UNIVERSITA’ DEL PIEMONTE ORIENTALE “AMEDEO AVOGADRO” Dipartimento di Studi per l’Economia e l’Impresa Corso di laurea in Amministrazione e Gestione Curriculum Amministrazione e Controllo TESI DI LAUREA In AGGREGAZIONI AZIENDALI E OPERAZIONI STRAORDINARIE IL TRUST COME SOLUZIONE AL PASSAGGIO GENERAZIONALE D’AZIENDA Candidato: ANNALISA AVETTA Relatore: PROF. ROBERTO D’IMPERIO SESSIONE STRAORDINARIA ANNO ACCADEMICO 2011/2012 1 Indice Introduzione 4 CAPITOLO 1 Il passaggio generazionale 1.1 Evoluzione storica delle imprese italiane 1.2 L’impresa familiare 1.2.1 La family business 1.3 Il passaggio generazionale 1.3.1 Problematiche da affrontare 1.3.2 I fattori di rischio nel passaggio generazionale 1.4 L’intervento dell’Unione Europea 1.5 Il passaggio generazionale in Italia 1.6 La pianificazione del passaggio generazionale CAPITOLO 2 Gli strumenti utilizzati nel passaggio generazionale 2.1 Il patto di famiglia 2.2 La holding familiare 2.3 La donazione d’azienda 2.4 Lo strumento testamentario 2.5 Usufrutto e nuda proprietà 2.6 Conferimento e cessione d’azienda CAPITOLO 3 Il trust 3.1 Cenni storici sulle origini del Trust 3.2 I caratteri generali 3.3 I soggetti 3.3.1 Il disponente 3.3.2 Il trustee 3.3.3 I beneficiari 3.3.4 Il protector 3.4 Le fonti giuridiche del Trust 3.5 L’atto istitutivo di trust 3.6 I modelli specifici di Trust e classificazione 3.7 I trust istituiti da persone fisiche 3.7.1 Trust in ambito famigliare 3.7.2 I trust istituiti in ambito societario 3.8 La Convenzione dell’Aja 3.8.1 I principali articoli CAPITOLO 4 Il trust nel passaggio generazionale 4.1 I pregi del trust 4.2. Le imposte sul trust 4.2.1 Le problematiche relative alla tassazione del trust 4.3 Le problematiche della trasmissione generazionale e le possibili soluzioni con il trust 4.3.1 Caso 1: il trust per risolvere un passaggio generazionale 4.4 Il trust e i limiti del diritto successorio 4.4.1 Caso 2: il trust per la continuità d’impresa 4.5 Le problematiche irrisolte dal patto di famiglia e le soluzioni con l’utilizzo del trust 4.5.1 Caso 3: la scelta del successore 4.6 Le problematiche del fondo patrimoniale e le soluzioni con l’utilizzo 8 8 9 13 14 16 16 19 20 21 23 23 26 29 30 31 33 36 36 37 38 39 39 41 41 42 43 44 45 46 46 47 48 50 51 53 59 61 62 63 64 64 68 2 del trust 4.7 Atti di destinazione e trust 4.8 Il “non charitable purpose trust” per il passaggio generazionale 4.9 Caso pratico Note conclusive Bibliografia Sitografia 70 72 74 75 80 83 85 3 Introduzione Uno dei momenti più cruciali per la sopravvivenza delle aziende a conduzione familiare è quello del passaggio generazionale, si tratta di una fase critica e delicata della vita aziendale, un momento complesso che coinvolge diverse dimensioni della gestione dell’impresa e della famiglia: la sovrapposizione tra sistema famiglia e sistema impresa mette in gioco dinamiche ed interessi contrapposti (scelte strategiche, processi di gestione e di governance, cultura e valori), la necessaria convivenza aziendale fra junior e senior coinvolge la relazione fra genitori e figli, e le peculiarità di entrambi, in un momento in cui la propria identità e il proprio ruolo si trovano ad affrontare importanti mutamenti. Più di un’impresa su quattro dovrà affrontare nei prossimi anni la sfida della cessione dell’azienda, nella maggior parte dei casi si tratta di imprese costituite tra gli anni ‘70 e ‘80 che, grazie ai fondatori, sono cresciute sino a diventare decisamente floride. Molti dei fondatori di quest’epoca oggi hanno raggiunto l’età pensionabile e devono prendere velocemente una decisione relativa al futuro orientamento dell’impresa, in modo tale da assicurarne la continuità. Come tutte le situazioni in cui si realizza un processo di cambiamento, anche la transizione generazionale presenta rischi e opportunità. Il rischio più forte è che il passaggio non avvenga, determinando così l'interruzione dell'attività imprenditoriale, mentre le opportunità che offre possono riguardare il fronte strategico, manageriale e finanziario. Diventa per questo necessario pianificare la successione per tempo e gestirla in modo strategico, per permettere all’impresa di competere e crescere con successo, senza metterne a repentaglio la continuità. È noto che più del 70% delle imprese a carattere familiare non sopravviva alla prima generazione e un ulteriore 50% scompare tra la seconda e terza generazione, secondo un luogo comune: “la prima generazione crea, la seconda sviluppa e la terza distrugge”; ma ci sono anche molti esempi di imprese che sono state costituite molti anni fa e sono sopravvissute per generazioni grazie a chiare regole applicate sia nella sfera familiare sia in quelle imprenditoriale e, soprattutto, grazie alla loro bravura nel processo di successione. Tenendo conto che le imprese familiari in Italia sono oltre cinque milioni e influiscono sul Pil per quasi l’80% dando occupazione al 75% della forza lavoro, il passaggio generazionale è una tematica che interessa non solo le imprese e gli stakeholders più diretti ma anche le Istituzioni, le Università e le Società di Consulenza e Formazione, che possono ricoprire un ruolo fondamentale per favorire e promuovere la continuità aziendale. La tesi si propone di analizzare le criticità che caratterizzano il passaggio generazionale, in particolar modo per le aziende che caratterizzano il territorio italiano e le strategie con cui viene affrontato. Dopo aver analizzato gli strumenti tradizionali come il patto di famiglia e altri che non possono essere considerati né la soluzione corretta né tanto meno la soluzione più efficace a causa dei ristretti ambiti di applicazione e, soprattutto, la mancanza di un gestore che possa consentire al meglio di passare il comando di un’attività nel tempo; verrà approfondito lo strumento innovativo del trust, dimostrando che è la soluzione migliore per numerose situazioni grazie alle caratteristiche che lo compongono. Il trust è conosciuto ed utilizzato in Italia da quando il nostro paese ha ratificato ed è entrata in vigore, nel 1992, la Convenzione dell'Aja. Non è facile dare una definizione ufficiale e precisa di trust, in considerazione del fatto che non è possibile confrontarlo con altri istituti già conosciuti, poiché esso non ha affinità con nessuna tipologia adottata dal diritto civile italiano. Il trust realizza una netta separazione tra il patrimonio del disponente (di colui, cioè, che dà vita al trust stesso) e quello dell'effettivo beneficiario e del trustee stesso. In estrema sintesi, la creazione del trust assolve a due funzioni comuni e specifiche in tutte le fattispecie di utilizzo: la pianificazione e protezione del patrimonio conferito. In 4 termini generali il trust conosciuto nei paesi di common law può definirsi come quello strumento giuridico per mezzo del quale la proprietà su un determinato bene è divisa tra una persona (il trustee), che ha i diritti e i poteri di un proprietario, e un’altra (il beneficiario), a vantaggio del quale devono essere usati quei poteri. Nei sistemi di common law il trust è un istituto di così larga utilizzazione da poter essere paragonato, senza dimenticare le differenze strutturali tra i due istituti, al contratto del nostro ordinamento. Il trust si prospetta come strumento valido e duttile per la programmazione e la pianificazione della trasmissione della ricchezza familiare. E’ il caso dei family trust che costituiscono uno strumento ottimale per questo scopo, garantendo anche dopo la morte il mantenimento dell’unità del patrimonio di famiglia e il soddisfacimento dei bisogni di soggetti economicamente o personalmente deboli. Tra i suoi indubbi vantaggi vi è la separazione del patrimonio ad esso conferito che viene a costituire un bene non aggredibile dai creditori né del disponente né del trustee e che non rientra nelle loro vicende successorie. Inoltre è possibile regolamentare tramite l’atto istitutivo del trust sia le modalità di gestione del bene sia la destinazione dei frutti e del patrimonio al termine del trust che ha un limite di durata massima che varia a seconda della legge scelta. I vantaggi di questo istituto sono notevoli sia in ambito giuridico che in ambito fiscale. Attualmente non esistono nel nostro ordinamento strumenti negoziali che garantiscono, attraverso l’effetto segregativo dei beni conferiti, la gestione di un patrimonio per uno scopo o nell’interesse di determinati beneficiari. A ciò si aggiunga la duttilità del trust, perché applicabile sia all’interno della famiglia, anche di fatto, sia nell’impresa o società. Infatti l’estrema flessibilità del trust permette di perseguire tutte le finalità che il pater familias si propone nell’ottica del passaggio generazionale e che non è possibile perseguire completamente con gli strumenti tradizionali. In particolare con il trust è possibile: mantenere efficiente la gestione dell’azienda di famiglia; regolamentare nell’atto istitutivo le modalità di gestione e il modo di esercitare i diritti inerenti le partecipazioni sociali; assicurare unitarietà al patrimonio familiare; confidare nella certezza delle attribuzioni fatte; assicurare reddito o mantenimento anche agli altri membri della famiglia; segregare i beni in trust, che rimangono pertanto insensibili alle vicende personali del trustee. Il ricorso al trust si giustifica ad esempio quanto all’aspetto soggettivo, quando il familiare che dovrà continuare l’attività di impresa non è un discendente in linea retta del disponente (unica ipotesi prevista dai patti di famiglia), ovvero se l’imprenditore è privo di discendenti ma desideri comunque assicurare continuità alla propria impresa destinandola a un parente diverso o a quella persona che nel tempo si dimostrerà più idonea. Oppure ancora nel caso in cui i discendenti siano ancora troppo giovani per manifestare qualsivoglia attitudine imprenditoriale. Tra l’altro il disponente può riservare a sé il potere (come attribuirlo ad altri soggetti) di individuare in un momento successivo i beneficiari se non ha ancora maturato una decisione in tal senso, oppure di aggiungerne altri. Altra ipotesi non prevista negli strumenti tradizionali è quella dell’imprenditore legato da rapporto di convivenza. Il trust è certamente lo strumento più idoneo nel caso in cui l’impresa sia gestita da più rami di una stessa famiglia (ad esempio da più fratelli). I fratelli, quali disponenti, possono istituire un unico trust, trasferendo ad un trustee la proprietà dell’azienda o autodichiarandosi trustee, costituendo un collegio. In questo modo otterrebbero il vantaggio di mantenere uniti il capitale e i beni produttivi, evitandone la frammentazione fra più eredi ed assicurandone la protezione nell’ottica di una gestione unitaria 5 dell’impresa. Ovviamente le utilità prodotte nel corso della durata del trust ed il fondo in trust una volta sopraggiunto il termine della sua durata potranno essere suddivisi tra gli appartenenti alle diverse stirpi di cui i fratelli sono capostipiti, secondo il regolamento predisposto nell’atto istitutivo. La flessibilità del trust si manifesta anche nella possibilità di saltare una generazione, allorché manchi un soggetto idoneo nella precedente. Può essere anche strutturato in modo tale da escludere dall’attribuzione di beni di famiglia i coniugi dei discendenti, che sono a volte elemento destabilizzante negli equilibri familiari, ad esempio in occasione della crisi del matrimonio. Nell’atto istitutivo il disponente regola a lungo termine il trasferimento delle partecipazioni all’interno della famiglia e può dare le prescrizioni più varie in ordine all’amministrazione, in considerazione delle capacità dei soggetti coinvolti, potendo altresì riservarsela o individuare soggetti esterni che la assumano. Nel trust possono essere segregati anche altri beni del pater familias in modo da soddisfare tutti gli eventuali legittimari, tra cui partecipazioni societarie detenute a scopo di mero investimento o speculativo. Le utilità prodotte dai beni in trust possono essere accumulate nel trust stesso o versate ai beneficiari del reddito, in quote prefissate o secondo la discrezionalità del trustee, o al verificarsi di determinati eventi. Attraverso le utilità del trust possono essere soddisfatti anche i bisogni di vita del disponente. I beni in trust saranno devoluti ai beneficiari finali una volta sopraggiunto il termine finale di durata. Il disponente può prevenire il rischio che le finalità del trust siano vanificate a causa di eventuali azioni di legittimari che si pretendano lesi o pretermessi, facendo in modo che i loro interessi economici legati al trust siano maggiori della loro pretesa, attribuendo loro vantaggi, come ad esempio corrispondendo loro le rendite dell’attività aziendale, e prevedendo la perdita di tali benefici in caso di azione contro il trustee. Il trustee, in quanto portatore di un’obbligazione fiduciaria, è investito dell’attuazione della finalità che il disponente ha individuato nell’atto istitutivo secondo il suo oggettivo discernimento e con l’eventuale controllo di un guardiano o del collegio dei beneficiari. Se il trust ha per oggetto partecipazioni sociali, il disponente, nell’atto istitutivo, può prevedere una minore o maggiore ingerenza del trustee quale socio dell’impresa di famiglia. Si può avere un trustee totalmente passivo di fronte alla gestione degli amministratori della società, alle decisioni dei quali si rimette in modo pressoché incondizionato. Ma il disponente può anche attribuire al trustee un ruolo estremamente attivo, ciò soprattutto se ha il timore che, dopo la sua morte, non vi siano discendenti pronti ad assumere il comando. L’atto istitutivo di trust è un negozio giuridico unilaterale. Il disponente può riservare a sé o attribuire ad altri soggetti (trustee, guardiano, comitato dei beneficiari) un potere più o meno ampio di modificare determinati aspetti dell’atto istitutivo, senza dover ricorrere alla necessaria compresenza e partecipazione di tutti i soggetti interessati, il che rende molto più snello rispetto a quanto previsto per i patti di famiglia procedere ad una revisione delle disposizioni originarie. La tesi grazie alla descrizione di un caso pratico termina con la conclusione che l’istituzione di un trust per gestire il passaggio del testimone nell’azienda di famiglia è consigliabile nella maggior parte delle situazioni dato che consente l’amministrazione unitaria di aziende in proprietà di soggetti diversi o destinate ad esserlo per motivi successori, tenendo protetto il patrimonio aziendale dalle vicissitudini relative ai familiari ed alla iniziale compagine sociale; inoltre garantisce nel tempo l’elargizione regolata e misurata di redditi per la conservazione e gestione di beni e utilità appartenenti alle famiglie, sempre proteggendo il patrimonio dalle particolari vicissitudini familiari. Lo strumento ha ultimamente conosciuto una maggiore diffusione in Italia, anche in 6 combinazione con altri strumenti giuridici messi a disposizione dal nostro ordinamento; resta il fatto che, anche a seguito della nuova normativa fiscale, lo strumento risulta ancor oggi particolarmente efficace ed opportuno principalmente per la gestione di complessi e sofisticati passaggi generazionali. 7 CAPITOLO 1: IL PASSAGGIO GENERAZIONALE 1.1. Evoluzione storica delle imprese italiane Il sistema produttivo italiano è costituito da un numero ridotto di imprese di grandi dimensioni, da un numero limitato di imprese di medie dimensioni e dall’assoluta preponderanza di micro imprese ovvero costituite da una media di 10-20 dipendenti, presso le quali è occupata la grande maggioranza degli addetti. Da rilevazioni Istat risulta che il 95% delle imprese non agricole italiane sono definite micro, tali imprese sono per lo più familiari ovvero la partecipazione degli imprenditori e dei loro familiari all’attività dell’impresa supera il 50% del totale degli addetti. Le ragioni di questa particolare composizione imprenditoriale italiana possono venir ricondotte a fattori di carattere politico, economico e geografico. Partendo da un secolo e mezzo fa l’Italia era suddivisa in un insieme di piccoli Stati ed il trasferimento delle merci tra i diversi territori, peraltro reso faticoso dalla condizione geografica, era soggetto a dazi e restrizioni; tutto ciò ha favorito il diffondersi di un tessuto di imprese di piccole dimensioni, rivolte a mercati prevalentemente locali. L’evoluzione storica delle imprese italiane si delinea a partire dalla Seconda Rivoluzione Industriale (1880) quando lo sviluppo tecnologico delle modalità di produzione nei settori ad alta intensità di capitale impose una forte discontinuità al configurarsi del sistema delle imprese: in questi (come quello della metallurgia, della chimica, dell’energia e della meccanica), la possibilità di conseguire economie di scala e di diversificazione richiedeva la presenza di grandi imprese. Accanto ad esse è di supporto la piccola impresa che, insostituibile in specifici segmenti di mercato, fa da base per molti tipi di forniture e da pioniera nei processi innovativi più rischiosi. Non solo, non essendo tutti i settori colpiti dalla rivoluzione (ad esempio il tessile, l’abbigliamento, la fabbricazione di mobili), la piccola impresa rimane in questi più che mai vivace e competitiva. Accanto a imprese medio - grandi a partire dagli inizi del ‘900 sono attive moltissime botteghe a conduzione familiare che vivono della domanda locale; a differenza dei comparti avanzati caratterizzati da progresso tecnico, crescita dell’impresa, produttività ed evoluzione organizzativa (e sicuramente anche con il ruolo del sistema finanziario), nei settori cosiddetti leggeri meno evidente risulta l’intervento del capitale estraneo a quello familiare considerate le scarse risorse di cui necessitano realtà aziendali modeste in cui è prevalente la componente circolante e per il cui avvio non occorrono investimenti tecnici elevati. Successivamente si iniziano a creare le condizioni per la trasformazione del laboratorio artigiano nella piccola impresa specializzata in uno o pochi segmenti del ciclo di lavorazione: l’impresa di fase pone le premesse per la formazione dei distretti industriali nella forma oggi conosciuta. Le figure imprenditoriali continuano però ad essere ancora fortemente impregnate di tratti tradizionali, dove il proprietario, molto probabilmente un ex artigiano o ex operaio, conduce in prima persona tutto il processo di lavorazione; in più il modesto capitale di avviamento e di funzionamento, così come la forza lavoro, sono forniti dal nucleo familiare in qualche modo coinvolto nell’attività. Anche dal punto di vista finanziario si riscontrano tratti comuni nelle imprese dei settori leggeri, con un maggiore ricorso all’autofinanziamento e agli istituti di credito locale. Anche la seconda guerra mondiale, così come la prima, colpì maggiormente il settore agricolo piuttosto che quello industriale e sovradimensionò in maniera notevole l’apparato produttivo italiano soprattutto nei settori manifatturieri più direttamente coinvolti, le difficoltà della successiva riconversione toccarono specialmente a quelle imprese che si erano rese totalmente dipendenti dalla committenza pubblica. La rivalutazione dei settori labour intensive, insieme alle difficoltà attraversate nel dopoguerra 8 dalle organizzazioni di grandi dimensioni, incominciarono a creare terreno fertile per nuovi ruoli ed ampie prospettive per le piccole imprese. La dicotomia tra artigianato evoluto e produzione in massa, così come tra piccola e grande dimensione, coinvolgeva quasi tutti i settori dell’economia nazionale, al punto che il tessuto imprenditoriale degli anni dell’immediato dopoguerra era caratterizzato da un settore manifatturiero composto da oltre un milione di attività artigiane e di microimprese e da circa 50 mila imprese industriali, di cui il 98% aveva meno di 100 dipendenti. Nel secondo dopoguerra la struttura produttiva italiana assunse una connotazione veramente industriale, di conseguenza si crearono rapidamente i presupposti perché le maggiori imprese delegassero alle imprese minori la manifattura di componenti e di semilavorati, ciò determinò il sorgere di imprese minori caratterizzate da una notevole flessibilità che consentì loro una capacità di adattamento ai mutamenti, sia tecnici sia comportamentali; con la ricostruzione postbellica e la diffusione del consumismo di massa sorse una generazione imprenditoriale capace di dar vita a nuovi segmenti produttivi con elevata capacità innovativa e una proiezione all’esportazione soprattutto nei comparti degli elettrodomestici, dei motocicli e della meccanica strumentale. Oltre la metà degli anni Cinquanta la domanda interna, specie di beni essenziali al consumo, fu il motore della crescita che tra il 1958 e il 1962 assume una rilevanza tale da battezzare quegli anni come il miracolo economico italiano. Un interlocutore di questa spinta industriale sicuramente era costituito dalla grande impresa caratterizzata dall’accentramento proprietario e decisionale a livello familiare. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta si creano le premesse per la nascita di sistemi locali specializzati: un diffuso selfemployment vede molti ex operai aprirsi attività in proprio, il diffondersi di consumi nuovi creano iniziative imprenditoriali di successo, che rapidamente crescono sino al rango di medie imprese con alcune decine di dipendenti. Sono riconducibili alla figura dell’imprenditore capace di sviluppare rapidamente un’idea di successo, di innovare in campo tecnologico, di espandere il proprio apparato distributivo, sempre con le radici, i valori e la tradizione ben saldi nel mondo dell’artigianato. In questo periodo si assiste infatti non solo ad una crescita del numero delle piccole imprese, ma anche alla crescita di alcune di esse che raggiungono livelli dimensionali medi, ponendosi anche in più fasi del ciclo produttivo. Verso la fine degli anni Sessanta si presentarono le difficoltà di prendere decisioni strategiche ed organizzative per far fronte alla differente congiuntura economica e per far fronte al difficile passaggio generazionale tra fondatori restii al cambiamento e gli eredi non sempre in grado di assumere comportamenti imprenditoriali; come si vedrà più avanti questo problema è quanto mai attuale. Durante gli anni Novanta il contesto industriale italiano subì notevoli trasformazioni, la necessità di una visione globale al mercato richiede una trasformazione verso aziende di medie dimensioni specializzate nei settori cosiddetti del made in Italy con percorsi evolutivi comuni, le famiglie proprietarie esercitano un controllo diretto sull’attività d’impresa concentrando nelle proprie mani le decisioni strategiche e quelle operative, riconnettendo l’ampliamento dei confini generalmente alle risorse umane disponibili in seno alla famiglia, con un management esterno che, se presente, è di formazione interna e di provata fedeltà alla famiglia; concentrandosi in particolare su questo tipo di aziende di seguito verranno analizzate caratteristiche pregi e difetti delle imprese familiari, family business e gruppi familiari. 1.2 L’impresa familiare Per impresa familiare s'intende l'impresa in cui il capitale sociale e le decisioni fondamentali di governo economico sono controllate da un'unica famiglia o da poche 9 famiglie legate tra loro da vincoli di parentela. In questa categoria rientrano tutte quelle imprese in cui le figure fondamentali sono unite da vincoli personali e umani che influenzano in misura notevole anche i rapporti di tipo professionale, sono cioè membri di uno stesso gruppo emozionale, infatti il fatto di appartenere alla stessa famiglia impatta sul modo di rapportarsi, anche per questioni di lavoro, dei soggetti coinvolti. Quando un'attività di impresa si identifica con una famiglia proprietaria o dirigente la gestione tradizionale, improntata a principi di economicità, efficienza e produttività, non necessariamente conduce a risultati apprezzabili. La presenza di un coinvolgimento familiare non solo rende tutto più complesso, ma in qualche modo condiziona il funzionamento stesso dell'azienda in ragione delle implicazioni di carattere emotivo relazionale. Tra le possibili classificazioni di impresa familiare una delle più interessanti è quella che distingue tra imprese familiari in senso stretto e imprese familiari allargate, le variabili chiave per la definizione dei raggruppamenti sono la concentrazione della proprietà e del controllo (inteso come copertura delle funzioni imprenditoriali e direzionali) nelle mani della famiglia imprenditoriale. Dal lato della concentrazione della proprietà, essa può essere alta (un numero limitato di soggetti molto legati tra loro possiede le quote dell'impresa) o bassa (le quote sono ripartite tra un numero più elevato con legami meno forti). Dal lato del controllo si può spaziare da situazioni in cui le funzioni imprenditoriali e direzionali sono svolte dalla famiglia proprietaria a quelle in cui queste sono delegate in parte a soggetti esterni fino ad arrivare alla delega totale che caratterizza l'impresa come non familiare. Figura 1: Imprese familiari in senso stretto e allargato Fonte: Mezzadri “Il passaggio del testimone”, 2005 Le imprese familiari in senso stretto sono quelle che tendono a disporsi nei quadranti in alto a sinistra: in esse la proprietà è fortemente concentrata nelle mani di pochi soggetti che svolgono contestualmente anche ruoli d'indirizzo strategico, si tratta di aziende generalmente di prima o seconda generazione in cui il senso di appartenenza è molto forte e sono gestite di solito con metodi e procedure informali tipiche del padre di famiglia. Le imprese allargate, nei quadranti in basso a destra, sono solitamente di generazione superiore alla seconda, in cui le quote dell'impresa sono più disperse tra un numero ampio di soggetti, in cui i vincoli di parentela sono meno forti. Inoltre, solo alcuni tra questi svolgono ruoli di direzione mentre altri hanno solo lo status di azionista (o di dipendente) e sovente sono presenti manager esterni. 10 Il carattere distintivo dell'impresa familiare è il legame tra famiglia e impresa, istituti profondamente diversi. La prima, con l'obiettivo di sostenere e curare i propri membri, ha in genere come valori fondanti elementi quali unità, solidarietà, parità di trattamento tra i membri, stabilità, tradizione; la seconda si ispira a parametri quali dinamismo, selezione meritocratica, competitività e razionalità economica. Tale legame può risolversi in un fatto positivo o negativo: i valori familiari possono cioè rivelarsi un plus o un minus per l'azienda. Tra i punti di forza delle aziende familiari si coglie in primo luogo il modo in cui famiglia e impresa vengono percepite dal fondatore, in special modo nelle prime fasi del ciclo di vita esse vengono considerate come un tutt'uno: per alcuni l'impresa è una sorta di figlio. A fronte di ciò si instaura una forte dedizione da parte della famiglia imprenditoriale nel garantire un impegno di medio/lungo termine; in secondo luogo rispetto alle public company, le aziende di famiglia sono oggetto di minori pressioni al risultato a breve da parte di mercato e investitori istituzionali e godono di maggior libertà d'azione. In tal modo la prospettiva di approccio decisionale è quasi sempre orientata al lungo periodo, garanzia di continuità per tutti gli stakeholder interessati all'azienda. Sul lato pratico questo si traduce in una fiducia prolungata da parte di comunità e banche, che va oltre il mero interesse finanziario. L'orientamento al futuro è inoltre garanzia di stabilità (fisica e temporale) per i lavoratori. Un altro aspetto rilevante è l’impegno mirato a garantire la sopravvivenza dell’azienda familiare in armonia con il territorio e la struttura sociale nel suo insieme e che si può tradurre anche in una serie di vantaggi per la società nel suo complesso per una serie di motivi. Come primo aspetto va evidenziato che le piccole imprese familiari tendono ad assumere, con maggior facilità delle grandi, donne, giovani, anziani e personale a tempo parziale. In secondo luogo è molto difficile che le aziende familiari trasferiscano i propri dipendenti, difficilmente questo tipo di azienda si trasferisce. Inoltre le famiglie titolari di imprese svolgono generalmente un ruolo attivo nella comunità locale: fanno parte dei consigli di associazioni di servizio sociale, di beneficenza, culturali, sportive, ecc. In tal modo queste famiglie contribuiscono in maniera significativa alla stabilità ed al benessere della comunità locale. Va aggiunto che le avventure e disavventure delle grandi aziende coinvolte in fusioni e acquisizioni non toccano solitamente le piccole imprese, il tutto si traduce in una maggiore stabilità del sistema di relazioni ed in una difesa del patrimonio culturale di riferimento. Riguardo ai punti di debolezza, la trasposizione totale di un senso di solidarietà e di democrazia interna alla famiglia può determinare l'ingresso in azienda spesso anche in posizioni di rilievo di tutti i membri familiari che lo desiderino, indipendentemente dalle capacità e competenze possedute e dal reale fabbisogno. In questo caso un malinteso senso di appartenenza al nucleo familiare rischia di provocare un appesantimento della struttura aziendale con un relativo peggioramento della performance economica. Inoltre, se la regola decisionale utilizzata è quella dell'unanimità tra i membri il pericolo è quello di un ingessamento del processo strategico e direzionale che fa perdere all'azienda familiare quella flessibilità che spesso ne è un punto di forza. Il forte legame esistente tra famiglia e impresa costituisce un'ulteriore fonte di pericolo nel momento in cui problemi interpersonali in uno dei due ambiti finiscano per riversarsi anche sull'altro, innescando un circolo vizioso che può portare a conseguenze molto dannose. Anche il fatto di operare nello stesso ambiente, con le stesse persone, non permette di usare la famiglia come valvola di sfogo delle tensioni in ambito lavorativo e viceversa. Infine spesso le imprese familiari sono accusate di una scarsa o nulla apertura a contributi esterni non soltanto in termini di competenze ma anche di capitale. La volontà di chiudere le porte all'ingresso di soci terzi per salvaguardare la natura familiare del business 11 porta spesso al di là di certe dimensioni, a bloccare le opportunità di crescita e sviluppo dell'azienda costringendola a ripiegarsi su se stessa all'interno di una nicchia non sempre remunerativa e in grado di assicurarne la continuità nel tempo. Tenendo conto che circa il 90% delle imprese italiane è di tipo familiare e di dimensioni ridotte (circa 20 dipendenti), una ricerca condotta dalla Banca d’Italia sulla proprietà e il controllo delle imprese italiane, ha esaminato in senso dinamico “Cosa è cambiato nel decennio 1993 – 2003?” su un campione di 1.875 imprese, i risultati evidenziano la predominanza netta (circa il 66%) del controllo di tipo individuale o familiare delle imprese italiane con meno di 50 addetti. Inoltre l’indagine condotta da Unioncamere nel 2001mostra che nelle imprese di dimensioni minori aumentano le frequenze osservate dei legami di parentela tra i soggetti controllanti; in particolare nella maggior parte di queste la proprietà è esercitata da un solo o, al massimo, da due o da tre soggetti, essenzialmente persone fisiche (con una percentuale del 98,9% se si considerano le sole aziende artigiane manifatturiere); che il 76% degli attuali proprietari sia anche il fondatore dell’azienda, e per circa il 64,8% del totale delle imprese prevalgono legami di parentela tra le persone proprietarie. Nelle imprese familiari, sempre secondo l’indagine considerata, i sistemi di conduzione si sostanziano nel modo in cui la famiglia proprietaria decide di impostare il proprio rapporto con l’azienda, in particolare per quel che riguarda la distribuzione dei ruoli di responsabilità e, di conseguenza, lo svolgimento dei processi decisionali. Rispetto ai legami economici, i dati dimostrano che circa l’80% dei membri della famiglia è impegnato a tempo pieno in azienda, ricoprendo anche più di un ruolo (nel 66% dei casi) e il capitale impiegato nell’affare impresa è pari addirittura ai due terzi di quello familiare (frequenza riscontrata nel 57% dei casi). Le famiglie italiane pretendono l’assoluto controllo dell’impresa, mantenendo saldamente in mano il 100% del capitale. La famiglia possiede una quota totalitaria nel 71% dei casi, una quota compresa tra il 51% e il 99% nell’11%, laddove solo una percentuale dell’11% corrisponde ad una proprietà del capitale inferiore alla metà. Inoltre quando nel capitale sono presenti terze persone si tratta, nella maggioranza dei casi, di parenti lontani o amici assimilabili per molti aspetti ai familiari. La maggioranza delle imprese italiane è stata fondata dal suo stesso proprietario e, tra questi, solo il 13,8% sarebbe disposto a venderla e solo il 5% a trasferire la propria quota ad un non familiare. Si può sottolineare che il ruolo della famiglia è stato, ed è, fondamentale allo sviluppo economico di tutti i principali Paesi ed è dalla famiglia che in Italia parte l’iniziativa imprenditoriale. Purtroppo troppo spesso lo scontro di interessi tra famiglia e impresa è diventato da fattore di crescita a fattore di freno alla crescita, infatti la piccola dimensione delle imprese è spesso un’arma a doppio taglio. Nelle imprese familiari è molto sofferto, ad esempio, il passaggio generazionale nel caso in cui il capitale sociale è totalmente detenuto nelle mani della prima generazione; questo aspetto può essere un vincolo alla crescita, per la presenza contemporanea di due forze contrapposte: da una parte quella dell’impresa che, per essere competitiva ha bisogno di crescere e dall’altra quella della famiglia, che non permette la perdita di controllo. Circa un terzo delle imprese familiari italiane è oggi ancora nelle mani della prima generazione, il 40% è guidato dalla seconda, ma la percentuale si dimezza repentinamente allorché si passa alla terza (21%), per scendere addirittura fino all'8% con la quarta generazione di imprenditori. I motivi di questa tendenza risalgono al background sociale e culturale, tipico della nostra realtà, dove la famiglia è ritenuta il centro nevralgico di ogni decisione, istituzione sempre solidissima nel contesto nazionale; ma il momento del passaggio generazionale può minare l’equilibrio e le sorti delle imprese famigliari, come verrà analizzato di seguito. 12 1.2.1 La family business Le dimensioni su cui si fonda il family business sono famiglia, azienda e patrimonio, il successo della family business e più è legato al grado di equilibrio esistente tra le tre dimensioni. Se famiglia e patrimonio sono in equilibrio automaticamente anche l'azienda lo sarà; se al contrario, la famiglia è in preda alle conflittualità o il patrimonio è mal tutelato, nessuna riorganizzazione aziendale potrà mai produrre esiti miracolosi. Larga parte delle realtà familiari nostrane, purtroppo, risultano sbilanciate su uno o più di questi versanti. Le tre bilance si possono trovare in due contesti differenti: il primo, contesto familiare di serenità e armonia; il secondo, contesto di familiari litigiosi, pretenziosi, poco inclini a impegnarsi in azienda e, di conseguenza, fonte di problemi aggiuntivi per la family business. In questo ultimo caso il pensiero di sfamiliarizzare, seppure temporaneamente, l'azienda potrebbe risolvere il problema dato che notoriamente il tasso di mortalità delle family business è collegato alla fragilità del legame famiglia-interessi aziendali. Secondo lo studio di Zocchi “Il family business” (figura 2) risulta che quattro imprese di famiglia su cinque sono guidate dalla prima generazione, la quale ancora beneficia della guida imprenditoriale del fondatore. Tuttavia, già al passaggio della proprietà e del controllo gestionale dagli iniziatori agli eredi un 7% delle aziende viene venduto a terzi; solo il 13% circa delle family business di seconda generazione viene trasferito alla terza generazione e meno del 3% registra, nel corso di questo processo, uno sviluppo aziendale. É proprio il passaggio dalla seconda alla terza generazione che si rivela particolarmente critico, poiché di norma segna lo spartiacque tra le compagini proprietarie concentrate, composte da consanguinei tutti attivamente coinvolti in azienda e le compagini proprietarie frammentate, in cui i soci hanno legami più deboli e sono spesso portatori di attese alquanto differenziate, con il conseguente rischio di tensioni e conflittualità che possono rivelarsi fatali per la vita aziendale. Non a caso, i disaccordi tra i soci figurano tra gli elementi di massima preoccupazione per le imprese di famiglia italiane. Figura 2: Il ciclo di vita delle family business Fonte: Zocchi 2004 Pertanto dopo aver tracciato alcune delle problematiche inerenti l’impresa di famiglia, l’obiettivo della seguente analisi sarà quella di focalizzarsi sul passaggio generazionale e successivamente analizzare gli strumenti a disposizione per l’imprenditore volti ad 13 ottimizzare tale processo di successione all’interno dell’azienda, concentrandosi su un particolare strumento: il trust. 