Romanello Pierangela, nata il 27/04/1982 a Copertino (LE), si è laureata presso la Facoltà di Giurisprudenza di Siena, a.a. 2006-2007, con votazione 110/110 e lode, tesi intitolata “La conciliazione nel lavoro privato e nel lavoro pubblico”, relatore prof. Giovanni Cosi. Ha frequentato, nell’a.a. 2005-2006, il Master di primo livello in “Procedure stragiudiziali di risoluzione delle controversie” organizzato dall’ Università di Siena e dalla CCIAA di Grosseto. Nell’ottobre 2008 ha partecipato al corso di aggiornamento in Conciliazione Societaria, conseguendo la relativa qualifica. Dal gennaio 2007 è iscritta nell’ albo dei conciliatori presso la Camera Arbitrale e di Conciliazione della CCIAA di Grosseto. Attualmente svolge pratica forense e frequenta la Scuola Biennale di Specializzazione per le Professioni Legali dell’Università di Tor Vergata. LA CONCILIAZIONE NEL LAVORO PRIVATO E NEL LAVORO PUBBLICO Romanello Pierangela 1 INDICE Introduzione pag. 4 Capitolo 1 Evoluzione storica della conciliazione : 1. Riforma del processo del lavoro ( l. 533/1973 ). 2. Dal d.lgs. 80/1998 al d.lgs. 165/2001. 2.1 La conciliazione nel d.lgs. 80/1998. 2.2 Considerazioni sul processo storico normativo. pag. pag. pag. pag. 6 9 9 12 Capitolo 2 La conciliazione nel Diritto del Lavoro: 1. La conciliazione nel lavoro privato. 1.1. La procedura di conciliazione. 1.1.1. La conciliazione in raccordo con la disciplina dell’art. 2113 c.c. 1.2. La conciliazione in sede amministrativa: la Commissione di conciliazione. 29 1.3. La conciliazione in sede sindacale. 1.3.1. Accordi interconfederali in materia di conciliazione. 1.4. Punti deboli del sistema conciliativo nel settore del lavoro privato. 2. La conciliazione nel lavoro pubblico. 2.1. La procedura di conciliazione. pag. 21 pag. 27 pag. 27 pag. pag. 33 pag. 35 pag. 37 pag. 42 pag. 42 2.1.1. La responsabilità amministrativa per il rappresentante della pubblica amministrazione. pag. 46 2.2 La conciliazione in sede amministrativa : il Collegio di conciliazione. pag. 49 2.3 La conciliazione in sede sindacale. pag. 52 2.3.1. Accordi interconfederali in materia di conciliazione. pag. 56 2.4. Punti deboli nel sistema conciliativo nel settore del lavoro pubblico. pag. 59 2.4.1. Particolarità della conciliazione nel lavoro pubblico. pag. 60 2.4.2. Soggetti e uffici predisposti al tentativo di conciliazione. pag. 63 2 3. La conciliazione monocratica. 65 3.1. Il procedimento di conciliazione. 3.1.1. La conciliazione monocratica preventiva. 3.1.2. La conciliazione monocratica contestuale. 3.1.3. La diffida accertativa. 3.2. Limiti della conciliazione monocratica. pag. pag. pag. pag. pag. pag. 67 67 70 71 72 Capitolo 3 Effetti e futuro della conciliazione nel diritto del lavoro : 1. Analisi della Direzione Provinciale del lavoro. 2. I tentativi di riforma al procedimento conciliativo. 2.1. Il Progetto Foglia ( Ottobre 2001 ). 2.2. I disegni di legge n. 1047 del 28 settembre 2006 e n. 1163 del 14 novembre 2006. pag. 76 pag. 90 pag. 91 pag. 93 2.2.1. 2.2.2. 2.2.3. 2.3. Il disegno di legge 1047. Il disegno di legge 1163. Commenti ai disegni di legge nn. 1047 e 1163. Il Progetto Foglia ( Novembre 2006 ). pag. pag. pag. pag. 93 95 97 100 Conclusioni 103 pag. Bibliografia 105 pag. Sitografia 111 pag. 3 Introduzione. La conciliazione, in termini giuridici, è un negozio atipico di natura contrattuale, derivante dalla sintesi di diversi negozi. All’interno del quale uno o più soggetti, al termine di un procedimento che prevede l’intervento di un terzo investito del compito di agevolare lo svolgimento del negoziato, risolvono una controversia, di fatto o di diritto, facendosi delle concessioni, rinunzie e riconoscimenti1. Questa procedura stragiudiziale, in quanto mezzo particolarmente idoneo a instaurare un dialogo tra le parti, consente la presa di coscienza di problemi permettendo di raggiungere delle soluzioni ottimali e perseguire il migliore possibile interesse, in cui si dovrebbe sostanziare l’attività lavorativa. Il nostro paese ha da anni il problema della lunga durata dei processi e l’unico settore processuale leggermente migliore era proprio quello del lavoro. L’Italia ha subito una serie di sanzioni a livello europeo, la più esemplare è data dalla condanna al pagamento a favore di un dipendente pubblico di diciottomila euro, a titolo di danno morale, oltre a duemila euro, per le spese legali. La condanna suddetta è motivata dalla violazione del termine ragionevole di durata di un processo promosso da un pubblico dipendente, avente ad oggetto la retrodatazione dell’anzianità di servizio ed il pagamento dei crediti di lavoro. Il giudizio in esame è durato dodici anni e 1 AA. VV. “ Transazione, arbitrato e risoluzione alternativa delle controversie – appalto – opere pubbliche – condominio – locazione – lavoro privato e pubblico – mediazione – agenzia – famiglia – successioni – conciliazione – notariato – impugnazione – diritto trasnazionale ”, Utet, Torino, 2006, p. 574. 4 due mesi2. A parte questo caso limite, la durata media di un giudizio dinanzi al Tribunale Civile, in funzione del giudice del lavoro, sull’intero territorio nazionale è di circa cinque anni. L’espandersi della litigiosità non può trovare come unica causa quella della grande facilità di accesso al giudice e della scarsa valorizzazione dell’istituto della conciliazione, ma è sicuro indice di un malessere che risale ad una attività amministrativa non funzionante e ad una produzione legislativa copiosa, ma irrazionale3. Il legislatore, per risolvere il problema dei lunghi processi, introdusse nel 1998 il tentativo obbligatorio di conciliazione, questo obiettivo può essere garantito dall’ordinamento in due modi : o disponendo l’improcedibilità della domanda attrice in caso di mancato esperimento del tentativo, oppure prevedendo l’improponibilità della stessa. Il ricorso alla conciliazione, come ad altri metodi alternativi, dovrebbe essere visto come una forma di risoluzione parallela delle controversie, deve essere incentivata particolarmente in tutte quelle dispute in cui la soluzione non necessita di una decisione vincolante, ma può essere mediata di fronte ad un conciliatore. Al cittadino non deve essere imposto un tentativo di conciliazione soltanto per scoraggiarlo dall’adire il giudice togato, piuttosto gli si dovrebbe offrire una doppia via: da un lato, la via autoritativa, dall’altro, quella conciliativa. Entrambi i canali devono presentarsi come soluzioni garantite ed efficienti, con una tendenza ad incentivare il ricorso alla via conciliativa. Se dunque questo metodo alternativo di risoluzione della lite fosse preso in considerazione come una facoltà, una libera iniziativa concessa alle parti, riuscirebbe ad ottenere l’ acquiescenza dell’opinione pubblica. Come si vedrà in seguito i numerosi interventi normativi hanno contribuito ad ampliare la materia mediatica in ambito lavoristico, ma omettendo di salvaguardare il motivo in cui un soggetto si rivolge alla procedura 2 Corte Europea dei Diritti dell’ Uomo, sent. 19 febbraio 2002 n. 26207/00, in http://www.dirittiuomo.it 3 http://www.consulentidellavoro.it 5 conciliativa e alla figura del conciliatore, il quale svolge una semplice funzione notarile di un accordo raggiunto tra i due litiganti4. CAPITOLO 1 Evoluzione storica della conciliazione. 1. Riforma del processo del lavoro ( l. 533/1973 ). Il diritto del lavoro ha da sempre dimostrato una sua attitudine alle forme di soluzione delle controversie, che si realizzano al di fuori della giurisdizione statale. Basti pensare alla storica esperienza della magistratura probivirale o alle procedure conciliative previste in sede di contrattazione collettiva. Nel periodo corporativo si venne a tracciare una circostanza per la quale il giudice del lavoro era ormai un giudice ordinario cui erano assegnate le controversie del settore, abbandonando, nella prassi, quelle peculiarità di celerità e di oralità che caratterizzavano il processo del lavoro. Da un lato le corporazioni, attraverso la conciliazione sindacale, avevano il compito di prevenire il contenzioso proponendo risoluzioni compromissorie dirette ad assecondare le eventuali pretese dei lavoratori; dall’altro i giudici si dimostravano portatori della volontà legislativa e delle contrattazioni collettive. 4 A tale riguardo vedi S. Chiarloni “ Stato attuale e prospettive della conciliazione stragiudiziale ”, in “ La risoluzione stragiudiziale delle controversie e il ruolo dell’avvocatura ”, a cura di G. Alpa e R. Danovi, Giuffrè, Milano, 2004, p. 189. 6 La svolta innovativa fu realizzata con la l. 11 agosto 1973, n. 533. La novella si indirizzò verso le forme alternative di risoluzione delle controversie individuali di lavoro. La riforma del processo del lavoro è così riuscita a coordinare la tutela giurisdizionale e le procedure conciliative5. La l. 533/1973, sostituendo l’intero titolo IV del libro secondo del c.p.c., dava la possibilità alle parti di risolvere le controversie tramite le forme alternative di risoluzione delle liti, quali la conciliazione, per le controversie individuali di lavoro riguardanti i settori elencate nell’art. 409 c.p.c.. Vennero introdotte regole atte a definire le modalità di costituzione del collegio di conciliazione, le modalità e i tempi di svolgimento del tentativo, il ruolo delle associazioni sindacali nell’ambito della procedura amministrativa e gli effetti di natura sostanziale e processuale del verbale conclusivo. Chi intendeva proporre una domanda di conciliazione, e non riteneva di avvalersi di tale disciplina richiamata dai contratti e accordi collettivi, poteva promuovere, anche tramite l’associazione sindacale, il tentativo di conciliazione presso l’apposita Commissione, la quale, ricevuta la richiesta, tentava la risoluzione della controversia in una riunione da tenersi non oltre dieci giorni dal ricevimento della richiesta. La Commissione di conciliazione restava un organismo a carattere burocratico, composta anche da rappresentanti delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro. La procedura poteva concludersi con un processo verbale di avvenuta o di mancata conciliazione. In quest’ultimo caso le parti erano libere di risolvere il conflitto presso il giudice competente. L’articolo 420 c.p.c. prevedeva un tentativo di conciliazione giudiziale successivo, il giudice del lavoro nell’ udienza fissata per la discussione interrogava liberamente 5 Carinci Franco, Tamajo, Tosi, Treu, “ Diritto del lavoro 2. Il rapporto di lavoro subordinato ”, quinta edizione UTET Torino 2003, pagg. 440-441. 7 le parti ed esperiva il tentativo di conciliazione 6. La funzione dell’istituto era quella di tutelare la posizione del lavoratore poiché contraente debole e di ridurre la forza contrattuale del datore di lavoro diretta ad influenzare gli esiti della controversia. Con la riforma del processo del lavoro il legislatore aveva operato una scelta determinante: lasciare la libertà al lavoratore o al datore di ricorrere alla procedura conciliativa o all’ordinaria procedura giudiziaria. Nel 1990, con l’art. 5 della legge n. 108, il tentativo di conciliazione ritorna ad essere configurato come obbligatorio per le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione dei licenziamenti nell’area c.d. obbligatoria. Si sanciva l’improcedibilità della domanda giudiziale non preceduta dalla richiesta di conciliazione amministrativa o sindacale, con conseguente sospensione del processo e termine perentorio per la richiesta. La disciplina enunciata dall’art. 5 della legge sopra richiamata si atteggiava come un presupposto processuale, il cui mancato assolvimento era rilevabile solo nella prima udienza di discussione e sottoposto ad un meccanismo di recupero all’interno del processo. Un’analoga disposizione fu introdotta nel 1992 con riferimento alle controversie in materie di pubblico impiego. Per la prima volta, dopo la caduta dell’ordine fascista, si torna a considerare la conciliazione quale soluzione alla giurisdizione, e non semplice forma espressiva di un consenso assistito, idoneo ad infrangere l’inderogabilità delle norme lavoristiche. Un’ ulteriore forma di conciliazione obbligatoria precontenziosa venne da ultimo delineata dall’art. 69 del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, con riferimento alle controversie in materia di pubblico impiego devolute al 6 G. Amoroso, V. Di Cerbo, A. Maresca, “ Le fonti del diritto italiano. Il Diritto del lavoro Costituzione, Codice Civile e Leggi speciali ”, volume uno, seconda edizione, Giuffrè, Milano, 2007, 916. 8 giudice ordinario, secondo il rito del lavoro, in seguito alla intervenuta ampia privatizzazione di tale rapporto di lavorativo7. 2. Dal D.Lgs. 80/1998 al D.Lgs. 165/2001. 2.1 La conciliazione nel D.Lgs. 80/1998. Il legislatore, seguendo l’indirizzo della conciliazione obbligatoria della l. 108/1990, procede in tal senso con il d. lgs. 80/1998, sperando di alleggerire la grossa mole del contenzioso giudiziario. La novella, oltre a disciplinare il tentativo di conciliazione nel settore del lavoro pubblico, rende obbligatorio il tentativo in tutte le controversie dell’art. 409 c.p.c., riformando il codice di rito. La riforma del 1998 ha innovato il tentativo di conciliazione seguendo un duplice binario : da un lato integra e contempla la normativa sulla conciliazione già contenuta nel precedente d. lgs. 29/1993; dall’altro, incide sul codice di rito trasformando in obbligo la precedente facoltà del tentativo. Il sistema introdotto nel 1998 può essere definito a doppio binario anche per un ulteriore motivo: prevede per le conciliazioni delle controversie individuali due normative ben distinte per il settore pubblico e per il settore privato ed inoltre, conserva la procedura conciliativa pubblica con quella sindacale, prevista dai contratti o dagli accordi collettivi di lavoro. Il d. lgs. del 1998 ha da subito provocato ampie critiche dal mondo giuridico. Uno dei primi dibattiti generò due schieramenti contrapposti: 7 Carrato A., Di Filippo A., “ Il processo del lavoro: la conciliazione e l’arbitrato, il procedimento di primo grado, l’appello e il ricorso per Cassazione, l’esecuzione forzata e i procedimenti speciali, le controversie nel pubblico impiego ”, terza edizione, Il sole 24 ore, Milano 1999, pag. 10. 