando, quindi, il futuro trasferimento della partecipazione di
controllo al figlio assegnatario all’ottenimento di performance
aziendali positive da parte di quest’ultimo.
o Premorienza del fratello assegnatario: la previsione dell’atto
istitutivo
delle
modalità
di
individuazione
del
beneficiario/assegnatario dell’azienda quindi, dovrà essere
strutturata in modo tale che tale individuazione sia risolutivamente
subordinata alle seguenti due condizioni: performance positive della
conduzione aziendale ed esistenza in vita del beneficiario
assegnatario al termine del trust.
Un aspetto che non può essere regolato dal patto di famiglia è proprio l’ipotesi in
cui dopo breve tempo dal trasferimento della azienda o delle partecipazioni al figlio
assegnatario, quest’ultimo deceda. Si applicherebbero in tal caso le ordinarie regole in
materia successoria, con il risultato che, diversamente da quanto pianificato dal disponente
a favore della propria famiglia, l’azienda, fonte di ricchezza, vada a confluire a favore del
coniuge del figlio scomparso e, pertanto, a persone terze al di fuori del nucleo familiare del
disponente e che potrebbero, quindi, essere sgradite. Anche in questo caso il trust potrebbe
fornire una soluzione idonea al problema. L’atto istitutivo del trust potrebbe ad esempio
prevedere che:
in caso di premorienza o sopravvenuta incapacità del figlio
assegnatario della quota di controllo, il trustee dovrà individuare il
nuovo assegnatario tra i fratelli di quest’ultimo o in alternativa tra i
suoi figli;
in caso di premorienza di uno degli altri figli le relative spettanze
ancora facenti parte del fondo in trust saranno attribuite dal trustee ai
figli del de cuius o in mancanza in accrescimento ai fratelli.
4.6 Le problematiche del fondo patrimoniale e le soluzioni con l’utilizzo
del trust
Per fondo patrimoniale si intende un’entità giuridica consistente di valori
economici amministrati per un particolare scopo cui sono destinati; esso è strettamente
collegato all’ambito familiare ma comporta delle limitazioni che il trust può superare. Il
fondo è istituito con atto notarile ed al fondo vengono trasferiti i beni con negozi traslativi,
i beni del fondo sono limitatamente disponibili per il soddisfacimento delle obbligazioni
che trovano causa nella destinazione a cui gli stessi beni sono rivolti.
Questo strumento viene anche utilizzato da imprenditori, amministratori,
professionisti e dirigenti per la difesa del patrimonio personale e della famiglia contro i
70
rischi derivanti dall'attività lavorativa, dato che gli imprenditori e i soci delle società di
persone rispondono dei debiti relativi alla propria attività con tutto il loro patrimonio. Chi
gestisce l'azienda attraverso una società di capitali, pur non rispondendo direttamente dei
debiti, deve spesso rilasciare fideiussioni e garanzie personali, e può essere chiamato a
rispondere in proprio quale amministratore. I professionisti sono esposti a richieste di
risarcimento da parte dei clienti, specialmente chi ha un incarico dirigenziale in un'impresa
o un ente pubblico, è gravato da responsabilità crescenti. Queste esigenze di sicurezza
possono essere soddisfatte dal fondo patrimoniale o ancor meglio dal trust.
Il presupposto o la condizione di efficacia è l’esistenza di una famiglia legittima, il
fondo può essere costituito sia prima che durante il matrimonio e il venir meno del legame
coniugale fa cessare il fondo patrimoniale, nel caso di un fondo costituito da un solo
coniuge è necessario il consenso dell’altro coniuge; nemmeno le persone in stato vedovile
possono costituire fondi patrimoniali.
Inoltre possono costituire oggetto di fondo patrimoniale i beni immobili, beni
mobili iscritti in pubblici registri e titoli di credito; mentre i beni mobili non registrati,
denaro, quote sociali non azionarie e strumenti finanziari non possono essere conferiti in
un fondo patrimoniale. Sia i beni che i frutti oggetti del fondo devono essere destinati alle
necessità della famiglia, ma non è chiaro cosa si intende per necessità (esigenze
strettamente indispensabili o esigenze voluttuarie) e per famiglia ( solamente i due coniugi
o la famiglia estesa). Il trust inoltre risulta più idoneo al perseguimento degli obiettivi di
tutela, infatti il fondo patrimoniale, a differenza del trust, non prevede beneficiari in senso
tecnico: i soggetti in favore dei quali è stato istituito il fondo, ad esempio i figli, non hanno
poteri di controllo sulla gestione dei beni, né sono legittimati ad agire nei confronti dei
genitori che destinino i frutti a finalità non coincidenti con i bisogni della famiglia. Nel
fondo patrimoniale non è previsto che al momento della sua cessazione i beni debbano
essere devoluti ad alcuno dei componenti la famiglia, in particolare ai figli, per cui la tutela
della famiglia non appare così perseguita col massimo risultato.
Anche la segregazione del patrimonio non è paragonabile a quella del trust, è
maggiormente circoscritta dato che spetta ai coniugi provare l’effettiva conoscenza da
parte del creditore agente in esecuzione dell’estraneità del debito contratto ai bisogni della
famiglia, nel caso in cui vogliano evitare l’esecuzione sui beni e i frutti oggetto di fondo
patrimoniale. Inoltre vi sono dei limiti sull’amministrazione dei beni in fondo patrimoniale,
la normativa comporta l’estensione delle norme relative all’amministrazione della
comunione legale al medesimo fondo patrimoniale è la seguente:
amministrazione disgiunta per gli atti di ordinaria amministrazione;
amministrazione congiunta da parte dei coniugi per gli atti di straordinaria
amministrazione e per i contratti con i quali si acquistano o si concedono
diritti personali di godimento.