1.3Il passaggio generazionale Il tema del passaggio generazionale è di grande attualità e rappresenta una delle più importanti sfide con cui milioni di micro e piccole imprese in Italia e in Europa sono o saranno a breve costrette a confrontarsi. Si tratta di un momento complesso della vita aziendale che richiede di essere affrontato con un approccio sistematico, un progetto di sviluppo ed un monitoraggio continuo. Può essere definito come il trasferimento della proprietà, del potere e del controllo di un'impresa familiare da una generazione a un'altra, esso costituisce un momento estremamente delicato per le sorti dell’impresa, in particolar modo per le realtà imprenditoriali di dimensioni medio piccole essendo fortemente incentrate sulla figura dell’imprenditore/fondatore che, nella maggioranza dei casi, è l’unico custode del know-how aziendale. E’ un evento dove entrano in gioco fattori fiscali, amministrativi e giuridici, ma nel quale rivestono un forte peso anche le relazioni psicologiche che si sviluppano tra gli attori coinvolti. Tali relazioni possono produrre situazioni e dinamiche che rendono ancora più difficile la gestione del processo e, se sottovalutate, possono seriamente minacciare la sopravvivenza di un’impresa. Nonostante l’inevitabilità del passaggio generazionale non è facile pianificare per tempo questo momento così delicato e decisivo del ciclo di vita aziendale; nei prossimi anni il passaggio generazionale dovrà essere affrontato dal 50% delle aziende italiane e diventerà ancora più problematico in considerazione di alcune caratteristiche delle piccole e medie imprese, quali la struttura dimensionale organizzativa e la marcata connotazione familiare. Al fine di comprendere al meglio le proporzioni del fenomeno socio-economico legato al passaggio generazionale, consideriamo alcuni dati elaborati da Unioncamere nel 2007: il 43% degli imprenditori italiani supera i 60 anni ed il numero di imprese che nei prossimi 10 anni dovranno affrontare il problema risulta essere il 40% del totale, mentre gli imprenditori che manifestano l’intenzione di lasciare l’azienda ad un familiare è nell’ordine del 68%; solo il 20% delle imprese arriva alla terza generazione; la parte restante è capace solo di passare il testimone, in qualche modo, da padre a figlio, ma non da nonno a nipote (figura 3); oltre il 95% delle aziende italiane si caratterizza, sul piano dell’impiego medio, per un organico inferiore ai dieci addetti; dalle statistiche si rileva che il 10% dei fallimenti annui delle aziende è derivante dalla mancata pianificazione e gestione del passaggio generazionale; due aziende su tre scompaiono entro 5 anni dal passaggio dalla prima alla seconda generazione; per il 30% delle aziende il processo di ricambio generazionale coincide con la fine della realtà aziendale. 14 Figura 3: Tasso di sopravvivenza delle aziende familiari Fonte:www.intesasanpaoloimprese.com Il passaggio d’impresa deve essere progettato con largo anticipo e può chiedere un arco di tempo piuttosto ampio, affinché il subentrante possa sviluppare al meglio le caratteristiche necessarie a svolgere il suo ruolo imprenditoriale. Per quanto concerne l’azienda di famiglia tale fenomeno conduce ad una serie di conseguenze estremamente negative sotto il profilo dell’ottimizzazione organizzativa, ovvero: 1. invalidazione del sistema meritocratico familiare: la presenza di figli non verrebbe meno anche se non evidenziassero particolari capacità imprenditoriali; 2. svalutazione di figure aziendali meritevoli: la circostanza per cui in merito al decision making, verrebbero a trovarsi in aperto contrasto con il componente della famiglia imprenditoriale costituisce un forte disincentivo a sostenere tesi disallineate; 3. la creazione di colli di bottiglia, frutto di un incompleto flusso di informazioni dalla famiglia alle figure di staff, teso a proteggere un ipotetico ambito di riservatezza. In occasione dell’indagine annuale “L’Italia delle imprese” (2007), curata dalla Fondazione Nord-Est per il Sole 24 Ore, il tema è stato oggetto di analisi ed approfondimento; i risultati mostrano che il 45% delle aziende italiane sta attraversando la fase del passaggio generazionale, il 14,3% lo affronterà in futuro, l’11,3% lo ha già affrontato in passato e solo per il 29,4%, invece, la questione non si pone nel futuro prossimo e non si è posta per il passato. La stessa indagine ha anche sondato gli umori degli imprenditori per delineare il giudizio dato dai diretti interessati al fenomeno oggetto d’indagine: i dati sono incoraggianti se si osserva che il 54,4% degli intervistati ha dichiarato di vedere il passaggio generazionale come un momento di criticità, ma superabile. Circa un terzo degli intervistati su scala nazionale nutre poi un atteggiamento ancor più improntato all’ottimismo, sostenendo che il passaggio generazionale può essere gestito senza particolari problemi. La quota dei pessimisti, infine, è piuttosto bassa e non raggiunge il 15%. In riferimento alla strategia da adottare per superare il passaggio generazionale il 68% degli intervistati sceglie il mantenimento della proprietà e della gestione all’interno della famiglia, il ricorso a manager esterni mantenendo la proprietà è contemplato dal 18%, mentre l’apertura del capitale a soggetti esterni viene considerata da una percentuale ridotta. L’aspetto negativo è che consuetudini e accordi verbali continuano a prevalere su assetti societari atti a favorire la governabilità, mancano in genere dei disegni strategici per preparare la successione in maniera armoniosa e sono poco diffusi i meccanismi di delega. 15 1.3.1 Problematiche da affrontare Il percorso del ricambio generazionale è complesso e coinvolge trasversalmente aspetti comportamentali dell’imprenditore, che devono unirsi a conoscenze legali e certezze nella valutazione del patrimonio familiare. La complessità deriva soprattutto perché con l’ingresso delle nuove generazioni nell’azienda possono entrare in conflitto due obiettivi: quello della funzionalità e quello della continuità familiare nell’impresa. Assicurare la funzionalità dell’impresa significa fare in modo che i nuovi soggetti imprenditoriali abbiano le necessarie capacità per gestire l’impresa. Garantire la continuità significa invece consentire che l’impresa passi di generazione in generazione e continui ad essere gestita nell’ambito della famiglia. Non sempre ciò che salvaguarda la continuità assicura anche una buona gestione per il futuro dell’impresa, può accadere che la funzionalità dell’impresa sia meglio assicurata se il fondatore viene sostituito da un suo collaboratore che possiede capacità di gestione e notevole esperienza, pur non appartenendo alla famiglia. Ciò accade soprattutto se le nuove generazioni non hanno ancora maturato capacità imprenditoriali o addirittura non hanno alcun interesse alla vita dell’azienda. In questi casi privilegiare la funzionalità significherebbe creare discontinuità nella successione, mentre voler garantire continuità nella successione potrebbe condurre a livelli bassi di funzionalità. Il successo del passaggio generazionale dipende da una pluralità di condizioni e comportamenti aziendali. In generale, è necessario che il rapporto tra famiglia ed impresa venga concepito in modo da garantire l’autonomia dell’impresa. In altri termini, all’interno della famiglia occorre che l’impresa venga considerata come un’entità che ha vita autonoma e per quanto possibile distinta dalle questioni familiari. Condizione estremamente importante per il successo del passaggio generazionale è preparare adeguatamente le nuove generazioni ad assumere il controllo e la gestione dell’impresa. Il subentro va gestito garantendo alle nuove generazioni non solo istruzione ma anche un significativo periodo di esperienza lavorativa nella stessa azienda di famiglia oppure in altre aziende anche di settori diversi. Il passaggio generazionale dunque è un problema che l’imprenditore deve necessariamente affrontare e risolvere per tempo, attraverso un’accurata fase di pianificazione tesa ad individuare il soggetto (o i soggetti) destinato a guidare l’impresa, nonché gli strumenti che si presentano maggiormente idonei per garantire la successione generazionale, senza lasciare nulla al caso, onde evitare la dissoluzione del valore aziendale creato nonché ricadute di natura sociale, in considerazione della forza lavoro impiegata nell’impresa. 1.3.2 I fattori di rischio nel passaggio generazionale I fattori che concorrono maggiormente ad aumentare il rischio di sopravvivenza dell’impresa in fase successoria sono: rischio di continuità generazionale, dissolvimento della leadership e conflitti; di seguito verranno analizzati. Il dissolvimento della leadership: la leadership nell’impresa familiare può essere definita come la capacità riconosciuta ad un soggetto di conseguire il fine dell’impresa; il rischio di non continuità dell’impresa familiare dipende certamente ed in maniera significativa dalla possibile distruzione della leadership che, in alcuni momenti e, in particolare in prossimità di una successione, risulta reale. Tale fattore di rischio specifico può essere valutato sulla base dei seguenti indicatori: l’età del leader uscente. L’anzianità del leader configura certamente un indicatore segnaletico del tempo disponibile per pianificare e intervenire, quindi, in tempo, per garantire una trasmissione del ruolo imprenditoriale nella maniera meno traumatica possibile. In Italia, lo sviluppo 16 imprenditoriale, concentratosi nei due decenni 60’ e 70’, fa sì che una grossa parte dell’imprenditoria italiana si trovi attualmente ad affrontare il complesso problema della successione. l’adeguatezza delle competenze e delle capacità della nuova leadership con le nuove esigenze dell’impresa. Diverse sono le capacità di cui l’imprenditore deve essere dotato: la capacità di cogliere le opportunità ed i segnali deboli del contesto, la capacità di ascolto degli altri stakeholder, la capacità di dialogo e di negoziazione e l’orientamento di lungo periodo. i rapporti tra leadership entrante ed uscente. Tali rapporti possono essere giudicati tenendo conto del grado di fiducia reciproca, della presenza di canali di comunicazione franchi e costruttivi, del livello di intenzionalità nella conservazione dell’impresa all’interno della famiglia e della disponibilità alla delega. il nepotismo, inteso come l’avanzamento o la designazione di parenti in base a criteri diversi dalla meritocrazia. Tale fenomeno presenta aspetti negativi tra i quali la difficoltà ad attrarre nell’impresa manager di elevata professionalità riconosciuta sul mercato. la deriva generazionale. È un fenomeno naturale caratterizzato da un progressivo aumento del numero dei membri di una dinastia allo scorrere delle generazioni. La pressante richiesta di inserimento di componenti familiari nella struttura aziendale può alterare gli equilibri organizzativi a cui il leader è pervenuto nel tempo. Pertanto, la verifica dell’esistenza di chiare e condivise regole di inserimento delle nuove leve nell’impresa di famiglia, rappresenta un segnale per valutare l’incidenza che il fenomeno di deriva generazionale può esercitare sul rischio di distruzione della leadership. Il grado di conflittualità all’interno della famiglia: la possibilità dell’impresa familiare di sopravvivere e di prosperare nel tempo deriva in larga misura dalla capacità della famiglia di restare a lungo unita e coesa, gli aspetti che possono essere analizzati per procedere alla valutazione di tale fattore di rischio sono: la composizione della famiglia imprenditoriale. Ogni famiglia è diversa dalle altre in quanto è composta da persone con caratteri diversi, ha la sua storia e sviluppa una cultura che si basa su norme, principi e comportamenti specifici. Quando poi una famiglia lega la propria esistenza alla creazione ed alla gestione di un’azienda, essa si pone in relazione quasi simbiotica con un’altra entità e si trasforma in famiglia imprenditoriale. la qualità dei legami familiari. È necessario esaminare innanzitutto la complessità dei principali rapporti esistenti tra il padre e i figli, tra fratelli e tra tutti i parenti. il grado di separazione del patrimonio della famiglia dal patrimonio dell’impresa. A livello teorico si possono distinguere due modelli, il modello dell’impresa riccafamiglia povera e il modello della famiglia ricca-impresa povera. Il primo modello è rappresentativo di una situazione dove esiste una forte vocazione industriale combinata con una sentita identificazione con il business. Tali caratterizzazioni inducono la famiglia proprietaria a lasciare investito in azienda gran parte del valore che essa produce, questa determinazione all’autofinanziamento, se da un lato limita l’accrescimento del patrimonio familiare extra-aziendale, dall’altro evidenzia come la famiglia governi l’impresa secondo logiche indipendenti dai suoi interessi e scopi particolari i quali sono subordinati alla finalità di sopravvivenza dell’impresa stessa. Nel secondo modello invece la famiglia proprietaria, per motivi di carattere fiscale, per volontà di diversificazione patrimoniale, per desiderio di 17 ostentazione o di status, preleva periodicamente gran parte del valore prodotto dall’impresa, lasciandola nella perenne condizione di sottocapitalizzazione e di pesante indebitamento. l’attrattività del business per i potenziali entranti. Non tutti i business sono ugualmente ambiti dalle nuove generazioni della famiglia, in quanto le competenze richieste o le opportunità offerte possono essere considerate limitative o non sufficientemente stimolanti per il giovane. Maggiori opportunità per i membri della famiglia aiutano a mantenere la pace al suo interno e permettono di conservare fra i familiari la fiducia e l’interesse nel business. È ipotizzabile, pertanto, che i conflitti siano elevati quando il business non è in grado di offrire opportunità sufficienti per soddisfare le richieste di tutti i membri della famiglia, i quali saranno costretti a competere per cogliere le opportunità disponibili. La scelta dell’erede: l’imprenditore vive con la propria impresa un rapporto generativo dato che è una sua creatura e verso di essa agiscono comportamenti e aspettative, un legame così forte tra impresa e imprenditore può portare quest’ultimo, ma anche gli eredi stessi, a credere che la sua figura non sia sostituibile, che nessun altro possa ricoprire il ruolo di padre verso l’impresa. Pur non essendoci una soluzione perfetta molto può essere fatto e anche molti possono essere gli strumenti adeguati per aiutare l’imprenditore ad affrontare questo problema: Pianificare il passaggio generazionale (analizzato a fine capitolo), prendere in considerazione per tempo il problema dell’individuazione di colui o coloro che dovranno prendere il posto di comando. Tenere in considerazione che l’imprevedibilità degli eventi della vita possono manifestarsi all’improvviso, come nel caso della scomparsa o malattia precoce dell’imprenditore o dell’erede prescelto. Creare e stimolare interesse dei figli verso l’impresa. Spesso i figli vengono inseriti o presi in considerazione solo dopo che hanno completato gli studi e magari fatto esperienza in altre aziende. Ma così facendo una volta inseriti nell’azienda di famiglia spesso non riescono a ricevere il consenso e la stima delle persone che ci lavorano e dell’imprenditore genitore stesso. Accettare la propria unicità rispetto all’azienda. La consapevolezza che l’imprenditore non possa essere clonato deve fare posto al nuovo erede/imprenditore, che certamente dovrà portare la propria impronta in base alle proprie caratteristiche culturali e lavorative. Superare i pregiudizi. La diffidenza o il pregiudizio nei confronti degli eredi può impedire a priori la possibilità di un rinnovo generazionale e una nuova gestione corretta. Il coraggio di fare scelte impopolari all’interno della famiglia. Quando non ci sono eredi che potrebbero portare avanti l’impresa di famiglia per incapacità o anche solo per mancanza di interesse in quello specifico campo, o per eccessivi conflitti, o competizione fra eredi, occorre avere la determinazione di fare in modo che la gestione dell’impresa venga portata avanti da manager professionali. La generazione successiva all’imprenditore non gestisce, ma sceglie chi deve gestire. La prontezza nel prendere decisioni drastiche. A volte non è possibile pianificare il passaggio e quindi occorre rapidità di decisioni nel dare immediata esecuzione a inserimenti di management esterno anche solo pro tempore, fin tanto che non si supera ad esempio un gap generazionale, o un momentaneo distacco dell’imprenditore. Le liti: il conflitto principale riguarda l’identificazione di un preciso figlio come erede prescelto alla continuazione dell’attività imprenditoriale, essa potrà essere equa ed 18 ineccepibile da un punto di vista economico e patrimoniale ma insostenibile per gli altri eredi che si potrebbero sentire sminuiti. Inoltre vi sono le contrapposizioni tra senior e junior che si possono suddividere in due macrocategorie: la prima raggruppa le ipotesi in cui c’è una contrapposizione tra senior e junior, in quanto il primo non ritiene che il secondo (o i secondi, in caso di più figli) sia idoneo a proseguire nell’attività imprenditoriale; la seconda invece comprende i casi in cui la volontà del senior di mantenere il comando dipende dall’estrema litigiosità dei figli che si contendono il ruolo di comando dell’azienda. In entrambi i casi le scelte del senior sono a loro volta distinguibili in base al target: la tutela dell’azienda o la preservazione/conservazione del patrimonio familiare. Per evitare o almeno prevenire liti e conflitti collegati al passaggio generazionale sono presenti alcuni strumenti che verranno analizzati nei capitoli successivi. 1.4 L’intervento dell’Unione Europea Secondo i risultati delle ricerche condotte dalla Commissione Europea nel 2005 emerge che nei prossimi anni, oltre un terzo delle imprese europee si troverà ad affrontare il problema legato alla successione generazionale: in termini numerici significa che circa 600.000 imprese, nelle quali lavorano complessivamente oltre 2 milioni di persone, dovranno sciogliere il nodo relativo al ricambio generazionale. L’importanza del problema del passaggio generazionale fu evidenziata a livello comunitario già negli anni ’90, quando la Raccomandazione della Commissione del 7 dicembre 1994 sulla successione nelle piccole e medie imprese, muovendo dalla constatazione che circa il 10% delle dichiarazioni di fallimento verificatesi nella Comunità sono dovute a successione mal gestite, invitò gli Stati membri ad indurre l’imprenditore a preparare la successione dell’impresa finché è ancora in vita e li sollecitò al fine di assicurare la sopravvivenza delle imprese ed il mantenimento dei posti di lavoro. La Commissione, attribuendo le difficoltà legate al processo successorio all’insufficiente preparazione del processo e all’inadeguatezza di alcune parti della legislazione degli Stati membri indirizzò il suo intervento in due fondamentali direzioni: interventi diretti, interni alle singole imprese al fine di formare l’imprenditore ad una corretta gestione del processo. Nella visione europea era quindi necessario incoraggiare le iniziative pubbliche e private che hanno per oggetto la sensibilizzazione, l’informazione e la formazione degli imprenditori e, quindi, la preparazione della loro successione, al fine di assicurare il buon esito del processo nelle piccole e medie imprese; interventi indiretti, esterni all’impresa e volti alla creazione di un contesto giuridico-fiscale favorevole al trasferimento dell’azienda. Il legislatore europeo auspicò in questa prospettiva l’applicazione di sgravi fiscali e la predisposizione di adeguati strumenti giuridici in grado di facilitare gli aspetti procedurali-burocratici del processo di successione d’impresa. La centralità della tematica a livello europeo è stata ribadita in più occasioni nel corso degli anni, sino ad arrivare nel 2008 alla promulgazione dello Small Business Act for Europe, il cosiddetto Atto per la Piccola Impresa che abbraccia come slogan “Think Small First” ovvero “Pensare anzitutto in piccolo”. All’interno di questo documento si dichiara che il passaggio generazionale è un tema centrale che richiede un’attenzione maggiore di quella oggi dedicatagli. Semplificare a tutti i livelli le condizioni per la successione delle imprese rientra tra i principi guida per la formulazione e l’attuazione delle politiche nazionali e trans-nazionali. Gli stati membri dell’Unione Europea sono stati quindi invitati ad attivare misure e progetti volti a fornire assistenza e sostegno ai trasferimenti delle imprese e tra il 2008 e il 2010, con il supporto della Commissione, si sono impegnati 19 nell’attuazione di diverse azioni per alleviare gli oneri amministrativi alle PMI, facilitarne l'accesso ai finanziamenti e sostenere l’entrata in nuovi mercati. Nel febbraio 2011 è stata pubblicata la revisione dello Small Business Act for Europe, che presenta una panoramica dei progressi compiuti dell'attuazione dello stesso e definisce le nuove azioni per rispondere alle sfide derivanti dalla crisi economica. Risulta che a distanza di pochi anni sebbene la maggior parte delle iniziative previste siano state avviate, dalla sintesi degli interventi sinora attivi emerge la necessità di incrementare le misure di supporto alle micro e PMI, anche in tema di trasmissione d'impresa. 1.5 Il passaggio generazionale in Italia L’Italia ha tentato di introdurre nell’ordinamento novità sostanziali al fine di recepire le raccomandazioni e le direttive europee. Ad esempio, in data 31 gennaio 2006 è stata approvata definitivamente dal Senato la proposta di legge n. 3870/95 in merito all’introduzione dei cosiddetti patti successori di impresa attraverso la previsione del nuovo articolo 734 bis del codice civile. La proposta aveva lo scopo dichiarato di “introdurre nel nostro ordinamento una deroga al generale principio di divieto dei patti successori di cui all’articolo 458 del codice civile, prevedendo la liceità di accordi diretti a regolamentare la successione dell’imprenditore o di chi è titolare di partecipazioni societarie”. Il problema della compatibilità delle disposizioni successorie con il contenuto dell’articolo 458 del codice civile è un problema datato ma sempre di grande attualità; infatti ai sensi di tale norma “è nulla ogni convenzione con cui taluno dispone della propria successione. È del pari nullo ogni atto con il quale taluno dispone dei diritti che si possono aspettare su una successione non ancora aperta, o rinunzia ai medesimi”. Tale norma, letta insieme all’articolo 457 del codice civile, sta a significare che l’eredità si devolve solo per legge per testamento mentre è esclusa la delazione contrattuale. Il fenomeno, iniziato nella seconda parte del Novecento, della progressiva separazione tra proprietà e gestione delle società, sta segnando il passo in favore di un ritorno delle famiglie ad una gestione diretta delle proprie aziende. Ciò significa che il problema della continuità dell’impresa familiare è, e sarà sentito ancor più nei prossimi anni, su tutto il territorio italiano, in quanto il sistema economico-produttivo nazionale ha come principale punto di riferimento aziende familiari, che dovranno fare i conti non soltanto con la crisi dei mercati e con la concorrenza interna e straniera, ma anche soprattutto con la corretta gestione delle risorse familiari. Dato che circa il 90% delle imprese italiane siano governate da un imprenditore o da nuclei familiari chiusi, caratterizzati da un forte accentramento gestionale si viene così a creare una gestione dell’azienda che risulta priva di una struttura manageriale di supporto. La delicatezza del tema è dimostrata dal fatto che il ricambio generazionale ha un forte impatto sulla sopravvivenza stessa dell'organizzazione è dunque vitale per il prosieguo dell'attività imprenditoriale che la fase di successione alla guida sia, per quanto possibile, preparata e pianificata. Purtroppo nel nostro paese questo aspetto è ampiamente sottovalutato, gli imprenditori italiani dedicano a progettare la loro sostituzione una quantità ridotta del loro tempo, inferiore a quella, già bassa, dedicata alla formulazione e alla verifica delle strategie. Rispetto agli altri imprenditori europei e americani gli imprenditori familiari italiani mostrano una bassa propensione a definire in anticipo la loro uscita, tendendo a non formalizzare le modalità di trasferimento dei ruoli direzionali e imprenditoriali alla generazione successiva e possedendo una vaga conoscenza delle implicazioni fiscali del processo successorio. 20 Infine vi è da dire che anche il mercato è spesso severo verso il passaggio generazionale attuato da padre a figlio, i terzi e gli stakeholders giudicano i figli e paragonano le loro capacità e caratteristiche, i loro atteggiamenti e le loro decisioni con quelle che avrebbero assunto i padri, traendone conclusioni non sempre positive. 1.6 La pianificazione del passaggio generazionale Come evidenziato, la successione rappresenta un momento ricco di minacce potenziali per i sistemi che compongono le imprese familiari e il family business: impresa, famiglia e patrimonio; quindi anche la pianificazione deve tener conto di diverse prospettive: la strategia aziendale; gli obiettivi della famiglia; la disponibilità di risorse aziendali e familiari. Ecco perché la pianificazione della transizione rappresenta il momento più indicato per dare soluzioni a situazioni problematiche diverse ma tra loro fortemente interconnesse: considerare la permanenza della famiglia nella proprietà e nel governo, individuare gli obiettivi e i valori che l’impresa familiare intende perseguire nel futuro, definire i ruoli e le responsabilità da coinvolgere nel progetto futuro dell’impresa. L’attività di pianificazione è un vero e proprio processo e presuppone una fase di valutazione di checkup aziendale seguita da un peculiare check-up generazionale. Attraverso il check-up aziendale si delinea lo stato dell’azienda e quindi si costruisce un quadro completo dell’impresa familiare sulla base del quale è possibile avviare le riflessioni sulle scelte in tema di ricambio generazionale e sulle possibilità di crescita ed evoluzione. Al tradizionale check-up aziendale occorre affiancare uno specifico check-up generazionale mediante il quale è possibile stabilire il progetto di successione della leadership e il piano della successione patrimoniale. La pianificazione della leadership dovrebbe prevedere punti condivisi dai componenti della famiglia in cui dovrebbero emergere chiaramente i seguenti punti: il percorso di formazione e selezione dei candidati; il progressivo passaggio di consegne tra la leadership uscente e quella emergente; lo sviluppo del piano di ritiro per l’imprenditore uscente; la definizione dei tempi e dei modi con cui monitorare il piano. Allo stesso modo la pianificazione patrimoniale, nel definire l’entità dei fabbisogni finanziari necessari alla realizzazione delle strategie aziendali, individuate nel check-up aziendale, deve considerare le esigenze finanziarie della famiglia attraverso: la salvaguardia della funzionalità economica del business; la valutazione di una sufficiente disponibilità di risorse necessarie per la generazione uscente; il perseguimento dell’equità tra i membri della generazione emergente; la possibilità di fronteggiare problematiche di natura fiscale. E’ importante sottolineare che la successione può rappresentare uno strumento di rivitalizzazione in grado di attivare nuova imprenditorialità, non tralasciando tuttavia di preservare nel nuovo gruppo gli elementi culturali e strategici tradizionali; è quindi fondamentale che esista sempre un rapporto tra processo di sviluppo aziendale e processo di successione imprenditoriale. L’ottica privilegiata è quella della continuità, l’unica in grado di trasformare la successione da momento critico a evoluzione dell’impresa familiare. 21 Il processo è articolabile in fasi strutturate, risulta possibile quindi schematizzare ulteriormente il processo di pianificazione del ricambio generazionale distinguendo in tre fasi che lo compongono: analisi, pianificazione, implementazione e monitoraggio. In riferimento alla prima fase, si tratta di procedere ad un’analisi delle potenzialità del business, dell’azienda e del management attraverso check-up specifici sui tre sistemi. Più precisamente: un’analisi aziendale in grado di rilevare il profilo dell’impresa in termini legali, societari e fiscali, le potenzialità di mercato, il posizionamento strategico, le potenzialità di sviluppo dell’impresa capaci di creare valore; un’analisi sulla famiglia con lo scopo di verificare la condivisione o meno della mission aziendale tra i familiari, i rapporti interpersonali, il coinvolgimento attuale o futuro dei singoli, gli eventuali conflitti, il ruolo, le aspettative, le risorse, le competenze e l’impegno che ogni erede è disposto a dare verso la proprietà, il governo e la gestione; un’analisi del patrimonio volta a quantificare il valore dei beni familiari. Il risultato della prima fase è un report, il punto di partenza della pianificazione in grado di definire il momento in cui avviare la successione, i tempi della successione, gli attori coinvolti e le problematiche di diversa natura da affrontare. Nella seconda fase viene effettuata una diagnosi che mira ad individuare le possibili soluzioni gestionali e organizzative connesse al passaggio generazionale, occorre quindi definire l’obiettivo strategico, le politiche, le linee guida e lo sviluppo organizzativo atteso e possibile dell’impresa specificando, ad esempio, le eventuali operazioni di finanza straordinaria (fusioni, scissioni etc.) ed i sistemi di corporate governance a sostegno delle imprese di famiglia, l’eventuale costituzione di patti di famiglia, di trust e di family office (che verranno analizzati nel capitolo successivo). Si tratta anche di: definire la proprietà futura in rapporto alle esigenze finanziarie aziendali, alla vigente legislazione in materia di diritto tributario e societario, all’apertura del capitale a terzi, al ruolo degli investitori istituzionali; valutare i progetti di investimento attraverso un utilizzo integrato delle diverse tecniche esistenti; individuare le modalità di copertura del fabbisogno finanziario anche alla luce di quelli che sono i recenti provvedimenti di Basilea. L’ultima fase consiste nell’implementazione e nel successivo monitoraggio del piano di continuità aziendale. Quindi all’adeguamento organizzativo, all’avvio di operazioni straordinarie, al reperimento delle risorse finanziarie, seguiranno percorsi di formazione e sviluppo dei successori, attività di assistenza di specialisti tributari, civilistici e societari etc. Tale fase si conclude con il concreto trasferimento della leadership e quindi con il subentro effettivo della generazione entrante alla generazione uscente. A ciascuna delle fasi sarà necessario affiancare un’azione di monitoraggio costante capace di consentire interventi correttivi tempestivi. In conclusione, l’esigenza di perseguire nel tempo la continuità del family business, in una fase così delicata qual è il passaggio del testimone, è frutto di un modo di considerare l’azienda come un bene da salvaguardare e tramandare e quindi dipende dall’impegno di una generazione nei confronti di quella che la segue. Dopo aver tracciato le linee della pianificazione del passaggio generazionale, nei capitoli successivi verranno analizzati gli strumenti a disposizione degli imprenditori italiani. 22 CAPITOLO 2: GLI STRUMENTI UTILIZZATI NEL PASSAGGIO GENERAZIONALE Gli strumenti che possono essere utilizzati per realizzare il passaggio generazionale nell’impresa sono svariati e vanno analizzati in relazione alle caratteristiche dell’impresa; concentrandosi sugli strumenti idonei alla successione interna nell’impresa varranno analizzati: patto di famiglia; holding familiare; donazione d’azienda; lo strumento testamentario; usufrutto e nuda proprietà; conferimento e cessione d’azienda. Quelli elencati sono solo alcuni degli strumenti utilizzabili per realizzare il passaggio generazionale nell’impresa, ognuno degli strumenti presenta uno specifico profilo giuridico e fiscale che va tenuto adeguatamente in considerazione quando si pianifica la successione dell’impresa. 2.1 Il patto di famiglia Secondo l'articolo 768-bis del c.c.: “È patto di famiglia il contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l'imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l'azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti”. Scopo dell’istituto è garantire il passaggio generazionale nell'azienda, nel segno della continuità familiare con l’obiettivo di dare certezza alla continuazione dell’attività, lo strumento mira: a preservare l’unità del bene produttivo; a favorire l’univocità del controllo, evitando il frazionamento della proprietà che si determina con la successione ereditaria; a gestire in anticipo il trasferimento dell'impresa, in particolar modo quelle di tipo familiare. Lo strumento permette l’incontro tra due opposti interessi: da un lato, quello dell'imprenditore di scegliere liberamente tra i propri discendenti il successore della propria impresa senza incorrere nelle rigidità del divieto dei patti successori1; dall'altro, quello dei legittimari a essere tutelati nei propri diritti, attraverso opportune ed adeguate compensazioni patrimoniali, nell'eventualità che vengano esclusi dalla proprietà dell'impresa o delle quote di partecipazioni sociali. In questo modo sarà possibile pianificare fin da subito quale tra gli eredi proseguirà l’attività di impresa e quale, invece, verrà remunerato in altro modo (tipicamente in denaro o mediante l’assegnazione di altri beni) fino a concorrenza della propria quota di legittima. Il patto di famiglia è definito dalla legge un contratto, la stipula deve essere redatta per atto pubblico e lo scioglimento o la modifica è possibile solamente con l’intervento di tutti i soggetti coinvolti. Dal contratto scaturiscono precisi e determinati effetti giuridici 1 L’articolo 458 c.c., relativo al divieto di patti successori prevede che “Fatto salvo quanto disposto dagli artt. 768-bis e seguenti, è nulla ogni convenzione con cui taluno dispone della propria successione. È del pari nullo ogni atto col quale taluno dispone dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta, o rinunzia ai medesimi”. 