9 alcuni sostenevano l’inutilità della distinzione tra le due procedure previste per l’impiego privato e per quello pubblico; altri, diversamente, avallavano tale scelta perché, mantenere l’autonomia di entrambi i procedimenti conciliativi, rispondeva adeguatamente alle diverse esigenze lavorative. Tale distinzione non è stata superata dal legislatore e il dibattito è ancora aperto. Non si riesce a capire tale disparità di trattamento. Ci troviamo di fronte ad una disciplina perfettamente delineata in tutte le sue fasi a partire dalla domanda di richiesta del tentativo di conciliazione, quale del settore del lavoro pubblico, ed una disciplina generica e priva di dettagliate e necessarie indicazioni normative, quale del settore del lavoro privato. Ne segue che la conciliazione, così strutturata in quest’ ultimo settore, sorge su un terreno privo di informazioni, poco adatto allo spirito dialettico, quale principio essenziale, ma non esclusivo della conciliazione. Un arduo punto ampliamente dibattuto riguarda proprio il requisito dell’obbligatorietà del tentativo. La ratio del legislatore risiedeva sulla volontà di risolvere il problema del sovraccarico di compiti per il giudice ordinario, con la speranza di ottenere con questo mezzo una drastica deflazione del contenzioso. Il tentativo obbligatorio di conciliazione in esame è tracciato, dal testo dell’art. 412-bis c.p.c., come una condizione di procedibilità all’azione giudiziaria. Il problema sorge dal fatto che il legislatore dell’epoca ha posto maggiore attenzione alla risoluzione delle difficoltà tecniche, tralasciando alcune questioni di principio. Una delle questioni si fondava sulla pretesa di incostituzionalità del tentativo obbligatorio. Si metteva in discussione la libertà delle parti di poter scegliere quale via intraprendere per risolvere il proprio conflitto e si accusava tale procedura come colpevole di allungare la durata processuale, in sostanza si vantava una 10 violazione dell’art. 24 della Costituzione8. La Corte Costituzionale, pronunciatasi al riguardo, ritenne che il tentativo obbligatorio non determinasse un vulnus insanabile alla speditezza e all’effettività del diritto di azione, vuoi perché trattasi di un impedimento solo temporaneo; vuoi perché lo scopo cui tende la conciliazione, quello dell’economia processuale e della riduzione del contenzioso del lavoro, costituisce l’altra faccia del principio costituzionale ex art. 111 Cost. del giusto processo e della sua ragionevole durata9. Un’altra questione legata al principio di obbligatorietà era connessa ad uno degli elementi cardine della conciliazione. Questo principio è proprio la volontà di risolvere la lite con tale procedura. Nel periodo napoleonico, era stato già preso come assodato il fatto che imporre un dato comportamento ad un soggetto porta conseguentemente ad un’avversione verso tale obbligo ottenendo come risultato meno conciliazioni di quelle che si sarebbero ottenute con il tentativo facoltativo. Dal momento dell’entrata in vigore della nuova disciplina, gli uffici provinciali del lavoro ( oggi Direzione Provinciale del lavoro ) e della massima occupazione sono stati inondati di un gran numero di istanze di conciliazione, senza possibilità di poter distinguere tra istanze introdotte per l’esistenza di una reale volontà conciliativa e istanze introdotte esclusivamente per ottemperare al comando legislativo10. 8 Corte Cost. Ordinanza, 22 ottobre 1999, n.318 in Foro It., 2000, I, 1777; Corte Cost. Sentenza 13 luglio 2000, n. 276, in Foro It., 2000, I, 2752 e ss., Corte Cost. Ordinanza 6 febbraio 2001, n.29, in Giur. It., 2001, 1093 con nota di Fontana. 9 Pizzoferrato, “ Giustizia privata del lavoro ( conciliazione e arbitrato ) ”, in “ Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia ”, di F. Galgano, volume trentaduesimo, Padova, CEDAM, 2003, p.46. 10 Sergio Chiarloni “Stato attuale e prospettive della conciliazione stragiudiziale” , in “La risoluzione stragiudiziale delle controversie e il ruolo dell’avvocatura” a cura di Guido Alpa e Remo Danavi, Milano, Giuffrè, 2004, p.191. 11 L’Italia nello stesso anno apportò un’irrilevante ed ulteriore modifica con il d.lgs. 387/1998 portando una netta separazione dei termini tra quelli per la presentazione della domanda di conciliazione e quelli per la celebrazione della prima udienza del giudizio. Con l’entrata in vigore di quest’ultimo d.lgs. la normativa in esame aveva subito solo un’ulteriore operazione di affinamento, a seguito della quale ha di fatto assunto la veste attuale con il recente d.lgs. 165/2001. Il legislatore ha ridotto le disposizioni in materia conciliativa ridefinendone la numerazione, ma senza tuttavia apportare ad essa modifiche sostanziali di alcun genere. Nell’ ultimo intervento effettuato dal legislatore confluisce la disciplina processuale dei pubblici dipendenti. Ai sensi dell’art. 63 del d.lgs. 165/2001, sono ora devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, ad eccezione di quelle relative ai rapporti di lavoro non privatizzati, e di quelle in materia di procedure concorsuali. La novella del 2001 ha confermato la separazione strutturale di entrambe le tipologie di lavoro lasciando ancora una volta irrisolte le problematiche del caso. 2.2 Considerazioni sul processo storico normativo. La conciliazione, quindi, è un processo consensuale generato dalla sola volontà delle parti ed è proprio per tale motivo che viene considerata una procedura alternativa e autonoma rispetto al tradizionale processo basato sul sistema contraddittorio – accusatorio. La regola della facoltatività del tentativo consentiva di situare tale procedure in una propria area funzionale, in un proprio ordine regolativo, parallelo a quello della 12 giustizia formale. Con la riforma del 1998 e l’introduzione della obbligatorietà, il legislatore ha limitato la libertà delle parti nella scelta di una giustizia secondaria più rapida e più conveniente, perché ha modificato la conciliazione passando da uno strumento alternativo a uno strumento processuale obbligatorio. La realtà sembrò dar subito ragione a quanti giudicavano inefficace la via della conciliazione obbligatoria, ritenendo che costituisse un più valido incentivo una conciliazione fondata sulla libera e volontaria selezione delle vie di tutela, rispetto ad un onere processuale; e a quanti hanno osservato che le parti non si conciliano perché qualcuno o la legge le obbliga a tentare di farlo, ma se e in quanto sono inclini a trovare una soluzione di compromesso. Il legislatore, all’indomani dell’entrata in vigore del d.lgs. 387/1998, ottenne da una parte dell’opinione pubblica una discreta risposta positiva perché dimostrò un forte impegno a consolidare la disciplina della conciliazione nelle controversie di lavoro11, ma, contrariamente, un’altra parte non guardò di buon occhio tale intervento ritenendolo come un inutile aggravio dei tempi e come un danno alla libera espressione della volontà delle parti. Il problema più importante posto alla modifica fu quello dell’utilità del tentativo obbligatorio di conciliazione, perché le prime esperienze raccolte sul territorio indicarono che solo il sindacato e le direzioni provinciali del lavoro presero sul serio il tentativo di conciliazione come strumento di soluzione delle controversie. La parte imprenditoriale affrontò in modo scettico l’obbligatorietà del tentativo esprimendo un diniego alla conciliazione, dimostrando di considerarla solo come un preavviso per la futura controversia giudiziale. Lo sbaglio effettuato in questi anni è stato quello di non aver guardato all’esperienza degli Stati Uniti in materia di ADR ( Alternative Dispute 11 http://www.cigl.it 13 Resolution ). L’origine della diffusione di questi strumenti alternativi (mediazione – arbitrato) in America va ricercata negli anni ’70 come intervento urgente e diretto a fronteggiare il fenomeno cosiddetto di “ litigation explosion ”. Tra il 1970 e il 1980 il numero delle cause civili iscritte presso le Corti americane era più che quadruplicato. Si trattava soprattutto di cause complesse, che implicavano tempi lunghi ed elevati costi di gestione.Anche qui vennero applicati, in fase di sperimentazione nelle Corti federali distrettuali, tentativi obbligatori dei metodi alternativi come condizioni di procedibilità necessari. Dopo i primi interventi ci si rese conto che le procedure di ADR endoprocessuale risultavano aver avuto scarso effetto sulla riduzione dei costi o dei tempi del contenzioso civile e nel 1998 entrò in vigore un testo normativo rivoluzionario denominato Alternative Dispute Resolution Act. La legge imponeva tuttavia alle parti solamente l’ obbligo di prendere in considerazione la possibilità dell’ uso di una procedura di soluzione alternativa della controversia, aggiungendo che ogni Corte deve predisporre la disponibilità operativa di almeno una forma di ADR. Ogni forma di ADR imposta alle parti venne eliminata dal dettato normativo e garantita la facoltà di scelta tra percorrere le strade alternative o fare ricorso al procedimento ordinario12. In realtà, le procedure di ADR regolate dall’ordinamento americano non sono sorte con lo scopo di promuovere le forme alternative di risoluzione delle controversie, ma per tentare di limitare l’inflazione processuale rimando all’interno della struttura e della cultura processuale 13. Di particolare rilievo è l’anno 1998, in quest’anno gli Stati Uniti trovano la giusta via per lo sviluppo e l’efficienza di questi strumenti alternativi, mentre l’Italia, nel regolare al meglio tale materia, decide di intraprendere 12 13 G. Cosi “ Perché conciliare ” , in “ La via della conciliazione ”, a cura di S. Giacomelli, Ipsoa, 2003. G. Cosi “ Sistemi alternativi di soluzione delle controversie. Intorno all’esperienza americana ”, in “ Studi senesi. ADR in America ”, p. 10 ss. 14 la strada dell’obbligatorietà cadendo nello stesso sbaglio commesso in precedenza nel sistema statunitense. Successivamente al 1998, il legislatore intervenne al riguardo è fu emanato il d.lgs. 165/2001, tale novella però ha lasciato irrisolti alcuni dei problemi rinvenuti già in precedenza. Uno tra questi riguarda i soggetti interessati alla procedura conciliativa. I sostenitori della conciliazione pura iniziarono a sollevare obiezioni sin da subito per una serie di motivi che attualmente non sono stati risolti. Prima di tutto si può affermare che il legislatore, ancora una volta, ha lasciato la conciliazione nelle mani della Direzione Provinciale del Lavoro con un’apposita Commissione di conciliazione, dei sindacati e dei giudici degradando gli elementi cardine che compongono la conciliazione: quali la vontarietà, l’imparzialità e le caratteristiche del conciliatore in generale. Quanto al primo elemento basta dire che la conciliazione per produrre i suoi effetti e per poter funzionare correttamente necessita della libertà di scelta delle parti di poter adire o meno a tale procedura alternativa. Altro punto fondamentale è l’imparzialità. Tale carattere specifica ancor di più l’istituto perché la conciliazione è degna di essere tale solo se svolta in presenza di un soggetto terzo, neutrale ed imparziale al quale le persone si rivolgono per risolvere il conflitto che le oppone. Il mediatore non è un arbitro, e tanto meno un giudice, perché non decide, non taglia il conflitto, imponendo una decisione alle parti, che rimangono, dall’inizio alla fine della mediazione, gli unici soggetti dotati di potere decisionale. Il compito del conciliatore è quello di entrare nel conflitto, ma, rimanendo contemporaneamente terzo, deve comprendere le pretese di entrambe le parti senza mostrare di parteggiare per l’uno o per l’altro dei litiganti. Il mediatore deve essere dotato di un buon livello di competenza tecnica nella materia di cui è chiamato ad occuparsi e deve mantenere la sua autorevolezza fin dall’inizio della procedura conciliativa. Questo disegno 15 appena tracciato che descrive la figura del conciliatore e quindi l’intera procedura del tentativo non si affianca bene al quadro normativo delineato dal legislatore per una serie di motivi che posso essere sintetizzati in due gruppi : 1. il mediatore è una figura professionale qualificata a svolgere la propria funzione in modo adeguato. Questo soggetto, nel processo conciliativo, deve seguire delle regole di comportamento che fungono da giuda alla propria condotta e che promuovono la fiducia nella mediazione come strumento di soluzione delle controversie14. Il conciliatore, per giungere a tale risultato, deve essere formato adeguatamente, con appositi corsi idonei ad attribuirgli un’autorità di tipo morale che gli permette di occuparsi dei fatti altrui. I requisiti richiesti in capo a questa figura professionale non si adattano bene agli addetti alla conciliazione della Direzione Provinciale del Lavoro la quale si è vista, da un giorno all’altro, protagonista di un intervento legislativo privo di una disciplina riguardante la formazione del mediatore, quale figura – giuda del procedimento conciliativo. Tale ufficio pubblico, difettando di funzionari idonei o addirittura di personale ad hoc, necessita di corsi di riqualificazione e istruzione per lo specifico incarico. Al di là dei grossi problemi di formazione, la Direzione Provinciale del lavoro riveste però, nel processo conciliativo, la posizione di garante tra gli opposti interessi del lavoratore e del datore15. Le caratteristiche tipiche del mediatore non potrebbero neanche essere ricoperte adeguatamente dai giudici perché, a causa del loro lavoro, sarebbero portati a ragionare secondo le regole del diritto tralasciando lo spirito conciliativo. 14 A. Bianchi, R. Caponi, G. Cosi, S. Giacomelli, M. Ippolito, F.P. Luiso, I. Pagni, G. Romualdi, A. Uzqueda “ La via della conciliazione “ a cura di S. Giacomelli, Unioncamere Toscane, IPSOA 2003, p. 80 ss. 15 http://www.cgil.it/giuridico “ Giurisdizione ordinaria e circuiti conciliativi e arbitrali per la soluzione delle controversie di lavoro privato e pubblico “gruppo di giuristi della Cgil, Cisl, Uil, P.G. Alleva, G. Arrigo, F. Coccia, Di Filippo, L. Fiorillo, G. Naccari, C. Russo, novembre 1998. 