Nell’amministrazione si presentano come punti di debolezza del fondo patrimoniale
rispetto al trust la discrezionalità consentita ai coniugi nelle decisioni riguardanti
l’amministrazione e la disposizione dei beni del fondo, laddove l’esistenza di un trust non
consentirebbe la facile alienazione dei beni che lo compongono, producendo altresì
l’effetto di disincentivare la costituzione di fondi patrimoniali simulati o abusivi.
L’elenco delle principali caratteristiche del fondo patrimoniale riporta una serie di
aspetti negativi che limitano l’istituzione e la gestione del fondo; alcuni di questi aspetti
svantaggio si possono essere evitati con la costituzione di un trust in favore dei membri
della famiglia, la flessibilità di tale strumento permette di sorpassare i vincoli imposti dalla
legge senza perdere gli aspetti vantaggiosi del fondo, come verrà analizzato di seguito.
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Prima di tutto il concetto di trust non è limitato ai nuclei famigliari quindi può
essere utilizzato per i bisogni delle famiglie di fatto, da persone vedove o nubili e da
persone coniugate che vogliono provvedere all’interesse di un figlio naturale.
Inoltre il trust risulta anche utile quando un terzo vuole destinare dati beni ai
bisogni della famiglia del figlio, ma senza affidare l’amministrazione al figlio stesso e al
coniuge preferendo che ad amministrarlo sia un altro soggetto con determinate qualità.
Infine nel trust non ci sono limiti relativi ai beni che possono essere trasferiti al
trustee, quindi sono compresi quote societarie, beni mobili non registrati, denaro e
qualsiasi strumento finanziario. Per quanto riguarda la segregazione dei beni in trust non vi
sono limiti a certi obblighi, infatti spetta al trustee provare che un certo bene è da lui
detenuto in trust e non come proprietà privata; in alcuni casi questa prova risulterà
piuttosto facile in quanto il trustee è obbligato a tenere conti a parte per i beni in trust,
mentre nel caso in cui non esista una documentazione scritta sul trasferimento dei beni
questa prova potrebbe risultare più complicata.
Quindi invece di costituire un fondo patrimoniale i coniugi dovrebbero valutare le
opportunità che derivano dall’istituzione di un trust, in quanto sia la gestione che
l’applicabilità sono più flessibili e estensivi rispetto al fondo.
4.7 Atti di destinazione e trust
Con l’atto di destinazione, un soggetto (definito conferente) può sottrarre uno o più
beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri appartenenti al suo patrimonio alla
garanzia patrimoniale di cui all’art.2740 c.c., imprimendo su di essi un vincolo di
destinazione funzionale al soddisfacimento di interessi meritevoli di tutela riguardanti
beneficiari determinati, a favore dei quali sia tali beni che i loro frutti devono essere
impiegati. Il vincolo di destinazione recentemente introdotto dal legislatore sembra
presupporre un’area applicativa estremamente ampia, il cui unico limite attualmente risiede
nella natura dei beni che possono formarne oggetto (beni immobili o mobili registrati). Il
vincolo non può avere durata superiore a novanta anni. Esso deve risultare da atto avente
forma pubblica e può essere trascritto ai fini dell’opponibilità nei confronti dei terzi. Per la
realizzazione dello scopo può agire, oltre al disponente, anche qualsiasi altro interessato.
La conseguenza dell’apposizione del vincolo è che i beni destinati alla finalità ed i
loro frutti possono essere oggetto di esecuzione per i soli debiti contratti per tale scopo.
L’art. 2645-ter c.c. prevede quindi un vincolo di destinazione atipico, nel quale gli scopi
non sono predeterminati dal legislatore ma rimessi all’autonomia privata, sempreché
superino il giudizio della meritevolezza degli interessi perseguiti. L’atto di destinazione
quale risulta dall’art. 2645-ter c.c. si sostanzia nella funzionalizzazione di un bene, con
apposizione del vincolo sul bene stesso, al fine del raggiungimento di un determinato
scopo. Il vincolo, effetto dell’atto, comporta limitazioni nel godimento e nel potere di
disposizione.
Ogni vincolo ha un profilo statico, in quanto esclude i beni vincolati dal principio
della responsabilità patrimoniale generica e li rende aggredibili solo per debiti contratti per
la finalità; ed un profilo dinamico, perché obbliga uno o più soggetti a perseguire la
finalità, potendo il conferente-disponente ed i terzi interessati agire per la sua
realizzazione.
E’ dunque chiaro che una previsione legislativa così ampia non pare possa impedire
che un soggetto si serva del vincolo di destinazione come strumento di protezione
patrimoniale personale, similmente a quanto avviene nel trust. Un soggetto potrebbe così
creare, all’interno del proprio patrimonio, uno o più patrimoni separati, mettendoli al riparo
da eventuali azioni esecutive dei debitori presenti e futuri. E se a tutela di questi ultimi è
pur vero che esistono specifici strumenti non è detto che questi siano sempre sufficienti a
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garantire un’effettiva tutela delle loro ragioni di credito. Il conferente, per realizzare con
sicurezza la finalità, deve necessariamente affidarne il perseguimento ad un terzo (o subito,
o in seguito alla propria morte o incapacità) e disporre per quando il vincolo sarà cessato.
Per questo il vincolo di destinazione come delineato dal codice civile viene nella pratica
scarsamente utilizzato. Perché il nuovo istituto possa avere qualche chance di applicazione
è necessario che il vincolo inerisca ad un negozio di affidamento fiduciario, in virtù del
quale il fiduciario assuma obbligazioni in ordine alla realizzazione della finalità. In
quest’ottica il negozio di destinazione diviene il punto iniziale di una serie procedimentale
di atti che termina con l’attribuzione al beneficiario.