23 che si identificano in precise e determinate attribuzioni patrimoniali, che si realizzano da un lato nel trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni sociali dal disponente ad uno o più discendenti, dall’altro nelle prestazioni eseguite dall’assegnatario dell’azienda o delle partecipazioni a favore dei legittimari, consistenti nel pagamento di una somma di denaro o nel trasferimento di beni in natura. L’istituto si presenta come un negozio bilaterale, parti del contratto sono: il disponente, ovvero l’imprenditore che trasferisce in tutto o in parte l’azienda e il titolare di partecipazioni societarie che trasferisce in tutto o in parte le proprie quote; i discendenti assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie, il legislatore ha voluto delimitare il gruppo dei possibili assegnatari ai soli figli e nipoti, escludendo il coniuge e i fratelli con l’intento di prediligere la successione in linea retta. Inoltre possono esservi i legittimari ovvero le persone a favore delle quali la legge riserva una quota di eredità o altri diritti nella successione, il coniuge, i figli legittimi o naturali, gli ascendenti legittimi. A queste categorie la legge prevede che venga necessariamente attribuita una quota del patrimonio del de cuius, la quota di riserva, contrapposta alla quota disponibile che è quella di cui il soggetto può disporre liberamente in vita. L’oggetto del trasferimento può essere l’azienda o le quote sociali, in tutto o in parte; quindi anche il semplice ramo d’azienda o la concessione di un diritto di usufrutto sull’azienda. La figura contrattuale in esame presenta un aspetto oneroso connesso alla definizione degli accordi tra i destinatari e gli altri eredi esclusi, la gratuità del meccanismo è realizzabile solamente nel caso in cui i legittimari beneficiati rinuncino espressamente alla liquidazione della parte loro spettante; nel caso contrario invece è presumibile che la definizione dei patti risulti complessa e laboriosa poiché volta alla conciliazione e al raccordo di differenti pretese. Il patto di famiglia è pertanto orientato all’individuazione e alla ridefinizione degli equilibri economici e giuridici alterati dalle scelte del capofamiglia. Infatti gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni devono compensare gli altri partecipanti al contratto (i legittimari non beneficiati) con il pagamento di una somma (o trasferimento di beni in natura) pari al valore delle quote di legittima. Nel caso di eredi sopravvenuti (ovvero non esistenti alla stipula del patto) è riconosciuto che questi possano richiedere il pagamento di una somma corrispondente alla rispettiva quota di legittima accresciuta degli interessi legali, e nel caso contrario agire per l’annullamento del patto. Relativamente agli aspetti fiscali del patto di famiglia è presente una disciplina specifica solo per taluni effetti di tale istituto ai fini dell’imposizione indiretta, ma va anche considerata la variegata articolazione e qualificazione delle movimentazioni di ricchezza che possono essere generate da questi patti, con il pericolo di generare una tassazione non programmata. Nella legge che ha introdotto il patto di famiglia, gli aspetti fiscali erano stati completamente ignorati e ciò ha ostacolato l'immediata applicazione delle nuove norme. Una novità importante è arrivata con la legge finanziaria 2007 che in seguito alla reintroduzione delle imposte sulle successioni e donazioni, ha disposto a certe condizioni2 l'esenzione dall'imposta di successione e donazione per i trasferimenti di aziende o rami di azienda, di quote sociali e di azioni a favore dei figli e degli altri discendenti e ha previsto espressamente che essa si applica anche ai trasferimenti effettuati tramite i patti di 2 Le condizioni a cui si fa riferimento riguardano il fatto che i beneficiari del patto di famiglia proseguano l’esercizio dell’attività d’impresa detenendo il controllo per un periodo non inferiore a cinque anni e redigano una dichiarazione con la quale si impegnano ad osservare le condizioni stabilite. 24 famiglia. Dal 2007 quindi i trasferimenti di aziende o rami di azienda, di quote sociali e di azioni a favore dei figli e degli altri discendenti nell'ambito dei patti di famiglia sono esenti dall'imposta di donazione e successione. Se l'azienda comprende beni immobili, il trasferimento è esente anche dalle imposte ipotecarie e catastali che dovrebbero gravare su di essi. L'esenzione si applica a tutte le aziende e a tutte le quote di partecipazione in società di persone (s.n.c., s.a.s. e società semplici), indipendentemente dal loro ammontare. Se invece si tratta di azioni o quote di s.r.l. l'esenzione si applica solo alle partecipazioni che consentono al beneficiario di acquisire o integrare il controllo della società attraverso la maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria. La legge ha previsto anche due ipotesi di scioglimento del patto di famiglia: il patto può essere sciolto con un nuovo contratto, stipulato dai medesimi partecipanti e sempre nella forma di atto pubblico. In questo caso, l'azienda o le partecipazioni societarie ritornano al disponente, e i legittimari devono restituire ciò che avevano ricevuto dall'assegnatario; per recesso di uno dei contraenti con atto pubblico se nel patto è stata espressamente prevista questa possibilità. Nato con l’intento di ridurre eventuali dissidi, e rendere più lineare un avvicendamento generazionale, lo strumento presenta tuttavia alcune difficoltà applicative che ne possono compromettere le finalità: è inapplicabile a favore di familiari diversi dai discendenti dell’imprenditore, beneficiario del patto di famiglia non può essere qualsiasi familiare (ad esempio i fratelli) ma solo un discendente del disponente; è inapplicabile senza l’intervento ed il consenso di tutti i legittimari di cui sia nota o conoscibile l’esistenza al momento della stipula del contratto (il rifiuto dei medesimi di presenziare ed autorizzare il negozio esclude la possibilità per l’imprenditore di avvalersi di tale strumento); inapplicabilità nei confronti di eventuali legittimari sopravvenuti alla stipula del patto di famiglia; inapplicabilità nel caso in cui il beneficiario non disponga e non sia in grado di reperire le risorse necessarie per la liquidazione della quota dei legittimari e questi non rinuncino in tutto o parzialmente a tale liquidazione; inapplicabilità a fronte di partecipazioni sociali non qualificate costituenti semplice investimento patrimoniale; inapplicabile nelle s.a.s. e in genere alle società di persone senza il consenso di tutti i soci; l’istituto non è idoneo a risolvere il problema della divisione tra eredi, ovvero attribuzione agli altri legittimari non assegnatari, di beni della proprietà dell’imprenditore disponente diversi dall’azienda, ramo di azienda o dalla partecipazione sociale; rischi di applicazione della normativa fiscale antielusione in relazione alle operazioni straordinarie strumentali o successive al patto di famiglia. Ma non bisogna dimenticare il principale vantaggio: la possibilità per l’imprenditore di utilizzare l’istituto per pianificare il passaggio generazionale gratuito nella propria azienda in modo tale da escludere fin da subito un certo bene azienda o partecipazione sociale dalla futura massa ereditaria, in modo che l’operazione possa essere messa in discussione dagli altri familiari. Il patto di famiglia certamente non costituisce la soluzione per qualsiasi difficoltà legata alla gestione del passaggio generazionale d’impresa, né da solo può risolvere le liti che mettono in pericolo la coesione familiare, tuttavia esso ha sicuramente l’effetto di prevenirle e in una certa misura impedirle. 25 VANTAGGI: - consente un’assegnazione mirata agli eredi prescelti; - evita gli inconvenienti delle donazioni; - rafforza l’unità della famiglia proprietaria e ottimizza la governance; - permette di pianificare per tempo i rapporti tra famiglia e azienda; - garantisce maggiore trasparenza nelle relazioni famiglia-impresa. SVANTAGGI: - il beneficiario deve reperire la liquidità necessaria per pagare la liquidazione degli altri eredi; - consente di trasferire aziende e quote di partecipazione, non altri beni; - situazioni familiari particolarmente complesse potrebbero rendere difficoltosa l’individuazione dei legittimari; - l’individuazione della base di calcolo della quota spettante al legittimario sopravvenuto e la determinazione di chi debba rimborsarlo rappresenta una criticità. 2.2 La holding familiare Lo strumento che appare attualmente più utilizzato dalle imprese e gruppi familiari allo scopo di mantenere la coesione tra i soci è la costituzione di una holding familiare (o cassaforte di famiglia), con il termine holding s’intende una società che detiene quote di proprietà di altre società. È possibile distinguere due tipologie di holding: la holding pura e la holding mista, la prima è una società finanziaria la cui funzione consiste esclusivamente nella gestione delle partecipazioni detenute nelle diverse società del gruppo e nel coordinamento strategico delle stesse, mentre la seconda raggruppa in sé le funzioni della holding pura e quelle tipiche di un’impresa operativa. Nel caso specifico dell’impresa familiare la holding ha il compito di gestire le partecipazioni che la famiglia ha nelle società operative ed eventualmente anche altri beni patrimoniali familiari, senza però entrare nelle problematiche gestionali delle singole imprese controllate. Essa svolge dunque la funzione di separare la gestione operativa delle imprese familiari dalle problematiche proprietarie, realizzando la separazione tra ruolo proprietario, ruolo imprenditoriale e ruolo di controllo manageriale la cui sovrapposizione è fonte frequente di conflitti. Infatti, realizzare una distinzione giuridica tra livello della proprietà (rappresentato nella holding) e livello imprenditoriale e manageriale (rappresentato nelle società operative) permette di far confluire in un unico soggetto tutti i soci familiari. Con ciò la holding viene a rappresentare l’unica sede nella quale: possono essere discusse ed eventualmente definite le problematiche legate alle divergenze tra familiari; vengono delineate le strategie di governo delle imprese operative, senza però che vengano prese decisioni che permettano di tradurre in azioni concrete gli obiettivi contenuti nelle linee strategiche di base. La separazione tra ambito proprietario ed ambito gestionale, realizzato tramite la holding, permette di considerare anche l’evento successorio sotto tale duplice aspetto. Succedere nell’impresa familiare sotto l’aspetto proprietario significherà infatti partecipare attivamente alla gestione strategica delle attività imprenditoriali assicurando velocità e funzionalità a tale processo (istituzionalmente confinato nella holding), mentre succedere nella gestione operativa delle attività aziendali significherà poter garantire professionalità e motivazioni all’altezza dei compiti richiesti da tale tipo di attività (istituzionalmente svolto unicamente nelle unità operative). Nella holding familiare potranno entrare anche soggetti esterni in grado di apportare risorse finanziarie aggiuntive, senza che con ciò venga alterata l’unità di 26 comando; la holding dunque può risultare un ottimo strumento per consentire l’attribuzione del potere operativo gestionale solo ad alcuni soci e contemporaneamente l’attribuzione di uguali utili a tutti i soci; ad esempio nel caso di un padre imprenditore con due o più figli non tutti interessati alla gestione dell’impresa di famiglia, ma non per questo da discriminare dal punto di vista economico. Inoltre con una maggiore partecipazione nel capitale della holding è possibile attribuire il controllo della gestione nella società operativa all’erede interessato a essa e quindi sicuramente più in grado di garantire una buona continuazione dell’attività aziendale. Sono possibili diverse modalità per costituire una holding: attraverso l’acquisizione di partecipazioni di controllo; questa operazione consiste nell’acquisto, da parte di una società della maggioranza delle azioni o quote costituenti il capitale sociale di altre società. Per effetto dell’operazione di compravendita la società acquirente diviene a tutti gli effetti una società capogruppo, mentre le società acquisite divengono le controllate; con il conferimento di partecipazioni di controllo; si verifica quando i titolari dei pacchetti di controllo di determinate aziende conferiscono a una società tali partecipazioni in parola, in cambio di azioni o quote della nuova società; è particolarmente utilizzato in presenza di gruppi familiari che, dopo molte generazioni, presentano una compagine societaria estremamente polverizzata; con il conferimento di rami d’azienda; questa modalità consiste nel conferimento, da parte di una società esistente, di propri rami aziendali ad altre società in cambio di azioni o quote del capitale sociale delle società medesime. Diversi possono essere i vantaggi derivanti dalla costituzione di una holding di famiglia. Per quanto riguarda l’ambito fiscale, un primo aspetto è quello di poterle intestare successivamente tutti i beni acquistati utilizzando anche la disponibilità liquida derivante dai flussi finanziari percepiti dalle società operative controllate, senza che tali flussi finanziari siano distribuiti alle persone fisiche (familiari) e quindi tassate; un secondo aspetto di natura fiscale sfruttabile è quello derivante dalla eventuale utilizzazione della tassazione di gruppo fini Iva e ai fini delle imposte dirette. Anche finanziariamente la holding può risultare molto vantaggiosa dato che può favorire una ordinata distribuzione di utili ai soci (familiari), raccogliendoli delle varie controllate anche in modo diseguale; può valutare le esigenze finanziarie dell’intero gruppo e decidere come distribuire la liquidità senza dover ricorrere ai soci per far fronte alle singole necessità aziendali. Inoltre anche dal punto di vista societario la holding consente alcuni vantaggi: prima di tutto offre la possibilità di creare un’unica struttura sociale al vertice di tutte le società; consente ai familiari di valutare le varie società operative secondo valori normali in un’ottica di medio-lungo periodo, evitando di doverlo fare al momento della successione; in caso di possibili battaglie legali fra i membri della famiglia, le stesse avvengono sopra le società operative senza che ne possano risentire. Tutto ciò premesso, bisogna però ricordare che la costituzione della holding può generare anche alcuni elementi negativi, quali ad esempio l’obbligo di redazione del bilancio consolidato, il rischio di rientrare nella disciplina delle società di comodo con la conseguente tassazione minima obbligatoria, la possibile duplicazione dell’imposta di registro in caso di aumento di capitale in una controllata finanziata con un aumento di capitale nella stessa holding per mancanza di altri fondi, la possibile rilevanza dei costi di 27 riorganizzazione, una duplicazione di costi societari e l’insorgere di una maggiore rigidità operativa all’interno del gruppo. La holding di famiglia può assumere diverse configurazioni giuridiche che dipendono dalle esigenze della famiglia. La scelta della forma giuridica deve essere in ogni caso una scelta chiara e duratura nel tempo dato che la finalità di fondo è la continuità dell’impresa familiare, garantire la certezza del ritorno reddituale per i membri della famiglia ed agevolare il passaggio di proprietà ai figli. Giuridicamente, la holding di famiglia può assumere una delle seguenti forme: società in accomandita per azioni; società per azioni o società a responsabilità limitata; fondazione; società semplice. La deriva generazionale è una caratteristica tipica delle aziende o gruppi familiari interessati da fenomeni successori in presenza di più eredi rappresentando un elemento di disgregazione di maggioranze azionarie precostituite. Questo fenomeno comporta una ripartizione delle quote, ciascuna delle quali tende immediatamente a scendere al di sotto della soglia di controllo. Un elemento da tenere in considerazione, riguarda la relazione tra tasso di crescita dell’azienda e tasso di sviluppo degli eredi, derivante dall’effetto moltiplicativo della deriva generazionale (se il fondatore ha tre figli, ciascuno dei quali ha tre figli, nell’arco di due generazioni il numero di soggetti che vantano aspettative sulla proprietà aziendale passa da uno a nove): con il passare delle generazioni l’effetto moltiplicativo tende a diventare talmente elevato che risulta difficile che l’azienda familiare (spesso diventata gruppo) possa manifestare un simile tasso di crescita. La naturale frantumazione della proprietà azionaria dovuta alla deriva generazionale può portare a una crescita dell’azionariato a valle o a monte della holding attraverso la quale si esercita il controllo sul gruppo familiare: in caso di deriva generazionale a valle si assiste a una frantumazione del gruppo; la deriva generazionale a monte implica invece un mantenimento del controllo familiare sul gruppo, fondato su delicati equilibri. Come rimedio alle problematiche individuate è possibile attuare alcune strategie insite nella holding con l’obiettivo di preservare il controllo della famiglia sull’azienda: la deriva generazionale può essere attenuata o eliminata attraverso un processo di selezione in cui la trasmissione del controllo avviene solo ad alcuni membri della famiglia e gli altri vengono indennizzati con il patrimonio extra-aziendale (che deve essere sufficientemente capiente); si può procedere a scissioni di alcune attività aziendali non rientranti nel core business, anche al fine di ripartirle tra una pluralità di eredi, a patto che la suddivisione del patrimonio aziendale non ne pregiudichi il valore complessivo; si può sviluppare la leva azionaria, che consente di diluire sensibilmente l’esborso necessario per continuare a mantenere il controllo all’interno della famiglia. VANTAGGI: - si mantiene unità nei diritti di voto e sociali; - obbliga i familiari a trovare una composizione dei loro diversi orientamenti nella holding; - consente di accedere a istituti che possono garantire una fiscalità agevolata; - è possibile concedere garanzie unitarie verso il sistema bancario. SVANTAGGI: 28 - la normativa sulla deducibilità degli interessi passivi è penalizzante per la holding; occorre garantire un flusso reddituale per non cadere nella normativa delle società di comodo; in certi casi sono richiesti adempimenti ulteriori. 2.3 La donazione d’azienda Uno degli strumenti più utilizzati per la trasmissione generazionale è senza dubbio la donazione, poiché con essa si attua un trasferimento a titolo gratuito. Il proprietario di un bene destinato ad un figlio può aver bisogno di mantenerne la proprietà; nell’ambito della successione programmata, egli deve garantire a uno dei figli che tale bene gli verrà trasferito alla propria morte, in cambio del suo consenso ad altra operazione. Si tratta di un anticipo dell’eredità che presuppone il passaggio del testimone, con il conseguente vantaggio di poter affiancare per un periodo di training il donatario. La donazione dunque, costituisce lo strumento tipicamente utilizzato dall’imprenditore per il trasferimento in vita dell’azienda ai propri eredi, ma realizzando una sorta di anticipata successione, incontra il limite della tutela degli eredi legittimi del donante non assegnatari dell’azienda. Tale eventualità può realizzarsi quando nell’asse ereditario non vi siano altri beni oltre all’azienda donata sufficientemente capienti per soddisfare le quote di legittima dei coeredi legittimari. Dal 1997 la donazione d’azienda può essere considerata un’operazione fiscalmente neutrale se al momento della stessa, il donatario (il beneficiario) assume l’azienda ai medesimi valori fiscali riconosciuti in capo al donante e se vi è prosecuzione dell’attività da parte di tutti i beneficiari della donazione. Pertanto, se sussistono più donatari,qualora la prosecuzione dell’attività avvenga ad opera di uno soltanto o di alcuni di essi, il regime della neutralità non opera e il donante deve assoggettare a tassazione la differenza tra il valore normale dell’azienda donata e il costo fiscalmente riconosciuto della stessa. Sotto il profilo civilistico, la donazione deve essere fatta per atto pubblico, pena la nullità della stessa. Va tuttavia osservato come per configurare la donazione non basta un’attribuzione senza corrispettivo, infatti serve anche l’intenzione di beneficiare. La tutela dei legittimari è realizzata, in primo luogo, in mancanza di espressa volontà contraria del defunto, mediante l’obbligo della collazione: i legittimari devono conferire nella massa attiva del patrimonio ereditario quanto ricevuto dal defunto a titolo di donazione al fine di mantenere tra i coeredi la proporzione stabilita nel testamento o per legge. La dispensa da collazione non produce effetti se non nei limiti della quota disponibile. In ogni caso, anche quando il donante abbia esonerato il beneficiario dalla collazione, gli atti dispositivi a titolo gratuito sono soggetti a riduzione quando violano i diritti dei legittimari (coniuge e discendenti). Infatti i beni pervenuti al donatario sono assoggettabili, in seguito alla morte del donante e all'apertura della sua successione, all'azione di riduzione esperibile dai legittimari che vedano lesa la loro quota di legittima: ne consegue per il donatario (e per gli eventuali terzi da questi aventi causa) l'obbligo di restituire quanto ricevuto a titolo di donazione. L'effetto reale dell'azione si spiega non solo nei confronti del donatario ma anche di coloro cui il bene donato è stato successivamente trasferito, rendendo in tal modo instabili gli effetti della donazione stessa. Inoltre, che sia ai fini della collazione sia ai fini della riduzione il valore dei beni donati in vita è quello che essi hanno all'apertura della successione, sicché donazioni a diversi legittimari che all'epoca dell'atto risultavano di pari valore possono invece essere contestate in relazione al diseguale valore dei beni stessi all'apertura della successione. VANTAGGI: 29 - i beneficiari non devono procurarsi risorse finanziarie dato che non vi è un corrispettivo da pagare; - se il figlio assume l’azienda agli stessi valori fiscali che aveva in capo al padre non vi è alcuna plusvalenza tassata (neutralità fiscale); - si effettua una distribuzione controllata dell’azienda in favore dell’erede prescelto. SVANTAGGI: - nelle donazioni gli eredi esclusi possono dichiarare la violazione dei diritti ereditari; - il figlio donatario, per sottrarsi a rischi fiscali pregressi deve ottenere l’apposito certificato che garantisce che non vi sono contestazioni in corso, posto che la disposizione prevede che è responsabile l’acquirente. 2.4 Lo strumento testamentario Attraverso lo strumento testamentario l’imprenditore dispone delle sue sostanze per il momento in cui avrà cessato di vivere. Esso è un atto strettamente personale e non può in alcun caso compiersi a mezzo di rappresentante, appartiene alla categoria del negozio giuridico nella quale si caratterizza per essere un atto unilaterale a causa di morte. Caratteristiche del testamento sono: revocabilità: è sempre possibile per il testatore eliminare o modificare l'atto; unilateralità: esso produce i suoi effetti a prescindere dall'accettazione del chiamato all'eredità; tipicità: non esistono altri atti con i quali è possibile disporre delle proprie sostanze per il tempo in cui si sarà cessato di vivere; personalità: da cui consegue la nullità di ogni atto col quale si attribuisce all'arbitrio di un terzo la scelta dell'erede o del legatario o la determinazione delle quote ad essi spettanti. Il terzo al più potrà essere chiamato a scegliere il legatario tra più individui o enti indicati espressamente dal testatore; formalismo: la legge prevede espressamente i modi in cui il testatore può redigere il testamento. È in ogni caso sempre necessario redigere il testamento in forma scritta. L’imprenditore potrà quindi lasciare in eredità l’impresa al successore che egli ritenga più preparato per la sua conduzione, questa soluzione presenta un grosso inconveniente: il successore prescelto alla conduzione dell’impresa si troverà a capo della stessa solo nel momento in cui il testamento diverrà efficace (ossia quando l’imprenditore senior avrà cessato di vivere), con tutte le conseguenze che ciò comporterà nel caso in cui il soggetto non possegga ottime doti manageriali e imprenditoriali. Inoltre vi sarà un problema di ordine successorio in quanto bisognerà verificare la complessiva capienza dell’asse ereditario per evitare di incorrere nella lesione delle quote degli eventuali eredi legittimari (per esempio, nel caso in cui, oltre al figlio chiamato a succedere nell’impresa, vi siano altri figli o il coniuge). Sarà utile perciò un’attenta valutazione del patrimonio imprenditoriale e delle problematiche fiscali per gestire al meglio tale operazione. Se il donatario assume l'azienda agli stessi valori fiscali che essa aveva in capo al de cuius non si ha alcuna plusvalenza tassata a carico dell'eredità. Se l'azienda perviene invece a tutti gli eredi poiché il genitore non si è preoccupato di disciplinare in via testamentaria l'asset ereditario, senza una ripartizione in base alle capacità e attitudini dei figli e di tutti gli eredi, le conflittualità tra i diversi soggetti non potranno che comportare gravi ripercussioni sull'attività. Gli eredi, subentrando nel possesso dell'azienda si fanno carico in questo modo anche di eventuali irregolarità fiscali già commesse nell'esercizio dell'attività svolta, ma questo senza sanzioni. 30 VANTAGGI: - è il livello minimo della pianificazione del trasferimento d’azienda; - prevede una destinazione ragionata del patrimonio nei limiti della quota liberamente disponibile e del rispetto della parità di trattamento. SVANTAGGI: - è un impostazione culturale datata che persegue finalità generali e equitative, prevale l’aspetto sociale rispetto a quello economico. 2.5 Usufrutto e nuda proprietà Lo strumento si basa sulla distinzione, presente nel nostro ordinamento, per la quale la piena proprietà di un bene può essere suddivisa in due parti distinte, nuda proprietà ed usufrutto, ognuna delle quali può divenire oggetto di distinti accordi contrattuali e concedere determinati diritti al titolare. Chi dispone della nuda proprietà lascia il bene nella disponibilità di chi ha il diritto di usufrutto per un determinato periodo di tempo o tutta la vita, la riunione di usufrutto e nuda proprietà avviene poi automaticamente alla scadenza del diritto (spesso coincidente con il decesso dell’usufruttuario). In quel momento il bene, senza necessità di altri atti, passa nella completa disponibilità di chi aveva acquistato la nuda proprietà. Tale istituto viene ampiamente utilizzato nella gestione del passaggio generazionale, l’attuazione dello strumento avviene quando l’imprenditore titolare della totalità delle azioni dell’impresa di famiglia, trasferisce la nuda proprietà delle azioni agli eredi (figli o altri eredi designati), il trasferimento può avvenire a titolo oneroso o per donazione. Per quanto riguarda il passaggio generazionale, esso è particolarmente indicato nei casi di trasmissione del patrimonio (aziendale o immobiliare), ad un unico erede. Nel caso di una pluralità di eredi bisogna distinguere la tipologia di beni oggetto del contratto, infatti: nel caso di beni immobili l’istituto può svolgere efficacemente il suo compito (attribuisco ad ogni singolo erede la nuda proprietà di un determinato immobile); nel caso di successione d’impresa, dove alla necessità di una efficiente pianificazione successoria si aggiunga la necessità di strumenti di equilibrio tra più eredi designati magari in conflitto tra di loro, esso evidenzia qualche lacuna (ad esempio nel caso di passaggio d’impresa alla terza generazione dove i potenziali eredi siano una pluralità e senza che nessuno abbia una maggioranza assoluta), in questo caso lo strumento dovrà essere necessariamente affiancato da altri istituti (patti parasociali, patti di famiglia, trust, ecc.). Lo strumento viene utilizzato prevalentemente in riferimento a immobili e partecipazioni. Per quanto riguarda gli immobili esso può prevedere la donazione o la vendita della nuda proprietà di uno o più immobili ad uno o più figli, riservando nel contempo la possibilità di usufrutto in favore dei genitori. In tal modo, i genitori sono tutelati circa la possibilità di utilizzo degli immobili di cui hanno trasferito la nuda proprietà, sino alla fine dei loro giorni pur avendo la certezza che gli immobili, alla loro morte, diverranno di proprietà piena del figlio o dei figli ai quali la nuda proprietà è stata trasferita. Per quanto riguarda le partecipazioni di controllo, l’imprenditore mantiene l’usufrutto a suo favore al fine di: avere a disposizione una rendita vitalizia, data dai dividendi che saranno distribuiti dalla società; 31 continuare ad esercitare il diritto di voto ed indirizzo nelle assemblee; gestire in modo graduale il passaggio delle consegne alla nuova generazione, e non essere in vita bruscamente estromesso dall’impresa familiare. Un’altra ipotesi di pianificazione successoria, tramite utilizzo dell’istituto dell’usufrutto è quella in cui oggetto del contratto è l’intera azienda, oppure, anche un ramo aziendale. Il ricorso a tale tipo di contratto ha come obiettivo il trasferimento della gestione operativa dell’azienda contenuta nell’impresa di famiglia agli eredi che hanno dichiarato l’intenzione o si ritiene abbiano la capacità di gestire, escludendo altri eredi che si sono dichiarati non interessati o che si ritengano non capaci di proseguire la gestione. Gli eredi interessati a gestire l’azienda disporranno dei frutti da essa ricavati, in relazione al rischio imprenditoriale, mentre i soci dell’impresa familiare non interessati a gestirla percepiranno una specie di rendita. L’istituto dell’usufrutto e della nuda proprietà sono da tempo presenti nel nostro ordinamento e hanno le seguenti caratteristiche: facilità di utilizzo, è sufficiente un atto notarile e la sua registrazione negli appositi registri; semplicità e tipicità, essendo un contratto tipico è uno strumento alla portata della maggior parte degli utenti; il patrimonio oggetto del contratto può essere anche di modesta entità; l’istituto non richiede, di norma, costi di implementazione significativi; gode di un regime fiscale non punitivo; sotto il profilo strettamente economico, esso non ha particolari costi di implementazione al di fuori di quelli strettamente burocratico amministrativi. Bisogna tener presente alcune possibili controindicazioni nel suo utilizzo, ad esempio: se il genitore usufruttuario ha bisogno urgentemente di denaro in vita, potrà alienare il bene solo con l’assenso dei figli titolari della nuda proprietà; non va sottovalutata la possibilità che venga a mancare prima il figlio del genitore, in questo caso la nuda proprietà passa al genero/nuora o ad un nipote; con tale istituto rimane irrisolta la problematica della governance familiare od aziendale del patrimonio una volta venuto meno il titolare della stessa; lo strumento consente di attribuire la nuda proprietà del patrimonio secondo certi criteri, ma non di incidere sulle modalità di assunzione delle decisioni da parte degli eredi circa la gestione del patrimonio, né su quelle di ricomposizione di eventuali divergenze tra gli eredi designati. Quindi lo strumento, nonostante sia presente da tempo nel nostro ordinamento, in combinazione con altri strumenti giuridici disponibili nel panorama nazionale ed internazionale ha ampliato il suo ambito di applicazione. In particolare lo strumento risulta efficace, affidabile ed economico per la gestione di passaggi generazionali dove il livello di complessità, sia in termini di beni oggetto del contratto che di soggetti coinvolti, non sia elevato, e nel rendere disponibile in via anticipata dei redditi derivanti da proprietà immobiliari, senza rinunciare all’utilizzo (usufrutto), degli stessi da parte dei cedenti. VANTAGGI: - viene ceduta solamente la nuda proprietà ai figli, mentre i genitori mantengono l’usufrutto; - il genitore mantiene il diritto di voto e agli utili controllando le leve di comando e i frutti dell’attività; 32 alla morte del genitore l’usufrutto si unisce alla nuda proprietà e l’erede acquisisce l’intera proprietà senza oneri fiscali. SVANTAGGI: - i figli devono avere disponibilità monetaria per acquistare la nuda proprietà. - 2.6 Conferimento e cessione d’azienda La trasformazione dell’azienda individuale in società rappresenta l’operazione attraverso la quale l’imprenditore pilota il passaggio generazionale, sono due le strade percorribili: conferire l’azienda in una società costituenda oppure cedere l’azienda ad una società costituita. L’operazione di conferimento d’azienda o di un ramo di azienda consiste nell’acquisizione di una partecipazione in cambio dell'azienda conferita. Il conferimento dell’azienda individuale in una società in cui sono presenti o subentrano dei familiari interessati alla gestione aziendale è uno strumento apposito per l’imprenditore che vuole preordinare gradualmente la trasmissione della titolarità dell’azienda, facendo entrare nella proprietà d’azienda a pieno titolo un familiare che già la gestisce insieme al titolare. In questo modo prima si fa coincidere l’assetto giuridico con la struttura di fatto di conduzione dell’azienda e successivamente si provvede alla cessione delle azioni o quote, scontando un’imposizione successoria più favorevole. Infatti se sussistono le seguenti condizioni: oggetto del conferimento è un’azienda; conferente e conferitaria sono imprese commerciali; conferente e conferitaria sono residenti in Italia; La determinazione della plusvalenza da conferimento avviene sulla base del confronto tra l’ultimo costo fiscalmente riconosciuto dei beni oggetto del conferimento ed un valore pari al valore attribuito nella contabilità dell’impresa conferente alle partecipazioni della società conferitaria ricevute in cambio. La regola di determinazione della plusvalenza consente di effettuare conferimenti d’azienda fiscalmente neutri, essendo sufficiente che l’operazione avvenga nel rispetto della continuità dei valori tra la conferente e la conferitaria. Mentre le imposte catastali e di registro si applicano in misura fissa. I soggetti del conferimento sono: il conferente, colui che apporta l’azienda ricevendone partecipazioni; può trattarsi di: imprenditore individuale, società, ente, titolare di diritto di proprietà o altro diritto reale; il conferitario, colui che riceve l’azienda, aumentando di conseguenza il proprio capitale; può trattarsi di: società, ente. L’oggetto del conferimento è l’azienda, intesa come il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa, o un ramo di essa, inteso come uno specifico settore dell’intero complesso aziendale. Le motivazioni che portano al conferimento possono mirare a diverse finalità: il riassetto organizzativo-produttivo, più problematico nelle imprese di grandi dimensioni; la ristrutturazione finanziaria, per diversificare le diverse aree d’affari all’interno dell’impresa; la liquidazione di parte del patrimonio dell’impresa, ad esempio in caso di presenza di settori in perdita; 33 la concentrazione di imprese, nel caso in cui in un particolare settore economico la grande dimensione rappresenti un vantaggio economico, ad esempio per far fronte alla concorrenza; come strumento per il passaggio generazionale. L’atto di conferimento richiede sempre la forma scritta, e in particolare: società di capitali: atto pubblico redatto da un notaio; società di persone: scrittura privata autenticata. In ogni caso devono essere osservate le forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda, la data di effetto del conferimento è quella di stipula dell’atto di conferimento, senza possibilità di retro/postdatare gli effetti dell’operazione. L’aspetto positivo è che il genitore ha la possibilità di monitorare l'attività del figlio sino al momento in cui decide definitivamente di passare l’azienda, inoltre il genitore può non comprendere nell'azienda conferita uno o più immobili per garantirsi una sostanziale liquidazione per l'opera svolta sin a quel momento. Può poi concedere in locazione l'immobile fruendo di una rendita. Ma bisogna anche tener conto del fatto che il figlio per poter partecipare deve possedere risorse finanziarie per sottoscrivere il capitale sociale di propria pertinenza. VANTAGGI: - il conferente senza realizzare plusvalenze e pagare imposte può trasferire tutto o una parte di patrimonio agli eredi; - il conferente può mantenere dei beni che gli assicurino una rendita vitalizia. SVANTAGGI: - da valutare la definitività del trasferimenti rispetto ai diritti dei legittimati se non avviene a valori correnti. Con il contratto di cessione d’azienda il cedente trasferisce il complesso aziendale ad un acquirente, il cessionario, dietro corrispettivo. L’azienda viene ceduta unitariamente, con debiti e crediti e con subentro nei rapporti contrattuali in essere. La cessione d’azienda a titolo oneroso permette la trasmissione dell’impresa individuale ai figli. Formalmente la cessione dell’azienda richiede l’autenticazione delle firme, il contratto è quindi effettuato necessariamente in forma scritta e si dovrà indicare che: il cedente deve dichiararsi titolare del complesso dei beni organizzati in azienda, specificando anche il tipo di attività che svolge l’azienda; il cedente deve dichiarare di voler cessare l’attività e di avere interesse a reperire chi è disponibile ad acquistare tale azienda; il cessionario deve, a sua volta, dichiararsi disponibile ad acquistare la predetta azienda. La cessione comprende tutti i beni mobili che arredano e corredano l’azienda, è altresì compresa la ditta costituita dalla sigla e l’insegna aziendale. L’aspetto positivo è che il figlio, dopo aver ottenuto dall'Ufficio delle Entrate l'apposito certificato che garantisce che non vi sono contestazioni in corso, non si accolla i rischi fiscali pregressi. Il genitore può non comprendere nell'azienda ceduta uno o più immobili, conservando la proprietà dei medesimi e garantendosi così una liquidazione per l'opera svolta. Può inoltre concedere in locazione l'immobile all'impresa del figlio, ottenendo in questo modo una rendita. L’aspetto negativo è che la compravendita comporta il pagamento di un corrispettivo che, per quanto possa essere dilazionato, comporta al figlio la necessità di procurarsi le necessarie risorse finanziarie. Infine è anche possibile attuare una progressiva cessione di partecipazioni sociali in capo al successore che consiste nell’organizzare in vita l’assetto proprietario dell’azienda attraverso un’equa distribuzione delle quote della società in capo ai familiari discendenti. 