16 2. un delicato profilo, su cui il legislatore non si è espresso apertamente, è costituito dal contenuto e dai limiti del potere di controllo dei rappresentanti sindacali sui termini dell’accordo transattivo. Nella pratica si evidenzia come la volontà del rappresentante sindacale non possa in alcun modo surrogarsi al consenso espresso dal singolo lavoratore, la partecipazione del sindacato al processo formativo del verbale si limita al mero gesto formale della sottoscrizione e alla mera registrazione dell’accordo intervenuto direttamente tra le parti. L’assistenza sindacale deve essere effettiva, risultato di un’attiva opera di sostegno svolta dal sindacalista, e deve essere condotta da un rappresentante sindacale di fiducia del lavoratore e quindi appartenente all’organizzazione sindacale cui risulta iscritto o abbia conferito un apposito incarico. Volendo delineare le caratteristiche della partecipazione attiva del conciliatore sindacale la dottrina ha individuato una serie di comportamenti idonei a tal fine : il rappresentante sindacale deve fornire all’assistito tutti gli elementi necessari per valutare la convenienza della composizione stragiudiziale e per tanto deve instaurare un rapporto più diretto ed immediato con il lavoratore. In verità i conciliatori sindacali hanno in alcuni casi accettato l’idea di un loro ruolo passivo, hanno accettato l’idea di svolgere una funzione di meri notai della volontà altrui, senza né concorrere a formarla, né contrastarne gli esiti iniqui. La consapevolezza dei conciliatori di poter giocare un ruolo incisivo sulla soluzione dei conflitti, appare un elemento importante per il pieno decollo del tentativo obbligatorio di conciliazione16. Un problema è quello di definire se esiste un potere di controllo svolto dal sindacato 16 C Giovannucci Orlandi “ La conciliazione in Italia: diritto vigente e proposte di legge” in “ Médiation, justice, entreprise: vers une approche européenne”, atti del seminario di Parigi 18-19 maggio 2001. 17 tale da garantire la legalità e prevenire gli abusi ed elusioni ai danni del contraente “debole”. Dunque, se la conciliazione obbligatoria gestita dalle strutture amministrative statali non sembra dare buona prova di sé, e si prospetta il pericolo che il meccanismo assuma una funzione deflativa solo perché rende l’accesso alla giustizia statale ancor più lento e complesso, si apre alle parti sociali l’occasione per proporre una disciplina della conciliazione sindacale capace di fornire una vera alternativa in termini di celerità, efficienza e competenza nell’assistenza delle parti che intendono risolvere il conflitto in modo pacifico17. Il problema è quello, a detta dei sindacati maggiormente rappresentativi, di assumere la fase conciliativa come momento risolutivo del contenzioso, effettuando una riqualificazione dei funzionari sindacali e quindi una riorganizzazione dei servizi. In altre parole, oltre ad essere un problema di autoriforma del sindacato, è anche compito del Governo manifestare la sua convinzione al riguardo. Oggi siamo immersi in un mondo ad alta litigiosità e la tutela in chiave individualistica secondo alcuni delle posizioni dei singoli solleva problemi delicati, che non sorgerebbero rivolgendosi a momenti di autocomposizione delle controversie. Sembra che, per diverse ragioni, oggi il diritto del lavoro pretenda assai meno processo che nel passato. È indispensabile che i conciliatori non solo si adoperino per la conclusione delle liti, raggiungendo un esito così deflativo del contenzioso del lavoro, ma si impegnino anche a valutare la sostenibilità dell’accordo sotto il profilo sia di legittimità, sia di convenienza, evitando di dare avallo a cattive conciliazione, che riportano tutto ad un rapporto di forza 17 F. Borgogelli “ Conciliazione e arbitrato: le nuove regole e il regime di inderogabilità dei contratti collettivi” in “ Scritti in memoria di Massimo D’Antona”, volume II, parte II, Diritto Sindacale, Milano, Giuffrè, 2004, p. 1758 ss. 18 contrattuale. La conciliazione, per avere un ottimo risultato, deve puntare sulla figura del mediatore visto come portatore di un interesse pubblico alla legalità ed equità del risultato transattivo18. 18 S. Chiarloni “ Lo stato attuale e prospettive della conciliazione stragiudiziale” in “ La risoluzione stragiudiziale delle controversie e il ruolo dell’avvocatura” a cura di G. Alpa e R. Danavi, Giuffrè, Milano, 2004, p. 108 - 454 ss. 19 CAPITOLO II La conciliazione nel Diritto del Lavoro La conciliazione nel diritto del lavoro non si fonda tanto sulla pura e semplice controversia, ma sull’interesse di conservare nel tempo il rapporto del lavoro. In quanto mezzo particolarmente idoneo a instaurare un dialogo tra le parti e a consentire la presa di coscienza di problemi e pretese contrastanti, la mediazione sembra il migliore strumento per poter soddisfare gli interessi discrepanti delle parti, quali la conservazione del posto di lavoro e il mantenimento di un buon dipendente sul posto di lavoro. La composizione negoziale di una lite è un evento al quale concorrono diversi fattori. La possibilità di una deflazione consensuale dipenderà dall’oggetto della pretesa: se questa è diretta al riconoscimento di un elemento della retribuzione o diretta a risolvere un caso di licenziamento. Nella prima circostanza sarà facilmente raggiungibile un risultato conciliativo perché, potranno intervenire delle transazioni reciproche; nel secondo caso tutto ciò sarà molto più difficile. La convenienza a conciliare sarà maggiore quanto più l’esito della causa si presenti incerto, come ad esempio la possibilità del datore di lavoro di ottenere una sentenza favorevole ma di difficile esecuzione o che il lavoratore non abbia mezzi di prova sufficienti a fondare la pretesa19. Nel corso degli anni, come si è notato, il legislatore è intervenuto in materia sdoppiando la procedura conciliativa in due fattispecie, una per il settore del 19 V. Pinto “Controversie di lavoro privato: il tentativo obbligatorio di conciliazione” in “Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale”, Roma, 2000, p. 334-335. 20 lavoro privato, l’altra per il settore del lavoro pubblico, producendo a volte delle discrepanze, altre volte accomunandole. 1. La conciliazione nel lavoro privato 1.1 La procedura di conciliazione. Il “nuovo” strumento di risoluzione delle liti entra nel panorama legislativo laburistico del settore privato nel 1973 con la legge 533 prefigurato come mezzo alternativo; successivamente, tramite l’ultimo intervento normativo effettuato con il d.lgs. 80/1998, viene tramutato in tentativo obbligatorio. La procedura di conciliazione viene applicata a tutte le controversie riguardanti i rapporti di lavoro previsti dall’art. 409 c.p.c. esentate le controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatoria, non richiamate né da quest’ultimo articolo né dall’art. 410 c.p.c.. Riguardo alle controversie previste dai numeri 1 a 4 dell’art. 409 c.p.c. prevede che, oltre alle procedure in sede sindacale, il tentativo abbia luogo presso una Commissione di conciliazione costituita dal direttore dell’ufficio provinciale del lavoro o da un suo delegato e da generici rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori designati dalle rispettive organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative su base nazionale20. All’insorgere di un diverbio in una di queste attività lavorative, l’attivazione della procedura di conciliatoria viene effettuata con l’inoltro di una richieste della parte interessata, direttamente o anche attraverso un’associazione sindacale alla quale aderisce o conferisce mandato, e la comunicazione di tale istanza 20 A. Proto Pisani “Lezioni di diritto processuale civile”, Novenne, Napoli, 2006, p. 787 21 sospendere la prescrizione ed interrompe, durante la pendenza del procedimento conciliativo ed anche per i venti giorni successivi alla sua definizione, ogni termine di decadenza. L’art. 410 c.p.c. prevede che o il lavoratore o il datore ha l’obbligo di promuovere il tentativo di conciliazione o in sede sindacale, nelle forma previste dalla contrattazione collettiva, di cui art. 411 c.p.c., ovvero in sede amministrativa, tramite la Commissione Provinciale di conciliazione. La procedura conciliativa deve essere attivata entro sessanta giorni dalla richiesta, trascorso inutilmente tale termine il tentativo si considera comunque espletato21. Per la domanda di conciliazione viene imposto una forma scritta ad substantiam. Tale obbligatorietà è data dall’esigenza di ottenere un mezzo di prova della data di effettuazione della richiesta, del contenuto della domanda e delle interruzioni e sospensioni dei termini di prescrizione e di decadenza. La richiesta di tentativo deve essere predisposta con l’annotazione degli elementi identificativi dei soggetti litiganti, del titolo e dell’oggetto della domanda, in quanto, in un eventuale proseguo innanzi all’Autorità giudiziaria, dovranno essere proposti gli stessi elementi. L’onere del preventivo tentativo di conciliazione è a carico della parte che intende proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti previsti dall’art. 409 c.p.c.. A questa conclusione conduce una rigorosa interpretazione dell’art. 410 c.p.c. e dell’art. 412-bis c.p.c.. Il primo impone di promuovere il tentativo di conciliazione a chi intende proporre la domanda di conciliazione, mentre l’art. 412-bis c.p.c. 3° comma, rilevata dal Giudice l’improcedibilità e sospeso il giudizio, consente a ciascuna delle parti di promuovere il tentativo di conciliazione ai fini della riassunzione del giudizio sospeso22. Una copia della richiesta del tentativo deve essere inviata dal richiedente al convenuto a mezzo di raccomandata 21 O. Mazzotta “ Trattato di diritto privato. Diritto del lavoro ” a cura di Giovanni Iudica e Paolo Zatti, Giuffrè. Milano, 2002, p. 775. 22 B. Mirando “ Il tentativo obbligatorio di conciliazione e l’arbitrato irritale nelle controversie di lavoro ”, Cedam, Padova, 2005, p. 11. 22 con ricevuta di ritorno. Competente per territorio e per materia al procedimento conciliativo è la Commissione di conciliazione, istituita in ogni provincia presso la Direzione provinciale del lavoro con provvedimento del direttore. Per l’individuazione, l’art. 410 c.p.c. effettua un rinvio all’art. 413 c.p.c., vale a dire alle modalità di individuazione del giudice territorialmente competente per la proposizione della domanda ordinaria. È prevista altresì la possibilità di istituire sottocommissioni, con la medesima composizione, cui affidare l’esperimento del tentativo. La convocazione delle parti deve essere fissata dalla Commissione per una riunione da tenersi non oltre dieci giorni dal ricevimento della richiesta. Perché la riunione sia valida è necessaria la presenza del presidente e di almeno un rappresentante dei datori di lavoro e dei lavoratori, diversamente, il Direttore dell’ufficio provinciale del lavoro certifica l’impossibilità di procedere al tentativo di conciliazione, rilevando l’assenza dei rappresentanti di categoria. Le parti possono presenziare personalmente innanzi all’organo competente o possono farsi assistere da avvocati, sindacalisti, consulenti del lavoro o esperti della materia. La Commissione, come fase preliminare della riunione, dovrà accertare l’effettiva identità delle parti presenti interessate alla controversia o se i soggetti non presenti siano stati correttamente convocati. Nel momento in cui si verificano problemi in merito, la Commissione dovrà rinviare la riunione a nuova data, impartendo le disposizioni opportune a depurare i problemi di contraddittorio. Terminata la fase preliminari, le parti vengono invitate a sostenere le proprie ragioni e quest’ultime, a loro volta, potranno sottoporre all’attenzione dell’organo conciliativo documenti che affermano le proprie ragioni e reciproche proposte transattive. Il ruolo della Commissione sarà quello di valutare e commentare le posizioni delle parti, suggerire concessioni transattive, invitare le parti ad una approfondita riflessione sulle proposte avanzate in sede conciliativa ed, eventualmente, rinviare la riunione a nuova date. L’incontro mediatico può concludersi o con esito positivo o con esito 23 negativo. A norma dell’art. 411 c.p.c., se si giunge ad un esito positivo si redige un verbale di avvenuta conciliazione. Tale atto deve contenere la previsione dell’accordo raggiunto, la sottoscrizione dalle parti e dai membri della Commissione ed in particolare dal suo presidente. Il processo verbale viene quindi depositato, a cura delle parti o della Direzione provinciale del lavoro, nella cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione è stato formato, il quale sarà competente ad accertare il solo rispetto delle formalità procedurali. Per il caso in cui invece il tentativo di conciliazione si sia svolto in sede sindacale, saranno le stesse parti che, anche per il tramite di una associazione sindacale, provvederanno al deposito del processo verbale presso la Direzione provinciale del lavoro. Sarà poi compito del direttore o di un suo delegato che, accertatene l’autenticità, provvederà a depositare il verbale nella cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione è stato redatto. In entrambi i casi il giudice, su istanza della parte interessata, dopo averne accertato la regolarità formale, provvede, con decreto a dichiararlo esecutivo. La procedura può concludersi anche con il raggiungimento parziale di accordo e anche in questo caso viene redatto e sottoscritto il verbale di conciliazione, che non è impugnabile ai sensi dell’art. 2113 c.c. . Il deposito in cancelleria può avvenire in qualsiasi momento, non essendo previsto alcun termine. Il verbale di conciliazione, redatto davanti la Commissione e non depositato, è privo di efficacia esecutiva e può essere fatto valere, in quanto scrittura privata, in via monitoria per ottenere il decreto ingiuntivo. Se invece la conciliazione non riesce, si procede alla formazione di un processo verbale nel quale devono essere indicate le ragioni del mancato accordo, come indicato dall’art. 412 c.p.c. modificato dall’art. 38 del d.lgs. 80/1998. Le parti, in tale atto, possono anche indicare una soluzione parziale sulla quale concordano, precisando, quando è possibile, l’ammontare del credito che spetta al lavoratore. In quest’ultimo caso, con riferimento al credito riconosciuto, il processo verbale acquista efficacia di titolo esecutivo, 24 con le formalità previste dall’art. c.p.c.23. 