L’atto di destinazione può essere così impiegato anche ai fini del passaggio
generazionale nell’impresa:
il disponente trasferisce la proprietà dell’azienda relativa alla sua impresa
individuale, gravata da vincolo di destinazione, ad un fiduciario, affinché
questi la gestisca nell’interesse dei figli del disponente, trasferendone in un
secondo tempo la proprietà ai beneficiari medesimi (ovvero a società tra gli
stessi costituita) non appena il più giovane degli stessi abbia raggiunto la
maggiore età; oppure trasferisca la proprietà dell’impresa a quei beneficiari
che manifestino l’intenzione di continuare l’attività di impresa, in forma
individuale o societaria, liquidando in denaro la quota spettante ai
beneficiari che non intendono continuare detta attività;
il disponente trasferisce la propria partecipazione sociale ad un fiduciario,
con l’incarico di distribuire gli utili ai figli del disponente, e quindi, una
volta che questi ultimi abbiano raggiunto la maggiore età, di attribuire la
stessa quota sociale a quei figli del disponente che il medesimo fiduciario
ritenga idonei a continuare l’attività di impresa; al fiduciario viene quindi
attribuito il potere di compiere ogni scelta ritenuta opportuna ai fini
dell’individuazione dei beneficiari finali i quali, da parte loro, hanno solo il
diritto a che la scelta venga effettuata entro un dato termine;
il disponente, titolare di partecipazioni sociali che non può detenere per
problemi di incompatibilità con la sua professione, trasferisce tali
partecipazioni sociali ad un fiduciario, con l’incarico di gestire ed
amministrare le partecipazioni medesime, devolvendone i redditi ai figli del
disponente e con l’obbligo, allo scadere del termine di durata stabilito, di
ritrasferire le partecipazioni suddette al disponente o, in mancanza, ai figli.
L’introduzione nel nostro ordinamento della norma sul vincolo di destinazione pone
il problema di stabilire quale relazione vi sia tra questo nuovo strumento e il trust. I casi
possibili sono due:
il vincolo di destinazione si affianca al trust e entrambi questi istituti corrono
separatamente, come su due binari paralleli;
il vincolo di destinazione diventa in Italia ciò che il trust è negli ordinamenti nei
quali vige una legge disciplinatrice del trust (e quindi si tratterebbe di un
assorbimento del trust nel nuovo vincolo di destinazione).
In particolare la dottrina si è chiesta se il vincolo di destinazione, non sia in sostanza
una sorta di trust interno. Per cercare di risolvere la questione è utile procedere ad una
comparazione tra i due istituti, evidenziandone le analogie e differenze.
Un prima fondamentale differenza rispetto al trust è che la nuova normativa in tema di
vincoli di destinazione non prevede la partecipazione all’atto istitutivo del vincolo di due
soggetti distinti, mentre il trust è incentrato sulla partecipazione di due soggetti: il
disponente ed il trustee. D’altro canto, è altrettanto vero che esiste la possibilità per il
disponente di dichiararsi trustee dei beni che vengano fatti confluire nel trust così come
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non si può assolutamente escludere che all’origine del vincolo di destinazione contemplato
dall’articolo 2645-ter del Codice civile vi sia un atto plurilaterale, anziché la volontà
unilaterale di un solo soggetto finalizzata ad imprimere ad alcuni beni un certo vincolo. Si
pensi, ad esempio, ad un gruppo di fratelli che al fine di proteggere i beni di famiglia dalle
conseguenze di eventuali vicende negative che interessino l’attività imprenditoriale da
ciascuno esercitata, e di far sì che i loro discendenti possano continuare a goderne,
decidano di trasferirli ai rispettivi figli, obbligando costoro ad imprimere ai beni ricevuti un
determinato vincolo di destinazione (legato alla finalità di preservazione e godimento
comune del patrimonio familiare).
Analogamente, si potrebbe ipotizzare il caso del libero professionista che, per mezzo di
un negozio unilaterale, vincoli alcuni beni del suo patrimonio alla realizzazione degli
interessi dei propri figli minori, assicurando loro un sicuro mantenimento fino all’età
adulta ed indipendentemente dalle possibili ripercussioni pregiudizievoli che possano
riguardare il suo patrimonio.
Quanto alla forma è riconoscibile un trust contenuto in un mero atto scritto, senza
imporre il ricorso ad un atto pubblico come fa l’art. 2645 ter c.c. Ove poi si aderisca alla
tesi contraria ad un atto di destinazione in forma testamentaria, emergerebbe un ulteriore
elemento di divergenza rispetto al trust, poiché la Convenzione espressamente ammette sia
il trust inter vivos che quello testamentario.
Inoltre l’istituto del trust presuppone un fenomeno di carattere attributivo-traslativo,
dal quale prescinde invece l’atto di destinazione, infatti, nella fattispecie di cui all’art. 2645
ter c.c. il trasferimento a terzi del bene destinato può essere o meno presente e in ogni caso
non assume rilevanza rispetto alla natura destinatoria dell’atto. L’atto di destinazione si
caratterizza appunto per il fatto che il conferente rimane proprietario dei beni sottoposti al
vincolo e li amministra in prima persona nell’interesse del soggetto beneficiario. La
fattispecie delineata nell’art. 2645 ter c.c., inoltre, produce una forma di separazione
patrimoniale che permette ai creditori il cui titolo sia ricollegabile alla destinazione, di
soddisfarsi non solo sui beni destinati, ma su tutto il residuo patrimonio del conferente. Il
trust invece realizza una vera e propria segregazione piena e bilaterale nel patrimonio del
trustee: il trustee, infatti, per le obbligazioni contratte al fine di perseguire lo scopo sotteso
al trust, non risponde con tutto il suo patrimonio, ma solo con i beni conferiti in trust.
Inoltre il giudizio di meritevolezza verrebbe conseguentemente a differenziarsi dal
trust, che per sua natura è suscettibile di essere utilizzato per la realizzazione di qualunque
interesse, anche speculativo e comunque al di fuori delle ipotesi tipiche previste dal
legislatore. Vi è chi riconoscendo le differenze tra trust e atto di destinazione, considera
quest’ultimo un frammento di trust, poiché tutto ciò che è nell’atto di destinazione è anche
nei trust, ma i trust si presentano con una completezza regolamentare e una collocazione
nell’area della fiducia che l’atto di destinazione non presenta. Anche la durata costituisce
un elemento distintivo importante tra le due fattispecie: per espressa disposizione
legislativa il vincolo di destinazione non può superare i novant’anni o la durata della vita
della persona fisica che ne risulti beneficiaria, mentre nel caso del trust la durata dipende
dalle previsioni della legge regolatrice che ad esso sia applicabile.