34 Tale soluzione risulta particolarmente apprezzabile quando vi sia la compresenza di più figli e si voglia conferire a tutti la possibilità di partecipare, pro quota, ai proventi dell’impresa, ed eventualmente concedere ad uno solo di essi, attraverso la previsione di cessione di una percentuale maggiore di quote, la guida futura dell’azienda, affiancandolo a sé nella conduzione dell’impresa fino al momento del passaggio delle consegne (e del relativo pacchetto di maggioranza, che potrà avvenire per esempio per testamento). VANTAGGI: - si effettua una distribuzione controllata dell’azienda nei confronti dell’erede prescelto; - se il valore pagato è congruo rispetto ai valori correnti gli altri eredi non possono eccepire violazioni dei diritti testamentari. SVANTAGGI: - l’erede deve avere disponibilità finanziaria per pagare il corrispettivo, anche in modo dilazionato; - l’atto di cessione è soggetto ad accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate; - la stessa operazione fatta attraverso cessione o donazione a certe condizioni potrebbe essere più conveniente. Dopo aver analizzato i principali strumenti a disposizione per gli imprenditori italiani, il capitolo successivo analizzerà lo strumento del trust dimostrando, come sostiene la tesi, la sua innovatività e la sua predisposizione ad affrontare il passaggio generazionale con il minor rischio possibile rispetto agli strumenti tradizionali. 35 CAPITOLO 3: IL TRUST 3.1 Cenni storici sulle origini del Trust Il trust trovò le sue radici nel diritto inglese in epoca medioevale, il vocabolo inglese trust significa fiducia, fede e la sua origine storica si collega a due condizioni caratteristiche del sistema giuridico di Common Law3: l’esistenza di una giurisdizione di equità e la differente concezione del diritto di proprietà caratteristica del sistema anglosassone e difforme da quella romanistica. Nel 1300 infatti si venne a sviluppare nel mondo anglosassone un sistema di giurisdizione complementare e parallelo a quello della Common Law, denominato equity4, consistente nell’amministrazione del diritto attraverso la giurisdizione personale di un funzionario reale, il Cancelliere del Re, detentore della coscienza del Re, con la sua giurisdizione di equity, rimediava alle lacune della Common Law: quando sulla base del diritto non era possibile dirimere adeguatamente una questione, il Cancelliere inoltrava una petizione al Re e se il comportamento del convenuto era contrario alla coscienza reale, il Cancelliere poteva intervenire in nome del sovrano per evitare tale comportamento scorretto. Nel corso degli anni si erano così gettate le basi per la nascita della giurisdizione di equity della Corte del Cancelliere, quale sistema di giustizia rivolto alla tutela dei cosiddetti “equitable interests” e come tale, complementare rispetto alla giurisdizione di common law. Proprio la nascita della giurisdizione equity fu propedeutica alla creazione del trust. Tale istituto nacque per diversi motivi, tra i quali: superare i limiti che il sistema giuridico feudale inglese poneva al feudatario di trasferire mortis causa la proprietà del feudo; eludere il divieto posto agli ordini religiosi di acquistare e disporre liberamente beni immobili; rispondere alle esigenze di tutela di una pluralità di soggetti tra cui i crociati (gli affidanti). Essi affidavano durante la loro assenza la gestione dei propri beni ad una persona di fiducia (l’affidatario) con l’obbligo di detenerli, amministrarli, restituirli in caso di ritorno o trasferirli ai loro eredi in caso di morte; a fronte dell’inadempimento dell’obbligo di restituzione avevano la possibilità di rivolgersi al Cancelliere che, in forza del potere di grazia delegato dal re, poteva assicurare loro una tutela equitativa, considerando l’affidatario alla stregua di un trustee. Non solo i Cancellieri si espressero ripetutamente a favore dei proprietari originari, ma riconobbero ad essi anche il diritto a riavere i beni originariamente trasferiti. Poiché i decreti emanati dalla Cancelleria avevano forza esecutiva, quello che inizialmente era un semplice obbligo morale divenne col passare del tempo un vero e proprio obbligo giuridico, tipicizzato in quello che fu chiamato l’istituto del “trust”. Con il trust si poteva 3 Il common law è il sistema giuridico dei paesi anglosassoni. La formazione del diritto ha origine prevalentemente dalle decisioni del giudice e dalle sentenze del sistema giudiziario anziché da norme giuridiche generali e da codici. Nell'emettere una sentenza il giudice è vincolato dalle sentenze emesse su casi analoghi. Ha origine nei paesi in cui mancano codificazioni generali del diritto, non è recepita la tradizione del diritto romano e prevale una formazione pratica del giurista rispetto a quella accademica. Il sistema common law si contrappone al sistema civil law che, al contrario, fonda l'origine del diritto esclusivamente nelle fonti legislative. 4 L'Equity è il nome attribuito ad un insieme di principi di diritto seguiti nei Paesi dotati di un sistema di common law, che intervengono ogniqualvolta l'applicazione dello stretto diritto risulti iniqua, operando come criterio di giustizia che tiene conto delle particolarità del caso di specie e delle correlate circostanze umane, al fine di realizzare la cosiddetta "giustizia del caso concreto". È spesso contrapposta alla "legge" scritta. 36 trasferire la proprietà del bene immobile a favore di un terzo il quale era obbligato a trasferire le rendite (se si trattava della proprietà di un fondo) al primo proprietario o, alla morte di questi al soggetto da egli indicato. Questa funzione sussidiaria, svolta nella sfera della giurisdizione di equity, si è sviluppata per tutelare l’affidamento, per offrire protezione di giustizia sostanziale ed impedire all’affidatario di avvantaggiarsi del tradimento della fiducia in esso riposta, obbligandolo a tener fede all’obbligo assunto. La tutela garantita agli interessi sottesi al trust dal giudizio di equità fu possibile in funzione della particolare struttura riconosciuta al diritto di proprietà negli ordinamenti di stampo anglosassone, nei quali esso si presenta con caratteristiche notevolmente differenti da quelle appartenenti agli ordinamenti civil law come quello italiano. Secondo il diritto inglese sia il trustee che il beneficiario (ovvero il destinatario dei beni in trust e dei redditi da essi prodotti) sono proprietari dei beni costituiti in trust, ma in modi tra loro differenti e soprattutto, nessuno dei due riconducibile al diritto di proprietà noto ai sistemi giuridici a base romanistica: il trustee è titolare del cosiddetto legal estate, ha la proprietà formale secondo il diritto comune ed è tenuto all’amministrazione ed alla custodia dei beni a vantaggio del beneficiario, il quale è titolare dell’equitable estate, cioè della proprietà sostanziale, secondo le regole dell’equity. Dunque nel trust si ha uno sdoppiamento del diritto di proprietà tra un soggetto (il trustee) che è proprietario dei beni al solo fine della gestione, ed un altro soggetto (il beneficiario) che ne è proprietario al fine del godimento; ciò in conseguenza della particolare concezione del diritto di proprietà proprio degli ordinamenti di common law e dell’evoluzione della giurisdizione della Cancelleria Reale che, nell’elaborare le regole dell’equity, permise la frammentazione illimitata della proprietà secondo la libera volontà del disponente del trust. 3.2 I caratteri generali Una definizione generale di trust può essere: “A trust is an equitable obligation, binding a person (who is called a trustee) to deal with property over which he has control (which is called the trust property), for the benefit of persons (who are called the beneficiaries), of whom he may himself be one, and any one of whom may enforce the obligation”. Ovvero il trust implica che un soggetto A (settlor o disponente) trasferisca con atto fra vivi ad un soggetto B (trustee) la proprietà di uno o più beni, conferendogli l’incarico di utilizzare i medesimi (che costituiscono il patrimonio del trust) a vantaggio di un ulteriore soggetto C (beneficiario, che può essere anche più di uno) ovvero per il perseguimento di un certo scopo. La fattispecie costitutiva del trust si compone di due negozi funzionalmente collegati: il negozio (unilaterale) istitutivo, che contiene le regole cui il trustee dovrà attenersi nell’amministrazione del trust fund; il negozio dispositivo, che attua il trasferimento dei beni dal disponente al trustee, cioè la dotazione del trust. In attuazione del negozio istitutivo del trust non viene ad esistenza alcun nuovo soggetto di diritto, ma quanto trasferito al trustee (che è il nuovo proprietario dei beni) diviene oggetto di un patrimonio separato, ovvero segregato, dal suo patrimonio personale e conseguentemente inattaccabile dai creditori personali sia del disponente, sia del trustee, sia del o dei beneficiari. Questo patrimonio infatti è destinato unicamente al soddisfacimento delle obbligazioni contratta dal trustee nell’amministrazione di esso. L’effetto traslativo produce un’ulteriore conseguenza: l’attribuzione al beneficiario di una posizione giuridica qualificata come equitable estate ed è opponibile, sia pure entro certi limiti, ai terzi. Quindi all’esito dell’istituzione del trust il trustee è proprietario dei 37 beni trasferitigli dal disponente ma il suo diritto non è pieno, infatti egli potrà utilizzare i beni del trust fund solamente nel rispetto delle prescrizioni contenute nell’atto istitutivo del trust, onde attuarne le finalità. Il disponente, essendosi privato dei beni, ne perde non solo la titolarità definitivamente ma anche il controllo, avendo demandato al trustee l’attuazione delle finalità consacrate nell’atto istitutivo. L'effetto più importante che il trust produce è rappresentato dalla cosiddetta segregazione patrimoniale, i beni posti in trust costituiscono un patrimonio separato rispetto ai beni residui che compongono il patrimonio del disponente, del trustee e dei beneficiari. La conseguenza più importante è che qualunque vicenda personale e patrimoniale che colpisca queste figure non travolge mai i beni in trust. La segregazione fa sì che i beni in trust non possano essere aggrediti dai creditori personali del trustee, del disponente e dei beneficiari e il loro eventuale fallimento non vedrà mai ricompresa nella massa attiva fallimentare i beni in trust. I beni in trust risultano quindi efficacemente sottoposti ad un vincolo di destinazione (essi sono destinati al raggiungimento dello scopo prefissato dal disponente nell'atto istitutivo) e ad un ulteriore vincolo di separazione (cioè giuridicamente separati sia dal patrimonio residuo del disponente sia da quello del trustee). I beni in trust sono quindi, secondo una terminologia anglosassone, earmarking cioè marchiati affinché non si confondano con quelli delle altre parti citate. Da ultimo il trust, proprio per gli effetti immediati che esso produce, non può esistere senza proprietà e i beni futuri non possono esserne oggetto. Figura 4: la struttura del trust Fonte: Sforza, Il trust, 1997 3.3 I soggetti Secondo la configurazione classica il trust è composto da tre soggetti: 1. il disponente o settlor, il quale trasferisce un bene al trustee; 2. il trustee, il quale acquista la proprietà legale del bene a vantaggio del beneficiario; 3. il beneficiario, il quale acquista la proprietà equitativa del bene stesso. Tuttavia un soggetto può istituire un trust del quale sia egli stesso tanto il trustee quanto uno dei beneficiari. Di seguito si presenta uno schema utile ad inquadrare la struttura organizzativa del trust. 38 3.3.1 Il disponente Il disponente è colui che dà vita al trust. Più precisamente, viene considerato disponente ogni soggetto che: istituisce il trust mediante un atto volontario e unilaterale; fissa nell’atto istitutivo le norme di funzionamento del trust; dispone in trust beni o diritti di sua proprietà, trasferendoli al trustee. Il disponente può essere persona fisica o giuridica. Per poter istituire un trust una persona deve essere capace di agire e quindi essere maggiorenne, non essere interdetta o inabilitata. Ciascun trust può avere più di un disponente, ciò si verifica quando una pluralità di soggetti ha provveduto ad istituirlo, conferendo a tal fine una parte dei rispettivi patrimoni. Con il conferimento il disponente perde completamente e definitivamente la proprietà dei beni, questo significa che egli non è più il proprietario, né direttamente, né indirettamente del patrimonio conferito. Inoltre egli non gode nemmeno di alcun diritto giuridicamente valido di rientrare in possesso dei beni. Ne consegue che gli stessi non sono più rivendicabili neppure dai suoi creditori o dal fisco, fatta salva la possibilità di ricorrere all’azione revocatoria qualora ne sussistano i presupposti. Esso è comunque in grado di esprimere nell’atto istitutivo le linee che dovranno essere seguite dal trustee, sia nella gestione dei beni sia nei confronti dei beneficiari, ogni atto istitutivo contiene disposizioni di questo tipo espresse dal disponente alle quali il trustee deve obbligatoriamente attenersi. É inoltre possibile prevedere degli specifici accorgimenti giuridici che consentano al disponente di esercitare un controllo successivo al conferimento, anche se indiretto, sull’operato del gestore: ricorrendo alle letter of wishes (lettere d’intento), inviate dal disponente al trustee, contenenti una serie di consigli sulle regole di condotta da seguire nella gestione; esse contengono consigli e nulla più, non sono cioè vincolanti e possono essere disattese. nominando uno o più protector, previsti all’atto della costituzione da parte del disponente, a cui demandare il potere sia di controllare l’operato del trustee che di influenzarne le scelte di gestione. Inoltre lo stesso disponente può ricoprire il ruolo di protector. 3.3.2 Il trustee Il trustee rappresenta la figura cardine dell’istituto, egli è il soggetto che acquisisce il diritto di proprietà sui beni conferiti in trust. Tuttavia l’esercizio di tale diritto è sottoposto a una serie di limitazioni a favore dei beneficiari. In qualità di gestore del patrimonio conferito, il trustee è tenuto ad amministrare e disporre dei beni in trust secondo le istruzioni impartite nell’atto istitutivo. Inoltre i beni oggetto del trust costituiscono una massa distinta dal patrimonio personale del trustee, essi pertanto non rientrano nel suo attivo ereditario, né possono essere reclamati dai suoi creditori personali. Il ruolo del trustee incorpora un’ampia gamma di doveri, quelli principali sono: rispettare le disposizioni dell’atto istitutivo e della legge regolatrice del trust; agire con prudenza e diligenza nella gestione dei beni; assicurare che la titolarità dei beni in trust faccia capo a sé medesimo o, qualora si serva di un’altra persona, mantenere comunque il pieno controllo; assumere personalmente nei confronti dei terzi le obbligazioni riguardanti il trust; 39 mantenere separati i beni oggetto del trust dal suo patrimonio personale, nel caso in cui sia trustee di più trust dovrà mantenere ciascun patrimonio separato dagli altri; astenersi dal compiere atti che perseguano l’interesse proprio (o di altri soggetti) anziché quello dei beneficiari; agire nell’interesse di tutti i beneficiari, secondo criteri di imparzialità; tenere i conti dell’attività svolta e rendere conto sull’andamento della gestione. Al di fuori dei vincoli elencati, il trustee gode di tutte le facoltà che la legge riconosce al normale proprietario. L’esercizio di tali facoltà è rimesso alla sua personale discrezione, senza obbligo di consultare i beneficiari o il disponente né di rispettarne le ulteriori indicazioni, quello della libertà di gestione è da considerarsi un requisito essenziale del trust. Un elenco dei poteri tipicamente attribuibili al trustee è il seguente: acquisire, ritenere e disporre dei beni; gestire il fondo in tutta una gamma di investimenti di qualsiasi genere, in qualsiasi parte del mondo; disporre di conti bancari e trasferire i relativi fondi; disporre di proprietà fondiarie e non fondiarie; permettere l’uso o l’occupazione di beni; contrarre prestiti, dare garanzie per i debiti dei beneficiari; assicurare i beni; assegnare beni ad un beneficiario; delegare; costituire società e sottoscrivere azioni; liquidare società o variare diritti azionari; erogare compensi ai trustees o ai protectors; assicurare tutela ai diritti dei beneficiari minori di età; pagare le tasse, imposte e tributi; nominare nuovi trustees; rinunciare ad alcuni o a tutti i poteri discrezionali conferiti. Ovviamente i trustee sono soggetti che godono della fiducia del disponente, le modalità per la loro designazione e sostituzione sono ampiamente discrezionali e fissate dall’atto istitutivo; essi possono essere anche persone giuridiche, questa è di norma la soluzione preferita per evitare gli inconvenienti che potrebbero insorgere al decesso del trustee persona fisica. Risulta primario nella figura del trustee la professionalità dato che comporta in linea di principio la capacità di assumere decisioni consapevoli, in Italia non è richiesta alcuna qualifica professionale per lo svolgimento dell’attività di trustee, ma è ovvio che lo svolgimento consapevole di tale attività comporti una dose di conoscenza e di esperienza che non può essere patrimonio dell’uomo della strada. Spesso il ruolo di trustee è ricoperto da una persona giuridica che svolge professionalmente tale attività, si tratta delle cosiddette Trust Companies, società che nei Paesi anglosassoni hanno raggiunto una consolidata tradizione ed un’elevata affidabilità nella gestione di patrimoni conferiti in trust. Altrettanto di frequente il ruolo di trustee è affidato ad una banca. Nella maggior parte dei casi la legge non riconosce al trustee alcun diritto a ricevere un compenso, di norma tuttavia l’atto istitutivo prevede espressamente una remunerazione per l’attività svolta, specie qualora vi sia il ricorso a trustees professionali. 40 3.3.3 I beneficiari Il beneficiario è il soggetto che, in sede di costituzione del trust o con decisione intervenuta successivamente, è stato designato destinatario dei beni e dei redditi da essi prodotti. Chiunque può essere beneficiario di un trust: persone fisiche (capaci o incapaci legalmente), persone giuridiche ed enti di svariata natura. L’individuazione dei soggetti viene fatta nell’atto istitutivo mediante un elenco nominativo o definendo il gruppo o la categoria che permette di identificarli, ad esempio possono essere nominati beneficiari i discendenti del disponente, i soci di un’associazione, gli amministratori o i dipendenti di una società. Il beneficiario non è proprietario dei beni, spesso neppure sa di essere beneficiario fino alla morte del disponente, bensì del diritto a ricevere i benefici economici (ossia i redditi prodotti nonché, al termine del trust, i beni stessi). La legge consente di rinunciare a tale diritto perdendo così il ruolo di beneficiario. Nei limiti concessi dal Deed of Trust5 il titolare può anche disporre del diritto cedendolo a terzi, facendone l’oggetto di donazione, di divisione, ecc. La legge tutela inoltre il beneficiario, riconoscendogli specifiche azioni esperibili nel caso in cui il trustee non adempia agli obblighi assunti o nel caso in cui trasferisca i beni a un terzo in violazione del trust. Anche se di norma i beni restano di proprietà del trustee fino al termine del trust, l’atto istitutivo può prevedere la possibilità che parte di essi sia trasferita al beneficiario prima di tale scadenza. Nel Deed of Trust sono stabiliti anche i criteri per la ripartizione e la distribuzione dei benefici economici da erogare agli interessati. L’atto può tuttavia rimettere al trustee o al protector la scelta delle modalità con cui procedere alle erogazioni. Quando ciò si verifica il trust viene solitamente definito discrezionale. Nei trust discrezionali i trustees/protectors possono anche decidere di distribuire solo una parte del reddito maturato capitalizzando il rimanente, oppure di non distribuire nulla. In ogni legislazione che disciplina il trust sono presenti norme specifiche atte a garantire ai beneficiari strumenti giuridici di tutela dei loro diritti, questi strumenti sono utilizzabili prevalentemente nei confronti dei trustees nei casi in cui non abbiano adempiuto correttamente agli impegni assunti o abbiano abusato del loro ruolo per ottenere vantaggi personali. La fattispecie considerata rientra in quello che convenzionalmente viene definito breach of trust (letteralmente abuso, violazione di fiducia). In questi casi la soluzione più immediata resta comunque quella di procedere alla sostituzione dei trustees, purché ciò sia stato previsto nell’atto istitutivo. Se il comportamento scorretto dei trustees dovesse aver causato dei danni economici, gli stessi potranno essere citati in giudizio utilizzando le azioni previste dalla legge per ottenere il risarcimento del danno o per rendere inefficaci gli atti compiuti in breach of trust. Tuttavia nella pratica l’insorgere di controversie di questo tipo è un evento raro dato che l’essenza stessa del trust si fonda sul concetto di fiducia, sentimento che deve necessariamente legare i soggetti interessati. 3.3.4 Il protector Il protector è quel soggetto al quale il disponente, nell’atto istitutivo, può attribuire una serie di poteri e di prerogative nei confronti dei trustees e del loro operato. Il protector è di solito una persona strettamente legata al disponente da legami di amicizia e di stima, al 5 E’ un documento comprovante la costituzione del trust che, oltre le regole di funzionamento, contiene le indicazioni del disponente sulla destinazione dei beni segregati, sui poteri spettanti al trustee e al protector, sulla durata del trust e sulla nomina o esclusione di beneficiari. Si tratta di un negozio giuridico a forma libera: nella maggior parte delle legislazioni esso può essere redatto sia verbalmente che in forma scritta. 41 quale egli affida il compito di controllare e indirizzare l’operato dei trustees, accertando che essi ottemperino effettivamente alle indicazioni contenute nell’atto istitutivo. Il ricorso al protector è ormai diventata una prassi diffusa in tutti i paesi, essa trova il proprio fondamento giuridico nella facoltà, riconosciuta al disponente, di ritenere per sé, ma anche di attribuire a terzi, alcune prerogative sottraendole ai trustees. Nei confronti di quest’ultimi il protector può avere poteri molto ampi, infatti egli può non solo limitarsi a funzioni di controllo o di consultazione preventiva, ma anche promuovere e indirizzare le loro decisioni operative ed opporre il proprio veto nelle scelte più importanti. Di norma al protector vengono conferite le seguenti attribuzioni: vigilanza sulla gestione; potere di veto alle scelte di gestione; nomina e revoca di trustees; modifiche alla lista dei beneficiari; sostituzione della legge regolatrice del trust; quantificazione dei benefici economici da distribuire ai beneficiari; nomina di altri protector. Analogamente a quanto accade per il trustee, le obbligazioni del protector vedono come soggetto attivo il beneficiario, e non il disponente. Ovviamente il protector non potrà mai trasformarsi in un gestore, poiché in tal caso sarà anch’egli considerato un trustee, con le relative implicazioni sul piano della responsabilità. 3.4 Le fonti giuridiche del trust Per comprendere meglio la fattispecie del trust è utile compiere una distinzione, secondo il diritto inglese, tra trusts espressamente istituiti e trusts non espressamente istituiti. I primi, la fattispecie più frequente, hanno come fonte una dichiarazione espressa di volontà (denominata atto istitutivo o costitutivo del trust), emessa dal disponente con atto inter vivos o mortis causa (ossia mediante testamento), la quale contiene la regolamentazione del trust stesso ed ha natura di negozio unilaterale; i secondi sono la conseguenza della valutazione legale di un atto o fatto volontario non espressamente o sufficientemente indirizzato alla istituzione di un trust. L’atto istitutivo di trust è stato definito da Buttà nei Quaderni della Rivista “Trusts e attività fiduciarie” (2002) come un atto la cui causa consiste nell’intento programmatico di segregare posizioni giuridiche per raggiungere uno scopo meritevole di tutela e tale effetto è soddisfatto mediante il trasferimento al trustee delle posizioni stesse. Il negozio istitutivo può essere recettizio oppure no, a seconda che il trustee e il disponente siano persone diverse o meno. Si avrà un negozio non recettizio nell’ipotesi in cui il disponente si autodichiari trustee, mentre si tratterà di negozio recettizio qualora trustee e disponente siano persone distinte. Quindi l’atto istitutivo è un atto unilaterale, perché il disponente costituisce un trust, dettando un programma che deve essere realizzato dal trustee e quest’ultimo può solo accettare o rifiutare l’incarico, ma non può incidere con la propria volontà sul contenuto del negozio. La dichiarazione del trustee diretta ad accettare o no l’incarico offertogli, contestuale o meno alla creazione del trust, è sempre a forma libera. Di solito il trustee che intendesse non accettare l’incarico avrà l’accortezza di esprimere tale volontà attraverso un atto formale e ciò proprio per evitare che possa ritenersi che abbia accettato per fatti concludenti. Una volta che il trust sia validamente sorto, e che il trustee abbia accettato l’incarico, si assiste alla degradazione dell’interesse del disponente, il quale perde titolo all’attivazione dei rimedi contro l’infedele amministrazione del trustee, essendo questa valutabile soltanto nell’interesse del beneficiario del trust. Una delle caratteristiche del 42 trust, infatti, è l’assunzione da parte del trustee di obbligazioni che sono strumentali alla realizzazione degli interessi individuati nell’atto istitutivo, nei confronti di soggetti che non sono parte di tale atto, ai quali spetta in via esclusiva la legittimazione a pretenderne l’osservanza. Ne deriva che l’unico soggetto la cui presenza è essenziale è il trustee, dal momento che, da un lato, possono mancare i beneficiari (come accade nei trust di scopo) e, dall’altro, può mancare la figura del disponente nei casi in cui questo costituisca un trust nominando se stesso come trustee, detenendo così i beni non più nell’originale veste giuridica ma nell’interesse di terzi beneficiari o per altri scopi. 3.5 L’atto istitutivo di trust L’atto istitutivo di un trust solitamente si compone delle seguenti parti: comparizione della parti, premessa, trustee, beneficiari, guardiano, reddito del trust, disposizioni generali. Il protocollo deve contenere il luogo e la data di redazione dell’atto e le generalità del disponente, cioè colui che istituisce il trust disponendo di un proprio diritto che trasferisce al trustee. Prima delle disposizioni generali e operative vengono inserite una serie di premesse con il compito di delineare lo scopo del trust istituito, in particolare è possibile evidenziare: il trasferimento dei beni al trustee con l’indicazione della trust company alla quale sono trasferiti i beni e il carattere revocabile o irrevocabile del trust e la denominazione; le premesse concludono con il richiamo alla Convenzione dell’Aja del1° Luglio 1985 sui trust ed il loro riconoscimento. Sempre nella premessa vengono inserite le definizioni con lo scopo di identificare lo status di un individuo e per evitare di ripetere l’intero nome di una persona o società, la definizione più importante riguarda i beneficiari dato che vengono individuati i soggetti che hanno il diritto di godere dei frutti del fondo del trust. Una clausola importante è la durata del trust ovvero il periodo compreso tra il termine iniziale, generalmente l’accettazione della nomina del trustee, e il termine finale. Nella sezione dedicata al trustee è buona regola specificare: i poteri, che possono estendersi oltre alla stretta gestione ed incidere sulla gestione del trust (ad esempio nominare nuovi beneficiari o variare la durata del trust); il tipo di investimenti che è autorizzato ad effettuare in modo da conseguire il maggior profitto possibile; le deleghe che legittimino il trustee a delegare i poteri gestionali; l’inventario dei beni in trust e la verifica contabile che annualmente il trustee deve redigere; il compenso, accordato tra le parti; le dimissioni o la revoca del trustee. Nella sezione dedicata ai beneficiari si espongono le obbligazione del trustee circa la distribuzione del reddito, la periodicità delle erogazioni e la distinzione tra i beneficiari del reddito e i beneficiari finali del trust. Per quanto riguarda il guardiano, non sempre utilizzata, nell’atto istitutivo vengono elencati i suoi poteri e doveri, la possibilità di nominare un successore, la sua revoca e il compenso. 43 Per reddito del trust si intende ogni frutto, dividendo o interesse percepito a nome del trust; esso, assolto ogni costo inerente l’amministrazione dei beni in trust, è mantenuto nel patrimonio e successivamente potrà essere corrisposto ai beneficiari del reddito. Nelle disposizioni generali viene indicato: la legge regolatrice, la sede dell’amministrazione, la forma degli atti, la Giurisdizione in caso di controversie e la procedura obbligatoria in caso di conciliazione. 3.6 I modelli specifici di trust e classificazione La manifestazione originaria di questo schema negoziale è quella affermatasi nell’ordinamento inglese, quindi la versione inglese può essere considerata come la prima tipologia legislativa di trust. Essa trova la sua massima espressione nel Trustee Act 1925, che può essere considerata la Legge più importante del diritto anglosassone in tema di trust in quanto riproduce in formule normative cristallizzate gli strumenti di tutela sviluppate nel corso dei decenni in cui ha trovato applicazione la giustizia equitativa. La principale caratteristica del modello inglese è quella di aver riconosciuto la contemporanea presenza di due distinte posizioni giuridiche tutelate: la prima fa riferimento alla posizione del trustee, il quale riceve e detiene i beni della trust property a titolo di legittimo proprietario e i cui interessi sono tutelati dai principi e dalle norme della common law, vincolata nella gestione di questi dal perseguimento dello scopo fissato nel trust deed; la seconda posizione tutelata è quella dei beneficiari del trust, cui spetta il diritto di pretendere dal trustee, direttamente o a mezzo del protector , l’adozione di tutti gli atti e comportamenti necessari alla realizzazione dello scopo fissato dal disponente. Questo modello, sintesi di convivenza pacifica tra istituti del diritto equitativi ed istituti di common law, rappresenta lo schema base di ogni forma di trust ma non è l’unico possibile e conosciuto dalle moderne economie. Infatti, prendendo spunto dall’esperienza e dal modello inglese, altri ordinamenti hanno sviluppato modelli diversi che oggi si propongono come alternativi rispetto a quello. La classificazione può essere fatta in base alla localizzazione fra i trust interni ed i trust esterni: i primi sono quelli costituiti in Italia, anche se regolati da una legge che il disponente può scegliere in una giurisdizione straniera (es. Inghilterra, Bahamas, British Virgin Islands, ecc.). I secondi sono quelli costituiti all'estero, anche se comprendono beni situati in Italia. Ogni trust deve essere ritagliato su misura conformemente alle esigenze delle parti interessate ma in linea di massima si ritiene che: ai fini di un'efficace pianificazione fiscale internazionale i trust esterni sono generalmente preferibili in quanto non soggiacciono alla normativa tributaria italiana che è estremamente rigida; i trust interni sono invece preferibili per la pianificazione dei rapporti patrimoniali familiari, nel diritto successorio e per l'intestazione di beni mobili ed immobili. Un’altra distinzione, in base alle finalità, è fra i trust difensivi ed i trust di scopo: i primi sono costituiti al fine di proteggere un determinato patrimonio dalle pretese di terzi (es. creditori, curatori fallimentari, coniugi in corso di separazione, ecc.). I secondi invece vengono costituiti per il raggiungimento di un determinato scopo programmato dal disponente (es. minimizzare l'imposizione fiscale su determinati beni, garantire il sostentamento economico futuro ad un figlio disabile, garantire la prosecuzione della propria impresa nel caso di evidente incapacità imprenditoriale degli eredi, ecc.). Un ulteriore distinzione può essere fatta tra i trust irrevocabili e quelli revocabili. Il trust in genere ha una durata massima variabile fra gli ottanta ed i cento anni e normalmente è irrevocabile ma è tuttavia ammissibile la costituzione di un trust i cui effetti 44 possano essere fatti cessare prima della scadenza su richiesta del settlor, il quale in tal modo rientra in possesso dei beni conferiti. Inoltre il trust si definisce fisso quando il disponente, nell'atto istitutivo, indica espressamente i beneficiari ed i relativi diritti nei confronti del trust e si tratta della forma di trust più diffusa. Mentre viene nominato discrezionale quando il trustee ha la possibilità di scegliere i beneficiari (attenendosi alle indicazioni generali ricevute dal settlor) come spesso avviene nei trust di beneficenza, oppure ha il potere di modificare i soggetti beneficiari o i benefici di cui essi godono. 