411 La Direzione provinciale del lavoro, inoltre, rilascia alla parte copia del verbale entro cinque giorni dalla richiesta. Tale procedura si applica anche al tentativo di conciliazione in sede sindacale. Il verbale, che è un atto pubblico facente fede fino a querela di falso, può contenere dichiarazioni delle parti che non dovrebbero essere ritenute confessorie e utilizzabili come tali ex art. 2735 c.c. nella fase giudiziale. Il giudice non può valutare le risultanze del verbale di mancata conciliazione come argomenti di prova, ma può utilizzare tale atto solo ai fini del regolamento delle spese, come previsto espressamente dall’art. 412 4° comma c.p.c.. Una volta esperito il tentativo di conciliazione e decorso il termine di sessanta giorni, il soggetto interessato può proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti di cui all’art. 409 c.p.c. allegando il verbale di avvenuta o fallita conciliazione. Se il convenuto non si presenta dinanzi all’organo conciliativo viene redatto un verbale di mancata presenza, che consentirebbe all’istante di promuovere immediatamente il giudizio, senza il bisogno di attendere il decorso del termine di sessanta giorni24. Come recita l’art. 412-bis c.p.c., l’espletamento del tentativo di conciliazione costituisce condizione di procedibilità della domanda. Il giudice, ove rilevi che non sia stato promosso il tentativo di conciliazione ovvero che la domanda giudiziale sia stata presentata prima del decorso di sessanta giorni dalla promozione del tentativo stesso, sospende il giudizio e fissa il termine perentorio di sessanta giorni per promuovere il tentativo di conciliazione. La sospensione del processo in questi casi è doverosa, non vi è discrezionalità del giudice in ordine alla opportunità di sospendere o meno. Trascorso inutilmente tale termine, il processo può essere riassunto entro centottanta giorni ( termine perentorio ). La mancata riassunzione del 23 C. Filadoro “Il tentativo di conciliazione” in Il Sole 24 ore, Giuda al lavoro, numero 18, 12 maggio 1998, p. 49 ss.. 24 B. Miranda “ Il tentativo obbligatorio di conciliazione e l’arbitrato irritale nelle controversie di lavoro ”, Cedam, Padova, 2005, p. 27 ss.. 25 processo entro i predetti termini comporta l’estinzione del procedimento, che il giudice ha il potere di dichiarare d’ufficio con decreto25. Parte della giurisprudenza di merito ha ritenuto di dover attribuire all’ordinanza emessa in tali termini dal giudice monocratico natura di sentenza. L’ordinanza del giudice non è reclamabile, ma revocabile da parte dello stesso. L’improcedibilità della domanda deve essere eccepita dal convenuto nella memoria difensiva, depositata almeno dieci giorni prima dell’udienza; se il convenuto non ha segnalato l’improcedibilità, il giudice può rilevarla d’ufficio entro la prima udienza di discussione; se né il convenuto né il giudice provvedono ad eccepire l’improcedibilità della domanda, l’eccezione non può più essere proposta e il processo prosegue senza che dalla mancata rilevazione del difetto del presupposto processuale possano derivare i vizi in ordine alla sentenza pronunciata dal giudice. Nell’ipotesi in cui il termine imposto non sia rispettato, il giudice deve dichiarare con sentenza l’improcedibilità, concludendo con una pronuncia di mero rito il processo. Se alla prima udienza si constata che la domanda è stata proposta prima che fossero decorsi sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza di conciliazione, ma che il procedimento è stato espletato, non può essere dichiarata l’improcedibilità della domanda. La norma non lo prevede, ma non avrebbe senso ripetere una nuova fase conciliativa. Nel caso in cui, invece, il procedimento conciliativo sia esaurito nel prescritto termine, il processo può essere riassunto dalla parte avente interesse nel termine perentorio di 180 giorni. Nell’eventualità dell’omessa riassunzione nel menzionato termine, il giudice dichiara d’ufficio l’estinzione del processo con decreto26. 25 P. Lenza “Il processo del lavoro, il giudizio di primo grado, le impugnazioni, l’esecuzione, i procedimenti speciali” in “Il diritto privato oggi” a cura di P. Cendon, Giuffrè, Milano, 2005, p. 73 ss. 26 A. Carrato, A. Di Filippo “Il processo del lavoro : la conciliazione e l’arbitrato, il procedimento di primo grado, l’appello e il ricorso per Cassazione, l’esecuzione forzata e i procedimenti speciali, le controversie nel pubblico impiego”, Il sole 24 ore, Milano, 1999, p. 20. 26 1.1.1 La conciliazione in raccordo con la disciplina delle transazioni ex art. 2113 c.c. Il 4° comma dell’articolo 2113 c.c. stabilisce che le disposizioni di tale norma non si applicano alle conciliazioni intervenute ai sensi degli articoli 185, 410 e 411 c.p.c.. Si tratta delle conciliazioni giudiziali, nonché di quelle amministrative avvenute avanti alla Commissione di conciliazione e arbitrato presso la Direzione Provinciale del lavoro e di quelle sindacali poste in essere nell’ambito delle procedure previste dai contratti collettivi. In base ad una giurisprudenza consolidata, le forme contemplate dall’ultimo comma dell’art. 2113 c.c. per realizzare validamente rinunce e transazioni su diritti inderogabili del lavoratore sono rigorosamente tassative. In dette ipotesi, si è affermato la validità di tali negozi proprio perché posti in essere dal lavoratore con la presenza dell’organo giudiziario, dell’organo pubblico o dell’organo sindacale, che garantiscono l’equità delle soluzioni raggiunte in sede conciliativa. Solamente nell’ambito delle conciliazioni sopra menzionate è garantite un’adeguata assistenza al lavoratore ed è evitato il rischio di indebite pressioni datoriale sulla libera determinazioni dello stesso. Tali organi hanno il ruolo in questi contesti di coadiuvare il lavoratore sui temi quali la fondatezza delle sue pretese, la probabilità di esito positivo di eventuale causa, la difficoltà che la controversia presenta e la convenienza della rinunzia e della transazione. Per quanto riguarda i requisiti formali necessari per la stipulazione delle rinunce e transazioni la giurisprudenza è unanime nel ritenere che non sia essenziale l’espletamento degli adempimenti successivi alla sottoscrizione del verbale di conciliazione, quali il deposito presso la Direzione provinciale del lavoro o la cancelleria del Tribunale. 27 Pertanto la disciplina dell’ultimo comma dell’art. 2113 c.c. non sono impugnabili, indipendentemente dal rispetto o meno delle formalità previste dall’art. 411 c.p.c.. Numerose sentenze della Cassazione sono concordi nel ritenere che una volta avvenuto il tentativo, l’incontro delle volontà delle parti resta perfezionato indipendentemente dagli adempimenti successivi che fungono da mera garanzia. Ne consegue che, ai fini dell’inoppugnabilità, ex art. 2113, ultimo comma c.c. , delle conciliazioni avvenute ai sensi degli art. 410 e 411 c.p.c. rimane estranea l’osservanza delle formalità esterne al processo conciliativo27. Dette formalità perseguono il fine di consentire alle parti interessate di avviare un’eventuale procedura per ottenere l’adempimento delle obbligazioni assunte in sede conciliativa. È controverso il grado di assistenza che gli organi preposti alla procedura conciliativa devono fornire alle parti. Secondo l’orientamento prevalente in dottrina, riguardo le inoppugnabilità delle conciliazioni occorre un’effettiva partecipazione degli organi che assistono le parti. Ciò che rileva non è il rispetto delle regole formali e procedurali, ma il ruolo di assistenza che l’ organo conciliatore deve svolgere in favore dell’autonomia individuale del lavoratore, tanto da indurre la giurisprudenza a ribadire più volte che gli adempimenti previsti dall’art. 411 c.p.c. sono formalità esterne ed estranee rispetto all’essenza negoziale della conciliazione e non costituiscono, dunque, motivo di impugnazione. Bisogna tenere ben presente che anche le conciliazioni stipulate ai sensi dell’art. 2113 c.c. possono in realtà formare oggetto di impugnazione. Il verbale di conciliazione, privo di efficacia esecutiva, ha comunque valenza transattiva e, in caso di conciliazione su diritti indisponibili, la sua invalidità può essere proposta tramite i metodi di impugnazione di cui l’art. 2113 c.c. ; diversamente, rimane valida una mediazione dei diritti derogabili e viene sottratta all’impugnazione. 27 S. Ciucciovino “Rinunce e transazioni” in “ Le fonti del diritto italiano. Il diritto del lavoro. Costituzione, Codice Civile e leggi speciali ” di G. Amoroso, V. Di Cerbo, A. Maresca, Volume I, Giuffrè, Milano, 2007, p.893-894. 28 Quindi, la conciliazione è impugnabile nel solo caso di violazione di diritti inderogabili del lavoratore, derivanti da norme di legge o dai contratti o accordi collettivi. L’atto è annullabile, purché l’impugnazione avvenga entro sei mesi dalla cessazione del rapporto o dalla sua pattuizione, decorso il termine di decadenza la conciliazione acquisisce piena validità. L’invalidità contemplata dalla norma in commento appartiene alla specie dell’annullabilità. Quest’ultima deve essere dichiarata dal giudice con sentenza di accertamento costitutivo, ma deve essere fatta valere dallo stesso lavoratore. L’articolo 2113 c.c. stabilisce che le rinunce e transazioni poste in essere dal lavoratore in sede giudiziale, sindacale o amministrativa sono valide perché formate con assistenza valida, mentre al di fuori di tali circostanze, le rinunce e le transazioni possono essere impugnate e quindi invalidate dal lavoratore stesso28. 1.2 La conciliazione in sede amministrativa : la Commissione di conciliazione. Una delle innovazioni maggiormente rilevanti, introdotte con la legge di riforma del processo del lavoro, si identifica con l’istituzione di Commissioni di conciliazione quale organo pubblico, avente composizione paritetica sindacale e non burocratica. Tale organo deve essere terzo rispetto alle parti, deve svolgere un ruolo di mediazione e di assistenza qualificata allo scopo di favorire un’efficiente conciliazione della lite. Le Commissioni di conciliazione vengono costituite con provvedimento del direttore della Direzione provinciale del lavoro o attraverso un suo delegato (art. 410, 3° comma, c.p.c.). Inoltre, obbedendo ad un’esigenza di decentramento, è stato 28 L. Tartaglione “Conciliazione e arbitrato nelle controversie di lavoro”, Il sole 24 ore, Milano, 2000, p. 95 29 previsto che il direttore possa istituire apposite Commissioni anche presso le sezioni zonali delle Direzioni provinciali(art. 410, 4° comma, c.p.c.); in ultima istanza, le Commissioni possono per conto loro affidare il tentativo a proprie sottocommissioni, egualmente presiedute dal direttore della Direzione provinciale o da un suo delegato, formate in modo da rispecchiare la composizione delle Commissioni (art. 410, 5° comma, c.p.c.). Queste ultime sono composte, oltre che dal Presidente, da quattro rappresentanti e da quattro supplenti dei datori di lavoro e da rappresentanti della categoria dei lavoratori, la loro nomina deve essere preceduta dalla designazione da parte delle rispettive organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Per la validità della riunione della Commissione in sede di esperimento del tentativo conciliativo è necessaria la presenza del presidente, di almeno un rappresentante degli imprenditori e di un rappresentante dei lavoratori. Tale composizione è necessaria per garantire il rispetto della caratteristica della pariteticità, in caso di assenza di uno dei rappresentanti delle contrapposte categorie o di difetto dell’osservanza dei requisiti strutturali, ne consegue l’impossibilità di procedere al tentativo di conciliazione (art. 410, 6° comma, c.p.c.). Da quanto appena esposto si può dedurre che i sindacati hanno ampie possibilità di mandare a monte una soluzione conciliativa non gradita, semplicemente disertando o abbandonando la riunione della Commissione, determinando l’impossibilità di prosecuzione della procedura ex art. 410, 8° comma, c.p.c.. La Commissione di conciliazione ha competenza in tutte le controversie inerenti i rapporti elencati nell’art. 409 c.p.c.; sotto il profilo della competenza territoriale, la Commissione abilitata allo svolgimento della relativa attività viene individuata tramite quanto disposto dall’art. 413 c.p.c.. L’eventuale incompetenza dell’ufficio non determina riflessi sulla procedibilità dell’azione giurisdizionale. La dottrina e la giurisprudenza, sin da subito, hanno aperto un profondo e complesso dibattito sull’individuazione del 30 requisito della maggiore rappresentatività delle organizzazioni sindacali. Le istruzioni ministeriali impartite per la designazione dei rappresentanti in seno la Commissione, hanno cercato di puntare ad alcuni indici ricavati dall’esperienza comune e dall’attività esercitata dalle organizzazioni sul piano contrattuale e nei rapporti con il Governo per la tutela dei lavoratori. La nozione di associazione maggiormente rappresentativa, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, deve essere individuata secondo i seguenti indici: • la consistenza numerica del sindacato; • l’equilibrata presenza in un ampio arco di settori produttivi; • la significativa presenza su tutto il territorio nazionale; • lo svolgimento di un’attività di contrattazione e di autotutela29. Il potere di designazione era conferito a quelle organizzazioni sindacali che svolgevano la loro attività a livello provinciale. Soltanto in tal modo la designazione da parte delle organizzazioni provinciali garantiva sia il requisito della maggiore rappresentatività a livello nazionale, sia un rapporto diretto con la realtà locale. Sulla scorta di tali argomentazioni è stata ritenuta tale possibilità alle tre grandi confederazioni nazionali (CGIL, CISL, UIL). Con riferimento alle organizzazioni dei datori di lavoro abilitate alla designazione, il problema è stato posto essenzialmente nella mancanza, sia a livello nazionale sia a livello periferico, di organizzazioni orizzontali ricomprensive di tutte le categorie. Erano presenti solo organizzazioni per settori di produzione, quali si configuravano, a livello nazionale, la Confindustria, la Confagricoltura e la Confcommercio. In relazione alla organizzazione dei datori di lavoro, la legittimazione alla designazione doveva assegnarsi alle organizzazioni orizzontali provinciali e le 29 G. Giugni “Diritto sindacale” Cacucci, Bari, 2004, p. 65 31 stesse dovevano raggiungere un accordo sulla individuazione dei criteri di designazione. Qualora non si fosse riusciti a raggiungere un accordo, si è sostenuto che sarebbe dovuto subentrare nell’attività decisionale il direttore della Direzione provinciale del lavoro. L’individuazione delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale hanno dato, sin da subito, adito a molteplici controversie sia sul lato dei sindacati dei lavoratori, sia sul lato dei sindacati dei datori di lavoro, in quanto in entrambi gli schieramenti operano molteplici organismi interessati a far parte delle Commissioni provinciali di conciliazione. Sotto l’aspetto della tutela giurisdizionale, è stato affermato che il provvedimento con il quale il direttore nomina la Commissione è qualificabile come un atto amministrativo, impugnabile dinanzi al TAR, dal momento che incide direttamente sulla disciplina dell’attività della Direzione potendo sfociare in un distorto esercizio del potere attribuitogli e, pertanto, in una lesione di posizioni di interesse legittimo. In genere i soggetti lesi sono le organizzazioni sindacali escluse perché non considerate maggiormente rappresentative sul piano nazionale. La legge tace in ordine alla previsione della durata in carica dei componenti rappresentativi, per cui, secondo l’indirizzo maggioritario, deve ritenersi che le organizzazioni sindacali interessate possono, senza dover osservare determinate cadenze temporali, provvedere alla surrogazione del rappresentante nominato in precedenza tenendo presente la possibilità di mutamenti di rappresentatività delle organizzazioni sindacali30. 