Gli elementi distintivi tra vincolo di destinazione e trust non sono di poco conto;
anzi, paiono tali da indurre a concludere che la fattispecie contemplata dall’articolo 2645ter del Codice civile ed il trust siano istituti da tenere ben distinti.
4.8 Il non charitable purpose trust per il passaggio generazionale
Un’applicazione interessante del trust riguarda la figura del non charitable purpose
trust (NCPT) prevista da alcune leggi di nuova generazione. Tale figura si compone di due
trust distinti ma congiunti: il primo, detenendo le azioni dotate di diritto di voto, ha
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tipicamente la funzione di gestire il controllo dell’azienda; il secondo è un trust
tradizionale con beneficiari (di solito i membri della famiglia) di reddito e capitale che
invece detiene le azioni prive di diritti gestori ma munite di diritti patrimoniali permettendo
ai familiari dell’imprenditore di ricavare dalle partecipazioni le utilità economiche che ne
assicurano il mantenimento e poi la destinazione del capitale. Tutto questo senza interferire
nella gestione del controllo, affidata a soggetti qualificati, quindi senza compromettere la
gestione efficiente della società.
L’intenzione del disponente di assicurare i benefici economici della società di
famiglia ai suoi discendenti deve coniugarsi con quella, a volte antitetica, della
preservazione del valore dell’impresa e potrebbe essere pregiudicata dalla mera istituzione
di un trust con beneficiari in cui gli stessi familiari detengono sia i diritti patrimoniali che
quelli gestori sulla società. La necessaria assenza dei beneficiari infatti, è motivata dal fatto
che essi, in quanto titolari di diritti insopprimibili quali quello al rendiconto e
all’informazione, potrebbero attivare tali pretese nei confronti del trustee così
pregiudicando la realizzazione della finalità del trust divisata dal disponente.
Nel non charitable purpose trust, oggi sempre più frequente nelle leggi del modello
internazionale, l’esercizio dei diritti di voto relativi alle azioni conferite in trust spetta ad
un trustee professionale, o ad un collegio di trustees, accanto alla creazione di un trust
tradizionale con beneficiari di reddito e capitale. Una interessante opportunità in questo
ambito è offerta dalla legge della Repubblica di San Marino sui trust. Essa infatti, prevede
che “lo stesso atto istitutivo di trust può istituire trust con beneficiari e trust di scopo”: la
previsione quindi, sembra particolarmente adatta a regolare il problema della successione
nell’impresa di famiglia quando questa è organizzata in forma societaria.
La prassi seguita nei trust del modello internazionale, in particolare in forza di leggi
particolarmente sensibili al tema dell’efficace gestione del controllo di pacchetti azionari di
società familiari quali quelle di Jersey, Bahamas, Bermuda e da ultimo Dubai, vede la
necessaria creazione di quindi di due trust: uno, di scopo, finalizzato all’esercizio del
controllo azionario e al passaggio dello stesso nelle varie generazioni; l’altro, con
beneficiari, nel quale le azioni prive di diritto di voto spettano ai familiari. E’ chiaro
quindi, come la norma della legge di San Marino offra una nuova e interessante
opportunità, che le attribuisce un vantaggio competitivo anche nei confronti delle altre
leggi di ultima generazione, consentendo l’istituzione contestuale dei due tipi di trust che
in altre legislazioni richiederebbero atti separati.
4.9 Caso pratico
Di seguito verrà descritto un trust che è stato utilizzato da un imprenditore per
realizzare il passaggio generazionale dell’impresa di famiglia e, più in generale, di tutto il
suo patrimonio.
Il signor Marco, ha 68 anni e, dopo un primo matrimonio con Cristina, da cui è
nato Roberto, oggi trentacinquenne, a seguito della prematura scomparsa della moglie, si è
risposato con Grazia, da cui ha avuto due figli: Riccardo, oggi venticinquenne e Francesca,
di cinque anni. Roberto è separato e non ha figli; da alcuni anni ha problemi di salute che
lo costringono a lunghe degenze in case di cura. Riccardo convive e ha due bambini.
Relativamente all’attività esercitata, il signor Marco è un imprenditore operante nel campo
dell’edilizia. L’azienda (la Mattone Srl) è stata da sempre gestita da lui in prima persona e
solo da cinque anni il primogenito Roberto ha iniziato a lavorarvi, ricoprendo inizialmente
ruoli non gestionali e solo da qualche mese assumendo il ruolo di junior manager. Riccardo
svolge invece la professione di architetto e solo saltuariamente supporta il padre ed il
fratello nell’attività aziendale. Quanto, infine, al patrimonio della famiglia di Marco, esso è
ad oggi accentrato esclusivamente nelle mani del capostipite, è rilevante e variamente
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composto, essendovi presenti, oltre alla Mattone Srl, sia beni immobili che strumenti
finanziari.