3.7 I trust istituiti da persone fisiche Il trust si presta in maniera molto efficace a ridurre o eliminare i problemi che normalmente si presentano nella successione mortis causa. In primo luogo, il testatore può ricorrere al trust come sussidio giuridico attraverso il quale assicurare l’effettiva realizzazione di volontà testamentarie espressamente consentite dalle norme civilistiche in materia successoria. In secondo luogo, il trust, qualora istituito per tempo (ossia prima della morte del disponente), grazie alla sua estrema versatilità consente di conseguire risultati che vanno al di là di quanto sarebbe possibile realizzare attraverso le previsioni normative in materia successoria vigenti nel nostro ordinamento. Di seguito sono descritti in maniera sintetica alcuni esempi: Trust e fiducia testamentaria: mentre l’accordo fiduciario non è considerato efficace in giudizio nel nostro ordinamento, il ricorso al trust consente di far pervenire al beneficiario effettivo il patrimonio a lui devoluto; quest’ultimo può inoltre esperire le eventuali azioni di tutela nei confronti del trustee per ottenere che siano effettivamente rispettate le volontà del disponente. Trust e usufrutto successivo: l’istituto consente di attribuire ai beneficiari diritti equiparabili a quelli di usufrutto, articolandoli su più generazioni successive, senza sottostare alla norma che ne limita l’efficacia unicamente nei confronti del primo beneficiario designato. Trust ed esecutore testamentario: nei casi in cui il disponente desideri che la divisione dei beni fra gli eredi non sia motivo di contrasti familiari può attribuire ad un trustee le stesse funzioni di un esecutore testamentario. Questi, in quanto legittimo proprietario, ha margini di manovra molto più ampi dell’esecutore testamentario e può quindi rispondere meglio ai voleri del costituente deceduto. egli inoltre non è sottoposto a ristretti limiti temporali di un anno per l’esercizio della propria funzione. Trust per la libera determinazione delle quote spettanti agli eredi: tutte le forme di utilizzo fin qui elencate permettono di realizzare situazioni equivalenti alla devoluzione successoria, ma da un punto di vista strettamente giuridico esse non hanno nulla a che vedere con la successione, in quanto vengono realizzate prima del decesso del disponente. Il conferimento, a titolo gratuito o a titolo oneroso, produce inequivocabilmente il trasferimento della proprietà in capo al trustee che diventa a tutti gli effetti il solo legittimo proprietario dei beni. Alla morte del de cuius le norme in materia successoria saranno pienamente vigenti sul resto del patrimonio che a quella data sarà ancora di sua proprietà. 3.7.1 Trust in ambito famigliare Il trust può essere istituito anche per rispondere ad una molteplicità di esigenze nascenti in seno alla famiglia del disponente, da questo punto di vista esso rappresenta una 45 valida alternativa al fondo patrimoniale previsto nel nostro ordinamento. É possibile distinguere: Living trust: è istituito con i fondi messi a disposizione da uno o entrambi i coniugi, oppure anche da terzi, allo scopo di far fronte alle esigenze familiari. Le modalità da seguire per la distribuzione dei benefici economici variano a seconda delle disposizioni contenute nell’atto istitutivo, essendo rimesse alla completa discrezionalità del disponente; di norma il Deed of trust dispone affinché il negozio si estingua, oltre che a seguito di divorzio, alla morte di entrambi i coniugi. Trust di protezione familiare: il negozio può assumere la forma di trust di protezione familiare, in questo caso il disponente che desideri conservare l’integrità del patrimonio conferito ed impedire che esso venga dissipato da persone immature o inesperte, può disporre affinché il trustee riconosca ai beneficiari una rendita a vita derivante dai fondi conferiti, rendita destinata tuttavia ad interrompersi non appena vi sia il tentativo da parte dei beneficiari di alienare o assegnare i loro diritti a terzi o di avvalersene per fini non conformi ai desideri del disponente; per quanto riguarda l’utilizzo in ambito aziendale verrà approfondito nel capitolo successivo. Trust di accumulazione e mantenimento: la rendita viene riconosciuta solo qualora vi sia la necessità di coprire le spese per il mantenimento o l’istruzione dei beneficiari; diversamente, i redditi derivanti dal patrimonio conferito vanno ad incrementare il patrimonio stesso, che sarà definitivamente trasferito ai beneficiari quando essi avranno raggiunto un’età prefissata. Trust a favore di invalidi: un’altra variante è rappresentata dal trust istituito per garantire una rendita vitalizia o per costituire un fondo con cui far fronte alle esigenze di mantenimento e cura dei familiari sofferenti di infermità mentale o di grave invalidità fisica. 3.7.2 I trust istituiti in ambito societario La gestione unitaria dei gruppi societari, in presenza di assetti proprietari anche molto complessi, può essere efficacemente realizzata attraverso strutture societarie imperniate sul trust, che rende possibile la puntuale realizzazione degli accordi raggiunti dai membri del gruppo, evitando le difficoltà che spesso insorgono con il ricorso ai normali procedimenti societari. Il negozio rappresenta un ottimo strumento con cui realizzare i desideri del disponente/fondatore in merito alla ripartizione degli assetti proprietari, alla distribuzione dei dividendi, alle responsabilità imprenditoriali da assegnare ai vari membri della famiglia. Soluzioni sostanzialmente simili possono essere utilizzate, anche a prescindere dalla presenza di intenti devolutori e al di fuori dell’ambito familiare, ogni qual volta si ritenga opportuno approntare strutture che siano effettivamente in grado di assicurare il rispetto degli impegni assunti da parte dei soci. In questi casi il ricorso al trust ha il pregio di consentire una gestione unitaria, tesa il più possibile al raggiungimento degli scopi prefissati. La sostituzione di una pluralità dei soci con un unico titolare delle quote azionarie, che agisce super partes secondo le direttive impartite nell’atto istitutivo, consente infatti di abbreviare i tempi per la composizione dei conflitti e di prevenire le situazioni di stallo. Nei gruppi societari il trust consente inoltre di impedire intromissioni non desiderate da parte di soggetti estranei alla compagine originaria. Questo è possibile in quanto gli interessati, non avendo più la titolarità delle azioni, non possono alienare la 46 propria quota azionaria, al massimo potrebbero cedere il loro diritto ai benefici, ma anche in questo caso, se il trust è discrezionale, i trustees potrebbero interrompere le erogazioni. Nulla vieta invece alle predisposizioni di specifiche procedure affinché i trustees liquidino, in denaro, la quota al beneficiario che intenda recedere; in questo caso l’unica conseguenza è la rideterminazione delle quote fra i rimanenti. Allo stesso modo è possibile prevedere l’ingresso di nuovi soggetti, a titolo gratuito o oneroso, qualora quest’ultimi risultino graditi ai soggetti già coinvolti nel trust (ad es. subordinando l’ingresso all’assenso da parte dei protectors, che avranno preventivamente interpellato i beneficiari). Il ricorso al trust rappresenta in molti casi anche un’occasione per razionalizzare la struttura societaria del gruppo, ai trustees infatti sono di norma trasferite le sole azioni della capogruppo, che a sua volta controlla le varie società operative. 3.8 La Convenzione dell’Aja L’attitudine del trust a soddisfare le esigenze del disponente dipende molto dalla legge regolatrice adottata. Infatti, la scelta della legge regolatrice può comportare importanti differenze per quanto attiene la redazione-strutturazione dell’atto istitutivo di trust6; occorre porre molta attenzione a questo aspetto anche perché la redazione di clausole del trust non conformi alle disposizioni della legge applicabile comporta la nullità del trust. Inoltre ciascuna legge intesa a regolare l’istituto si differenzia, in maniera più o meno sostanziale, da quelle vigenti negli altri paesi. Per eliminare ogni incertezza riguardo alla disciplina applicabile nei singoli casi concreti si è giunti all’approvazione di una convenzione di diritto internazionale che disciplina la legge applicabile ed impone il riconoscimento del trust: la Convenzione dell’Aja del primo luglio 1985. L’ordinamento italiano, sebbene ancora privo di una disciplina interna dell’istituto in esame, ha dimostrato una grande sensibilità internazionale ratificando per primo tra i paesi di tradizione giuridica romanistica la Convenzione con la legge n°364 del 16 ottobre 1989 entrata in vigore il 1 gennaio 1992. Le finalità della Convenzione erano fondamentalmente due: 1. garantire l’efficacia transnazionale dei trust, specie nei paesi che li ignorino, fissando criteri univoci per il riconoscimento; 2. predisporre un sistema di regole di conflitto7, in modo da attenuare il rischio di assoggettare il trust a discipline contraddittorie e di assicurare al giudice dei riferimenti normativi che risolvano i problemi di qualificazione della fattispecie. La Convenzione rispondeva essenzialmente alle esigenze di quei paesi che, prevedendo l’istituto del trust, erano interessati ad assicurarne la validità anche all’estero, ma la ratifica della Convenzione portò dei vantaggi anche ad un paese, come l’Italia, che non prevedeva il trust nel proprio ordinamento. Ciò essenzialmente per due motivi: in primo luogo perché il crescente ricorso al trust, nei paesi in cui esso è regolato, ha portato ad interessare assetti patrimoniali localizzati in paesi diversi e quindi, potenzialmente, anche in Italia. In secondo luogo perché, con l’eliminazione degli ostacoli alla libera 6 A seconda della legge scelta varie opzioni si configurano nell’istituzione dell’atto di trust, tra cui ad esempio: la durata del trust, particolari formalità in merito alla struttura del trust, la necessità di prevedere almeno due trustees, la necessità di avere un trustee residente nello stato la cui legge è stata indicata nell’atto istitutivo di trust come legge regolatrice. 7 Per sistema di norme di conflitto si intendono quelle che stabiliscono se il giudice, nei confronti di un trust regolato da legge straniera, debba applicare le disposizioni di detta legge o piuttosto quelle vigenti nel proprio o in altri ordinamenti. 47 circolazione dei capitali che in precedenza potevano rappresentare una specie di filtro internazionale, l’istituto era ormai diventato uno strumento utilizzabile dagli stessi soggetti residenti in Italia, mediante l’istituzione all’estero di trust sottoposti a una legge straniera. Tuttavia la Convenzione non consentì di superare tutti i problemi connessi al riconoscimento del trust in un paese civil law, essa lasciò alcuni aspetti irrisolti e per altri versi ne pose addirittura di nuovi che potranno essere superati solo attraverso l’introduzione nell’ordinamento di un complesso di norme in materia di trust, ma al momento in Italia tale eventualità non sembra essere ipotizzabile nell’immediato futuro. Come previsto dall’art. 27 la Convenzione può essere sottoscritta solo dagli Stati membri della Conferenza dell’Aja di diritto internazionale privato al momento della sua quindicesima sessione. Si tratta, più precisamente, della sessione del 20 ottobre 1984 in occasione della quale la Convenzione venne adottata ed in cui gli Stati rappresentanti erano: Argentina, Australia, Austria, Belgio, Canada, Cipro, Cecoslovacchia, Danimarca, Egitto, Finlandia, Francia, Repubblica Federale Tedesca, Giappone, Grecia, Irlanda, Israele, Italia, Jugoslavia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Spagna, Stati Uniti, Suriname, Svezia, Svizzera, Turchia, Uruguay e Venezuela. Ad oggi di detti Stati hanno proceduto alla sottoscrizione solo Australia, Canada, Cipro, Francia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Regno Unito, Stati Uniti e Svizzera; la data del primo gennaio 1985 attribuita alla Convenzione coincide appunto con quella in cui i primi Stati – cioè Italia, Lussemburgo e Pesi Bassi – vi apposero la propria firma. 3.8.1 I principali articoli La Convenzione si compone di 32 articoli, ed è strutturata in cinque capitoli. Il primo capitolo delimita le fattispecie alle quali la Convenzione si applica, includendovi una serie di rapporti giuridici non necessariamente corrispondenti al solo concetto di trust nel modello inglese. Il secondo capitolo enuncia la norma fondamentale secondo la quale il trust è retto dalla legge scelta, esplicitamente o implicitamente, dal disponente, oppure, in mancanza, dalla legge alla quale il trust appare più strettamente collegato. Il terzo capitolo enuncia un ulteriore principio fondamentale, in base al quale un trust istituito in conformità alla legge determinata secondo il capitolo secondo è riconosciuto come trust, intendo per riconoscimento l’applicazione nel foro della legge (ovviamente straniera) regolatrice del trust. Il quarto ed il quinto capitolo contengono disposizioni di carattere generale. Di seguito i principali articoli. L’articolo 1 stabilisce che:”la Convenzione stabilisce la legge applicabile al trust e regola il suo riconoscimento”; mentre l’articolo 2 indica tutti gli elementi che devono concorrere perché si possa avere l’effettiva applicazione della Convenzione: “Ai fini della presente Convenzione, per trust si intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona, il costituente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico”; mentre il secondo comma descrive le caratteristiche del trust. Il trust presenta le seguenti caratteristiche: a) i beni del trust costituiscono una massa distinta e non fanno parte del patrimonio del trustee; b) i beni del trust sono intestati a nome del trustee o di un’altra persona per conto del trustee; c) il trustee è investito del potere e onerato dell’obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre dei beni secondo i termini del trust e le norme particolari impostegli dalla legge”. L’articolo 3 integra la descrizione del trust dicendo che l’operatività della Convenzione dell’Aja sui trust viene espressamente limitata ai solo trust “costituiti 48 volontariamente e comprovati per iscritto”, ovvero i trust che traggono origine direttamente dall’atto che ne prevede l’istituzione in forza di una manifestazione di volontà e i trust desumibili da fatti concludenti, nel caso in cui sia possibile fornire la comprovazione scritta della volontà istitutiva del disponente. L’articolo 6 stabilisce che “il trust è regolato dalla legge scelta dal costituente” quindi il costituente ha il ruolo di arbitro assoluto in materia, la forma scelta deve essere “espressa oppure risultare dalle disposizioni dell’atto che costituisce il trust o portandone la prova”. Qualora la legge scelta dal disponente conduca ad un ordinamento che non prevede l’istituto del trust è previsto un criterio sussidiario introdotto dall’articolo 7, secondo il quale la legge applicabile sarà quella che in concreto risulti più legata al trust in base a dei parametri indicati dallo stesso articolo, che sono: il luogo di amministrazione del trust, designato dal costituente; il luogo in cui sono situati i beni; la residenza o la sede degli affari del trustee; gli obiettivi del trust e i luoghi in cui devono essere realizzati. L’articolo 11 stabilisce che “un trust costitutivo in conformità alla legge specificata dovrà essere riconosciuto come trust”, ciò implica che i beni del trust siano separati dal patrimonio personale del trustee quindi i creditori personali del trustee non possono sequestrare i beni in trust ed essi non sono aggredibili in caso di insolvenza o bancarotta del trustee. Di fondamentale importanza è l’art. 19 della Convenzione: “La Convenzione non pregiudicherà la competenza degli Stati in materia fiscale”, che taglia in tronco ogni discussione sui dubbi di legittimità del trust quale fenomeno indiziato di essere uno strumento di evasione fiscale. In base alla legislazione italiana il negozio istitutivo del trust possa essere sindacato dall’Amministrazione Finanziaria e dalle Commissioni Tributarie quale meccanismo di elusione o di evasione fiscale e disatteso nelle forme consentite dalle norme tributarie. Dopo aver considerato le caratteristiche del trust, nel capitolo successivo verrà analizzato l’utilizzo di tale strumento nel passaggio generazionale; viste le sue peculiarità si potranno superare alcune difficoltà che caratterizzano questo processo così delicato, come sostiene la tesi. 49 CAPITOLO 4: IL TRUST NEL PASSAGGIO GENERAZIONALE Il presente capitolo evidenzia le peculiarità del trust in rapporto agli altri mezzi utili per la gestione della successione generazionale. Tale istituto risponde in modo completo alle esigenze richieste di questo delicato processo, ossia: programmare nei tempi giusti delle varie fasi; adottare una visione di lunghissimo periodo (il trust può essere previsto per gestire il passaggio generazionale di almeno tre generazioni); proteggere e garantire l’unità del patrimonio; attenuare i conflitti familiari; evitare l’apertura della successione; sostenere efficacemente i beneficiari esistenti o individuabili aventi diritto verso il trustee di resoconto dell’amministrazione del patrimonio in trust e altri minori diritti così come agire contro il trustee qualora quest’ultimo abbia violato i suoi obblighi e le sue prerogative; assicurare la continuità e la funzionalità dell’attività imprenditoriale; mantenere la continuità della governance societaria; riservatezza e continuità dello strumento; combinato con una cassaforte familiare garantisce anche una protezione del controllo verso possibili scalate esterne; è estremamente flessibile, consente facilmente al disponente di modificare la sua volontà a seguito di eventi futuri in precedenza non preventivati. Il trust può essere utilizzato in svariati modi con l’obiettivo del passaggio generazionale, i casi più frequenti sono: un trust discrezionale in cui il titolare di una quota di partecipazione ad una società la trasferisca al trustee con l'incarico di distribuire gli utili ai figli del disponente quali beneficiari iniziali e quindi, una volta che questi ultimi abbiano raggiunto la maggiore età o al momento del decesso del disponente, di attribuire la stessa quota sociale a quei figli del disponente che il medesimo trustee ritenga idonei a continuare l'attività di impresa. Oppure nel caso in cui il disponente titolare d’impresa individuale abbia intenzione di assicurare la continuità della gestione per il tempo in cui lo stesso abbia cessato di esserne titolare e a tal fine trasferisca la proprietà dell'azienda ai trustees A e B affinché la gestiscano unitariamente, nell'interesse dei figli del disponente e poi ne trasmettano la titolarità ai beneficiari medesimi non appena il più giovane degli stessi abbia raggiunto la maggiore età; o in alternativa, trasferiscano la proprietà a quello o quelli dei beneficiari che manifestino l'intenzione di continuare l'attività d'impresa, in forma individuale o societaria, e liquidando in denaro la quota spettante al beneficiario, od ai beneficiari, che non intendano continuare detta attività. Ulteriori esempi sono quelli in cui al trustee venga conferito un incarico ad amministrare le azioni di una società che sia patrimonio di famiglia, di attribuire i redditi ai figli del disponente, e di trasferire la proprietà del pacchetto azionario solo quando i beneficiari saranno idonei ad assicurare la continuità e managerialità nella direzione dell’azienda; oppure quella di un trust irrevocabile e a titolo gratuito, con la prescrizione che il trust cessi alla morte del disponente, e i beni siano distribuiti a beneficiari determinati e non più modificabili; o ancora quella di un trust che determini attribuzioni beneficiarie successive con incarico al trustee di destinare il reddito dei beni in trust ad A, B e C, ciascuno alla morte dell’altro, e di attribuire poi la proprietà all’ultimo nato di C. In questo contesto tuttavia, nonostante i pregi, nel nostro paese il trust ancora non sembra avere quella diffusione che meriterebbe dato che si tratta di un istituto nuovo e quindi di difficile comprensione e ancora non disciplinato giuridicamente e anche dal 50 punto di vista psicologico, trattandosi di una vera e propria spoliazione, da parte del disponente, della propria proprietà e del potere di disposizione e gestione della stessa, anche in funzione delle stesse finalità dell’istituto, lo strumento incontra significative resistenze psicologiche da parte dei potenziali utilizzatori. Quindi ai fini di un passaggio generazionale indolore sarebbe necessario strutturare e regolamentare il trust in ogni sua minima parte ed avere piena consapevolezza dei risvolti familiari e legali che ne seguiranno. Ecco perché il seguente capitolo cercherà di dare un taglio prettamente aziendale, con lo scopo di evidenziare le numerose implicazioni di natura economica derivanti dall’utilizzo del trust. 4.1 I pregi del trust Il trust rappresenta un valido strumento di programmazione e pianificazione diretto a prevenire il sorgere di possibili attriti familiari i quali rischiano, il più delle volte, di determinare la polverizzazione del patrimonio aziendale. I pregi del ricorso al trust si possono così sintetizzare: unitarietà della titolarità delle partecipazioni; regolamentazione, tramite l’atto istitutivo del trust, delle modalità di gestione e dell’esercizio dei diritti inerenti alle partecipazioni sociali; segregazione delle partecipazioni sottoposte al trust con conseguente indifferenza rispetto alle vicende dei singoli soggetti; mantenimento di un’elevata flessibilità gestionale dell’impresa, tale da consentire di assumere con rapidità decisioni di carattere strategico necessarie ad assicurare un corretto sviluppo dell'impresa. Per quanto riguarda le aziende familiari si riscontra il problema della divisione tra amministrazione e beneficio al momento in cui il titolare desidera pianificare il passaggio generazionale; spesso l’imprenditore non vuole passare subito la gestione e desidera poter conservare, fino al momento della propria permanenza in vita, la carica di amministratore della sua azienda, volendo ancora dirigere in prima persona l’attività d’impresa. Con l’istituzione del trust l’azienda viene trasferita ad un trustee che viene incaricato di gestire e conservare il tutto in favore dei figli, normalmente è consentito al trustee di servirsi di consulenti ed amministratori dei beni in trust. In questo modo la responsabilità del trustee cambia da una responsabilità per la gestione ad una responsabilità di scelta e controllo. Con il trust viene affidato al trustee il controllo proprietario dell’impresa; ciò consente di mantenere l’unita degli assetti proprietari e, nel caso frequente in cui oggetto di trust siano non l’azienda ma le partecipazioni sociali che la rappresentano, di continuare ad affidare la gestione agli amministratori in carica (fino a che quest’ultimi non debbano essere sostituiti), senza dunque alcuna discontinuità relativamente alla politica aziendale. I beneficiari potranno essere, quanto alle rendite, lo stesso imprenditore disponente ed i suoi familiari; quanto all’attribuzione finale dei beni i suoi discendenti. Nel contempo la costituzione del trust si rivela un efficace strumento attraverso cui individuare il degno successore al vertice aziendale. Ad esempio, in presenza di due o più successori, si potrebbe porre il problema della scelta di chi dovrà assumere il comando dell’azienda. Attraverso la costituzione del trust è possibile stabilire determinate condizioni al verificarsi delle quali la proprietà dell’azienda di famiglia venga attribuita ad un figlio anziché ad un altro. Contestualmente, lo stesso atto istitutivo può prevedere il riconoscimento, a chi sia rimasto fuori dall’impresa, di una percentuale degli utili fino al raggiungimento di un valore che possa garantire un trattamento imparziale. Solo al verificatasi di tale condizione il trust potrà considerarsi concluso e l’azienda di famiglia diventerà effettivamente di proprietà del designato. In tal modo, è assicurato il proseguimento dell’attività al riparo da possibili conflitti o eventuali ingerenze di terzi. In 51 tutto questo, fondamentale è il ruolo svolto dal trustee che, acquistando la titolarità dei beni costituenti l’azienda, si dovrà occupare della gestione del patrimonio in trust, fino al verificarsi della condizione stabilita nell’atto istitutivo. Un’altra circostanza che può indurre alla costituzione del trust è rappresentata dalla necessità dell’imprenditore di individuare un successore competente. In quest’ottica, risulta opportuno ricorrere all’istituzione di un trust all’interno del quale siano espressamente indicate delle clausole inerenti il percorso di crescita personale e professionale del successore. Si potrebbe, perfino, ricorrere ad un trust di tipo discrezionale, delegando al trustee l’individuazione del beneficiario. Potrebbe, infatti, accadere che il disponente perisca prima che si verifichino le condizioni previste nell’atto istitutivo del trust e che i potenziali beneficiari siano ancora troppo giovani e non abbiano completato il percorso formativo. È evidente, in tale ipotesi, l’utilità del ricorso all’istituto in oggetto, atteso che la gestione aziendale è attribuita temporaneamente ad un soggetto esperto (trustee) designato dal disponente. Il ricorso al trust consente all’azienda di continuare ad operare, anche al riparo dalle vicende personali del disponente ed ai potenziali beneficiari di avere tutto il tempo per acquisire la maturità, nonché le conoscenze e le competenze necessarie per assumere le redini dell’impresa. Logicamente, potrebbe verificarsi il caso che nessuno dei potenziali beneficiari soddisfi le caratteristiche richieste nell’atto istitutivo, con il conseguente sorgere di differenti problemi successori, fermo restando che il disponente potrebbe aver previsto tale ipotesi, indicando nell’atto stesso un terzo soggetto. In tal modo sarebbe assicurata la continuità aziendale ed ai figli potrebbe essere garantita la quota di legittima attribuendo loro, per esempio, il restante patrimonio personale ed, eventualmente, anche una partecipazione agli utili. Infatti, è utile evidenziare come il trasferimento di uno o più beni in trust, compresa l’ipotesi del trasferimento dell’impresa di famiglia o di un ramo di essa, comporti necessariamente la riduzione del patrimonio del disponente; ciò, in taluni casi, potrebbe determinare la lesione della legittima spettante ai legittimari del disponente medesimo. Tuttavia, l’art. 15 della Convenzione, nell’elencare le limitazioni all’efficacia del trust, anche nel caso in cui lo stesso sia stato riconosciuto, prevede l’applicazione della legge nazionale in tema di testamenti e di devoluzione di beni successori. Di conseguenza, un trust le cui disposizioni siano lesive della legittima non sarà nullo, bensì assoggettabile all’azione di riduzione nella misura in cui ciò risulti necessario per la reintegrazione della quota di riserva. É opportuno, infine, che il trust preveda la figura del guardiano, per limitare i rischi di abusi. Dalla Convenzione dell’Aja si ricava che i beni del trust costituiscono una massa distinta e non fanno parte del patrimonio del trustee, che essi sono intestati a nome del trustee o di un’altra persona per conto del trustee e che il trustee è investito del potere e onerato dell’obbligo di amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme di legge. Inoltre, il riconoscimento del trust comporta che i creditori personali del trustee non possano rivalersi sui beni del trust, i quali, dunque, costituiscono un patrimonio separato; che i beni in trust siano segregati rispetto al patrimonio del trustee, in caso di insolvenza di quest’ultimo o di suo fallimento; che i beni del trust non rientrino nel regime matrimoniale o nella successione del trustee e che la rivendicazione dei beni in trust sia permessa nella misura in cui il trustee, violando le obbligazioni risultanti dal trust, abbia confuso i beni in trust con i propri o ne abbia disposto. Non bisogna dimenticare che sotto il profilo strettamente economico, l’istituto può avere costi di esecuzione e gestione importanti, spesso la strutturazione di tali strutture coinvolge figure professionali straniere con un aggravio dei costi. Sotto il profilo dei limiti operativi possono ricordarsi: 52 la difficoltà da parte del disponente di modificare le regole operative del trust una volta finalizzata l’istituzione del trust stesso; la difficoltà di modificare la struttura del trust qualora le condizioni che hanno dettato la stessa nascita del trust vengano a cambiare; la difficoltà dell’istituto di far fronte in modo compiuto e legittimo alle previsioni di successione necessaria o legittima del nostro ordinamento; la non possibilità (a meno che non ci si trovi in un trust auto dichiarato) per il disponente di gestire il patrimonio in trust. Sarà opportuno poi che l’atto istitutivo contenga chiare e precise istruzioni per il trustee sulla gestione e amministrazione dell’impresa: previsioni disponenti il divieto di disponibilità o ristrutturazione dell’impresa qualora il disponente stesso sia ancora in vita o qualora i beneficiari non abbiano ancora raggiunto una determinata età o non abbiano manifestato una determinata decisione in relazione all’amministrazione dell’impresa in questione; previsioni che prendono in considerazione l’ammissione da parte del trustee dell’ingresso nella compagine sociale di determinati eredi del disponente o altre specifiche entità o che permettano al trustee di definire e ripartire, nella compagine degli eredi a ciò preposti, l’amministrazione e gestione dell’impresa o quelle diverse mansioni tese a soddisfare le affinità dei singoli eredi; previsioni tese alla progressiva dismissione dell’impresa familiare; tutte quelle altre forme di ristrutturazione societarie atte a far prendere valore all’impresa familiare per poi liquidarne il contenuto tra i relativi beneficiari e liquidare l’impresa; previsioni per cui il disponente continua ad essere coinvolto nell’amministrazione dell’impresa familiare ma non sarà più proprietario della stessa e avrà diritto unicamente al compenso di amministratore a meno che non sia anche allo stesso tempo uno dei beneficiari. 