1.3 La conciliazione in sede sindacale 30 A. Carrato, A. Di Filippo “Il processo del lavoro: la conciliazione e l’arbitrato, il procedimento di primo grado e il ricorso per Cassazione, l’esecuzione forzata e i procedimenti speciali, le controversie nel pubblico impiego”, terza edizione, Il sole 24 ore, Milano, 1999, p. 10 ss. 32 La forma di conciliazione sindacale fu introdotta nel codice di rito con la novella del 1973 e, con la legge di riforma del processo del lavoro, è stata collocata in una posizione di alternatività relativamente alla conciliazione amministrativa. La conciliazione in sede sindacale non si configura come una forma di minore intensità o di secondo piano rispetto a quella prevista in sede amministrativa31. L’art. 410, 1° comma, c.p.c., prevede, in alternativa alla sede amministrativa, il tentativo di conciliazione in sede sindacale, avvalendosi della procedura di conciliazione prevista dai contratti collettivi e accordi collettivi. L’operatività dell’una o dell’altra discende esclusivamente dalla scelta compiuta dal soggetto proponente la richiesta. La conciliazione sindacale è prevista da quasi tutti i contratti di categoria ed è anche presente in alcuni contratti aziendali. Per la validità del tentativo è opportuno accertare la contrattazione collettiva applicabile, la previsione che il contratto collettivo disciplini una tale procedura e la costituzione di una Commissione territoriale paritetica, in genere composta da un rappresentante dell’associazione sindacale datoriale e un rappresentante dell’organizzazione sindacale, cui il lavoratore sia iscritto o abbia conferito mandato. La richiesta del tentativo di conciliazione deve essere proposta all’ufficio sindacale territoriale dietro istanza di un organismo sindacale, anche aziendale, che abbia sede nel luogo in cui è sorta la controversia di lavoro. Numerosi dibattiti sono sorti in ordine alla corretta individuazione dell’organizzazione sindacale legittimata a proporre e a partecipare ad una conciliazione sindacale. In dottrina si sostiene che il tentativo, per rivestire il carattere dell’inoppugnabilità, deve svolgersi con la presenza di un sindacato maggiormente rappresentativo. La ratio di questa decisione si fonda su un criterio di coerenza con la composizione dell’organo conciliativo in sede amministrativa. In giurisprudenza, si ritiene sufficiente la 31 A. Carrato, A. Di Filippo “Il processo del lavoro: la conciliazione e l’arbitrato, il procedimento di primo grado, l’appello e il ricorso per Cassazione, l’esecuzione forzata e i procedimenti speciali, le controversie nel pubblico impiego”, Il sole 24 ore, Milano, 1999, p. 20 ss. 33 presenza del rappresentante sindacale, nel quale il lavoratore si è affidato. Irrilevante è ritenuta la presenza di un avvocato ed anche di un rappresentante sindacale del datore di lavoro. La richiesta deve essere inoltrata tramite un mezzo idoneo a certificare la data di ricevimento, dal quale decorre, secondo l’art. 410-bis c.p.c., il termine di sessanta giorni oltre il quale è possibile rivolgersi all’Autorità Giudiziaria. La Commissione adita provvede a convocare innanzi a sé le parti interessate per il tentativo. Se il tentativo riesce viene redatto apposito verbale, che viene sottoscritto dai conciliatori, dalle parti e dai rappresentanti sindacali, che hanno partecipato alla trattativa. Il verbale, per essere dichiarato esecutivo secondo quanto dispone l’art. 411 c.p.c., deve, in primo luogo, essere depositato presso la Direzione Provinciale del lavoro competente per territorio; il direttore, o un suo delegato, accertatane l’autenticità, depositano a loro volta il verbale di conciliazione nella cancelleria del Tribunale, nella cui circoscrizione è stato redatto; il Giudice del Lavoro, accertata la regolarità formale dell’atto, con decreto dichiara esecutivo il verbale di conciliazione32. Il sindacato, con questa forma di composizione della lite, amministra direttamente la conflittualità, garantendo l’effettiva volontà del lavoratore nel raggiungimento dell’accordo. Per concludere una giusta conciliazione, il sindacato deve sottostare alla corretta osservanza delle procedure previste dalla contrattazione collettiva. Ove non si realizzi tale coincidenza il verbale conciliativo non potrà rivestire la forma di titolo esecutivo e le stesse conciliazioni intervenute potranno essere impugnate per il loro annullamento ex art. 2113 c.c. . La giurisprudenza ha avuto modo di precisare che il verbale di conciliazione sindacale, una volta sottoposto ad accertamento di autenticità da parte della Direzione Provinciale del lavoro, ma non depositato nella cancelleria del 32 B. Miranda “Il tentativo obbligatorio di conciliazione e l’arbitrato irritale nelle controversie di lavoro”, Cedam, Padova, 2005, p. 17-18. 34 Tribunale e non dichiarato esecutivo dal giudice, deve ritenersi valido e sottratto all’impugnazione prevista dall’art. 2113 c.c.33 . 1.3.1 Accordi interconfederali in materia di conciliazione. Subito dopo la riforma del 1998, in materia di conciliazione furono conclusi due accordi interconfederali. Il primo è quello concluso fra Confsercenti Cispel e CGIL, CISL e UIL il 15 Giugno 2000. L’intesa ha regolato il tentativo in sede sindacale introducendo procedure e adempimenti che mirano a rendere effettivo l’esperimento del tentativo stesso e a garantire una vera trattazione in fase pre-contenziosa di una controversia. Istituisce, al punto 1, l’Ufficio sindacale di conciliazione, il quale riceverà la richiesta scritta del soggetto che intende procedere. A differenza della disciplina legale contenuta nel codice di procedura civile, l’accordo in esame, al punto 2, disciplina il contenuto della richiesta. L’istanza deve contenere: l’indicazione delle parti; l’oggetto della controversia con l’esposizione completa dei fatti; il riepilogo dei documenti allegati; l’elezione del domicilio presso la segreteria ; il nominativo del rappresentante sindacale con procura speciale, che comporrà l’organo conciliatore assieme al rappresentante della controparte. Le parti devono riunirsi entro venti giorni dall’avvenuto ricevimento della richiesta , alla riunione potranno prendere parte esperti appartenenti alle rispettive organizzazioni sindacali ( punto 3 ). Elemento di interesse è quello relativo al verbale di mancata conciliazione ( punto 7 ), deve contenere i rispettivi termini della controversia, le rispettive prospettazioni, le eventuali disponibilità transattive manifestate dalle parti, la proposta di definizione 33 G. Alvino “Il ruolo del sindacato nell’attività di conciliazione: uno strumento di amministrazione del CCNL”, in “La testimonianza del giurista nell’impresa” a cura di C. Cordaus, R. Romei, G. Sapelli, Cacucci, Bari, 2001 35 della controversia e/o i motivi del mancato accordo formulati all’Ufficio34. L’accordo Cispel – sindacati prende posizione su alcuni punti: regola la richiesta scritta da inviare all’Ufficio e alla controparte; delinea i contenuti della richiesta e, delineando il contenuto del verbale di mancata conciliazione, permette di fornire al giudice un resoconto da utilizzare per la decisione sulle spese del successivo giudizio. Il secondo accordo è quello siglato il 20 Dicembre 2000 fra Confai e CIGL,CISL e UIL , il quale delinea una procedura più snella. Viene costituita una Commissione sindacale di conciliazione con il compito di assistere le parti nel tentativo di composizione della controversia. In caso di mancata conciliazione ( punto 8 ), l’accordo prevede che si possa ricorrere all’arbitrato irritale il cui lodo ha valore di contratto. Inoltre è stata prevista la possibilità di ricorrere alla conciliazione anche nel corso del giudizio arbitrale35. Un ruolo attivo viene riconosciuto alle organizzazioni sindacali piuttosto che alle parti della controversia. L’accordo prevede l’impegno a intraprendere iniziative per la formazione di tecnici competenti a divulgare e attuare l’accordo, inoltre, prevede l’incontro ai Ministeri interessati per divulgare l’accordo36. 1.4 Punti deboli del sistema conciliativo nel settore del lavoro privato. Un primo aspetto attentamente esaminato dalla dottrina e dalla giurisprudenza è quello connesso alla completa assenza di regolamentazione nella disciplina di legge sulla richiesta del tentativo di conciliazione e, in particolare, sui suoi 34 Il testo di entrambi gli accodi è reperibile su: http://www.cnel.it 35 G. Andrei, servizio politiche del lavoro Confai “Conciliazione e arbitrato. Accordo interconfederale 20 Dicembre 2000”, in “Guida al lavoro”, Il sole 24 ore, Milano, 23 Gennaio 2001, n. 3, p.74. 36 http://www.filcams.cigl.it 36 contenuti. Per quanto concerne l’aspetto formale, sembra preferire la tesi di quanti sostengono la necessità di una richiesta di conciliazione effettuata per iscritto. Contrariamente, parte della dottrina propende per una richiesta orale, attribuendo la competenza alla Commissione ricevente la redazione di un apposito verbale, quindi, implicitamente, ammette anch’essa la presenza di un atto scritto. Problemi più delicati si pongono con riferimento ai contenuti della richiesta medesima, necessari a consentire l’individuazione dell’oggetto, della lite e della motivazione delle pretese vantate all’organo conciliativo. Nel silenzio del legislatore da un lato vi è chi, facendo leva sulla mancata estensione esplicita dell’art. 66 d.lgs. n. 165/2001 alle controversie del settore privato e in riferimento alla circostanza letterale dell’art. 410 c.p.c., sosterrebbe solo la richiesta del tentativo di conciliazione, senza ulteriori obblighi di descrizione della vicenda sia sotto il profilo fattuale che giuridico. Dall’altro si pongono coloro che, valorizzando il principio della trasparenza, sostengono la redazione di una domanda di conciliazione completa in tutti i suoi elementi, quali i vari fattori identificativi della controversia, l’esposizione dei fatti e le ragioni poste a fondamento delle pretese vantate. Quest’ultima tesi si basa su due elementi, il primo riguarda l’estensione del campo di applicazione dell’art. 66 d.lgs. 165/2001, che è appunto quello di mettere sin dall’inizio in chiaro i termini della contesa in modo da permettere un’analisi accurata pre-conciliativa da parte dell’organo competente, il secondo si basa sul complessivo quadro delineato dalla riforma del 1998 e le finalità generali che hanno investito l’istituto della conciliazione. Visto che la struttura della conciliazione è orientata al raggiungimento di effetti deflativi e accelerazione della risoluzione delle vertenze, sembrerebbe più conforme a tale obiettivo la redazione di una richiesta del tentativo completa di tutti elementi necessari, così come avviene nel settore del lavoro pubblico, in modo da evitare che la Commissione giunga alla riunione con le parti all’oscuro di quelli che sono i reali fondamenti del contendere e, dunque, 37 meno attrezzata per compiere un’opera davvero efficiente per la composizione della controversia. Per tanto, perché il dialogo fra le parti possa iniziare e possa essere incanalato dal conciliatore verso un esito positivo ci dovrà essere in capo alle parti l’esatta conoscenza delle pretese avanzate, il quale richiede una loro preventiva esposizione e discussione sia sotto il profilo fattuale sia delle conseguenze giuridiche prodotte. In assenza di questi elementi fondamentali, il tentativo rischia di risolversi in un arido momento procedurale, non in un momento di effettiva riflessione e di razionale ricerca di una soluzione appagante per entrambe le parti. La contrattazione collettiva, conscia di ciò, tutte le volte in cui è intervenuta a regolare il tentativo di conciliazione in sede sindacale, ha prescritto una precisa delimitazione dell’oggetto, dei fatti e delle ragioni poste a fondamento della pretesa ed il riepilogo dei documenti allegati37. Concludendo, si dovrebbe almeno riconoscere che il tentativo di conciliazione previsto dall’art. 410 c.p.c. è comunque un tentativo necessario, che analizza le posizioni contrapposte per trovare punti di contatto. Una volta iniziato il procedimento conciliativo, questo dovrà svolgersi sulle stesse questioni su cui sarà chiamato ad intervenire il giudice, con la consapevolezza che un eventuale scostamento fra oggetto del tentativo e oggetto della successiva domanda giudiziale possa essere causa di una sospensione del processo. In un ottica di chiarificazione ab origine dei termini della controversia, sarebbe anche sufficiente il semplice deposito, presso l’ufficio competente, delle osservazioni scritte di controparte per meglio delineare i margini del contendere. Riguardo al procedimento di conciliazione avanti la Commissione, un punto debole è da ravvisare nei termini per l’espletamento del tentativo. Se gli organi ad hoc saranno in grado di fissare entro sessanta giorni dalle richieste pervenute le riunioni per l’espletamento dei tentativi di conciliazione, allora 37 Pizzoferrato “Giustizia privata del lavoro (conciliazione e arbitrato)”, in “Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia”diretto da F. Galgano, vol. trentaduesimo, Cedam, Padova, 2003, p.69 ss. 38 l’obbligatorietà del tentativo avrà raggiunto il proprio scopo che è quello dell’effettivo espletamento di conciliazione, a prescindere che le parti abbiano o meno raggiunto l’accordo. Se le Commissioni non saranno in grado, a causa dell’elevato numero di controversie o a causa della carenza di membri adeguati, di fissare il termine sopra detto per le riunioni, la novella potrà essere considerata fallita. Sarà più ragionevole per le parti, consapevoli della difficoltà di tale procedura, di rivolgersi immediatamente al giudice, visto che, per quanto stabilito dall’art. 410 c.p.c. , il tentativo si intende espletato se non compiuto nel termine di sessanta giorni. In questo caso la richiesta del tentativo di conciliazione finirebbe per essere una mera ed inutile perdita di tempo e di denaro38. Con l’introduzione dell’obbligatorietà, il legislatore è intervenuto sulla disciplina, ma non sulla struttura dell’organo conciliatore che, a distanza di quasi dieci anni, si ritrova immerso da numerose domande di conciliazione così come accadeva all’entrata in vigore della riforma. Questo grave problema, inevitabilmente, sta producendo un’ulteriore questione, che è quello di far diventare la procedura conciliativa una noiosa formalità priva dei suoi caratteri fondamentali e salienti. La procedura conciliativa, come già detto, può concludersi con la redazione di un verbale di avvenuta conciliazione o di mancata conciliazione. Riguardo quest’ultimo caso, in sede processuale, il giudice dovrà tenere conto, nella decisione sulle spese, del contenuto del verbale, il quale, secondo quanto disposto dall’art. 412, 1° comma, c.p.c., dovrà indicare i motivi del mancato accordo. Tali ragioni riguardano le richieste e le offerte che ciascuna parte ha effettuato nel corso del tentativo, per tanto, un punto di particolare delicatezza risiede nella verbalizzazione delle ragioni di ciascuna parte. Il tentativo di conciliazione non deve costituire una fase di trattazione anticipata del successivo processo, il verbale non deve contenere le ragioni di merito 38 L. Tartaglione “Conciliazione e arbitrato nelle controversie di lavoro”, Il sole 24 ore, Milano, 2000, p. 167. 