Al momento nessuno dei figli del signor Marco ha assunto funzioni di alta
responsabilità nell’attività gestionale dell’impresa di famiglia, non può tuttavia escludersi
che ciò possa avvenire in futuro. In attesa che qualcuno tra figli e nipoti manifesti
l’intenzione e l’idoneità di voler partecipare alla gestione dell'azienda, il signor Marco
vuole trovare una soluzione che gli consenta di evitare che la sua morte comporti la
distruzione dell’impresa a causa del venir meno di chi la guidava. Tale programmazione è
tanto più necessaria in previsione di un possibile aggravamento delle condizioni di salute
di Roberto che potrebbe impedire allo stesso di proseguire e sviluppare il percorso
intrapreso nell’azienda familiare. Il signor Marco ha, altresì, interesse a trovare una
soluzione che:
protegga e assicuri unitarietà all’azienda e, più in generale, al patrimonio
familiare;
equamente ripartisca il patrimonio tra i suoi discendenti, escludendo
dall’attribuzione di beni di famiglia i rispettivi coniugi;
concili l’aspirazione dei figli più maturi a subentrare nella conduzione
dell’impresa con la legittima protezione che deve essere concessa alla figlia
minore;
individui tra i discendenti colui o coloro che sono più adatti per assumere il
comando dell’impresa, al contempo rispettandone la libertà in relazione alle
loro scelte di studio o professionali;
assicuri reddito o mantenimento anche agli altri membri della famiglia che
non saranno destinatari dell’impresa;
gli consenta, finché ne abbia volontà e capacità, di continuare ad avere un
ruolo nella gestione dell’azienda;
sia efficiente dal punto di vista fiscale e, comunque, non peggiorativa
rispetto ad un’ipotesi di successione o donazione.
Dopo aver ricercato nel nostro ordinamento degli istituti che consentissero di
risolvere le problematiche del Sig. Marco (ovvero: holding, donazione della nuda
proprietà, patto parasociale o di famiglia) è emerso che non erano sufficienti a soddisfare
tutte le esigenze elencate. Quindi la proposta di un trust è la soluzione ottimale per
bilanciare gli interessi in campo e per effettuare le attribuzioni più consone, da un lato, alla
preservazione del valore dell’impresa di famiglia e, dall’altro, all’equa ripartizione del
patrimonio del signor Marco. La soluzione trust si presenta, altresì, interessante anche dal
punto di vista fiscale in quanto:
relativamente alle imposte dirette, il trasferimento di beni diversi da quelli
dell’impresa in un trust non genera materia imponibile ai fini delle imposte
sui redditi né in capo al disponente, né in capo al trust, attesa la totale
assenza di qualsiasi corrispettivo;
relativamente alle imposte indirette:
o la segregazione di beni in un trust liberale istituito a favore dei propri
discendenti è assoggettata all’imposta sulle successioni e donazioni con
aliquota proporzionale del 4% e con una franchigia, per ciascun
beneficiario, di euro 1.000.000,00;
o qualora, però, la segregazione in trust riguardi l’azienda e sia strumentale
alla finalità liberale del passaggio generazionale ai discendenti o al coniuge
del disponente tale atto potrà godere dell’esenzione dall’imposta sulle
successioni e donazioni, purché siano soddisfatte le specifiche condizioni
prescritte dalla norma, ovvero: i destinatari del trasferimento siano il
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coniuge o i discendenti; i destinatari del trasferimento d’azienda, o della
partecipazione in società, proseguano l’esercizio dell’attività di impresa o
mantengano il controllo societario (nel caso di società di capitali) per un
periodo non inferiore a cinque anni dalla data del trasferimento; l’impegno
alla prosecuzione dell’attività di impresa (o al mantenimento del controllo)
sia espressamente reso dagli aventi causa, contestualmente alla
presentazione della dichiarazione di successione o all’atto di donazione.
L’atto costitutivo è stato sottoscritto innanzi ad un notaio dal signor Marco in
qualità di disponente, trustee è stata nominata una trust company appartenente ad un
Gruppo Bancario italiano; nell’atto è stata prevista l’ulteriore limitazione che anche nel
caso di future nomine almeno un trustee debba essere una società che svolga
professionalmente tale attività. La legge scelta a regolare il trust è stata quella di Jersey in
quanto ritenuta la più idonea alle finalità perseguite dal disponente, consentendogli di
essere entro certi limiti partecipe della gestione del trust. Insieme alla sottoscrizione
dell’atto istitutivo, con un atto separato è stato segregato nell’istituto del trust l’intero
capitale dell’impresa di famiglia, strumenti finanziari e due immobili per un valore
complessivo di 3 milioni di euro.
I beni segregati in trust rappresentano la quasi totalità del patrimonio complessivo
del signor Marco; tale scelta si giustifica in virtù della volontà dell’imprenditore di
utilizzare il trust non solo per il passaggio generazionale della Mattone srl, ma anche per
eventualmente soddisfare i legittimari che non sarebbero stati destinatari dell’impresa di
famiglia. Anche il trustee designato è intervenuto nell’atto di dotazione al duplice fine di
accettare l’incarico conferitogli dal disponente in relazione alla gestione dell’istituito trust
e assumere l’obbligazione di non disporre del controllo della Mattone Srl per cinque anni,
al fine di ottenere l’esenzione totale da imposta di conferimento per tale bene.
Finalità e caratteristiche del trasferimento: nell’atto è stata inserita una premessa
dalla quale si evince che finalità del disponente è la creazione di un fondo che:
includa la partecipazione di controllo nella Mattone Srl, irrevocabilmente
destinata a tempo debito ai discendenti del disponente;
provveda alla sicurezza economica dei figli e dei discendenti del disponente,
prevenendo possibili dissensi fra di essi.
I beneficiari: beneficiari del trust sono i discendenti del disponente nati entro il
termine finale della durata del trust. È, altresì, prevista la facoltà del disponente, anche
mediante testamento, di:
destinare uno o più beni in trust ad uno specifico beneficiario o a una
categoria di beneficiari, enunciando o meno specifiche disposizioni, inclusi
trust discrezionali e protettivi e poteri dispositivi o gestionali, spettanti al
trustee o ad altri su tali beni;
attribuire diritti di credito a qualunque persona verso il trustee, precisando in
ciascun caso se il trustee sia tenuto: a corrispondere alla persona specifiche
somme, episodiche o periodiche; ovvero a provvedere, e in quali limiti e con
quali modalità, a necessità di mantenimento o di assistenza della persona.