4.2. Le imposte sul trust Un ulteriore pregio che riguarda lo strumento del trust è l’imposizione fiscale vantaggiosa, non esiste una norma civilistica sul trust in Italia, pur nella vigenza del principio della Convenzione dell’Aja del 1° Luglio 1985, quindi la regolamentazione tributaria è tratta dai principi generali dell’ordinamento italiano in materia; ma visti i molteplici scopi dello strumento non è possibile identificare una soluzione impositiva univoca. Dopo la Finanziaria 2007 il passaggio generazionale d’impresa nell’ambito della famiglia è esente dal tributo successorio, è stato infatti inserito nel testo del decreto istitutivo sulle successioni un articolo che esenta “i trasferimenti, effettuati anche tramite i patti di famiglia a favore dei discendenti e del coniuge di aziende o rami di esse, di quote sociali e di azioni non soggette all’imposta”. Bisogna tenere conto del fatto che il beneficio si applica a condizione che gli aventi causa proseguano l’esercizio dell’attività d’impresa o detengano il controllo per un periodo non inferiore a cinque anni dalla data del trasferimento rendendo, contestualmente alla presentazione della dichiarazione di successione o all’atto di donazione, apposita dichiarazione in tal senso; il mancato rispetto della condizione comporta la decadenza del beneficio. La finalità è quindi quella di favorire attraverso la leva fiscale il passaggio generazionale delle aziende di famiglia. La Circolare 6 Agosto 2007 ha esteso l’ambito di applicazione dell’esenzione anche ai trasferimenti di azienda e partecipazioni in trust istituiti in favore dei discendenti e del 53 coniuge dell’imprenditore precisando che “sono esenti dall’imposta sulle successioni e donazioni i trasferimenti di aziende o rami di esse, di azioni e quote sociali, attuati in favore dei discendenti e del coniuge mediante disposizioni mortis causa, donazioni, atti a titolo gratuito o costituzioni di vincoli di destinazione, nonché mediante patti di famiglia..” definendo la possibilità di fruire dell’agevolazione anche nell’ipotesi di vincoli di beni in trust. Quanto alla dichiarazione di impegno circa il proseguimento o la detenzione cui è condizionata la non assoggettabilità all’imposta, è stato individuato come soggetto obbligato il trustee. Un ulteriore presupposto riferito all’ipotesi di attribuzione al trustee delle partecipazioni o dell’azienda è quello dell’immodificabilità del vincolo, ovvero non possono essere modificati dal disponente o dal trustee i beneficiari finali dato che non è ammissibile il riconoscimento dell’esenzione laddove, in seguito alla dotazione del trust fund e alla dichiarazione resa dal trustee, lo stesso o il disponente possono liberamente scegliere a chi destinare il patrimonio finale o revocare l’intero trust; perché in tale ipotesi verrebbe a mancare la condizione che i beneficiari del trasferimento siano il coniuge o i discendenti del disponente. Infine il trustee deve proseguire l’esercizio dell’attività d’impresa o detenere il controllo per un periodo non inferiore ai cinque anni dalla data del trasferimento e deve rendere contestualmente al trasferimento un’apposita dichiarazione sulla sua volontà di proseguire l’attività d’impresa o detenere il controllo. Inoltre bisogna tener conto delle norme in materia di imposte dirette introdotte dalla finanziaria 2007 e della reintroduzione dell’imposta sulle successioni e donazioni, decreto 262/2006. Il comma 74 dell’articolo 1 della legge finanziaria 2007 ha previsto l’introduzione del trust tra gli enti commerciali e non commerciali, nell’ambito dei soggetti che scontano l’IRES. Il legislatore ha in tal modo riconosciuto al trust un’autonomia soggettiva tributaria rilevante ai fini dell’imposta tipica delle società, degli enti commerciali e non commerciali prevedendo così quale regola generale che i redditi del trust dovranno essere tassati in capo al trust personificato che, a seconda dei casi, verrà qualificato come ente commerciale o non commerciale. Considerata la flessibilità dell’istituto, il legislatore ha individuato, ai fini dell’imposizione dei redditi, due principali tipologie di trust: i trust trasparenti: con beneficiari individuati, i cui redditi vengono imputati per trasparenza ai beneficiari stessi; i trust opachi: senza beneficiari, con beneficiari individuabili ma non individuati, con beneficiari individuati ma in base alle clausole del trust hanno diritto al reddito a determinate condizioni o in un momento successivo; i cui redditi vengono tassati direttamente in capo al trust che agisce come soggetto passivo di imposta. Il comma 74 ha pertanto definitivamente sancito l’appartenenza dei trust ai soggetti passivi dell’imposta sul reddito delle società (IRES). In particolare, sono soggetti a tale imposta: i trust non residenti nel territorio dello Stato che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali (enti commerciali); i trust residenti nel territorio dello Stato che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali (enti non commerciali). Un soggetto IRES si considera residente nel territorio dello Stato al verificarsi di almeno una delle condizioni sotto indicate per la maggior parte del periodo di imposta: a) sede legale nel territorio dello Stato; b) sede dell’amministrazione nel territorio dello Stato; c) oggetto principale dell’attività svolta nel territorio dello Stato. Inoltre si presume la residenza in Italia dei trusts istituiti in Paesi con cui non è previsto lo scambio di informazioni nei quali: 54 a) almeno uno dei disponenti e almeno uno dei beneficiari siano fiscalmente residenti in Italia; b) quando, dopo la costituzione, un soggetto residente in Italia effettui in favore del trust un’attribuzione che importi il trasferimento di proprietà dei beni immobili o la costituzione o il trasferimento di diritti reali immobiliari, anche per quote, e vincoli di destinazione. Considerando le caratteristiche del trust, di norma i criteri di collegamento al territorio dello Stato sono la sede dell’amministrazione e l’oggetto principale. La giurisprudenza italiana afferma che per individuare la sede amministrativa effettiva è necessario comprendere “ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione, e cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l’accentramento nei rapporti interni e con i terzi degli organi e degli uffici societari”. Ma il criterio della sede dell’amministrazione è spesso inutilizzabile in quanto spesso le scelte di gestione dell’ente vengono prese a livello di atto istitutivo e che l’oggetto principale è un criterio di difficile applicabilità. In generale la residenza del trust dovrebbe essere individuata facendo riferimento al luogo in cui il trustee esercita effettivamente i poteri decisionali previsti dall’atto istitutivo di trust, nel caso in cui vi sia una pluralità di trustees residenti in diverse giurisdizioni si fa riferimento al luogo in cui risiede la maggioranza di essi. Accertata la residenza fiscale in Italia del trust, esso sarà soggetto alla tassazione del reddito ovunque prodotto, per il principio della tassazione del reddito mondiale. Mentre il trust non residente verrà tassato solo sui redditi prodotti nel territorio dello Stato, in base al principio della cosiddetta local taxation. Un’altra questione riguarda l’individuazione dei beneficiari, considerato che i beneficiari dei redditi prodotti dal patrimonio segregato in trust di fatto possono essere diversi dai beneficiari del patrimonio alla scadenza fissata e che le percentuali di partecipazione ai frutti o al patrimonio possono non coincidere. Secondo lo studio elaborato dalla Fondazione Luca Pacioli (Documento n. 12 del 7 giugno 2007), sono possibili tre interpretazioni: per individuare i soggetti destinatari del patrimonio segregato alla scadenza fissata, per cui i redditi da tassare sono quelli derivanti dalla gestione di tale patrimonio e sarebbe quindi coerente individuare i soggetti passivi della tassazione di tali redditi nei destinatari finali del patrimonio; per soggetti beneficiari intende i soli destinatari dei redditi prodotti dal trust. Dunque l’imputazione dei redditi prodotti dal trust avverrebbe soltanto quando l’atto di costituzione del trust o i documenti successivi abbiano conferito al trustee il potere di assegnare i redditi del patrimonio segregato secondo i criteri e verso i destinatari da lui scelti o individuati dal disponente; basandosi sulle disposizioni antielusive, considerato che il termine “beneficiari individuati” è generico, potrebbe sostenersi che tali vanno considerati sia quelli destinatari del patrimonio sia quelli eventualmente destinatari dei redditi. Pertanto, in linea di principio, dovrebbero considerarsi “beneficiari individuati” i soggetti ai quali sia destinato il patrimonio alla scadenza stabilita dal disponente. Il presupposto per l’applicazione dell’imposta è il possesso di redditi, quindi per beneficiari individuati si intendono i beneficiari di reddito individuato ovvero il soggetto che esprime una capacità contributiva attuale sul reddito in questione; quindi il beneficiario dovrebbe essere individuabile e risultare titolare del diritto di pretendere dal trustee l’assegnazione della parte di reddito che gli viene imputata. Durante la vita del trust è frequente che vengano corrisposte delle somme ai beneficiari, bisogna verificare se tali somme possono configurare redditi tassabili in capo al beneficiario e che non abbiano alcuna valenza reddituale; è rilevante la natura delle 55 somme in esame e in particolare se derivano da semplici smobilizzi del patrimonio del trust. In tale ipotesi la cessione di beni non genera alcuna fattispecie reddituale in capo al trust e quindi il successivo passaggio delle somme al beneficiario non costituirà alcuna fattispecie imponibile ai fini delle imposte sul reddito. Più articolato è invece l’aspetto delle somme che vengono corrisposte al beneficiario che non derivano da smobilizzi patrimoniali non imponibili, come la locazione di immobili e utili d’impresa, dove è possibile un’eventuale imposizione anche in capo al beneficiario con la generazione di una doppia imposizione. Nella maggior parte dei casi il presupposto impositivo si realizza esclusivamente in capo al trust, non potendo ritenersi che l’esistenza di un obbligo in capo al trustee di trasferire al beneficiario determinate somme possa modificare la soggettività passiva del trust e i relativi obblighi fiscali. La cessione di beni durante la vita del trust non presenta particolari problemi applicativi nel settore delle imposte sul reddito, la disciplina fiscale sarà quella ordinariamente applicabile per le specifiche operazioni poste in essere. Qualora le cessioni di beni siano poste in essere nell’esercizio d’impresa la disciplina fiscale sarà quella specifica per le singole categorie di beni con la conseguenza che potranno realizzarsi componenti positive di reddito; mentre nel caso di cessioni di beni non effettuate nell’esercizio d’impresa potranno realizzarsi le fattispecie reddituali non rilevanti dal punto di vista fiscale in quanto non inquadrabili in nessuna delle ipotesi previste. Per il calcolo della plusvalenza nel caso di beni trasferiti al trust, anche successivamente all’istituzione dello stesso, dovrà farsi riferimento ai valori fiscalmente riconosciuti in capo al disponente, fermo restando che il trasferimento dei beni dal disponente al trustee non interrompe il decorso del quinquennio; mentre nel caso di cessioni di beni acquistati dal trust dovrà farsi riferimento al prezzo pagato. L’atto istitutivo di trust può prevedere la corresponsione periodica di compensi a favore del trustee, ciò non modifica la natura gratuita dell’atto di trust. I compensi assumono rilevanza ai fini dell’imposizione sul reddito e dell’imposta sul valore aggiunto in relazione alla qualifica professionale del trustee: se l’attività del trustee è connessa allo svolgimento dell’arte o della professione, ovvero dell’impresa, le somme corrisposte avranno la natura di compensi o ricavi da assoggettare a tassazione secondo gli ordinari principi; mentre se i compensi non sono inquadrabili nell’attività di lavoro autonomo o d’impresa saranno imponibili ai soli fini dell’imposizione diretta in quanto relativi ad assunzioni di obblighi da fare. Per quanto riguarda le imposte indirette l’Agenzia delle Entrate, con la Circolare n. 48/E del 6 agosto 2007, ha fatto conoscere le proprie linee guida sul trattamento fiscale del trust, sotto il profilo dell’applicazione delle imposte indirette agli atti di apporto di beni e diritti al trust, affrontando così l’ambito dove esistevano le maggiori difficoltà interpretative della nuova normativa. Sotto questo profilo, l’Agenzia delle Entrate stabilisce che attualmente la costituzione dei vincoli di destinazione è soggetta all’imposta sulle successioni e donazioni. Dunque, il conferimento dei beni nel trust va assoggettato all’imposta sulle successioni e donazioni in misura proporzionale, due sono le conclusioni a cui perviene l’Agenzia delle Entrate: bisogna applicare l’imposta di donazione oltre che al trust con il quale la titolarità di determinati beni o diritti passa dal disponente al trustee, anche al cosiddetto trust autodichiarato (trust ove il disponente nomina se stesso quali trustee e pertanto non vi è trasferimento di beni); l’individuazione dell’aliquota dell’imposta di donazione applicabile (e dell’eventuale franchigia di cui ci si possa avvalere) va fatta riferendosi all’eventuale rapporto di parentela o di affinità sussistente tra disponente e beneficiario (e non a quello 56 tra disponente e trustee). Secondo la Circolare la tassazione varia così a seconda dei tipi di trust. Quindi la costituzione di un trust non è un atto equiparabile ad un trasferimento a titolo oneroso, perché non vi è corrispettivo, né ad una donazione difettandone la causa, ma ad un atto a titolo gratuito, neutro dal punto di vista fiscale, soggetto ad imposizione indiretta (imposta di registro, ipotecaria e catastale) in misura fissa, attraverso il quale il disponente realizza il proprio intento di arricchire spontaneamente un terzo, facendo affidamento sul trustee e sull’obbligo da costui assunto di adempiere alle direttive impartite dal beneficiante medesimo. Nella struttura di trust per l’amministrazione di beni occorre distinguere la fase dell’istruzione che si manifesta con l’atto istitutivo vero e proprio dal conseguente apporto dei beni destinati al trust. Per quanto riguarda le imposte di registro e sul valore aggiunto i momenti fiscalmente rilevanti ai fini delle imposte indirette sono: l’atto istitutivo; l’atto dispositivo; il trasferimento dei beni del trust in occasione della successione del trustee, il trasferimento dei beni del trust per alienazione da parte del trustee, il trasferimento dei beni del trust dal trustee ai beneficiari, le cessioni da parte dei beneficiari dei loro interessi nel trust. In generale è raccomandabile la redazione dell’atto istitutivo di trust per atto pubblico o per scrittura privata autenticata al fine di attribuire data certa al documento costitutivo; si possono distinguere tre differenti casi: quando il negozio istitutivo contiene un obbligo del disponente a compiere trasferimenti in favore del trustee l’atto sarà soggetto ad imposta di registro di 168 euro; quando il negozio costitutivo contiene una mera facoltà per il disponente il documento sarà assoggettato all’obbligo di registrazione, solo se redatto in forma pubblica o con scrittura privata autenticata e verrà applicata l’imposta di registro in misura fissa; quando il negozio istitutivo contiene un atto dispositivo del disponente avente per oggetto una dotazione iniziale di una piccola somma di denaro si fa riferimento al decreto 262/2006. Secondo l’Agenzia delle Entrate l’atto di costituzione del trust, che realizza il trasferimento della proprietà dei beni segregati, integra la fattispecie impositiva del tributo sulle successioni e donazioni. Qualora invece l’atto istitutivo di trust non sia anche atto di dotazione patrimoniale, avvenendo la segregazione dei beni in un momento successivo, lo stesso, se redatto per atto pubblico o scrittura privata autenticata, è tassato con imposta fissa di registro (pari a 168,00 euro) in quanto atto privo di contenuto patrimoniale. L’interpretazione fornita dall’Amministrazione finanziaria vede emergere l’unitarietà causale del trust, ai fini dell’imposizione indiretta, e quindi dei diversi momenti giuridici e diversi effetti traslativi. Il trust sarebbe idoneo, in quanto “vincolo di destinazione”, a realizzare una prospettiva, giuridicamente inequivoca e suscettibile di tutela, di un vantaggio patrimoniale tangibile in favore del soggetto beneficiario, diverso dall'autore del vincolo funzionale. A livello applicativo ciò comporta l’immediata imposizione, all’atto della costituzione del vincolo, senza dover attendere i successivi atti di attribuzione, eventualmente posti in essere anche a notevole distanza di tempo. Ogni successiva attribuzione ai beneficiari risulta, infatti, irrilevante ai fini del tributo in oggetto, sia nel caso in cui il trasferimento riguardi gli stessi beni segregati, sia quando ai beneficiari vengano trasferiti gli incrementi del patrimonio del trust. L’atto dispositivo: il conferimento dei beni in trust o il costituito vincolo di destinazione che ne è l’effetto va assoggettato all’imposta sulle successioni e donazioni in misura proporzionale, sia esso disposto mediante testamento o per atto inter vivos. Ai fini 57 della determinazione di aliquote e franchigie, che si differenziano in dipendenza del rapporto di parentela e affinità, occorre guardare al rapporto intercorrente tra disponente e beneficiario. Nel trust di scopo cioè quello gestito per realizzare un determinato fine, senza indicazione di beneficiario finale, l’imposta sarà dovuta con l’aliquota dell’8% prevista per i vincoli di destinazione a favore di altri soggetti. La costituzione del vincolo di destinazione in un trust disposto a favore dei discendenti del disponente non è soggetto all’imposta qualora abbia ad oggetto aziende o rami di esse, quote sociali e azioni. Sia l’attribuzione con effetti traslativi di beni immobili o diritti reali immobiliari al momento della costituzione del vincolo, sia il successivo trasferimento dei beni medesimi allo scioglimento del vincolo, nonché i trasferimenti eventualmente effettuati durante il vincolo, sono soggetti alle imposte ipotecaria e catastale in misura proporzionale. Se lo scopo perseguito dal disponente attraverso il trust è quello di devolvere il patrimonio ai beneficiari finali, il trasferimento di beni dal trustee ai predetti soggetti rappresenta la realizzazione di finalità di natura liberale che trovano la loro fonte nella volontà del disponente. Si configura una sorta di liberalità indiretta che costituisce il presupposto per l’applicazione dell’imposta di donazione nei confronti dei beneficiari finali, ove ne ricorrano le condizioni. Durante la vita del trust il trustee può compiere operazioni utili per la gestione del patrimonio, eventuali atti di acquisto o vendita di beni saranno soggetti alle ordinarie imposte di registro con le aliquote proprie dei beni in oggetto. Al trustee nominato con l’atto istitutivo di trust possono succederne altri in seguito a morte, revoca o sostituzione; poiché in tal caso la titolarità dei beni in trust deve essere trasferita al nuovo trustee, qualora si sia in presenza dei presupposti di registrazione dell’atto si renderà applicabile come nel primo atto l’imposta di registro in misura fissa. Figura 5: Tipi di trust e relativa tassazione Fonte: Agenzia delle Entrate, comunicato stampa 06/08/2007 Nel 2010 la Consob ha risposto a un quesito concernente l’inapplicabilità della disciplina dell’Opa obbligatoria in caso di scioglimento di trust, l’argomento è di fondamentale importanza per tutte le aziende interessate al passaggio generazionale. La Commissione ha confermato implicitamente l’attualità di tale istituto che offre una risposta alla richiesta costante di strumenti giuridici idonei a garantire la pianificazione del futuro sviluppo aziendale. All’esame della Consob è stato sottoposto un trust tipico: il caso di un disponente, che al fine di pianificare il passaggio generazionale dell’azienda, ha costituito 58 un trust e tra i vari beni vi è la partecipazione al capitale della società non quotata A da lui interamente posseduta; l’intento è quello di separare tale massa di patrimoniale e affidarla in gestione ad un trustee che amministri nell’interesse dei beneficiari. La peculiarità del caso è che la società A è a sua volta titolare di un pacchetto azionario di B, con la conseguenza che indirettamente oggetto di gestione in trust siano anche le azioni della società quotata. Con lo scioglimento del trust, la partecipazione alla società non quotata è stata assegnata a due beneficiari, in particolare a uno è stata attribuita la nuda proprietà delle azioni e all’altro l’usufrutto delle stesse; quindi in seguito all’assegnazione dell’usufrutto delle azioni della società non quotata A il beneficiario ha acquisito anche il controllo indiretto della società quotata B, con la possibilità di un obbligo Opa ai sensi degli articoli del Tuf e del regolamento sugli acquisti indiretti. La Consob ha tuttavia escluso tale disciplina ritenendo che l’assegnazione al beneficiario del controllo della società B sia atto gratuito appartenente agli atti mortis causa e di liberalità. Con tale pronuncia la Commissione ha aderito all’indirizzo assunto dalla normativa fiscale italiana in ordine all’assoggettamento del trust all’imposta sulle successioni e donazioni, dove si precisa che l’atto di costituzione del trust è assoggettato all’imposta sulle successioni in misura proporzionale secondo le aliquote derivanti dal rapporto di parentela tra disponente e beneficiari. L’unicità della causa, che caratterizza l’intera operazione, imporrebbe la corresponsione dell’imposta solamente al momento della sua costituzione con la conseguenza che l’eventuale trasferimento finale dei beni al beneficiario non debba essere tassato. A confermare la natura gratuita dell’acquisto dei beneficiari depone, oltre alla normativa fiscale italiana, anche la funzione concreta dell’intera operazione negoziale: il trasferimento ai beneficiari è confermato dalla causa concreta dell’operazione consistente nel mantenimento, educazione e benessere dei beneficiari, tale da escludere l’uso distorto del trust elusivo della disciplina Opa. L’intervento della Consob sottolinea l’idoneità del trust nel passaggio generazionale grazie alla sua duttilità d’uso e conformazione. 4.2.1 Problematiche relative alla tassazione del trust La lettura fornita dall’Agenzia pone un importante problema in tutti quei casi in cui il vantaggio per i beneficiari non si configuri in termini di sicuro arricchimento, di posizione giuridica incontrovertibile e tutelata che avviene quando il diritto dei beneficiari è sottoposto a condizione (tipico è il caso del bene attribuito al beneficiario se e quando quest’ultimo conseguirà un determinato risultato), come pure in talune ipotesi di trust discrezionale in cui non sia certa la futura attribuzione a beneficiari. In simili circostanze la legittimità dell’imposizione al momento della costituzione del vincolo non appare giustificabile visto che, proprio per la specifica struttura negoziale del trust, non è possibile considerare quest’ultimo espressivo di un incremento patrimoniale certo, ancorché futuro, connesso al trasferimento di ricchezza. Sembrerebbe invece maggiormente coerente, nelle fattispecie considerate, rinviare l’imposizione al momento della attribuzione al beneficiario o, quanto meno, al momento in cui è determinata la posizione giuridica del beneficiario stesso. Considerazioni in parte analoghe sembrano doversi fare per le ipotesi di trust con beneficiari non ancora determinati al momento della istituzione del trust e segregazione dei beni. Secondo la prassi amministrativa, quando l’individuazione sia rimessa ad un atto successivo (normalmente, del disponente o del trustee), l’imposizione dovrà essere la più elevata, perché nessuna franchigia e nessuna esenzione potrà applicarsi, perché dovrà essere considerata l’aliquota massima dell’8%. Una simile soluzione appare però criticabile, perché non del tutto in linea con le stesse giustificazioni che stanno alla base della scelta dell’Agenzia di tassare il trust al momento della costituzione del vincolo sui beni segregati. Scelta che si motiva solo in quanto sia possibile determinare un 59 collegamento, rilevante giuridicamente, tra la costituzione del vincolo e l’incremento patrimoniale connesso al futuro trasferimento di ricchezza. Collegamento che, nel caso del trust, si evidenzia nella struttura del negozio e che ha alla base l’unitarietà in termini causali delle diverse fattispecie negoziali poste in essere. In questa prospettiva, l’incremento patrimoniale connesso al trasferimento futuro di ricchezza in favore del beneficiario rappresenta la capacità contributiva colpita dal tributo e la tassazione, che avviene in un momento precedente, si giustifica solo in quanto il vincolo è costituito in funzione di tale successivo trasferimento di ricchezza al beneficiario. Secondo quanto afferma la stessa prassi amministrativa l’elemento che invece deve necessariamente verificarsi al momento della costituzione del vincolo, affinché il presupposto si realizzi, è il trasferimento dei beni. L’Agenzia ritiene, in questo senso, che la “costituzione di vincoli non traslativi non è soggetta all’imposta sulle successioni e donazioni”. Ed è proprio sulla distinzione tra vincoli di destinazione non traslativi e vincoli di destinazione traslativi che la circolare da ultimo citata fonda la propria ricostruzione teorica, così come le specifiche soluzioni interpretative. Distinzione da cui dovrebbe conseguire l’estraneità al campo applicativo dell’imposta in esame del trust auto dichiarato. Nella fattispecie non si realizza, infatti, alcun effetto traslativo, in quanto il bene rimane nella titolarità giuridica del disponente e non si trasferisce ad un terzo. La mancata imposizione sulla costituzione del vincolo non traslativo, eventualmente rilevante ai fini del tributo di registro, dovrebbe però completarsi con l’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni in relazione alle successive attribuzioni a favore dei beneficiari (se poste in essere), in quanto atti che naturalmente rientrano nel campo dell’imposta. L’Amministrazione, invece, ritiene che l’attribuzione dei beni in trust, anche in assenza di formali effetti traslativi, debba essere assoggettata all’imposta sulle successioni e donazioni. Esaminando il problema dal punto di vista dell’Agenzia delle Entrate, appare chiaro come la tassazione immediata anche in ipotesi di trust auto dichiarato riesca a soddisfare esigenze di facilità di applicazione, oltre che di certezza di gettito. Gli Uffici possono in questo modo disinteressarsi delle vicende traslative successive, formalizzate e non, visto che già si è assolta l’integrale imposizione. Altrettanto chiaro è però che tali considerazioni non possono prevalere sulle esigenze di coerenza sistematica e sul rispetto del principio della capacità contributiva. Per ciò che attiene l’applicabilità delle agevolazioni fiscali, l’Agenzia delle Entrate, considerata la possibilità di adattare l’istituto alle molteplici esigenze del disponente, ha ritenuto che l’applicabilità delle norme agevolative vada valutata caso per caso, tenendo conto del contenuto del negozio risultante dalla legge regolatrice del trust e dalle clausole contrattuali in esso contenute. Simile impostazione è senz’altro da condividersi, soprattutto alla luce della estrema eterogeneità di ratio che caratterizza le diverse norme di agevolazione nel nostro sistema tributario. Le disposizioni di agevolazione devono trovare applicazione considerando non il trasferimento meramente strumentale dal disponente al trust, che di per sé non appare in grado di esprimere capacità contributiva, bensì il trasferimento a favore del beneficiario e le condizioni soggettive di quest’ultimo. Diversa appare invece la prospettiva quando si tratti di applicare trattamenti agevolativi in relazione a tributi che colpiscono trasferimenti onerosi di ricchezza. Risulta infatti evidente che gli acquisti onerosi, benché strumentali, compiuti dal trustee, nello svolgimento della propria attività di gestione del patrimonio segregato, risultano già in grado di esprimere la capacità contributiva oggetto della imposizione, con la conseguenza che è agli stessi che occorre riferire eventuali fattispecie di agevolazione. Occorrerà quindi, di volta in volta, un’analisi dettagliata dei presupposti applicativi delle disposizioni di agevolazione, valutando la ratio delle medesime e considerando questi aspetti peculiari dell’istituto del trust. 60 In conclusione non possano essere incluse nella fattispecie imponibile dell’imposta sulle donazioni tutte le ipotesi di trasferimenti di situazioni giuridiche soggettive a contenuto patrimoniale con funzione solo strumentale alla realizzazione di assetti finali onerosi. Ma anche dove l’assetto negoziale complessivo sia diretto a risultati liberali, il trasferimento iniziale non giustifica di per sé l’applicazione dell’imposta, in quanto l’indice di capacità contributiva, si realizzerà solo successivamente. Il beneficiario finale risulta essere quindi l’unico soggetto passivo dell’imposta. Solo in capo a quest’ultimo infatti si producono stabilmente quegli incrementi patrimoniali che costituiscono presupposto del tributo in considerazione. In quest’ottica, gli atti di destinazione puri e semplici non sembrerebbero quindi rivelatori di alcuna capacità contributiva. Pertanto, è possibile ritenere che tali atti siano assoggettabili all’imposta di registro in misura fissa e, qualora siano trascrivibili, scontino l’imposta ipotecaria anch’essa in misura fissa. 4.3 Le problematiche della trasmissione generazionale e le possibili soluzioni con il trust Il problema della gestione del passaggio generazionale attraverso il trust è quello della verifica a priori (ossia nel momento in cui ci si accinge a redigere il regolamento del trust e a prevedere la conseguente attribuzione di beni da parte del disponente o di terzi al trust) della tenuta di tale strumento nei confronti di eventuali impugnazioni degli eredi, in particolare dei legittimari, onde consentire una certezza nella attribuzione dei diritti e doveri fin dalla nascita del trust. In merito Hayton D. (2004) ha precisato che i coniugi o gli eredi legittimari possono desistere dal proposito di agire contro il trustee con azione reale o personale se i loro interessi economici legati al trust sono maggiori o potenzialmente maggiori dell’entità della loro pretesa giudiziale o qualora l’atto di trust stabilisca che il loro interesse cessa automaticamente nel caso in cui gli stessi sollevino azione contro il trustee con l’intento di intaccare beni in trust e di accrescere il loro patrimonio personale. In questo caso, la loro pretesa economica sui beni in trust viene trasferita o ad una persona determinata o ad un ente con fine benefico ovvero accresce la quota degli altri membri della classe di beneficiari alla quale gli attori appartenevano. Il potere di aggiungere, retroattivamente, in qualsiasi momento alla classe dei beneficiari un beneficiario escluso in forza di tale previsione conferisce al trust una flessibilità assai utile”. Nella strutturazione del trust è rilevante poi il livello informativo riservato ai beneficiari, riguardo a tale problematica due sono le scuole di pensiero: la prima ritiene che si faccia l’interesse dei beneficiari dando loro il minor numero di informazioni possibili, in modo da permettere loro di condurre una vita normale senza troppe preoccupazioni; la seconda ritiene invece che il trustee e i beneficiari dovrebbero lavorare insieme nell’interesse del trust al fine di: rendere trasparente l’attività del trustee; evitare fraintendimenti a volte pericolosi con i beneficiari; favorire la migliore realizzazione dello scopo del trust. In questo senso, anche le lettere d’intento dovrebbero essere messe a disposizione dei beneficiari al fine di renderli consapevoli di situazioni familiari che possono richiedere attenzione o discrezione particolare. Sempre secondo Hayton D. il trustee che agisce con la cooperazione dei beneficiari già adulti, deve premurarsi di utilizzare i beni in trust in modo tale da far sì che le giovani generazioni abbiano consapevolezza del potere e della responsabilità legati alla ricchezza ed abbiano una completa ed adeguata educazione e formazione rispetto a tali valori. Il trustee può avere un ruolo educativo anche nei confronti dei beneficiari già adulti, esigendo 61 da loro un comportamento maturo in assenza del quale può decidere di non provvedere a tempo debito alle loro attribuzioni ovvero di destinarle a beneficiari successivi”. In seguito verranno riportati alcuni casi esemplificativi tratti dal sito www.il-trust-in-italia.it, con lo scopo di chiarire le problematiche e le possibili soluzioni offerte dal trust. 4.3.1 Caso 1: il trust per risolvere un passaggio generazionale Tizio, Caio, Mevio e Sempronio, fratelli capistirpe soci della holding di famiglia Alfa S.r.l., in previsione di un passaggio generazionale hanno intestato fiduciariamente le loro partecipazioni di maggioranza di Alfa ai rispettivi discendenti, ritenendo di mantenerne il controllo attraverso un’architettura giuridica fondata su più mandati incrociati in virtù dei quali tutti i poteri connessi alla proprietà effettiva continuano ad essere in realtà effettivamente esercitati dai capistirpe, attraverso una società fiduciaria a cui sono state intestate le azioni con un tradizionale mandato. I suddetti capistirpe e i loro discendenti hanno fiducia che tale struttura sia in grado di assicurare anche per le generazioni future quanto, fino alla generazione dei capistirpe, è derivato da assoluta armonia ed unità di intenti, ovvero un controllo unitario dell’impresa nell’interesse di tutti i componenti della famiglia, evitando che la posizione di ciascuno possa venire sacrificata a vantaggio di altri. Tuttavia, la morte di Tizio e la concentrazione dei poteri nei suoi fratelli ha creato disarmonie familiari e ha confermato l’inidoneità della struttura a produrre i risultati voluti. In effetti, il mandato non impedisce al mandante, che rimane sempre proprietario, di esercitare i diritti connessi inscindibilmente alla posizione di proprietario: infatti non è con il mandato che una persona si può spogliare dei poteri connessi alla sua qualità di proprietario, né imporre un vincolo fiduciario nella gestione della proprietà. Il limite consiste nel fatto che la fiducia, anche ove possa essere dimostrato, non potrebbe assumere la rilevanza desiderata, né creare alcun vincolo di destinazione al patrimonio oggetto di tale patto opponibile ai soggetti interessati ed ai terzi. Al contrario, il trust è sicuramente l’istituto giuridico che offre alla fattispecie in esame il suo naturale inquadramento consentendo, nel più completo rispetto delle intese originarie intercorse tra capistirpe e soci discendenti, il raggiungimento dei risultati prefissati. Nel caso in esame, i pregi del ricorso al trust si possono così sintetizzare: unitarietà e controllo della titolarità delle partecipazioni, attraverso il trustee e il guardiano; regolamentazione a lungo termine del trasferimento delle partecipazioni all’interno della famiglia e quindi del gradimento sui futuri soci; regolamentazione a lungo termine degli organi amministrativi e quindi miglior selezione delle persone deputate al futuro governo della impresa; codificazione delle modalità di gestione e dell’esercizio dei diritti inerenti le partecipazioni azionarie all’interno dell’atto istitutivo del trust; segregazione delle partecipazioni sottoposte al trust con conseguente indifferenza delle vicende dei singoli soggetti; giusta modulazione degli interessi economici e non della famiglia, anche attraverso la distinzione tra reddito da capitale e reddito da attività. Il trust si rivela uno strumento efficiente anche nel caso in cui non vi sia un successore, un esempio può essere quello di una signora avanti con gli anni senza figli né parenti e vedova da poco; a seguito della scomparsa del marito riceve per successione la partecipazione quale unico socio di una società che svolge da sempre un importante attività commerciale. La signora non vuole cedere l’azienda in quanto, anche dopo la sua morte, desidera: garantire la continuazione della storica attività dell’azienda; 62 conservare lo spirito ed i valori impressi dal marito nella gestione della stessa; mantenere l’occupazione agli attuali dipendenti, a cui si sente legata da un rapporto di stima ed affetto; continuare a ricevere, vita naturale durante, i redditi prodotti dall’azienda. Non esistendo alcun discendente che può succedere nell’azienda, alla signora giungono numerose proposte di acquisto, ma la cessione dell’azienda non garantisce la soddisfazione dei suoi desideri. Inoltre nessuno ordinario strumento del nostro ordinamento giuridico è completamente idoneo a soddisfare i suoi interessi, mentre con un apposito trust progettato e strutturato per lo specifico caso si possono conseguire e tutelare i meritevoli interessi della signora. 4.4 Il trust e limiti del diritto successorio L’introduzione del trust nell’ordinamento italiano è apparso sin dall’inizio un’operazione non facile, in quanto trapiantare in un sistema di tradizione civilistica un istituto di common law dall’origine completamente diversa, è apparsa impresa assai complessa. Infatti prima del 1992 la giurisprudenza italiana aveva in più occasioni, sulla base di diversi argomenti, negato l’operatività dell’istituto in Italia. In aggiunta agli ostacoli giuridico formali il trust non sembra essere molto apprezzato dall’Amministrazione finanziaria per i possibili risvolti elusivi o evasivi che si potrebbero presentare. Dopo l’approvazione della Convenzione dell’Aja dell’1 luglio 1985, resa esecutiva in Italia con la legge 364/1989, molteplici sono state le statuizioni giurisprudenziali che hanno affrontato il trust, la sua ammissibilità e le sue caratteristiche fondamentali. L’ammissibilità sostanziale confermata dalle stesse ha posto delle problematiche riguardanti la compatibilità del trust rispetto ad alcuni principi dell’ordinamento italiano. Il trust interno è un trust istituito da parte di un cittadino italiano residente in Italia, su beni siti nel nostro ordinamento a favore di un beneficiario italiano, residente in Italia, sia o meno il trustee residente in Italia, sempre che la legge scelta dal disponente sia straniera. In realtà la definizione di trust interno si applica anche a tipologie i cui elementi importanti (l’ubicazione dell’oggetto del trust, la nazionalità del disponente e del beneficiario), o anche alcuni di essi soltanto, sono più strettamente connessi all’Italia. Nonostante alcune obbiezioni, la giurisprudenza ha riconosciuto la liceità dei trust creati da connazionali trasferendo beni presenti nel nostro paese a trustee italiani, tali trust devono essere, comunque, costituiti e gestiti seguendo la legge di uno stato straniero in quanto non esiste una normativa italiana per l’istituzione e l’amministrazione dei trust. L’utilizzo di una legge straniera non consente di evitare, almeno presso un tribunale italiano, l’applicazione delle leggi inderogabili del nostro ordinamento quali, ad esempio, le norme che regolano la successione necessaria. Margini di potenziale conflitto del trust successorio con l’ordinamento nazionale sono stati individuati in particolare rispetto al divieto dei patti successori, rappresentati da tutte quelle convenzioni con cui taluno dispone in vita della propria successione, è da precisare che il trust non può in alcun modo essere assimilato ad un vero e proprio patto successorio per il semplice fatto che manca nel negozio di trust l’essenziale presupposto per un patto successorio costituito dal rapporto bilaterale tra il costituente e il beneficiario. Inoltre, a differenza di quanto accade in seguito a una convenzione che violi il divieto dei patti successori, dove il trasferimento della proprietà del bene avviene comunque dopo la morte del testatore, nel trust l’efficacia del negozio di trasferimento è immediata, quando il disponente è ancora in vita e i beni non possono essere considerati come facenti parte della sua successione, si tratta per tanto di un atto che interessa non l’asse ereditario bensì il 63 patrimonio è quindi un negozio inter vivos e non mortis causa. Inoltre il beneficiario non conclude con il disponente alcun contratto o patto, infatti il trust è istituito con atto unilaterale del disponente, che il trustee accetta successivamente quando si costituisce. Il trust, come sostiene la tesi, potrebbe rivelarsi molto utile per la soluzione del problema della successione nell’azienda, particolarmente sentito in quei casi in cui per l’incapacità degli eredi l’azienda rischia di dissolversi, garantendo la continuità della linea di gestione sulla base delle indicazioni date dal disponente, anche mediante apposite lettere di desiderio. Sempre in ambito aziendale-familiare, l’utilità di questo strumento potrebbe essere rappresentata dalla volontà del disponente di trasferire ai propri familiari l’intero complesso aziendale e contemporaneamente tenerli esenti dalle eventuali vicende negative occorrenti all’impresa. Le questioni relative alla compatibilità del trust con i ricordati principi del diritto successorio non sono più attuali. 