39 sostenute dalle parti, perché, così facendo si potrebbe sia eludere il principio della riservatezza dell’istituto conciliativo, sia influenzare la decisione del giudice nell’apposita sede. Il legislatore, imponendo di indicare le motivazioni del mancato accordo, porta le parti ad assumere atteggiamenti ambigui tali da irrigidire le loro posizioni e, di conseguenza, concludere la conciliazione con un verbale in negativo. Le parti cercheranno di non pregiudicare con il loro comportamento, e quindi con le loro offerte e ammissioni, gli eventuali sviluppi della lite nella successiva sede processuale, e, così facendo, non applicheranno gli elementi caratterizzanti della conciliazione. Per cercare di incentivare i soggetti ad assumere degli atteggiamenti disinvolti in sede conciliativa si dovrebbe, per lo meno, redigere un verbale non formato sulle ragioni di fatto o di diritto, ma sull’ indicazione delle circostanze sulla basa delle quali le parti erano disposte a conciliare, quindi, si devono indicare le offerte transattiva ed il rifiuto delle medesime39. Riguardo l’ultimo comma dell’art. 2113 c.c. , il legislatore non ha previsto l’impugnazione delle rinunce e delle transazioni intervenute innanzi al giudice, presso la Commissione di conciliazione ovvero in sede sindacale. Tale previsione risiede sul ruolo di assistenza che l’organo conciliatore, e, soprattutto, l’organizzazione sindacale, deve svolgere in favore dell’autonomia individuale del lavoratore. Un’ulteriore argomento da analizzare è, per l’appunto, la figura del mediatore. Il buon esito della negoziazione dipende in larga misura dalla presenza di un soggetto terzo autorevole, al quale le parti riconoscano competenza tecnica e, in particolar modo, credibilità. Il mediatore deve disporre di tempo sufficiente per l’esposizione e la discussione delle ragioni poste a fondamento delle pretese vantate dalle parti, una Commissione di conciliazione che si ritrovi appesantita di lavoro e che operi in tempi ristretti, difficilmente potrà svolgere il proprio ruolo in modo 39 E. Gabrielli, F.P. Luiso “I contratti di composizione delle liti”, UTET, Torino, 2005, p. 361 ss. 40 efficiente40. L’attività del conciliatore non deve basarsi esclusivamente su un’indagine circa la produzione di una conciliazione priva di vizi causati della soggezione psicologica del lavoratore, ma deve estrinsecarsi in una reale azione di tutela di quest’ultimo attraverso consulenze sul quadro giuridico di riferimento e consigli circa la convenienza economica delle proposte avanzate. La ratio dell’art. 2113 c.c. è quella in cui il lavoratore venga assistito da soggetti terzi e venga guidato all’interno della procedura giungendo a termine con l’autenticità del proprio consenso prestato ad una certa ipotesi conciliativa. 2 La conciliazione nel lavoro pubblico. 2.1 La procedura di conciliazione. Anche le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni sono assoggettate al tentativo di conciliazione, ma esso si svolge secondo le speciali modalità delineate dal d.lgs. 165/2001, anziché con le modalità degli articoli 410 ss. c.p.c.. La procedura deflativa del contenzioso giurisdizionale attualmente prevista è disciplinata dalla disposizione di cui all’art. 65 del d.lgs. n. 165 del 30 Marzo 2001 ( Testo Unico delle disposizioni concernenti lo Statuto degli impiegati civili dello Stato ) e recante la seguente rubrica: “ Tentativo obbligatorio di 40 G. Leone “Il tentativo di conciliazione nel settore privato. Obbligatorietà, immediatezza e tutela dei diritti” in “La deflazione del contenzioso del lavoro. Il caso delle Pubbliche Amministrazioni” a cura di M. G. Garofano e R. Voza, Cacucci, Bari, 2007, p. 72. 41 conciliazione nelle controversie individuali ”. A norma dell’ art. 66 del T.U. , il tentativo di conciliazione può essere promosso dal lavoratore o dalla stessa pubblica amministrazione e si svolge o secondo le procedure previste dai contratti collettivi o davanti ad un Collegio di conciliazione. L’istanza di conciliazione, sottoscritta dal lavoratore, deve essere depositata o spedita con raccomandata con avviso di ricevimento al competente ufficio di conciliazione ed all’ amministrazione di appartenenza. La data di ricezione della raccomandata da parte del collegio interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza. Infatti, in assenza di una disciplina espressa, dovrà applicarsi quella generale disposte dall’art. 410, 2° comma, c.p.c.. inoltre, la stessa comunicazione vale a far decorrere sia il termine di trenta giorni entro cui l’amministrazione deve depositare le osservazioni scritte e nominare il proprio rappresentante in seno al Collegio di conciliazione, sia il termine di procedibilità della domanda giudiziale. Nella istanza il lavoratore deve indicare tutti gli elementi che sono specificati nell’art. 66, 3° comma, d.lgs. 165/2001. Tali requisiti formali sono: a) l’amministrazione di appartenenza e la sede alla quale il lavoratore è addetto; b) il luogo dove gli devono essere fatte le comunicazioni inerenti alla procedura; c) l’esposizione sommaria dei fatti e delle ragioni poste a fondamento della pretesa; d) la nomina del proprio rappresentante nel collegio di conciliazione o la delega per la nomina medesima ad un’organizzazione sindacale. Spetterà all’ufficio competente verificare la sussistenza dei requisiti minimi dell’istanza, che dovrà valutare quanto sommaria possa essere l’indicazione dei fatti e delle ragioni addotte dal lavoratore. Qualora l’ufficio inviti il lavoratore ad integrare la richiesta del tentativo e in attesa di rettifica dell’istanza, il termine di trenta giorni viene interrotto, ricominciando a 42 decorrere quando l’amministrazione riceve la nuova copia41. L’amministrazione, ricevuta la suddetta istanza dal lavoratore, entro trenta giorni deve depositare presso la Direzione Provinciale del lavoro le proprie osservazioni ( in fatto e in diritto ) sulla pretesa del lavoratore e nominare il proprio rappresentante in seno al collegio di conciliazione. Si ritiene che tale termine sia ordinatorio e l’amministrazione può riservare di presentare le proprie osservazioni successivamente o anche svolgerle oralmente dinnanzi al collegio, purché entro trenta giorni indichi il proprio rappresentante, consentendo così la costituzione del collegio, la mancata nomina del rappresentante di parte pubblica che non permette la costituzione dell’organo per colpa dell’amministrazione è valutabile in sede giudiziale. Se l’amministrazione non deposita entro trenta giorni alcuna memoria, il lavoratore deve comunque aspettare il decorso dei novanta giorni ai fini della procedibilità della domanda. Entro dieci giorni dal deposito delle osservazioni scritte e dalla nomina, il presidente del collegio deve fissare una data per la comparizione delle parti. Tale termine si ritiene ordinatorio. Dinnanzi al collegio di conciliazione, il lavoratore può comparire personalmente, senza assistenza alcuna, diversamente farsi rappresentare o assistere anche da un’organizzazione cui aderisce o conferisce mandato. Per quanto riguarda l’amministrazione, la legge prevede che debba comparire un soggetto munito del potere di conciliare ( art. 66, 4° comma ). Poiché il potere di conciliare compete ex lege nelle amministrazioni statali al dirigente dell’ufficio dirigenziale generale, tale organo dovrà delegare il proprio subordinato all’espletamento di tale attività. Non è possibile sommare in capo al delegato dell’amministrazione per la conciliazione anche il ruolo di componente del collegio, trattandosi di funzioni diverse che devono far capo a soggetti distinti. La delega, se non contiene dei limiti, attribuisce al delegato una sfera 41 R. Voza “ La peculiarità del tentativo obbligatorio di conciliazione nel lavoro pubblico” in “ La deflazione del contenzioso del lavoro. Il caso delle pubbliche amministrazioni ”, a cura di G. Garofano e R. Voza, Cacucci, Bari, 2007, p. 86-87. 43 incondizionata d’azione. Nel caso di delega che conferisce dei limiti al potere di conciliazione , si può verificare l’inconveniente in cui il funzionario disobbedisca alle direttive impartite dal proprio dirigente, in questo caso è ipotizzabile una responsabilità disciplinare. Se vi è un eccesso di delega, l’accordo in cui viene trasfusa la conciliazione, essendo viziato, si ritiene inefficacie nei confronti del lavoratore, salvo la facoltà di ratifica da parte dell’amministrazione. Se tra le parti non si raggiunge alcun accordo, il collegio di conciliazione formula una proposta per la bonaria definizione della controversia. Se la proposta non viene accettata, viene redatto un verbale contenente i termini della stessa e le valutazioni espresse dalle parti. Tale struttura di conciliazione valutativa, permette al Collegio, in assenza di disposizioni che lo vietino, anche di suggerire ad una delle parti il totale abbandono della propria posizione. La proposta del Collegio viene presa a maggioranza, in tal caso, il membro dissenziente, potrà pretendere la verbalizzazione della propria posizione, ma non che venga formulata alle parti. Gli atti, relativi al tentativo di conciliazione non riuscito, sono acquisiti nel successivo giudizio, anche d’ufficio. Il giudice ha la facoltà di valutare, ai fini del regolamento delle spese del giudizio, anche il comportamento delle parti nella fase conciliativa. Il verbale dovrebbe manifestare il vero spirito della disciplina conciliativa, che non è quello di prevedere un tentativo burocratico in più, ma di creare una nuova sede di confronto, di soluzione concordata e negoziata delle controversie. La legge prevede che la conciliazione della lite da parte di chi rappresenta la pubblica amministrazione, riguardo la proposta formulata dal collegio o in sede giudiziale non può dar luogo a responsabilità amministrativa. Nel caso di avvenuta conciliazione, anche limitatamente ad una parte della pretesa avanzata dal lavoratore, in base a quanto prescritto dall’art. 65, 5° comma, viene redatto un processo verbale, il quale sottoscritto dalle parti e dai componenti del collegio di conciliazione, costituisce titolo esecutivo, senza 44 alcun bisogno della verifica di regolarità da parte del Tribunale. Tale verbale non necessita di controlli successivi, acquisisce efficacia di titolo esecutivo ipso iure e, se redatti innanzi al collegio ( art. 66, 5° comma, d.lgs. 165/2001 e art 2113, 4° comma, c.c.) o innanzi al giudice nell’apposita udienza ( art. 2113, 4° comma, c.c.), non è impugnabile. In caso di conciliazione non avvenuta innanzi al Collegio o al di fuori dell’udienza di cui l’art. 420 c.p.c., troveranno applicazione le disposizioni di cui all’art. 2113, 1°-3° comma, c.c. , ed il relativo verbale sarà dunque impugnabile in sede giudiziale. Qualora il Collegio non proceda all’esperimento del tentativo perché la materia del contendere rientra nelle competenze del giudice amministrativo, o perché la vicenda, anche se di competenza del giudice ordinario, attiene a fatti anteriori al 30/06/1998, spetterà al direttore dell’ufficio del lavoro rilevare il difetto di giurisdizione, ma si ritiene che possa essere anche sollevato dalla stessa pubblica amministrazione, nelle proprie osservazioni scritte. In senso contrario si è espressa un’autorevole dottrina, secondo la quale, il tentativo dovrebbe comunque aver luogo, in quanto le questioni di giurisdizione non sono devolute alla valutazione dell’amministrazione, bensì alla magistratura. Nell’ipotesi in cui la conciliazione ex art. 66 d.lgs. 165/2001 intervenga in relazione a controversie devolute al giudice amministrativo, e per adire il quale non è necessario attivare previamente il meccanismo deflativo, è ipotizzabile l’impugnativa del verbale di conciliazione , in quanto l’art. 66, 5° comma, d.lgs. 165 preclude l’impugnabilità dello stesso solo in relazione alle controversie devolute al giudice ordinario. In sede conciliativa può accadere che la pubblica amministrazione viene chiamata a disporre di situazioni soggettive che fanno capo ad un terzo. L’art. 66 del d.lgs. 165/2001 nulla dispone l riguardo, ma non sembra escludere la possibilità che ciascun lavoratore coinvolto nomini un proprio rappresentante in seno al Collegio e partecipi alla procedura di conciliazione. Per tanto, la giurisprudenza, ha 45 affermato la necessità di esperire il tentativo di conciliazione nei confronti del terzo chiamato42. 