La clausola sui beneficiari, così come strutturata, consente al disponente ampia libertà di
scegliere fino al momento della sua morte all’interno della categoria designata i destinatari
dell’impresa, nonché degli altri beni segregati in trust. Inoltre, il disponente può tramite il
trust medesimo provvedere alle esigenze di mantenimento della moglie, ma anche di una
futura compagna, ovvero assolvere altre obbligazioni pecuniarie.
Il periodo di indisponibilità e la durata del trust: anche questa clausola è stata
strutturata al fine di rispettare il dettato normativo che consente di avere l’esenzione
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dall’imposta di conferimento in merito alle quote dell’impresa di famiglia. Più
specificamente, dopo aver introdotto una convenzione redazionale che identifica come
periodo di indisponibilità quello decorrente dalla data del trasferimento della
partecipazione di controllo della Mattone Srl alla data nella quale si compia un
quinquennio da tale trasferimento, è stata prevista una durata del trust pari a 60 anni dal
termine iniziale. È, tuttavia, contemplata la facoltà del trustee, nell’interesse dei
beneficiari, di dichiarare una data anteriore di chiusura del trust a condizione che sia
defunto il disponente e sia decorso il periodo di indisponibilità. Quindi da un lato, una
durata molto lunga del trust al fine di garantire la continuità dell’azienda anche nel caso in
cui si dovesse saltare la prima generazione per mancanza di eredi idonei o interessati alla
sua gestione, dall’altro la facoltà in capo al trustee di chiuderlo anticipatamente laddove,
invece, si realizzasse una situazione più favorevole e sempre che si siano verificate le due
condizioni indicate in atto.
Poteri del trustee: nell’atto è stato riconosciuto al trustee un generale potere di
investimento in relazione ai beni in trust. È contemplata la possibilità da parte dello stesso
di mutuare somme ad un beneficiario nel limite del valore dei beni ad esso spettanti o di
prestare garanzie a suo favore, nonché di consentire al disponente, al suo coniuge e a
beneficiari di abitare in immobili inclusi nel fondo in trust. Quanto all’impiego dei beni in
trust, il trustee deve:
adempiere con essi alle obbligazioni assunte verso terzi, nonché quelle
derivanti dall’attribuzione da parte del disponente di diritti di credito verso
il trust a favore di determinate persone;
utilizzarli a vantaggio dei beneficiari, del disponente o della persona che con
lui viva o abbia vissuto qualora uno di taluni soggetti abbia necessità: di
mantenere il proprio abituale tenore di vita o attinenti la propria salute o la
propria assistenza personale.
Relativamente alla destinazione del reddito del fondo in trust non impiegato per le finalità
precedenti, il trustee può, in tutto o in parte:
accumularlo a capitale, incrementandolo;
versarlo ai beneficiari o impiegarlo a loro vantaggio;
mantenerlo disponibile per futuri impieghi.
Sono inoltre previste specifiche limitazioni ai poteri del trustee con riferimento alla
Mattone Srl in quanto:
prima del decorso del periodo di indisponibilità il trustee non può alienare la
partecipazione di controllo nella Mattone Srl, in misura tale che ne derivi la perdita
del controllo della società;
dopo il decorso del periodo di indisponibilità, solo dopo aver ottenuto il consenso
dei beneficiari può alienare la partecipazione di controllo nella Mattone Srl, in tutto
o in parte;
può concedere a terzi garanzie reali in relazione ad obbligazioni legittimamente
assunte solo qualora tali garanzie non comportino il rischio di perdere il controllo
della Mattone Srl nel corso del periodo di indisponibilità.
È anche contemplato che il trustee possa consentire al disponente di rivestire la carica di
amministratore nella Mattone Srl. e che nel valutare se e come esercitare alcun diritto quale
socio della Mattone Srl debba richiedere indicazioni ai beneficiari e ad esse uniformarsi
qualora le ritenga conformi all’interesse generale del trust. In caso di indicazioni
contrastanti prevale l’indicazione formulata dalla maggioranza, calcolata come se fosse
sopraggiunto il termine finale della durata del trust e la partecipazione nella società fosse
già di proprietà dei rispettivi beneficiari. Inoltre, per evitare che svolgano un ruolo i
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rispettivi genitori, che sarebbero probabilmente estranei alla famiglia, è previsto che
qualora vi fossero beneficiari incapaci la loro volontà sia espressa dal guardiano.
Anticipazioni e atti dispositivi: una clausola ad hoc dell’atto istitutivo riconosce in
capo al trustee un potere di anticipazione nei confronti dei beneficiari che abbiano
compiuto il venticinquesimo anno di età, purché sia morto il disponente e ciò non intacchi
la partecipazione di controllo nella Mattone Srl nel corso del periodo di indisponibilità.
Nessun beneficiario potrà, invece, alienare, dare in garanzia, o, comunque, disporre, in
tutto o in parte, della propria posizione giuridica se non in favore di un altro beneficiario.
Diritti dei legittimari: potrebbe accadere che alla morte del signor Marco un
legittimario agisca in riduzione, impugnando gli atti di dotazione al trust per la parte lesiva
dei propri diritti. Per prevenire o, comunque, attenuare, tale rischio il signor Marco nella
fase di individuazione all’interno dei suoi discendenti dei soggetti beneficiari finali dei
singoli beni costituenti il fondo in trust dovrà fare in modo che l’interesse economico del
legittimario legato al trust sia maggiore della sua pretesa. In ogni caso, nell’atto istitutivo
vi è una clausola specifica che regola tale eventualità, prevedendo soluzioni sia per
l’ipotesi che il trustee addivenga a patti con il richiedente, sia per il caso in cui il trustee si
debba costituire in giudizio a seguito di introduzione da parte del legittimario dell’azione
di riduzione.
Il guardiano: è prevista in atto la facoltà, in primis in capo al disponente e, a seguito
di mancanza dello stesso, in capo ai beneficiari di nominare un guardiano. I poteri
riconosciuti al guardiano sono fiduciari e lo legittimano ad interloquire con il trustee su
qualsiasi attività del trust, nonché a revocare il trustee e ad agire in giudizio contro di lui.