4.4.1 Caso 2: il trust per la continuità d’impresa Nell’ambito del passaggio generazionale delle aziende di famiglia, il trust garantisce unitarietà e continuità nell’impresa. L’imprenditore può regolamentare l’assegnazione degli incarichi e delle responsabilità da assegnare ai vari componenti della famiglia, la distribuzione dei dividendi e la ripartizione degli assetti proprietari, prevedendo ad esempio che la partecipazione sociale venga trasferita all’erede a determinate condizioni, ovvero che tale partecipazione venga liquidata all’erede da parte dei soci superstiti o della società, con contestuale inserimento nello statuto sociale delle clausole di successione e di continuazione obbligatoria o facoltativa. Ad esempio, la regolamentazione del passaggio generazionale ottenuta utilizzando il trust è avvenuta nel caso della società Alfa S.p.a. in cui i quattro soci, fratelli, hanno istituito un trust autodichiarato e si sono riuniti in un collegio di trustees. Il regolamento del trust ha previsto la definizione di quattro classi di beneficiari, una per ciascuna stirpe e di cui ciascun trustee ne era l’espressione. Si è garantita così la continuità nell’impresa prevedendo una successione nell’ufficio del trustee dei beneficiari appartenenti a ciascuna classe di riferimento, garantendo peraltro ai beneficiari l’opportunità di uscire dal trust ricevendo in beneficio parte del reddito, al momento della successione del trustee. 4.5 Le problematiche irrisolte dal patto di famiglia e le soluzioni con l’utilizzo del trust Si è visto in precedenza come numerosi problemi siano lasciati irrisolti dal patto di famiglia, ad essi sembra che il trust sia idoneo a rispondere in modo più efficiente. É il caso ad esempio dell’imprenditore legato da un rapporto di convivenza, oppure il problema della disciplina puntuale dei profili non attributivi e non meramente patrimoniali della pianificazione del trasferimento della ricchezza familiare, essenziali per dettare le regole di governo che riflettono anche assetti di governance familiare (la ripartizione degli incarichi gestori, l’esercizio del controllo) e che garantiscono il passaggio efficace del testimone. Tali inadeguatezze del patto di famiglia spiegano perché in altri contesti l’attuazione delle regole venga piuttosto affidata ad un soggetto terzo, il trustee, estraneo al nucleo familiare che, recependo le volontà dell’imprenditore finché in vita e successivamente adeguandole a quelle dei suoi familiari, le adatti al mutare delle circostanze, secondo la sua valutazione discrezionale, il suo oggettivo buonsenso o secondo le indicazioni dettate dal disponente nelle lettere d’intento, da un soggetto indicato dal disponente (il guardiano) o dalla collettività organizzata dei beneficiari (collegio dei 64 beneficiari), senza che questo debba ogni volta coinvolgere l’unanime decisione di tutti gli aderenti al patto, la cui stessa identificazione nel tempo può essere assai difficoltosa. Spesso ostacolo alla soluzione pacifica di una pianificazione successoria è la consegna della stessa alle determinazione dei soggetti portatori degli interessi in conflitto: l’affidamento dell’esecuzione degli intenti del disponente ad un soggetto estraneo alla famiglia riduce anche il rischio, assai frequente, di non esecuzione degli obblighi che fanno carico ai familiari e garantiscono che i beni segregati in trust siano esclusivamente destinati al soddisfacimento dei diritti dei legittimari presenti o sopravvenuti. Rispetto alla pretese di questi, a fronte dell’inadempimento degli obblighi dei legittimari assegnatari, il patto di famiglia non ha strumenti di coercizione né efficaci strumenti di sanzione. Il trust ha una funzione di patto di famiglia, nel momento in cui è istituito con lo scopo di: mantenere la gestione efficiente delle aziende di famiglia; assicurare l’unità del patrimonio immobiliare familiare; attribuire il controllo delle partecipazioni a qualsiasi soggetto terzo e imparziale che cura gli interessi di tutti i discendenti congiuntamente ; dare certezza alle attribuzioni in vita disposte dal disponente; addivenire ad un accordo di tutti i legittimari in merito alle avvenute attribuzioni in modo da evitare l’instaurarsi di successive azioni di riduzione o di impugnazioni del patto. E’ importante ricordare che il trust, a differenza del patto di famiglia, permette il passaggio generazionale di tutto i patrimonio dell’imprenditore e non della sola impresa. In questo senso, il trust può: prevedere il salto di una generazione; impedire frazionamenti della proprietà immobiliare; unificare il patrimonio per un tempo sufficientemente lungo; evitare pregiudizio per le attività di impresa; evitare interferenze nella gestione da parte di terzi estranei alla famiglia o anche di familiari non in grado di gestire il patrimonio; evitare le aggressioni dei creditori del trustee e dei beneficiari; soddisfare mediante le utilità del trust i bisogni del disponente e della propria famiglia nel tempo e al variare delle circostanze. Inoltre, attraverso tale struttura, l’imprenditore riesce a: prevedere l’estromissione dei propri figli, ritenuti non idonei a gestire, da incarichi di amministrazione delle società di famiglia, ma, al contempo, garantire loro un reddito da partecipazione; affidare tali incarichi, oltre che a se stesso finché è in vita, ad alcuni membri del collegio dei trustees; attribuire la gestione del patrimonio immobiliare al collegio dei trustees, incaricati di attribuire i beni e distribuire i redditi secondo le volontà e le esigenze dell’imprenditore e dei suoi familiari allo stato viventi; determinare la destinazione dei beni in trust ai discendenti, al termine del trust, secondo regole ben definite; dettare una linea decisa del governo d’impresa da rispettare anche dopo che l’abbia trasferita, in modo da poter lasciare la sua impronta sulla gestione aziendale ovvero trasmettere la cultura d’impresa; continuare a dividere con tutti i propri famigliari i redditi dell’impresa. L’imprenditore può anche stabilire liberamente le regole per la nomina del successore del trustee, prevedendo che sia un altro dei suoi famigliari oppure dettandone i 65 requisiti o ancora prevedere che siano tutti i beneficiari a maggioranza a nominare il successore; mentre con il patto di famiglia in caso di morte dell’assegnatario i beni si devolvono secondo le regole della sua successione e il destinatario non può assicurarsene il controllo. Diversamente, il trust previene il rischio di vanificare gli intenti del disponente e garantisce la stabilità delle previsioni relative alla pianificazione generazionale non già incidendo, come scelto dal patto di famiglia, sul regime di validità dell’atto che può essere impugnato in base alle norme sui vizi del consenso in caso di mancato rispetto delle previsioni relative al pagamento delle quote spettanti dei legittimari non partecipanti, ma prevedendo che il beneficiario che agisca contro il trustee, e quindi alteri l’esecuzione a questi affidata delle disposizioni del trust, perda la sua posizione di beneficiario. Altra necessità assai avvertita dal disponente è quella di conservare una qualche forma di controllo sui beni trasferiti, ancorché tale controllo sia di fatto esercitato da un soggetto terzo, il trustee, con il quale il disponente stesso, o il guardiano come persona da lui indicata, interagisce. L’analisi economica condotta sul sistema di avvicendamento delle aziende familiari mostra come una delle finalità maggiormente perseguite dai genitoriimprenditori sia quella di anticipazione sulla futura successione secondo meccanismi che consentono una forma di rendita per i genitori stessi, anche a causa dell’allungamento della vita media, e un certo grado di controllo sulla ricchezza trasferita.(Manes P, 2006) Infatti, è esigenza spesso avvertita dall’imprenditore, fortemente convinto dello stretto legame tra successo dell’impresa e proprie capacità gestorie, quella di continuare ad esercitare il controllo o ricoprire incarichi gestori anche a seguito del trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni. In questo senso, il patto di famiglia consentirebbe di esercitare tale forma di controllo all’imprenditore finché in vita solo con la previsione della riserva di usufrutto sull’azienda trasferita, con tutti i problemi che il conflitto generazionale tra genitori usufruttuari e figli nudi-proprietari. Altra possibilità offerta dal patto di famiglia è quella attuata dalla cessione solo parziale delle partecipazioni accompagnata dalla previsione di diritti particolari (nomina degli amministratori o dell’unico amministratore) inerenti le partecipazioni che restano in capo al disponente o l’inserimento nel patto di clausole che prevedono il coinvolgimento del disponente nelle decisioni aziendali. Ciò che nel patto di famiglia è conseguito con difficoltà è invece del tutto coerente con la struttura dei trust imprenditoriali/familiari nei quali il disponente può continuare a far parte dell’organo esecutivo e dove i trustees/azionisti in presenza di un amministratore efficiente, devono dimostrare giustificati motivi per revocarlo. Accanto alla finalità di assicurare un passaggio efficace delle competenze gestorie dell’impresa, è inoltre avvertita la necessità che al disponente sia assicurata una forma di mantenimento, esigenza soddisfatta dal contratto ereditario e dai trust imprenditoriali familiari e invece disattesa dal patto di famiglia. In particolare, in questa ultima ipotesi il disponente è beneficiario del solo reddito finché in vita e per quanto necessario alle sue esigenze: al termine del trust la capitalizzazione del reddito non distribuito va ai soli beneficiari finali, i discendenti, destinatari dei beni in trust. Il punto fondamentale è che il trasferimento dell’impresa al trustee consente di realizzare la stabilita attribuzione del patrimonio affidata ad un soggetto dotato di competenza gestoria e professionalità ma soprattutto terzo rispetto ai soggetti familiari e quindi capace di attuare le indicazioni del disponente con neutralità e in assenza di conflitto di interessi. In più, il trustee è in grado di adeguare le disposizioni al mutare delle circostanze e di darne attuazione nel lungo periodo in quanto titolare di un ufficio per il quale sono previsti meccanismi di successione e cooptazione che assicurano la continuità per le future generazioni. 66 Infine, sono spesso richiesti meccanismi di devoluzione delle partecipazioni che assicurino ai soli discendenti dell’imprenditore, e non, in assenza di loro figli, ai coniugi di questi, la titolarità delle partecipazioni. Accanto a tale finalità, può accadere che per motivi legati ad incapacità, interdizione o inabilitazione della prima generazione, il disponente voglia o debba saltare la generazione dei figli e trasmettere l’azienda ai nipoti, ma intenda garantire il mantenimento ai figli con le rendite che l’azienda di famiglia produce, in questo caso è necessario l’intervento di un soggetto terzo che traghetti la gestione dell’azienda fino al momento in cui i nipoti del disponente siano in grado di gestirla. Il valore aggiunto che ancora il trust presenta rispetto al patto di famiglia è rappresentato: dalla possibilità di lasciare l’esercizio del controllo dell’azienda di famiglia all’imprenditore; dalla possibilità di adeguare costantemente al mutare delle circostanze le determinazioni assunte al tempo della redazione dell’atto istitutivo e senza modifica dell’atto che regola la pianificazione patrimoniale; dalla garanzia di esecuzione della volontà del disponente che viene affidata non ai singoli interessati ma ad un soggetto terzo e neutrale, al di sopra degli interessi dei quali i familiari sono portatori; dalla garanzia di poter pianificare anche oltre la vita del disponente e per varie generazioni la devoluzione della ricchezza familiare perché affidata non a persone fisiche ma ad un soggetto, il trustee persona fisica o giuridica, titolare di un ufficio dotato di meccanismi di cooptazione e successione che garantiscono la continuità della gestione e della realizzazione degli interessi per il l’intero arco di tempo previsto dal disponente e non per la sola vita fisica dei partecipanti al patto. La proprietà dell’azienda o delle partecipazioni è a tutti gli effetti trasferita al trustee, o meglio ai trustees, dato che spesso in questi trust l’ufficio è ricoperto da più persone o da una trust company: ma l’atto istitutivo contiene precise disposizioni che permettono al disponente di vedere realizzate le proprie intenzioni manifestate nell’atto istitutivo o nelle lettere di desiderio. Non è detto ad esempio che il trustee debba mantenere intatto il pacchetto di comando che il disponente gli trasferisce: lo farà se questo realizza l’interesse dei beneficiari ma, in caso contrario, ben potrà alienare parte delle azioni investendo quanto ricavato secondo le indicazioni dell’atto istitutivo. La surrogazione reale tipica del trust impone però che quanto ricavato dalla vendita sia affetto dallo stesso vincolo di destinazione reale che gravava sulle partecipazioni. Infine, il trust consente di evitare il rischio che delle azioni diventino titolari figli minori, ciò che comporterebbe l’usufrutto del soggetto esercente la potestà genitoriale che potrebbe non essere un discendente dell’imprenditore, ma il suo coniuge: è infatti possibile prevedere, compatibilmente con il termine massimo di durata del trust previsto dalla legge regolatrice, come termine finale del trust il raggiungimento di una certa età da parte di tutti i beneficiari piuttosto che una data determinata. Ma accanto alle partecipazioni, altri beni, dei quali ciascun disponente è titolare, possono essere trasferiti in trust: beni immobili, titoli, altre partecipazioni sociali che nulla hanno a che vedere con la società di famiglia, sempre al fine di assicurare una unitaria, efficiente gestione da parte di soggetti qualificati. Ecco anche il perché della scelta di un collegio di trustees: alcuni di essi si occuperanno della gestione degli immobili, altri potranno avere ruoli gestori nella società, accanto, oltre o in sostituzione (dopo la sua morte) del disponente. Il soggetto individuato a guidare l’impresa è tenuto a farlo in favore di tutti i discendenti e non viene arricchito in modo esclusivo all’assegnazione; gli altri discendenti non ricevono il controllo ma a loro spetta la loro quota di ricchezza e di redditi generati 67 dalle partecipazioni oggetto di trust. Da un punto di vista economico, essi quindi non sono danneggiati in nessun modo da una gestione del passaggio generazionale attuato tramite trust. Non dovrebbero quindi avere da lamentarsi per la violazione della loro quota di legittima, anche se essa deve essere attribuita in piena proprietà e non gravata da pesi o oneri, mentre il trust attribuisce a loro la spettanza della ricchezza incorporata nelle partecipazioni, ma non il controllo e la proprietà delle stesse. In assenza di un pregiudizio economico, quindi non vi sarebbe ragioni per agire in riduzione nei confronti del trasferimento delle partecipazioni in trust, soprattutto nei casi dove il soggetto che prende il posto del capostipite viene scelto congiuntamente da tutti i discendenti; il consenso di tutti è necessario per creare un trust ben funzionante. Tuttavia vi sono diverse tecniche per assicurare al trust i medesimi effetti del patto di famiglia, in termini di assicurazione di stabilità della sistemazione a fronte delle possibili azioni di riduzione dei discendenti che successivamente all’istituzione del trust cambiassero idea. La prima, preferibile nei casi in cui il soggetto da nominare trustee sia un discendente dell’imprenditore al quale si può applicare il patto di famiglia, è quella di combinare proprio il patto di famiglia con un trust. Quindi si stipula un patto di famiglia e l’assegnatario delle partecipazioni è uno dei discendenti dell’imprenditore, che riceve sulla base del patto di famiglia ma riceve anche in qualità di trustee di un trust istituito dallo stesso imprenditore o dagli altri suoi discendenti; in questo modo si ottengono i vantaggi di entrambi gli strumenti. Una seconda tecnica comporta la stipulazione di una donazione da parte dell’imprenditore delle partecipazioni ai propri legittimari in quote legali; in questo modo non può esserci violazione della quota di legittima e quindi nemmeno azione di riduzione nei confronti del trust, successivamente istituito. Non appena i legittimari abbiano ricevuto i beni attraverso la donazione, essi li trasferiranno in un trust con un atto istitutivo stipulato dall’imprenditore o dai legittimari per gestire il passaggio generazionale della ricchezza; in questo modo si gestisce il passaggio generazionale e si assicura la stabilità del programma con cui è stato attuato. 4.5.1 Caso 3: la scelta del successore Per comprendere meglio le differenze tra patto di famiglia e trust si considera la situazione di Mevio, imprenditore, con tre figli, Tizio (18 anni) Caio (20 anni) e Sempronio (23 anni) tutti e tre studenti universitari. Il sopraggiungere di problemi di salute, fa sorgere l’esigenza di pianificare il passaggio generazionale nella sua società e l’attribuzione degli altri beni che compongono il suo patrimonio. Al momento però Mevio non è in grado di scegliere quale dei suoi tre figli abbia le doti necessarie per assumere un ruolo di riferimento, in quanto ancora giovani e privi di esperienza lavorativa. Mevio, finché sarà in vita vorrebbe concorrere ad individuare l’assegnatario ed intenderebbe perseguire i seguenti obiettivi: assegnazione della proprietà di una quota di controllo della società e dei relativi poteri gestionali a quello tra i figli che avrà nel tempo manifestato le seguenti doti: merito scolastico, capacità di esercitare una leadership, spirito imprenditoriale e capacità di sacrificio. assegnazione agli altri due figli di quote di minoranza della società. ripartizione degli altri beni che compongono il patrimonio in modo che, al momento dell’assegnazione definitiva, i valori dei beni ricevuti siano uguali tra i tre figli. La società dovrà nel tempo restare nelle mani dei tre figli, senza che la morte o vicissitudini coniugali di uno di essi possa comportare il trasferimento di partecipazioni a coniugi, ma consentendo di attribuire la disponibilità e i frutti di alcuni beni alla sua convivente. 68 In una situazione del genere la naturale duttilità del trust risulta idonea al raggiungimento degli obiettivi di Mevio, ma ancora di più se il trust presentasse alcuni dei requisiti richiesti dalla disciplina si consoliderebbe la conformità di quanto determinato in esecuzione del trust con le norme in materia di successione necessaria. Come nei più diffusi trust di famiglia, le finalità del trust che Mevio dovrebbe istituire saranno caratterizzate da un intento liberale a favore dei suoi figli o dei suoi discendenti, al fine di garantire loro una sicurezza economica nel futuro. Ma molte delle regole e dei programmi contenuti nell’atto istitutivo, quando il disponente è un imprenditore, sono ispirate da una volontà da un lato di conservare e di incrementare il valore della società mediante una gestione unitaria delle partecipazioni sociali, dall’altra di salvaguardare il futuro dell’azienda di famiglia, a volte anche penalizzando l’interesse di uno o più dei figli beneficiari, e questo proprio nell’interesse degli stessi beneficiari del trust. La continuità dell’impresa nel tempo, infatti, costituisce garanzia di mantenimento e, magari, di incremento di ricchezza per la famiglia e per questo motivo l’imprenditore tende ad inserire nell’atto istitutivo del trust, in cui l’impresa confluirà, disposizioni a salvaguardia di quest’ultima. Ovviamente il bene principale che confluirà nel fondo in trust è l’azienda di famiglia, non importa se condotta come ditta individuale, società di persone o società di capitali. Ma non solo: oggetto del trust saranno anche gli altri beni che compongono il patrimonio di Mevio e che rappresenteranno pertanto la liquidazione dei figli che non risulteranno, alla fine del trust, assegnatari della quota di maggioranza dell’azienda. In questo modo si viene a colmare una delle lacune del patto di famiglia, e cioè il modo in cui il discendente assegnatario, in genere di giovane età e privo di idoneo patrimonio, può reperire la provvista necessaria per liquidare gli altri legittimari, senza fare ricorso ad altri beni della famiglia. Nel trust è il trustee che si sostituisce al discendente assegnatario nell’attività liquidatoria a favore degli altri legittimari, ma avendo la possibilità di attingere dagli altri beni messigli a disposizione dal disponente. Per quanto attiene i beneficiari, l’atto istitutivo definirà come beneficiari i tre figli di Mevio ed i loro discendenti, lasciando alla discrezionalità del trustee la scelta della ripartizione del fondo e dei relativi redditi tra i beneficiari con le modalità e secondo le finalità da Mevio indicate nello stesso atto. In considerazione degli obiettivi posti da Mevio la durata idonea del trust dovrebbe essere compresa tra i quindici ed i venti anni. Una delle esigenze più frequenti per un imprenditore in fase di pianificazione del passaggio generazionale è quella di differire il momento dell’individuazione del successore a cui assegnare il ruolo imprenditoriale, sia perché, come nel caso di Mevio, non è in possesso di tutti gli elementi per effettuare tale scelta, spesso in considerazione della giovane età dei figli, sia perché intende mantenere a sé tale ruolo finchè sarà in grado di svolgerlo in modo efficace. Come già accennato, tale esigenza mal si concilia con la rigida struttura del patto di famiglia, che prevede la contestuale individuazione dell’assegnatario ed il trasferimento dell’azienda o dei diritti sulla stessa. L’obiettivo invece sarebbe raggiungibile con un trust che preveda lo svolgimento delle seguenti funzioni da parte del trustee: nel periodo tra la costituzione del trust ed il raggiungimento dell’età di 25 anni di Tizio, il trustee dovrà far sì che ognuno dei tre figli abbia un ruolo in azienda, eventualmente anche a rotazione tra gli stessi, compatibile con gli impegni universitari e coerente con gli studi svolti, salvo l’esplicito disinteresse di alcuno dei tre figli. al compimento del 25 anno di Tizio, il trustee dovrà individuare, con il concorso del disponente, se ancora in vita, il futuro assegnatario della quota 69 di controllo al quale verranno subito attribuiti poteri gestionali e la corrispondente quota degli utili distribuiti, ed agli altri due quote di minoranza e contestualmente il trustee dovrà individuare e trasferire le quote di partecipazione residue ed i beni da assegnare ai due fratelli non assegnatari della quota di controllo della società in modo tale che il valore dei beni assegnati ai tre figli sia paritetico, ed imputare loro i relativi redditi; il trustee dovrà individuare, con le stesse modalità, un nuovo assegnatario della quota di controllo tra gli altri due fratelli o tra i nipoti di Mevio, a cui affidare ruoli gestionali, riallocando di conseguenza gli altri beni ed i relativi redditi, in caso di: o ripetuti risultati negativi della società; tale possibilità consentirebbe al trustee di rivedere la scelta fatta in considerazione della manifesta inidoneità dell’assegnatario a condurre l’azienda, di fatto subordinando, quindi, il futuro trasferimento della partecipazione di controllo al figlio assegnatario all’ottenimento di performance aziendali positive da parte di quest’ultimo. o Premorienza del fratello assegnatario: la previsione dell’atto istitutivo delle modalità di individuazione del beneficiario/assegnatario dell’azienda quindi, dovrà essere strutturata in modo tale che tale individuazione sia risolutivamente subordinata alle seguenti due condizioni: performance positive della conduzione aziendale ed esistenza in vita del beneficiario assegnatario al termine del trust. Un aspetto che non può essere regolato dal patto di famiglia è proprio l’ipotesi in cui dopo breve tempo dal trasferimento della azienda o delle partecipazioni al figlio assegnatario, quest’ultimo deceda. Si applicherebbero in tal caso le ordinarie regole in materia successoria, con il risultato che, diversamente da quanto pianificato dal disponente a favore della propria famiglia, l’azienda, fonte di ricchezza, vada a confluire a favore del coniuge del figlio scomparso e, pertanto, a persone terze al di fuori del nucleo familiare del disponente e che potrebbero, quindi, essere sgradite. Anche in questo caso il trust potrebbe fornire una soluzione idonea al problema. L’atto istitutivo del trust potrebbe ad esempio prevedere che: in caso di premorienza o sopravvenuta incapacità del figlio assegnatario della quota di controllo, il trustee dovrà individuare il nuovo assegnatario tra i fratelli di quest’ultimo o in alternativa tra i suoi figli; in caso di premorienza di uno degli altri figli le relative spettanze ancora facenti parte del fondo in trust saranno attribuite dal trustee ai figli del de cuius o in mancanza in accrescimento ai fratelli. 4.6 Le problematiche del fondo patrimoniale e le soluzioni con l’utilizzo del trust Per fondo patrimoniale si intende un’entità giuridica consistente di valori economici amministrati per un particolare scopo cui sono destinati; esso è strettamente collegato all’ambito familiare ma comporta delle limitazioni che il trust può superare. Il fondo è istituito con atto notarile ed al fondo vengono trasferiti i beni con negozi traslativi, i beni del fondo sono limitatamente disponibili per il soddisfacimento delle obbligazioni che trovano causa nella destinazione a cui gli stessi beni sono rivolti. Questo strumento viene anche utilizzato da imprenditori, amministratori, professionisti e dirigenti per la difesa del patrimonio personale e della famiglia contro i 70 rischi derivanti dall'attività lavorativa, dato che gli imprenditori e i soci delle società di persone rispondono dei debiti relativi alla propria attività con tutto il loro patrimonio. Chi gestisce l'azienda attraverso una società di capitali, pur non rispondendo direttamente dei debiti, deve spesso rilasciare fideiussioni e garanzie personali, e può essere chiamato a rispondere in proprio quale amministratore. I professionisti sono esposti a richieste di risarcimento da parte dei clienti, specialmente chi ha un incarico dirigenziale in un'impresa o un ente pubblico, è gravato da responsabilità crescenti. Queste esigenze di sicurezza possono essere soddisfatte dal fondo patrimoniale o ancor meglio dal trust. Il presupposto o la condizione di efficacia è l’esistenza di una famiglia legittima, il fondo può essere costituito sia prima che durante il matrimonio e il venir meno del legame coniugale fa cessare il fondo patrimoniale, nel caso di un fondo costituito da un solo coniuge è necessario il consenso dell’altro coniuge; nemmeno le persone in stato vedovile possono costituire fondi patrimoniali. Inoltre possono costituire oggetto di fondo patrimoniale i beni immobili, beni mobili iscritti in pubblici registri e titoli di credito; mentre i beni mobili non registrati, denaro, quote sociali non azionarie e strumenti finanziari non possono essere conferiti in un fondo patrimoniale. Sia i beni che i frutti oggetti del fondo devono essere destinati alle necessità della famiglia, ma non è chiaro cosa si intende per necessità (esigenze strettamente indispensabili o esigenze voluttuarie) e per famiglia ( solamente i due coniugi o la famiglia estesa). Il trust inoltre risulta più idoneo al perseguimento degli obiettivi di tutela, infatti il fondo patrimoniale, a differenza del trust, non prevede beneficiari in senso tecnico: i soggetti in favore dei quali è stato istituito il fondo, ad esempio i figli, non hanno poteri di controllo sulla gestione dei beni, né sono legittimati ad agire nei confronti dei genitori che destinino i frutti a finalità non coincidenti con i bisogni della famiglia. Nel fondo patrimoniale non è previsto che al momento della sua cessazione i beni debbano essere devoluti ad alcuno dei componenti la famiglia, in particolare ai figli, per cui la tutela della famiglia non appare così perseguita col massimo risultato. Anche la segregazione del patrimonio non è paragonabile a quella del trust, è maggiormente circoscritta dato che spetta ai coniugi provare l’effettiva conoscenza da parte del creditore agente in esecuzione dell’estraneità del debito contratto ai bisogni della famiglia, nel caso in cui vogliano evitare l’esecuzione sui beni e i frutti oggetto di fondo patrimoniale. Inoltre vi sono dei limiti sull’amministrazione dei beni in fondo patrimoniale, la normativa comporta l’estensione delle norme relative all’amministrazione della comunione legale al medesimo fondo patrimoniale è la seguente: amministrazione disgiunta per gli atti di ordinaria amministrazione; amministrazione congiunta da parte dei coniugi per gli atti di straordinaria amministrazione e per i contratti con i quali si acquistano o si concedono diritti personali di godimento. Nell’amministrazione si presentano come punti di debolezza del fondo patrimoniale rispetto al trust la discrezionalità consentita ai coniugi nelle decisioni riguardanti l’amministrazione e la disposizione dei beni del fondo, laddove l’esistenza di un trust non consentirebbe la facile alienazione dei beni che lo compongono, producendo altresì l’effetto di disincentivare la costituzione di fondi patrimoniali simulati o abusivi. L’elenco delle principali caratteristiche del fondo patrimoniale riporta una serie di aspetti negativi che limitano l’istituzione e la gestione del fondo; alcuni di questi aspetti svantaggio si possono essere evitati con la costituzione di un trust in favore dei membri della famiglia, la flessibilità di tale strumento permette di sorpassare i vincoli imposti dalla legge senza perdere gli aspetti vantaggiosi del fondo, come verrà analizzato di seguito. 71 Prima di tutto il concetto di trust non è limitato ai nuclei famigliari quindi può essere utilizzato per i bisogni delle famiglie di fatto, da persone vedove o nubili e da persone coniugate che vogliono provvedere all’interesse di un figlio naturale. Inoltre il trust risulta anche utile quando un terzo vuole destinare dati beni ai bisogni della famiglia del figlio, ma senza affidare l’amministrazione al figlio stesso e al coniuge preferendo che ad amministrarlo sia un altro soggetto con determinate qualità. Infine nel trust non ci sono limiti relativi ai beni che possono essere trasferiti al trustee, quindi sono compresi quote societarie, beni mobili non registrati, denaro e qualsiasi strumento finanziario. Per quanto riguarda la segregazione dei beni in trust non vi sono limiti a certi obblighi, infatti spetta al trustee provare che un certo bene è da lui detenuto in trust e non come proprietà privata; in alcuni casi questa prova risulterà piuttosto facile in quanto il trustee è obbligato a tenere conti a parte per i beni in trust, mentre nel caso in cui non esista una documentazione scritta sul trasferimento dei beni questa prova potrebbe risultare più complicata. Quindi invece di costituire un fondo patrimoniale i coniugi dovrebbero valutare le opportunità che derivano dall’istituzione di un trust, in quanto sia la gestione che l’applicabilità sono più flessibili e estensivi rispetto al fondo. 