2.1.1 La responsabilità amministrativa per il rappresentante della pubblica amministrazione. Una delle maggiori novità introdotte dal d.lgs. 80/1998 in materia di conciliazione è quella attualmente contenuta nell’ottavo comma dell’art. 66 d.lgs. 165/2001. La conciliazione della lite da parte del rappresentante dell’amministrazione, in adesione della proposta formulata dal Collegio, ovvero in sede giudiziale ai sensi dell’art. 420 c.p.c., non può dar luogo a responsabilità amministrativa. Tale circostanza si verifica esclusivamente nell’ipotesi in cui l’accordo sia raggiunto innanzi al giudice, oppure in sede amministrativa, ma soltanto a seguito della proposta formulata. Perché il rappresentante dell’amministrazione si consideri munito del potere di conciliare, occorre un normale provvedimento amministrativo rilasciato dal dirigente amministrativo dotato della competenza ad impegnare l’amministrazione verso l’esterno. L’intento del legislatore è quello di non sollevare da responsabilità coloro che, in veste di rappresentanti della pubblica amministrazione, giungono ad una conciliazione trovando un accordo diretto con la controparte, senza l’intermediazione di soggetti terzi quali il Collegio o il giudice, quindi, l’intentio legis è quella di impedire accordi fortemente sbilanciati a danno del lavoratore. Il soggetto sollevato da responsabilità è soltanto colui che rappresenta l’amministrazione nella fase conciliativa, non viene estesa tale garanzia anche a colui che, pur essendo un 42 G. Noviello “ Gli strumenti deflativi del contenzioso ”, in “ Le nuove controversie sul pubblico impiego privatizzato e gli uffici del contenzioso dopo il testo unico sul pubblico impiego” di G. Noviello, P. Sordi, E. A. Apicella, V. Tenore, Giuffrè, Milano, 2001, p. 168 ss. 46 pubblico funzionario, presieda il Collegio che fa la proposta. Secondo un’autorevole dottrina si afferma che, il funzionario non è investito di un’ampia discrezionalità nel decidere se accettare o meno l’accordo proposto dall’organo competente, ma viene assistito dall’amministrazione, la quale dovrà fornirgli le opportune indicazioni anche tramite atti di carattere generale che prescrivano il comportamento da tenere. L’art. 66, ultimo comma, da un lato libera il funzionario da un’eventuale successiva azione di responsabilità da parte della pubblica amministrazione di appartenenza, mentre, dall’altro, permette all’amministrazione di agire nei confronti del funzionario seguito dell’ingiustificato rifiuto di quest’ultimo di concludere la transazione. L’amministrazione, in un contesto litigioso, si troverà a dover analizzare due strade per la risoluzione della lite, una fondata sulla convenienza di raggiungere un accordo in sede conciliativo, l’altra sull’opportunità di portare la controversia in sede giudiziale. Quest’ultima soluzione consta di alti dischi, perché si troverebbe ad affrontare un estenuante giudizio, con relativo dispendio di energie lavorative ed economiche, e di subire anche la condanna al pagamento delle spese in favore della parte ricorrente vittoriosa. L’amministrazione sarà propensa a risolvere la lite in sede conciliativa prima di tutto perché eviterebbe tutti gli inconvenienti sopra esposti e anche perché il legislatore ha previsto l’esclusione da responsabilità del rappresentante, che, senza dubbio, si manifesta, dunque, come un incentivo, se non un’indispensabile premessa, per garantire il successo del tentativo di conciliazione43. La disposizione è essenziale, perché altrimenti ben difficilmente il rappresentante della pubblica amministrazione è disposto a conciliare, sapendo di poter essere chiamato a rispondere della propria decisione. La norma limita il proprio campo d’azione solo alle conciliazioni amministrative e giudiziali, estromettendo quelle 43 G. Iacovone “ La transazione giustiziale delle controversie di lavoro pubblico tra lacune normative e responsabilità dirigenziale”, in “ La deflazione del contenzioso del lavoro. Il caso delle pubbliche amministrazioni”, a cura di M. G. Garofano e R. Voza, Cacucci, Bari, 2007, p. 130 ss. 47 previste dalla contrattazione collettiva. In questo quadro normativo, non solo si rallenta quel cambiamento culturale e di mentalità indispensabile per una corretta valorizzazione degli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie nella pubblica amministrazione, ma soprattutto non incentiva lo strumento conciliativo ad essere visto come un effettivo canale alternativo a quello amministrativo, alleggerendo il grosso carico di lavoro pendente sulla Direzione Provinciale del lavoro, il quale produce un inevitabile arretrato nella trattazione delle cause. 2.2 La conciliazione in sede amministrativa : il Collegio di conciliazione. Nelle controversie insorte fra dipendente e pubblica amministrazione, competente è il Collegio di conciliazione di cui all’art. 66 d.lgs. 165/2001, ciò rappresenta una sorta di anello di congiunzione tra conciliazione e arbitrato. Tale organo è composto dal Direttore della Direzione Provinciale del lavoro, che lo presiede, e da due componenti nominati direttamente dalle parti, rispettivamente rappresentanti del lavoratore e della pubblica amministrazione. Si tratta di un organo amministrativo temporaneo, viene istituito di volta in volta al sorgere di una controversia dietro designazione delle parti stesse. I criteri di composizione vengono predeterminati attraverso criteri stabiliti dalla legge, il Collegio di conciliazione si configura come un organismo istituito ad hoc come espressione della volontà delle parti. 48 L’imparzialità dell’organo ricade interamente sulle spalle del presidente, il quale deve cercare un punto di equilibrio tra i rappresentanti che costituiscono il collegio. La presenza sindacale è meramente eventuale, al riguardo alcuni sostengono che, in quanto organo, non è rappresentativo di interessi collettivi o di gruppo, ma è espressione diretta delle parti, in realtà, la presenza sindacale dipende da chi, i soggetti, intendano designare. La necessità di nominare un proprio rappresentante in seno al collegio, da un lato valorizza l’iniziativa individuale del lavoratore, ma dall’altro lato può essere disincentivante sotto il profilo economico che lo stesso lavoratore dovrà sostenere, ferma restando la facoltà di designare un soggetto che eserciti gratuitamente tale funzione44. Riguardo il profilo della funzionalità, l’orientamento maggioritario ha sostenuto che la caratteristica della temporaneità dell’organo, costituito di volta in volta da rappresentanti di fiducia nominati direttamente dalle parti, non fa che aumentare le occasioni di tempestività del tentativo di conciliazione. La competenza per territorio viene individuata in base all’ufficio cui il lavoratore è addetto, ovvero dove era addetto al momento della cessazione del rapporto,quindi, in base all’art. 413, 5° comma, c.p.c., vi è un foro esclusivo. Le disposizioni sulla competenza territoriale riguarda i rapporti di lavoro pubblici privatizzati, per gli altri rapporti di pubblico impiego, ancora soggetti al regime pubblicistico, si applica il procedimento giurisdizionale amministrativo che non prevede il tentativo obbligatorio di conciliazione. L’eventuale incompetenza dell’organo non genera problemi sulla procedibilità dell’azione giurisdizionale, sulla base di ciò l’accordo raggiunto dinanzi il Collegio incompetente territorialmente o funzionalmente sarà pienamente valido e idoneo a diventare titolo esecutivo, inoltre, la conciliazione conclusa con un verbale di mancato accordo, rende comunque procedibile l’azione giudiziaria perché è stato soddisfatto 44 R. Voza “ La peculiarità del tentativo obbligatorio di conciliazione nel lavoro pubblico”, in “ La deflazione del contenzioso del lavoro. Il caso delle pubbliche amministrazioni”, a cura di M. G. Garofalo e R. Voza, Cacucci, Bari, 2007, p. 83 ss. 49 l’obiettivo del tentativo, è stato rispettato pienamente il confronto dialettico tra le parti45. Particolare rilievo assumono i compiti del Collegio in ordine alla gestione della tentativo, in particolar modo con riferimento al potere di svolgere una conciliazione di tipo valutativa espressamente prevista all’art. 66 , 6° comma. In base al dettato normativo, ove il Collegio non riesca ad indurre le parti a trovare un accordo, è obbligato a formulare una proposta, ed in caso di disaccordo delle parti, quest’ultime possono trascrivere nel verbale le loro osservazioni. Il verbale, una volta concluso il procedimento conciliativo, contribuirà a formare i documenti processuali, inoltre, potrà essere anche acquisito d’ufficio dal giudice per una valutazione del comportamento delle parti e, sia pur per una rilevanza limitata, per la regolamentazione delle spese processuali. La dottrina, riguardo al compito del Collegio che è quello di valutare e condurre le parti al raggiungimento di un accordo, ha colto una funzione di mediazione, anziché di conciliazione. Tale posizione muove dal diverso modo di identificare i due istituti. Il conciliatore ha esclusivamente il ruolo di assistere le parti, le quali mantengono uno stretto controllo della procedura; il mediatore promuove la soluzione della controversia anche presentando una possibile soluzione alle parti che lo hanno prescelto. In realtà, il legislatore ha voluto strutturare in questo modo il tentativo conciliativo solo per favorire il percorso stragiudiziale rendendo il compito del conciliatore più dinamico, non limitandolo all’assistenza silenziosa delle trattative e alla conseguente registrazione dell’esito. Da questa proposta avanzata dal Collegio discende l’esonero della responsabilità del rappresentante della pubblica amministrazione, che viene ad applicarsi solo quando le parti facciano propria la proposta formulata dall’organo in sede amministrativa. Si è voluto attribuire una certa importanza alla proposta avanzata perché proviene da un 45 Pizzoferrato “ Giustizia privata del lavoro ( conciliazione e arbitrato )”, in “ Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia ” diretto da F. Galgano, vol. tredicesimo, Padova, Cedam, 2003, p. 99-100. 50 Collegio la cui natura e composizione offrono la garanzia della formulazione di una proposta equilibrata, rispetto a quanto possa fare l’organo di conciliazione previsto dalla contrattazione collettiva. Sembra che il legislatore abbia pensato al Collegio come ad un organo giustiziale e, a rafforzare questa teoria, basta rivolgere uno sguardo sia all’accordo di conciliazione, il quale, anche se raggiunto parzialmente, è subito titolo esecutivo, senza bisogno della ratifica da parte dell’autorità giudiziaria, diversamente da quanto accade sia per il lavoro privato, sia per la conciliazione in sede sindacale; quanto alla composizione dell’organo, formato da soggetti in grado di rispecchiare le posizioni delle parti litiganti e di riprodurre il tipico contraddittorio processuale. Il legislatore ha attribuito al Collegio il compito di formulare, in caso di mancato accordo, una proposta per la bonaria definizione della lite, tanto da assegnargli un ruolo di impulso teso a favorire la conciliazione. I Collegi di conciliazione, così disegnati dall’art. 66 d.lgs. 165/2001, risultano essere ancor più strettamente legati alle parti in lite rispetto alle Commissioni disciplinate dal codice di procedura civile. Ne consegue un grosso rischi per il conseguimento dell’esito positivo della conciliazione, dal momento che, i membri dell’organo, essendo nominati dalle parti, potrebbero non ricoprire in modo costruttivo il ruolo a loro assegnato e sostenere le posizioni delle parti contendenti ampliando la litigiosità, tutto il peso della procedura finirebbero per gravare sul solo presidente e sulle sue capacità conciliative. Il Collegio di conciliazione è stato previsto come un organo ad hoc, istituito solo dietro domanda della parte, ciò può comportare l’inconveniente di rendere meno agevole la formazione di un bagaglio di esperienza pratica nella gestione del tentativo di conciliazione e l’acquisizione di un’adeguata padronanza delle tecniche di mediazione, requisiti che, indubbiamente, risultano determinanti in vista del raggiungimento di una soluzione soddisfacente e conveniente rispetto a ciò che si potrebbe ottenere in una fase giurisdizionale. Un’ultima scelta normativa riguardante il Collegio è quella di affidare a questo stesso 51 organo anche il ruolo di Collegio arbitrale nella materia delle impugnazioni delle sanzioni disciplinari46. 2.3 La conciliazione in sede sindacale. La conciliazione sindacale viene considerata equivalente alla conciliazione in sede amministrativa per la regolamentazione di aspetti quali i termini per l’espletamento, il caso di mancata conciliazione, l’efficacia di titolo esecutivo in caso di soluzione parziale. In dottrina si è parlato di “ istituzionalizzazione ” perché tali regole devono applicarsi sempre, anche quando la contrattazione collettiva che prevede il tentativo di conciliazione non le indichi. La conciliazione sindacale è prevista da quasi tutti i contratti di categoria ed è presente anche in alcuni contratti aziendali. Questo istituto ha permesso ai sindacale non solo di imporre norme che sanciscono diritti e doveri per i datori di lavoro e per i lavoratori, ma anche, tramite la loro autonomia, di realizzare istituti per la creazione e il mantenimento della pace industriale47. In questo modo i sindacati sono stati incentivati a progettare strumenti per la retta interpretazione dei contratti collettivi e per il ricorso ad organi conciliativi per la risoluzione non solo delle controversie nascenti dall’applicazione del contratto, ma, in genere, per quelle inerenti ai diritti ed agli obblighi connessi alla prestazione di lavoro. Nel caso di contestazione da parte di un lavoratore di determinati istituti che trovano la loro fonte normativa nel contratto di lavoro, la conciliazione sindacale da un lato 46 M. A. Guarnaccia “ Il tentativo obbligatorio di conciliazione nel pubblico impiego ”, in “ Rivista elettronica di diritto pubblico, di diritto dell’economia e di scienza dell’amministrazione ”, http://www.luis.it a.a. 2003-2004, p. 5-6. 47 F. Borgogelli “ Conciliazione e arbitrato: le nuove regole e il regime di inderogabilità dei contratti collettivi ”, in “ Scritti in memoria di Massimo D’Antona. Diritto sindacale ”, volume 2, parte 2, Milano, Giuffré, 2004, p. 1733. 