L’atto istitutivo prevede, inoltre, che qualora manchi il guardiano ogni sua funzione è
esercitata da parte del disponente.
Possibilità di modificare l’atto istitutivo: nell’atto istitutivo è espressamente
contemplata la possibilità che il trustee, ottenuto il consenso del guardiano, modifichi l’atto
istitutivo come egli ritenga sia opportuno nell’interesse generale del trust e a condizione
che le modificazioni non facciano venire meno il regime esonerativo.
In conclusione il Sig. Marco attraverso lo strumento del trust ha potuto
programmare e pianificare il passaggio generazionale dell’azienda in maniera da prevenire
il sorgere di futuri attriti tra eredi (tale esigenza è tanto più sentita laddove sussistano
discendenti nati da unioni diverse, ovvero con età o aspirazioni diverse) e sopperire
all’eventuale mancanza di eredi, ovvero all’assenza di eredi idonei o interessati alla
continuazione dell’impresa. In questo modo l’azienda mantiene una gestione fluida e
unitaria, il patrimoni personale e aziendale dell’imprenditore sono separati ma entrambi
protetti da questa particolare forma di garanzia alternativa e i discendenti divengono
beneficiari; quindi l’imprenditore riesce attraverso il trust ad occuparsi delle loro esigenze
future oltre che al proseguimento dell’azienda.
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Note conclusive
Le imprese familiari continuano a rappresentare la componente fondamentale di
ogni sistema economico nell’arena internazionale, pur presentandosi con caratteristiche
specifiche per ogni contesto. La globalizzazione dei mercati, l’aumento della pressione
competitiva, l’incremento del peso dell’immaterialità delle risorse di successo,
l’innovazione tecnologica, lo sviluppo dei mercati finanziari hanno individuato profonde
sfide per l’impresa familiare. Nello scenario italiano, la problematica relativa al
trasferimento della proprietà e del controllo dell’impresa familiare è di estrema ed attuale
rilevanza: per ragioni anagrafiche, molti imprenditori si troveranno, nei prossimi anni, a
dover passare il testimone della guida dell’impresa. Il momento del ricambio generazionale
racchiude in sé i cambiamenti di fase dei tre cicli di vita dell’impresa, della famiglia e della
proprietà, tra loro strettamente interconnessi costituisce una sfida alla sopravvivenza stessa
dell’impresa.
La continuità e il successo delle aziende famigliari sono legati all’equilibrio
esistente tra azienda-famiglia-patrimonio. La vera difficoltà sta nella ricerca e nel
mantenimento di tale equilibrio che, in tutte le fasi di vita dell’impresa familiare, può
essere messo in discussione. La tesi ha esaminato i caratteri distintivi dell’impresa
familiare evidenziandone l’esigenza di un approccio interdisciplinare imposto proprio dalla
compresenza di sistemi tra loro profondamente diversi, tale sovrapposizione rappresenta il
principale punto di debolezza delle aziende familiari. Tale modello rimane e rimarrà
sempre un pilastro per la modernità della nostra economia che, soggetta a continui e
repentini cambiamenti, non può non trovare nella famiglia la sua forza trainante.
L’imprenditore italiano, infatti, sovrapponendo la sua vita personale a quella dell’azienda,
è stato in grado di sviluppare un capitale relazionale capace di tessere trame sociali
caratterizzate da una flessibilità creativa difficilmente ritrovabile negli automatismi di
mercato, prima di tutto il piccolo imprenditore assume personalmente il rischio
trasportando la sua vita personale e familiare all’interno del meccanismo dell’investimento
economico; in secondo luogo esso ha una posizione peculiare sul terreno
dell’apprendimento che avviene attraverso il learning by doing e in terzo luogo il comando
è un comando ricco di qualità personali in cui la reputazione della persona conta molto, nei
confronti sia dei dipendenti sia dei terzi.
Si ritiene, quindi, che uno dei rischi a cui è esposto gran parte delle aziende
familiari italiane, ovvero quello del ricambio generazionale, deve essere fronteggiato
sposando la logica della preservazione di quanto sinora costruito in termini di capitale
sociale. La logica ispiratrice sarà quindi la continuità di una leadership competitiva
perseguibile coltivando a livello aziendale, sociale ed educativo le preziose doti di
imprenditorialità. Infatti, se è vero che generazione di nuova imprenditorialità,
investimento in apprendimento e successione generazionale sono le tre vie da percorrere
per far sì che tutto ciò che è stato creato dalle nostre imprese non venga annullato
dall’incalzare di una complessità ambientale in continua crescita, non può l’imprenditoria
italiana familiare sottrarsi all’arduo compito di ricercare successori ispirati da una sana
imprenditorialità; una caratteristica distintiva del trust è la possibilità del disponente di
scegliere il soggetto più idoneo e caratterizzato da imprenditorialità a cui verrà affidata la
gestione dell’azienda, evitando una successione con eredi non adeguati o disinteressati al
ruolo.
Tenendo conto delle tendenze in atto nella nostra società (come i cambiamenti che
si registrano a livello demografico, sociale e soprattutto economico) è necessario superare
le logiche passate con strade alternative in grado di travalicare le reti parentali e protettive
costruite intorno alla famiglia ma senza spersonalizzare necessariamente il sistema del
family business. Si tratta cioè di considerare il ricambio generazionale non solo come un
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trauma da compensare in qualche modo, ma un’occasione di innovazione, un evento
attraverso cui vengono inserite persone in grado di produrre un valore aggiunto.