4.7 Atti di destinazione e trust Con l’atto di destinazione, un soggetto (definito conferente) può sottrarre uno o più beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri appartenenti al suo patrimonio alla garanzia patrimoniale di cui all’art.2740 c.c., imprimendo su di essi un vincolo di destinazione funzionale al soddisfacimento di interessi meritevoli di tutela riguardanti beneficiari determinati, a favore dei quali sia tali beni che i loro frutti devono essere impiegati. Il vincolo di destinazione recentemente introdotto dal legislatore sembra presupporre un’area applicativa estremamente ampia, il cui unico limite attualmente risiede nella natura dei beni che possono formarne oggetto (beni immobili o mobili registrati). Il vincolo non può avere durata superiore a novanta anni. Esso deve risultare da atto avente forma pubblica e può essere trascritto ai fini dell’opponibilità nei confronti dei terzi. Per la realizzazione dello scopo può agire, oltre al disponente, anche qualsiasi altro interessato. La conseguenza dell’apposizione del vincolo è che i beni destinati alla finalità ed i loro frutti possono essere oggetto di esecuzione per i soli debiti contratti per tale scopo. L’art. 2645-ter c.c. prevede quindi un vincolo di destinazione atipico, nel quale gli scopi non sono predeterminati dal legislatore ma rimessi all’autonomia privata, sempreché superino il giudizio della meritevolezza degli interessi perseguiti. L’atto di destinazione quale risulta dall’art. 2645-ter c.c. si sostanzia nella funzionalizzazione di un bene, con apposizione del vincolo sul bene stesso, al fine del raggiungimento di un determinato scopo. Il vincolo, effetto dell’atto, comporta limitazioni nel godimento e nel potere di disposizione. Ogni vincolo ha un profilo statico, in quanto esclude i beni vincolati dal principio della responsabilità patrimoniale generica e li rende aggredibili solo per debiti contratti per la finalità; ed un profilo dinamico, perché obbliga uno o più soggetti a perseguire la finalità, potendo il conferente-disponente ed i terzi interessati agire per la sua realizzazione. E’ dunque chiaro che una previsione legislativa così ampia non pare possa impedire che un soggetto si serva del vincolo di destinazione come strumento di protezione patrimoniale personale, similmente a quanto avviene nel trust. Un soggetto potrebbe così creare, all’interno del proprio patrimonio, uno o più patrimoni separati, mettendoli al riparo da eventuali azioni esecutive dei debitori presenti e futuri. E se a tutela di questi ultimi è pur vero che esistono specifici strumenti non è detto che questi siano sempre sufficienti a 72 garantire un’effettiva tutela delle loro ragioni di credito. Il conferente, per realizzare con sicurezza la finalità, deve necessariamente affidarne il perseguimento ad un terzo (o subito, o in seguito alla propria morte o incapacità) e disporre per quando il vincolo sarà cessato. Per questo il vincolo di destinazione come delineato dal codice civile viene nella pratica scarsamente utilizzato. Perché il nuovo istituto possa avere qualche chance di applicazione è necessario che il vincolo inerisca ad un negozio di affidamento fiduciario, in virtù del quale il fiduciario assuma obbligazioni in ordine alla realizzazione della finalità. In quest’ottica il negozio di destinazione diviene il punto iniziale di una serie procedimentale di atti che termina con l’attribuzione al beneficiario. L’atto di destinazione può essere così impiegato anche ai fini del passaggio generazionale nell’impresa: il disponente trasferisce la proprietà dell’azienda relativa alla sua impresa individuale, gravata da vincolo di destinazione, ad un fiduciario, affinché questi la gestisca nell’interesse dei figli del disponente, trasferendone in un secondo tempo la proprietà ai beneficiari medesimi (ovvero a società tra gli stessi costituita) non appena il più giovane degli stessi abbia raggiunto la maggiore età; oppure trasferisca la proprietà dell’impresa a quei beneficiari che manifestino l’intenzione di continuare l’attività di impresa, in forma individuale o societaria, liquidando in denaro la quota spettante ai beneficiari che non intendono continuare detta attività; il disponente trasferisce la propria partecipazione sociale ad un fiduciario, con l’incarico di distribuire gli utili ai figli del disponente, e quindi, una volta che questi ultimi abbiano raggiunto la maggiore età, di attribuire la stessa quota sociale a quei figli del disponente che il medesimo fiduciario ritenga idonei a continuare l’attività di impresa; al fiduciario viene quindi attribuito il potere di compiere ogni scelta ritenuta opportuna ai fini dell’individuazione dei beneficiari finali i quali, da parte loro, hanno solo il diritto a che la scelta venga effettuata entro un dato termine; il disponente, titolare di partecipazioni sociali che non può detenere per problemi di incompatibilità con la sua professione, trasferisce tali partecipazioni sociali ad un fiduciario, con l’incarico di gestire ed amministrare le partecipazioni medesime, devolvendone i redditi ai figli del disponente e con l’obbligo, allo scadere del termine di durata stabilito, di ritrasferire le partecipazioni suddette al disponente o, in mancanza, ai figli. L’introduzione nel nostro ordinamento della norma sul vincolo di destinazione pone il problema di stabilire quale relazione vi sia tra questo nuovo strumento e il trust. I casi possibili sono due: il vincolo di destinazione si affianca al trust e entrambi questi istituti corrono separatamente, come su due binari paralleli; il vincolo di destinazione diventa in Italia ciò che il trust è negli ordinamenti nei quali vige una legge disciplinatrice del trust (e quindi si tratterebbe di un assorbimento del trust nel nuovo vincolo di destinazione). In particolare la dottrina si è chiesta se il vincolo di destinazione, non sia in sostanza una sorta di trust interno. Per cercare di risolvere la questione è utile procedere ad una comparazione tra i due istituti, evidenziandone le analogie e differenze. Un prima fondamentale differenza rispetto al trust è che la nuova normativa in tema di vincoli di destinazione non prevede la partecipazione all’atto istitutivo del vincolo di due soggetti distinti, mentre il trust è incentrato sulla partecipazione di due soggetti: il disponente ed il trustee. D’altro canto, è altrettanto vero che esiste la possibilità per il disponente di dichiararsi trustee dei beni che vengano fatti confluire nel trust così come 73 non si può assolutamente escludere che all’origine del vincolo di destinazione contemplato dall’articolo 2645-ter del Codice civile vi sia un atto plurilaterale, anziché la volontà unilaterale di un solo soggetto finalizzata ad imprimere ad alcuni beni un certo vincolo. Si pensi, ad esempio, ad un gruppo di fratelli che al fine di proteggere i beni di famiglia dalle conseguenze di eventuali vicende negative che interessino l’attività imprenditoriale da ciascuno esercitata, e di far sì che i loro discendenti possano continuare a goderne, decidano di trasferirli ai rispettivi figli, obbligando costoro ad imprimere ai beni ricevuti un determinato vincolo di destinazione (legato alla finalità di preservazione e godimento comune del patrimonio familiare). Analogamente, si potrebbe ipotizzare il caso del libero professionista che, per mezzo di un negozio unilaterale, vincoli alcuni beni del suo patrimonio alla realizzazione degli interessi dei propri figli minori, assicurando loro un sicuro mantenimento fino all’età adulta ed indipendentemente dalle possibili ripercussioni pregiudizievoli che possano riguardare il suo patrimonio. Quanto alla forma è riconoscibile un trust contenuto in un mero atto scritto, senza imporre il ricorso ad un atto pubblico come fa l’art. 2645 ter c.c. Ove poi si aderisca alla tesi contraria ad un atto di destinazione in forma testamentaria, emergerebbe un ulteriore elemento di divergenza rispetto al trust, poiché la Convenzione espressamente ammette sia il trust inter vivos che quello testamentario. Inoltre l’istituto del trust presuppone un fenomeno di carattere attributivo-traslativo, dal quale prescinde invece l’atto di destinazione, infatti, nella fattispecie di cui all’art. 2645 ter c.c. il trasferimento a terzi del bene destinato può essere o meno presente e in ogni caso non assume rilevanza rispetto alla natura destinatoria dell’atto. L’atto di destinazione si caratterizza appunto per il fatto che il conferente rimane proprietario dei beni sottoposti al vincolo e li amministra in prima persona nell’interesse del soggetto beneficiario. La fattispecie delineata nell’art. 2645 ter c.c., inoltre, produce una forma di separazione patrimoniale che permette ai creditori il cui titolo sia ricollegabile alla destinazione, di soddisfarsi non solo sui beni destinati, ma su tutto il residuo patrimonio del conferente. Il trust invece realizza una vera e propria segregazione piena e bilaterale nel patrimonio del trustee: il trustee, infatti, per le obbligazioni contratte al fine di perseguire lo scopo sotteso al trust, non risponde con tutto il suo patrimonio, ma solo con i beni conferiti in trust. Inoltre il giudizio di meritevolezza verrebbe conseguentemente a differenziarsi dal trust, che per sua natura è suscettibile di essere utilizzato per la realizzazione di qualunque interesse, anche speculativo e comunque al di fuori delle ipotesi tipiche previste dal legislatore. Vi è chi riconoscendo le differenze tra trust e atto di destinazione, considera quest’ultimo un frammento di trust, poiché tutto ciò che è nell’atto di destinazione è anche nei trust, ma i trust si presentano con una completezza regolamentare e una collocazione nell’area della fiducia che l’atto di destinazione non presenta. Anche la durata costituisce un elemento distintivo importante tra le due fattispecie: per espressa disposizione legislativa il vincolo di destinazione non può superare i novant’anni o la durata della vita della persona fisica che ne risulti beneficiaria, mentre nel caso del trust la durata dipende dalle previsioni della legge regolatrice che ad esso sia applicabile. Gli elementi distintivi tra vincolo di destinazione e trust non sono di poco conto; anzi, paiono tali da indurre a concludere che la fattispecie contemplata dall’articolo 2645ter del Codice civile ed il trust siano istituti da tenere ben distinti. 4.8 Il non charitable purpose trust per il passaggio generazionale Un’applicazione interessante del trust riguarda la figura del non charitable purpose trust (NCPT) prevista da alcune leggi di nuova generazione. Tale figura si compone di due trust distinti ma congiunti: il primo, detenendo le azioni dotate di diritto di voto, ha 74 tipicamente la funzione di gestire il controllo dell’azienda; il secondo è un trust tradizionale con beneficiari (di solito i membri della famiglia) di reddito e capitale che invece detiene le azioni prive di diritti gestori ma munite di diritti patrimoniali permettendo ai familiari dell’imprenditore di ricavare dalle partecipazioni le utilità economiche che ne assicurano il mantenimento e poi la destinazione del capitale. Tutto questo senza interferire nella gestione del controllo, affidata a soggetti qualificati, quindi senza compromettere la gestione efficiente della società. L’intenzione del disponente di assicurare i benefici economici della società di famiglia ai suoi discendenti deve coniugarsi con quella, a volte antitetica, della preservazione del valore dell’impresa e potrebbe essere pregiudicata dalla mera istituzione di un trust con beneficiari in cui gli stessi familiari detengono sia i diritti patrimoniali che quelli gestori sulla società. La necessaria assenza dei beneficiari infatti, è motivata dal fatto che essi, in quanto titolari di diritti insopprimibili quali quello al rendiconto e all’informazione, potrebbero attivare tali pretese nei confronti del trustee così pregiudicando la realizzazione della finalità del trust divisata dal disponente. Nel non charitable purpose trust, oggi sempre più frequente nelle leggi del modello internazionale, l’esercizio dei diritti di voto relativi alle azioni conferite in trust spetta ad un trustee professionale, o ad un collegio di trustees, accanto alla creazione di un trust tradizionale con beneficiari di reddito e capitale. Una interessante opportunità in questo ambito è offerta dalla legge della Repubblica di San Marino sui trust. Essa infatti, prevede che “lo stesso atto istitutivo di trust può istituire trust con beneficiari e trust di scopo”: la previsione quindi, sembra particolarmente adatta a regolare il problema della successione nell’impresa di famiglia quando questa è organizzata in forma societaria. La prassi seguita nei trust del modello internazionale, in particolare in forza di leggi particolarmente sensibili al tema dell’efficace gestione del controllo di pacchetti azionari di società familiari quali quelle di Jersey, Bahamas, Bermuda e da ultimo Dubai, vede la necessaria creazione di quindi di due trust: uno, di scopo, finalizzato all’esercizio del controllo azionario e al passaggio dello stesso nelle varie generazioni; l’altro, con beneficiari, nel quale le azioni prive di diritto di voto spettano ai familiari. E’ chiaro quindi, come la norma della legge di San Marino offra una nuova e interessante opportunità, che le attribuisce un vantaggio competitivo anche nei confronti delle altre leggi di ultima generazione, consentendo l’istituzione contestuale dei due tipi di trust che in altre legislazioni richiederebbero atti separati. 4.9 Caso pratico Di seguito verrà descritto un trust che è stato utilizzato da un imprenditore per realizzare il passaggio generazionale dell’impresa di famiglia e, più in generale, di tutto il suo patrimonio. Il signor Marco, ha 68 anni e, dopo un primo matrimonio con Cristina, da cui è nato Roberto, oggi trentacinquenne, a seguito della prematura scomparsa della moglie, si è risposato con Grazia, da cui ha avuto due figli: Riccardo, oggi venticinquenne e Francesca, di cinque anni. Roberto è separato e non ha figli; da alcuni anni ha problemi di salute che lo costringono a lunghe degenze in case di cura. Riccardo convive e ha due bambini. Relativamente all’attività esercitata, il signor Marco è un imprenditore operante nel campo dell’edilizia. L’azienda (la Mattone Srl) è stata da sempre gestita da lui in prima persona e solo da cinque anni il primogenito Roberto ha iniziato a lavorarvi, ricoprendo inizialmente ruoli non gestionali e solo da qualche mese assumendo il ruolo di junior manager. Riccardo svolge invece la professione di architetto e solo saltuariamente supporta il padre ed il fratello nell’attività aziendale. Quanto, infine, al patrimonio della famiglia di Marco, esso è ad oggi accentrato esclusivamente nelle mani del capostipite, è rilevante e variamente 75 composto, essendovi presenti, oltre alla Mattone Srl, sia beni immobili che strumenti finanziari. Al momento nessuno dei figli del signor Marco ha assunto funzioni di alta responsabilità nell’attività gestionale dell’impresa di famiglia, non può tuttavia escludersi che ciò possa avvenire in futuro. In attesa che qualcuno tra figli e nipoti manifesti l’intenzione e l’idoneità di voler partecipare alla gestione dell'azienda, il signor Marco vuole trovare una soluzione che gli consenta di evitare che la sua morte comporti la distruzione dell’impresa a causa del venir meno di chi la guidava. Tale programmazione è tanto più necessaria in previsione di un possibile aggravamento delle condizioni di salute di Roberto che potrebbe impedire allo stesso di proseguire e sviluppare il percorso intrapreso nell’azienda familiare. Il signor Marco ha, altresì, interesse a trovare una soluzione che: protegga e assicuri unitarietà all’azienda e, più in generale, al patrimonio familiare; equamente ripartisca il patrimonio tra i suoi discendenti, escludendo dall’attribuzione di beni di famiglia i rispettivi coniugi; concili l’aspirazione dei figli più maturi a subentrare nella conduzione dell’impresa con la legittima protezione che deve essere concessa alla figlia minore; individui tra i discendenti colui o coloro che sono più adatti per assumere il comando dell’impresa, al contempo rispettandone la libertà in relazione alle loro scelte di studio o professionali; assicuri reddito o mantenimento anche agli altri membri della famiglia che non saranno destinatari dell’impresa; gli consenta, finché ne abbia volontà e capacità, di continuare ad avere un ruolo nella gestione dell’azienda; sia efficiente dal punto di vista fiscale e, comunque, non peggiorativa rispetto ad un’ipotesi di successione o donazione. Dopo aver ricercato nel nostro ordinamento degli istituti che consentissero di risolvere le problematiche del Sig. Marco (ovvero: holding, donazione della nuda proprietà, patto parasociale o di famiglia) è emerso che non erano sufficienti a soddisfare tutte le esigenze elencate. Quindi la proposta di un trust è la soluzione ottimale per bilanciare gli interessi in campo e per effettuare le attribuzioni più consone, da un lato, alla preservazione del valore dell’impresa di famiglia e, dall’altro, all’equa ripartizione del patrimonio del signor Marco. La soluzione trust si presenta, altresì, interessante anche dal punto di vista fiscale in quanto: relativamente alle imposte dirette, il trasferimento di beni diversi da quelli dell’impresa in un trust non genera materia imponibile ai fini delle imposte sui redditi né in capo al disponente, né in capo al trust, attesa la totale assenza di qualsiasi corrispettivo; relativamente alle imposte indirette: o la segregazione di beni in un trust liberale istituito a favore dei propri discendenti è assoggettata all’imposta sulle successioni e donazioni con aliquota proporzionale del 4% e con una franchigia, per ciascun beneficiario, di euro 1.000.000,00; o qualora, però, la segregazione in trust riguardi l’azienda e sia strumentale alla finalità liberale del passaggio generazionale ai discendenti o al coniuge del disponente tale atto potrà godere dell’esenzione dall’imposta sulle successioni e donazioni, purché siano soddisfatte le specifiche condizioni prescritte dalla norma, ovvero: i destinatari del trasferimento siano il 76 coniuge o i discendenti; i destinatari del trasferimento d’azienda, o della partecipazione in società, proseguano l’esercizio dell’attività di impresa o mantengano il controllo societario (nel caso di società di capitali) per un periodo non inferiore a cinque anni dalla data del trasferimento; l’impegno alla prosecuzione dell’attività di impresa (o al mantenimento del controllo) sia espressamente reso dagli aventi causa, contestualmente alla presentazione della dichiarazione di successione o all’atto di donazione. L’atto costitutivo è stato sottoscritto innanzi ad un notaio dal signor Marco in qualità di disponente, trustee è stata nominata una trust company appartenente ad un Gruppo Bancario italiano; nell’atto è stata prevista l’ulteriore limitazione che anche nel caso di future nomine almeno un trustee debba essere una società che svolga professionalmente tale attività. La legge scelta a regolare il trust è stata quella di Jersey in quanto ritenuta la più idonea alle finalità perseguite dal disponente, consentendogli di essere entro certi limiti partecipe della gestione del trust. Insieme alla sottoscrizione dell’atto istitutivo, con un atto separato è stato segregato nell’istituto del trust l’intero capitale dell’impresa di famiglia, strumenti finanziari e due immobili per un valore complessivo di 3 milioni di euro. I beni segregati in trust rappresentano la quasi totalità del patrimonio complessivo del signor Marco; tale scelta si giustifica in virtù della volontà dell’imprenditore di utilizzare il trust non solo per il passaggio generazionale della Mattone srl, ma anche per eventualmente soddisfare i legittimari che non sarebbero stati destinatari dell’impresa di famiglia. Anche il trustee designato è intervenuto nell’atto di dotazione al duplice fine di accettare l’incarico conferitogli dal disponente in relazione alla gestione dell’istituito trust e assumere l’obbligazione di non disporre del controllo della Mattone Srl per cinque anni, al fine di ottenere l’esenzione totale da imposta di conferimento per tale bene. Finalità e caratteristiche del trasferimento: nell’atto è stata inserita una premessa dalla quale si evince che finalità del disponente è la creazione di un fondo che: includa la partecipazione di controllo nella Mattone Srl, irrevocabilmente destinata a tempo debito ai discendenti del disponente; provveda alla sicurezza economica dei figli e dei discendenti del disponente, prevenendo possibili dissensi fra di essi. I beneficiari: beneficiari del trust sono i discendenti del disponente nati entro il termine finale della durata del trust. È, altresì, prevista la facoltà del disponente, anche mediante testamento, di: destinare uno o più beni in trust ad uno specifico beneficiario o a una categoria di beneficiari, enunciando o meno specifiche disposizioni, inclusi trust discrezionali e protettivi e poteri dispositivi o gestionali, spettanti al trustee o ad altri su tali beni; attribuire diritti di credito a qualunque persona verso il trustee, precisando in ciascun caso se il trustee sia tenuto: a corrispondere alla persona specifiche somme, episodiche o periodiche; ovvero a provvedere, e in quali limiti e con quali modalità, a necessità di mantenimento o di assistenza della persona. La clausola sui beneficiari, così come strutturata, consente al disponente ampia libertà di scegliere fino al momento della sua morte all’interno della categoria designata i destinatari dell’impresa, nonché degli altri beni segregati in trust. Inoltre, il disponente può tramite il trust medesimo provvedere alle esigenze di mantenimento della moglie, ma anche di una futura compagna, ovvero assolvere altre obbligazioni pecuniarie. Il periodo di indisponibilità e la durata del trust: anche questa clausola è stata strutturata al fine di rispettare il dettato normativo che consente di avere l’esenzione 77 dall’imposta di conferimento in merito alle quote dell’impresa di famiglia. Più specificamente, dopo aver introdotto una convenzione redazionale che identifica come periodo di indisponibilità quello decorrente dalla data del trasferimento della partecipazione di controllo della Mattone Srl alla data nella quale si compia un quinquennio da tale trasferimento, è stata prevista una durata del trust pari a 60 anni dal termine iniziale. È, tuttavia, contemplata la facoltà del trustee, nell’interesse dei beneficiari, di dichiarare una data anteriore di chiusura del trust a condizione che sia defunto il disponente e sia decorso il periodo di indisponibilità. Quindi da un lato, una durata molto lunga del trust al fine di garantire la continuità dell’azienda anche nel caso in cui si dovesse saltare la prima generazione per mancanza di eredi idonei o interessati alla sua gestione, dall’altro la facoltà in capo al trustee di chiuderlo anticipatamente laddove, invece, si realizzasse una situazione più favorevole e sempre che si siano verificate le due condizioni indicate in atto. Poteri del trustee: nell’atto è stato riconosciuto al trustee un generale potere di investimento in relazione ai beni in trust. È contemplata la possibilità da parte dello stesso di mutuare somme ad un beneficiario nel limite del valore dei beni ad esso spettanti o di prestare garanzie a suo favore, nonché di consentire al disponente, al suo coniuge e a beneficiari di abitare in immobili inclusi nel fondo in trust. Quanto all’impiego dei beni in trust, il trustee deve: adempiere con essi alle obbligazioni assunte verso terzi, nonché quelle derivanti dall’attribuzione da parte del disponente di diritti di credito verso il trust a favore di determinate persone; utilizzarli a vantaggio dei beneficiari, del disponente o della persona che con lui viva o abbia vissuto qualora uno di taluni soggetti abbia necessità: di mantenere il proprio abituale tenore di vita o attinenti la propria salute o la propria assistenza personale. Relativamente alla destinazione del reddito del fondo in trust non impiegato per le finalità precedenti, il trustee può, in tutto o in parte: accumularlo a capitale, incrementandolo; versarlo ai beneficiari o impiegarlo a loro vantaggio; mantenerlo disponibile per futuri impieghi. Sono inoltre previste specifiche limitazioni ai poteri del trustee con riferimento alla Mattone Srl in quanto: prima del decorso del periodo di indisponibilità il trustee non può alienare la partecipazione di controllo nella Mattone Srl, in misura tale che ne derivi la perdita del controllo della società; dopo il decorso del periodo di indisponibilità, solo dopo aver ottenuto il consenso dei beneficiari può alienare la partecipazione di controllo nella Mattone Srl, in tutto o in parte; può concedere a terzi garanzie reali in relazione ad obbligazioni legittimamente assunte solo qualora tali garanzie non comportino il rischio di perdere il controllo della Mattone Srl nel corso del periodo di indisponibilità. È anche contemplato che il trustee possa consentire al disponente di rivestire la carica di amministratore nella Mattone Srl. e che nel valutare se e come esercitare alcun diritto quale socio della Mattone Srl debba richiedere indicazioni ai beneficiari e ad esse uniformarsi qualora le ritenga conformi all’interesse generale del trust. In caso di indicazioni contrastanti prevale l’indicazione formulata dalla maggioranza, calcolata come se fosse sopraggiunto il termine finale della durata del trust e la partecipazione nella società fosse già di proprietà dei rispettivi beneficiari. Inoltre, per evitare che svolgano un ruolo i 78 rispettivi genitori, che sarebbero probabilmente estranei alla famiglia, è previsto che qualora vi fossero beneficiari incapaci la loro volontà sia espressa dal guardiano. Anticipazioni e atti dispositivi: una clausola ad hoc dell’atto istitutivo riconosce in capo al trustee un potere di anticipazione nei confronti dei beneficiari che abbiano compiuto il venticinquesimo anno di età, purché sia morto il disponente e ciò non intacchi la partecipazione di controllo nella Mattone Srl nel corso del periodo di indisponibilità. Nessun beneficiario potrà, invece, alienare, dare in garanzia, o, comunque, disporre, in tutto o in parte, della propria posizione giuridica se non in favore di un altro beneficiario. Diritti dei legittimari: potrebbe accadere che alla morte del signor Marco un legittimario agisca in riduzione, impugnando gli atti di dotazione al trust per la parte lesiva dei propri diritti. Per prevenire o, comunque, attenuare, tale rischio il signor Marco nella fase di individuazione all’interno dei suoi discendenti dei soggetti beneficiari finali dei singoli beni costituenti il fondo in trust dovrà fare in modo che l’interesse economico del legittimario legato al trust sia maggiore della sua pretesa. In ogni caso, nell’atto istitutivo vi è una clausola specifica che regola tale eventualità, prevedendo soluzioni sia per l’ipotesi che il trustee addivenga a patti con il richiedente, sia per il caso in cui il trustee si debba costituire in giudizio a seguito di introduzione da parte del legittimario dell’azione di riduzione. Il guardiano: è prevista in atto la facoltà, in primis in capo al disponente e, a seguito di mancanza dello stesso, in capo ai beneficiari di nominare un guardiano. I poteri riconosciuti al guardiano sono fiduciari e lo legittimano ad interloquire con il trustee su qualsiasi attività del trust, nonché a revocare il trustee e ad agire in giudizio contro di lui. L’atto istitutivo prevede, inoltre, che qualora manchi il guardiano ogni sua funzione è esercitata da parte del disponente. Possibilità di modificare l’atto istitutivo: nell’atto istitutivo è espressamente contemplata la possibilità che il trustee, ottenuto il consenso del guardiano, modifichi l’atto istitutivo come egli ritenga sia opportuno nell’interesse generale del trust e a condizione che le modificazioni non facciano venire meno il regime esonerativo. In conclusione il Sig. Marco attraverso lo strumento del trust ha potuto programmare e pianificare il passaggio generazionale dell’azienda in maniera da prevenire il sorgere di futuri attriti tra eredi (tale esigenza è tanto più sentita laddove sussistano discendenti nati da unioni diverse, ovvero con età o aspirazioni diverse) e sopperire all’eventuale mancanza di eredi, ovvero all’assenza di eredi idonei o interessati alla continuazione dell’impresa. In questo modo l’azienda mantiene una gestione fluida e unitaria, il patrimoni personale e aziendale dell’imprenditore sono separati ma entrambi protetti da questa particolare forma di garanzia alternativa e i discendenti divengono beneficiari; quindi l’imprenditore riesce attraverso il trust ad occuparsi delle loro esigenze future oltre che al proseguimento dell’azienda. 79 Note conclusive Le imprese familiari continuano a rappresentare la componente fondamentale di ogni sistema economico nell’arena internazionale, pur presentandosi con caratteristiche specifiche per ogni contesto. La globalizzazione dei mercati, l’aumento della pressione competitiva, l’incremento del peso dell’immaterialità delle risorse di successo, l’innovazione tecnologica, lo sviluppo dei mercati finanziari hanno individuato profonde sfide per l’impresa familiare. Nello scenario italiano, la problematica relativa al trasferimento della proprietà e del controllo dell’impresa familiare è di estrema ed attuale rilevanza: per ragioni anagrafiche, molti imprenditori si troveranno, nei prossimi anni, a dover passare il testimone della guida dell’impresa. Il momento del ricambio generazionale racchiude in sé i cambiamenti di fase dei tre cicli di vita dell’impresa, della famiglia e della proprietà, tra loro strettamente interconnessi costituisce una sfida alla sopravvivenza stessa dell’impresa. La continuità e il successo delle aziende famigliari sono legati all’equilibrio esistente tra azienda-famiglia-patrimonio. La vera difficoltà sta nella ricerca e nel mantenimento di tale equilibrio che, in tutte le fasi di vita dell’impresa familiare, può essere messo in discussione. La tesi ha esaminato i caratteri distintivi dell’impresa familiare evidenziandone l’esigenza di un approccio interdisciplinare imposto proprio dalla compresenza di sistemi tra loro profondamente diversi, tale sovrapposizione rappresenta il principale punto di debolezza delle aziende familiari. Tale modello rimane e rimarrà sempre un pilastro per la modernità della nostra economia che, soggetta a continui e repentini cambiamenti, non può non trovare nella famiglia la sua forza trainante. L’imprenditore italiano, infatti, sovrapponendo la sua vita personale a quella dell’azienda, è stato in grado di sviluppare un capitale relazionale capace di tessere trame sociali caratterizzate da una flessibilità creativa difficilmente ritrovabile negli automatismi di mercato, prima di tutto il piccolo imprenditore assume personalmente il rischio trasportando la sua vita personale e familiare all’interno del meccanismo dell’investimento economico; in secondo luogo esso ha una posizione peculiare sul terreno dell’apprendimento che avviene attraverso il learning by doing e in terzo luogo il comando è un comando ricco di qualità personali in cui la reputazione della persona conta molto, nei confronti sia dei dipendenti sia dei terzi. Si ritiene, quindi, che uno dei rischi a cui è esposto gran parte delle aziende familiari italiane, ovvero quello del ricambio generazionale, deve essere fronteggiato sposando la logica della preservazione di quanto sinora costruito in termini di capitale sociale. La logica ispiratrice sarà quindi la continuità di una leadership competitiva perseguibile coltivando a livello aziendale, sociale ed educativo le preziose doti di imprenditorialità. Infatti, se è vero che generazione di nuova imprenditorialità, investimento in apprendimento e successione generazionale sono le tre vie da percorrere per far sì che tutto ciò che è stato creato dalle nostre imprese non venga annullato dall’incalzare di una complessità ambientale in continua crescita, non può l’imprenditoria italiana familiare sottrarsi all’arduo compito di ricercare successori ispirati da una sana imprenditorialità; una caratteristica distintiva del trust è la possibilità del disponente di scegliere il soggetto più idoneo e caratterizzato da imprenditorialità a cui verrà affidata la gestione dell’azienda, evitando una successione con eredi non adeguati o disinteressati al ruolo. Tenendo conto delle tendenze in atto nella nostra società (come i cambiamenti che si registrano a livello demografico, sociale e soprattutto economico) è necessario superare le logiche passate con strade alternative in grado di travalicare le reti parentali e protettive costruite intorno alla famiglia ma senza spersonalizzare necessariamente il sistema del family business. Si tratta cioè di considerare il ricambio generazionale non solo come un 80 trauma da compensare in qualche modo, ma un’occasione di innovazione, un evento attraverso cui vengono inserite persone in grado di produrre un valore aggiunto. Una valida alternativa, sostenuta dalla tesi, è l’utilizzo del trust nel passaggio generazionale dato che permette di raggiungere determinate finalità che altri strumenti presenti nell’ordinamento italiano non consentono, ad esempio: garantire l’unità del patrimonio aziendale; assicurare la funzionalità dell’attività imprenditoriale; mantenere la continuità e la flessibilità della governance societaria; programmare nei tempi giusti le varie fasi; adottare una visione di lunghissimo periodo (il trust può essere previsto per gestire il passaggio generazionale di almeno tre generazioni); proteggere e garantire l’unità del patrimonio; attenuare i conflitti familiari; evitare l’apertura della successione; assicurare la continuità e la funzionalità dell’attività imprenditoriale; combinato con una cassaforte familiare garantisce anche una protezione del controllo verso possibili scalate esterne; consente facilmente al disponente di modificare la sua volontà a seguito di eventi futuri in precedenza non preventivati, grazie alla flessibilità che lo caratterizza. Il sorgere di possibili attriti familiari i quali rischiano di portare alla completa distruzione del patrimonio aziendale insieme all’esigenza, da parte dell’imprenditore titolare dell’azienda, di determinare quale dei suoi eredi sia in grado di sostituirlo alla guida dell’azienda stessa fanno si che (ove se ne presentino le condizioni) il trust rappresenti un valido strumento di pianificazione del passaggio generazionale nelle aziende. Ad esempio nel caso vi sia una molteplicità di eredi, qualora mostrino differenze sul piano delle capacità imprenditoriali, della propensione al rischio e degli interessi, tramite l’utilizzo del trust il trustee non solo avrebbe il compito di garante della continuità sul piano della conduzione dell’azienda, in conformità alle indicazioni provenienti dal fondatore dell’impresa, ma anche quello di individuare all’interno del gruppo dei beneficiari i discendenti maggiormente idonei ad assumere il controllo aziendale. Tale valutazione non potrà prescindere da criteri il più possibile oggettivi, da indicarsi nell’atto istitutivo del trust, quali il senso degli affari, le attitudini imprenditoriali, lo spirito di dedizione, il livello di maturità, il senso di responsabilità, le motivazioni. Altri timori per l’imprenditore sono il rischio che soggetti terzi si avvicinino alla famigli per appropriarsi di parte del patrimonio e che gli eredi cedano l’azienda ad altri soci indesiderati o, ancora, a dei concorrenti. È inoltre desiderio comune degli imprenditori quello di mantener il controllo sull’azienda fino la giorno della morte , ed al tempo stesso di mettere alla prova chi lo sostituirà. Nell’istituzione di un trust per il passaggio generazionale di un’azienda viene affidata al trustee la proprietà dell’impresa o meglio la gestione della proprietà e questo permette di mantenere l’unità degli assetti proprietari e, nel caso in cui l’oggetto del trust siano le sole partecipazioni sociali, di continuare ad affidare agli amministratori in carica la gestione senza incorrere in alcuna discontinuità relativamente alla politica aziendale. I beneficiari saranno lo stesso imprenditore e i suoi familiari per quanto concerne le rendite e per quanto concerne, invece, l’attribuzione finale dei beni i suoi discendenti o a seconda di cosa si a stato discrezionalmente stabilito dal disponente nell’atto di istituzione. La scelta potrà anche cadere su una generazione successiva, non risulteranno dunque pregiudicati i diritti degli altri familiari in quanto il reddito aziendale, al netto degli investimenti, sarà a loro attribuito. 81 Attualmente le aziende familiari italiane per risolvere il delicato passaggio generazionale, sembrano affidarsi a strumenti più tradizionali, dagli effetti giuridici certi, come ad esempio la costituzione di una cassaforte di famiglia oppure la donazione. Effetti giuridici certi che purtroppo nell’ordinamento italiano il trust ancora non possiede dato che è disciplinato solamente in ambito fiscale, lasciando ampia discrezionalità al disponente nella configurazione della struttura, nella scelta della legge regolatrice e degli effetti riconosciuti per mezzo della Convenzione dell’Aja. Al contrario, nelle aziende statunitensi, inglesi e di nazioni con ordinamento giuridico di common law l’utilizzo del trust ai fini del passaggio generazionale è notevolmente diffuso dato che l’ordinamento giuridico regolamenta analiticamente la figura del trust. Le prospettive future per il riconoscimento in Italia del trust sono abbastanza buone. Vi sono sempre progetti di legge al vaglio ed il lavoro di ricerca in tal senso è in costante aumento. In ogni caso vi sono ancora alcune considerazioni legate ai trust da non dimenticare: i trust non sono uno strumento illecito al quale ricorrere per costruire complicati meccanismi che consentano di conseguire vantaggi fiscali o di eludere o evadere le imposte, questo è un uso distorto dell’istituto per gestire particolari operazioni societarie che nulla hanno a che fare con il trust; i trust non sono uno strumento al quale ricorrere solo a fronte di ingenti patrimoni o di notevoli interessi economici anzi, spiegano ottimi effetti, come l’esperienza anglosassone insegna, soprattutto nelle piccole realtà famigliari e in ambito successorio; i trust non sono in contrasto con le norme imperative del nostro ordinamento ed in particolare con le norme sulla proprietà e sui diritti reali minori, con le norme in materia di trascrizione né infine con l’art. 2740 c.c., essendo i creditori sempre tutelati dall’azione revocatoria generale. Il trust è senza dubbio lo strumento maggiormente in grado di dar risposta a tutte le esigenze dell’imprenditore sopra esposte, come dimostrato nel caso pratico descritto nel capitolo 4, grazie alla sua capacità di dare unità alla titolarità delle partecipazioni sociali ed, infine, di separare le partecipazioni sottoposte al trust con conseguente indifferenza rispetto alle vicende dei singoli soggetti. Il trust, inoltre, presenta anche elevati vantaggi anche dal punto di vista fiscale: il conferimento dell’azienda è assimilato ad una donazione ed è quindi soggetto alla disciplina impositiva di tale istituto giuridico che, nel caso di parentele in linea retta, gode di una tassazione di particolare favore. 82 Bibliografia ALBERTINI L., Conclusione e formazione progressiva del patto di famiglia, in Giust. Civ., 2007, p. 311. ATTANZIO G., Un passaggio senza traumi, intervista al Direttore Generale dell’Aidaf, febbraio 2006. ATTI DEL CONVEGNO, Il passaggio generazionale delle PMI. 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