Una valida alternativa, sostenuta dalla tesi, è l’utilizzo del trust nel passaggio
generazionale dato che permette di raggiungere determinate finalità che altri strumenti
presenti nell’ordinamento italiano non consentono, ad esempio:
garantire l’unità del patrimonio aziendale;
assicurare la funzionalità dell’attività imprenditoriale;
mantenere la continuità e la flessibilità della governance societaria;
programmare nei tempi giusti le varie fasi;
adottare una visione di lunghissimo periodo (il trust può essere previsto per
gestire il passaggio generazionale di almeno tre generazioni);
proteggere e garantire l’unità del patrimonio;
attenuare i conflitti familiari;
evitare l’apertura della successione;
assicurare la continuità e la funzionalità dell’attività imprenditoriale;
combinato con una cassaforte familiare garantisce anche una protezione del
controllo verso possibili scalate esterne;
consente facilmente al disponente di modificare la sua volontà a seguito di
eventi futuri in precedenza non preventivati, grazie alla flessibilità che lo
caratterizza.
Il sorgere di possibili attriti familiari i quali rischiano di portare alla completa
distruzione del patrimonio aziendale insieme all’esigenza, da parte dell’imprenditore
titolare dell’azienda, di determinare quale dei suoi eredi sia in grado di sostituirlo alla
guida dell’azienda stessa fanno si che (ove se ne presentino le condizioni) il trust
rappresenti un valido strumento di pianificazione del passaggio generazionale nelle
aziende. Ad esempio nel caso vi sia una molteplicità di eredi, qualora mostrino differenze
sul piano delle capacità imprenditoriali, della propensione al rischio e degli interessi,
tramite l’utilizzo del trust il trustee non solo avrebbe il compito di garante della continuità
sul piano della conduzione dell’azienda, in conformità alle indicazioni provenienti dal
fondatore dell’impresa, ma anche quello di individuare all’interno del gruppo dei
beneficiari i discendenti maggiormente idonei ad assumere il controllo aziendale. Tale
valutazione non potrà prescindere da criteri il più possibile oggettivi, da indicarsi nell’atto
istitutivo del trust, quali il senso degli affari, le attitudini imprenditoriali, lo spirito di
dedizione, il livello di maturità, il senso di responsabilità, le motivazioni.
Altri timori per l’imprenditore sono il rischio che soggetti terzi si avvicinino alla
famigli per appropriarsi di parte del patrimonio e che gli eredi cedano l’azienda ad altri
soci indesiderati o, ancora, a dei concorrenti. È inoltre desiderio comune degli imprenditori
quello di mantener il controllo sull’azienda fino la giorno della morte , ed al tempo stesso
di mettere alla prova chi lo sostituirà.
Nell’istituzione di un trust per il passaggio generazionale di un’azienda viene
affidata al trustee la proprietà dell’impresa o meglio la gestione della proprietà e questo
permette di mantenere l’unità degli assetti proprietari e, nel caso in cui l’oggetto del trust
siano le sole partecipazioni sociali, di continuare ad affidare agli amministratori in carica la
gestione senza incorrere in alcuna discontinuità relativamente alla politica aziendale. I
beneficiari saranno lo stesso imprenditore e i suoi familiari per quanto concerne le rendite e
per quanto concerne, invece, l’attribuzione finale dei beni i suoi discendenti o a seconda di
cosa si a stato discrezionalmente stabilito dal disponente nell’atto di istituzione. La scelta
potrà anche cadere su una generazione successiva, non risulteranno dunque pregiudicati i
diritti degli altri familiari in quanto il reddito aziendale, al netto degli investimenti, sarà a
loro attribuito.
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Attualmente le aziende familiari italiane per risolvere il delicato passaggio
generazionale, sembrano affidarsi a strumenti più tradizionali, dagli effetti giuridici certi,
come ad esempio la costituzione di una cassaforte di famiglia oppure la donazione. Effetti
giuridici certi che purtroppo nell’ordinamento italiano il trust ancora non possiede dato che
è disciplinato solamente in ambito fiscale, lasciando ampia discrezionalità al disponente
nella configurazione della struttura, nella scelta della legge regolatrice e degli effetti
riconosciuti per mezzo della Convenzione dell’Aja. Al contrario, nelle aziende statunitensi,
inglesi e di nazioni con ordinamento giuridico di common law l’utilizzo del trust ai fini del
passaggio generazionale è notevolmente diffuso dato che l’ordinamento giuridico
regolamenta analiticamente la figura del trust.
Le prospettive future per il riconoscimento in Italia del trust sono abbastanza
buone. Vi sono sempre progetti di legge al vaglio ed il lavoro di ricerca in tal senso è in
costante aumento. In ogni caso vi sono ancora alcune considerazioni legate ai trust da non
dimenticare:
i trust non sono uno strumento illecito al quale ricorrere per costruire
complicati meccanismi che consentano di conseguire vantaggi fiscali o di
eludere o evadere le imposte, questo è un uso distorto dell’istituto per
gestire particolari operazioni societarie che nulla hanno a che fare con il
trust;
i trust non sono uno strumento al quale ricorrere solo a fronte di ingenti
patrimoni o di notevoli interessi economici anzi, spiegano ottimi effetti,
come l’esperienza anglosassone insegna, soprattutto nelle piccole realtà
famigliari e in ambito successorio;
i trust non sono in contrasto con le norme imperative del nostro ordinamento
ed in particolare con le norme sulla proprietà e sui diritti reali minori, con le
norme in materia di trascrizione né infine con l’art. 2740 c.c., essendo i
creditori sempre tutelati dall’azione revocatoria generale.
Il trust è senza dubbio lo strumento maggiormente in grado di dar risposta a tutte le
esigenze dell’imprenditore sopra esposte, come dimostrato nel caso pratico descritto nel
capitolo 4, grazie alla sua capacità di dare unità alla titolarità delle partecipazioni sociali
ed, infine, di separare le partecipazioni sottoposte al trust con conseguente indifferenza
rispetto alle vicende dei singoli soggetti. Il trust, inoltre, presenta anche elevati vantaggi
anche dal punto di vista fiscale: il conferimento dell’azienda è assimilato ad una donazione
ed è quindi soggetto alla disciplina impositiva di tale istituto giuridico che, nel caso di
parentele in linea retta, gode di una tassazione di particolare favore.
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