52 rappresenta una garanzia per il lavoratore, dall’altro favorisce la risoluzione della stessa controversia. La conciliazione sindacale evita il ricorso agli organi dello Stato, ma non per questo la si può ravvisare come uno strumento limitativo della volontà del soggetto di scegliere a quale organo rivolgersi per risolvere la lite, dato che si tratta di un’attività che cerca di evitare l’intervento degli organi giurisdizionali. L’associazione sindacale, attraverso quest’istituto svolge la sua attività di amministrazione del contratto, sia nell’ipotesi in cui occorra compiere un’interpretazione delle norme collettive, sia che occorra risolvere una controversia mediante una conciliazione. Normalmente i contratti collettivi prevedono un duplice grado di composizione stragiudiziale delle controversie di lavoro. In una prima fase aziendale si trovano a dover colloquiare soggetti che sono tutti uniti tra di loro dal rapporto di lavoro con il datore di lavoro e lo stesso datore di lavoro. In una seconda fase i soggetti sono posti al di fuori dell’impresa, sono indipendenti dalla controparte, sono cioè solo i rappresentanti sindacali. Vi sono altri tipi di contratti collettivi che prevedono l’istituzione di commissioni paritetiche formate da membri nominati dalle contrapposte organizzazioni sindacali e presiedute da un soggetto imparziale eletto da queste ultime in caso di disaccordo dal Presidente del Tribunale. La stabilità di queste commissioni tende a portare a termine il tentativo di conciliazione in un solo incontro. La contrattazione collettiva ha un forte interesse nel rendere sempre più efficienti gli strumenti diretti all’autocomposizione delle controversie dei lavoratori, dato che è proprio dall’autorità delle associazioni sindacali che può discendere un esito finale positivo della conciliazione. La presenza del sindacato accanto ai singoli litiganti, dimostra una volontà dell’associazione di voler partecipare al procedimento conciliativo ponendo particolare attenzione all’interesse del soggetto. Il legislatore, nel disciplinare il panorama conciliativo nelle controversie lavorative, ha strutturato la conciliazione sindacale in base alla situazione di inferiorità del prestatore di 53 lavoro, individuato in sede contrattuale come il contraente debole. Nell’ambito del lavoro pubblico, l’amministrazione, datrice di lavoro, ha maggiore forza contrattuale ed è in grado di raggirare il lavoratore garantendoli poco di più dei diritti e doveri essenziali. La clausola di conciliazione presente nei contratti collettivi ha lo scopo di tentare una amichevole composizione della lite, evitando un giudizio di fronte alla magistratura e permettendo al sindacato di esplicare un intervento immediato, inoltre, prevede un implicito obbligo ad una tregua sindacale con il dovere di pace fino alla fine del tentativo di conciliazione. Riguardo l’inciso “ conciliazione sindacale ” previsto nell’art. 411 c.p.c., la dottrina maggioritaria la considera quella che si svolge con l’osservanza delle disposizioni impartite dai contratti collettivi, con conseguente possibilità di ottenere un verbale conclusivo avente forma di titolo esecutivo non impugnabile ai sensi dell’art 2113 c.c. . Contro questo orientamento parte della dottrina ha sottolineato che ci si trova lo stesso di fronte ad una vera e propria conciliazione sindacale se il tentativo sia compiuto con l’assistenza dei rappresentanti sindacali, indipendentemente dall’assistenza o meno di una normativa contrattuale. Questo orientamento è rimasto però minoritario e quindi privo di applicazione pratica48. La conciliazione sindacale permette il coinvolgimento di entrambe le parti nella risoluzione della lite, con la conseguenza che il verbale sottoscritto rappresenta la vera volontà di entrambe le parti, riuscendo a superare le tradizionali posizioni antagoniste. Nella conciliazione in sede amministrativa, la proposta dell’organo predisposto volta a suggerire un’ipotesi è idonea a far scattare il meccanismo dell’esonero della responsabilità per il rappresentante dell’amministrazione, mentre in sede sindacale ciò non avviene. La volontà del legislatore è quella di sottrarre la conciliazione sindacale dagli effetti voluti dall’art. 66, 8° comma, d.lgs. 48 G. Alvino “ Il ruolo del sindacato nell’attività di conciliazione: uno strumento di amministrazione del CCNL ”, in “ La testimonianza del giurista nell’impresa ”, a cura di C. Cordaus, R. Romei, G. Sapelli, Cacucci, Bari, 2001, p. 202 ss. 54 165/2001, evidentemente in quanto l’organismo conciliativo previsto dalla contrattazione collettiva non viene reputato idoneo a formulare una proposta sufficientemente equilibrata. Un altro elemento di disparità tra le due tipologie di conciliazione riguarda l’esecutività del verbale di conciliazione. Il legislatore ha riservato al solo verbale di conciliazione in sede amministrativa l’effetto dell’automatica esecutività, in ambito sindacale l’esecutività del processo verbale è sottoposta all’iter procedimentale previsto dall’art. 411, ultimo comma, c.p.c.. Nella prassi tali difformità e problematiche inducono a privilegiare la conciliazione in sede amministrativa rispetto a quella sindacale49. 2.3.1 Accordi interconfederali in materia di conciliazione. A distanza di qualche anno dall’introduzione del tentativo obbligatorio di conciliazione, i sindacati stipularono il C.C.N.Q. su arbitrato e conciliazione del 23 gennaio 2001 nel quale il tentativo di conciliazione è configurato come una fase interna al procedimento di arbitrato. Il menzionato accordo prevede che, qualora le parti decidano di fare ricorso all’arbitro, quest’ultimo viene incaricato di espletare il tentativo di conciliazione, che sostituisce e produce i medesimi effetti previsti dall’art. 66 d.lgs. 165/2001. La legge individua il tentativo di conciliazione come un presupposto indispensabile per la proposta della domanda di arbitrato, ma consente all’autonomia sindacale di regolare il tentativo secondo modalità diverse rispetto a quelle poste dalla legge. L’accordo accorpando in un unico organo due funzioni tra loro complementari, quali quella della conciliazione e dell’arbitrato, prevede che 49 R. Voza “ Le peculiarità del tentativo obbligatorio di conciliazione nel lavoro pubblico ”, in “ La deflazione del contenzioso del lavoro. Il caso delle pubbliche amministrazioni ” a cura di M. G. Garofalo, R. Voza, Cacucci, Bari, 2007, p. 98-100. 55 per proporre una domanda di arbitrato non è necessario il previo esperimento della conciliazione, inoltre, il tentativo svolto in corso di arbitrato è equiparato a quello effettuato davanti agli organi appositamente istituiti in sede sindacale o amministrativa. Il procedimento conciliativo si apre con il deposito presso la sede dell’arbitro della documentazione contenente l’esposizione dei fatti, delle ragioni poste a fondamento della pretesa, della memoria difensiva con la quale l’amministrazione prende posizione sui fatti affermati dal prestatore di lavoro. Il proponente deve depositare tali atti nel termine di dieci giorni, mentre l’altra parte deve depositarli entro venti giorni a partire dalla data in cui l’arbitro ha accettato la designazione. La comparizione dinnanzi al conciliatore deve avvenire entro trenta giorni dalla data in cui il soggetto preposto ha accettato la designazione e il tentativo dovrà esaurirsi entro dieci giorni dalla data di comparizione ( art. 4, 3° comma, CCNQ Aran/OO.SS. 23/01/2001 ). Se al termine del procedimento conciliativo le parti sono state in grado di raggiungere una soluzione concordata e negoziata della controversia, si redige processo verbale ai sensi dall’art. 411 c.p.c. e l’atto viene trasmesso alla camera arbitrale stabile, a cura dell’arbitro ( art. 4, 5° comma ). Se la conciliazione non riesce, l’arbitro, sempre in funzione di conciliatore, formula una proposta che, ove accettata, produrrà per il rappresentante della pubblica amministrazione l’effetto di esonero di responsabilità amministrativa ( art. 4, 6° comma ). Se la proposta non viene accettata, l’arbitro fissa la prima udienza per la trattazione contenziosa ( art. 4, 7° comma )50. Un problema di non poca importanza è ravvisabile nel fatto in cui nei contratti di comparto relativi al quadriennio normativo 2002/2005, non compare alcuna disposizione in materia, salvo un generico rinvio alla disciplina del contratto quadro. Fa eccezione il comparto della scuola che ha regolato il tentativo nell’Accordo di disciplina 50 Il testo di entrambi gli accordi sono reperibile su : http://www.aranagenzia.it 56 sperimentale di conciliazione e arbitrato stipulato il 18/12/2001. L’organo competente è istituito presso le articolazioni territoriali del Ministero dell’istruzione, non è istituito ad hoc, ma è un organo stabile dell’organizzazione scolastica decentrata. Tale ufficio viene investito di compiti di segreteria per le parti che devono svolgere il tentativo di conciliazione ( art. 1, 2° comma, accordo 18 ottobre 2001 ). Riguardo la modalità di presentazione della domanda, l’accordo segue le previsioni dell’art. 66 d.lgs. 165/2001. Sono da notare alcune diversità: in primo luogo è stato ridotto a quindici giorni il termine entro cui l’amministrazione deve prendere visione delle pretese del lavoratore e o accoglierle o, in caso contrario, formulare le proprie osservazioni scritte depositandole presso l’ufficio di segreteria, è esplicitamente previsto che il lavoratore possa prendere visione. La comparizione delle parti per l’esperimento del tentativo di conciliazione è fissata dall’ufficio entro dieci giorni dal deposito delle osservazioni dell’amministrazione ( art. 1, 5° comma ). Se il tentativo riesce viene redatto apposito verbale sottoscritto dalle parti, che costituisce titolo esecutivo , previo decreto del giudice del lavoro. In caso di mancato accordo, anche dietro un’attiva partecipazione dell’ufficio, quest’ultimo stilerà il verbale di mancata conciliazione e, una volta sottoscritto dalle parti, verrà depositato presso la competente Direzione provinciale del lavoro ( art. 1, 8° comma ). L’inerzia dell’amministrazione nel depositare le proprie osservazioni e l’assenza in sede conciliativa non paralizza l’iter del procedimento, in quanto, nel primo caso l’ufficio potrà convocare ugualmente le parti e, nel secondo caso potrà stilare un verbale motivando la mancata conciliazione ( art. 1, 9° comma ). L’ultimo comma dell’art. 1 dispone l’esenzione della responsabilità amministrativa per il rappresentante della pubblica amministrazione. In questo modo, si pone rimedio alla differenza tra 57 le due modalità di conciliazione che portava a preferire la conciliazione amministrativa a causa dell’ esonero di responsabilità51. 2.4 Punti deboli del sistema conciliativo nel settore del lavoro pubblico. Nel rapporto di lavoro pubblico, a differenza di quanto avviene nel settore privato, c’è la presenza di un elemento rilevante, è l’interesse della pubblica amministrazione al miglior espletamento della funzione pubblica che, attraverso quel rapporto di lavoro si realizza. La pubblica amministrazione, in sede conciliativa, non potrà guardare solo agli aspetti economici e contrattuali, ma dovrà tener conto dell’interesse pubblico, ecco perché l’amministrazione preferirà sacrificare l’interesse del singolo per un interesse pubblico superiore. Uno dei problemi principali, già altre volte analizzato è il principio di obbligatorietà introdotto dal legislatore. La scarsa organizzazione degli apparati conciliativi e la poca speditezza nella gestione delle pratiche, hanno reso la conciliazione obbligatoria una mera formalità che innesca un meccanismo dilatorio dei tempi del processo che si aggiunge a tanti altri ritardi nella nostra giustizia. Dall’ingresso della riforma sino ad oggi si è sviluppata la prassi, da parte della pubblica amministrazione, di non voler raggiungere l’accordo con una conciliazione totale, ma anche parziale e questo perché si è ancora oggi legati al classico iter di risolvere una lite innanzi all’autorità giudiziaria, a costo di assumere tutte le responsabilità 51 http://edscuola.it/archivio 58 assenti in sede conciliativa. È necessario che, alla luce dei principi costituzionali di buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione, si faccia ampio uso della conciliazione e non solo nelle sedi indicate dalla normativa vigente, ma non appena si accerti la pretesa del dipendente52. Si deve cercare di staccarsi dai classici schemi processuali e percorrere la strada, di certo conveniente dal punto di vista dei costi e dei benefici, diretta al raggiungimento di soluzioni convenienti. Un ruolo molto importante, per un raggiungimento di un accordo bonario in fase conciliativa, lo ricopre il Collegio di conciliazione, chiamato a formulare, nel caso in cui le parti non riescano a trovare un accordo, una proposta transattiva, ma per poter svolgere tale ruolo necessita di un organizzazione adeguata al caso. Così come nel lavoro privato, il tentativo “ obbligatorio ” di conciliazione è stato evidenziato come un fallimento. 2.4.1 Particolarità della conciliazione nel lavoro pubblico. Una prima peculiarità della disciplina conciliativa nei rapporti di pubblica amministrazione traspare nella figura del Collegio di conciliazione, mentre nel lavoro privato la lite è gestita da una Commissione di conciliazione (art. 410 c.p.c.). Una prima differenza è che mentre quest’ultima è un organismo permanente, stabilmente situato presso ciascuna Direzione provinciale del lavoro, il Collegio di conciliazione, chiamato a risolvere le controversie nel pubblico impiego, è invece costituito volta per volta, con una specifica composizione per ogni lite, ciò si evince dal dettato dell’art. 66 d.lgs. 165/2001, il quale prevede che la richiesta di conciliazione deve 52 M. A. Guarnaccia “ Il tentativo obbligatorio di conciliazione nel pubblico impiego ”, in “ Rivista elettronica di diritto pubblico e di scienza dell’amministrazione a cura del centro di ricerche sulle amministrazioni pubbliche Vittorio Bachelet ”, a.a. 2003-2004, p. 12-13, in http://www.luis.it 59 contenere la nomina del rappresentante in seno al Collegio di conciliazione. Sarebbe opportuna una equiparazione di entrambi i soggetti predisposti alla procedura conciliativa, perché il Collegio, così istituito, rischia di produrre dei fallimenti conciliativi: la sua costituzione saltuaria non può permettere la formazione di un bagaglio di esperienze volto a modificare le sue imperfezioni ed inoltre, i membri del Collegio, essendo direttamente nominati dalle parti, potrebbero rendere problematico il raggiungimento di un accordo, dal momento che non sarebbero in grado di rivestire il loro ruolo in un modo imparziale, staccandosi dalle posizioni delle parti che li hanno nominati. Questo quadro, poco consono alla procedura conciliativa, metterebbe in crisi la figura del presidente, unico vero imparziale, il quale dovrà gestire da solo l’incontro e far forza sulle sue capacità conciliative in modo da formulare una proposta per la risoluzione della controversia. La pubblica amministrazione, se entro trenta giorni dalla ricezione dell’istanza di conciliazione non deposita le proprie osservazioni scritte, potrebbe rendere impossibile l’espletamento del tentativo di conciliazione e siffatto atteggiamento produrrà sicuramente l’irreversibile e totale impasse della procedura, visto che la costituzione del Collegio è un atto necessario per la risoluzione della lite. È ovvio che una condotta di tale genere comporta a carico dell’ente pubblico inadempiente rilevanti conseguenze nel corso del successivo processo, ma ciò non toglie che il fallimento della procedura conciliativa si sia inevitabilmente prodotto. Questa situazione nella prassi è molto frequente, ma al fine di evitarla, sarebbe opportuno che la pubblica amministrazione nomini il proprio rappresentante in seno al collegio, visto che può depositare anche in ritardo le osservazioni sull’oggetto del contendere. Inoltre, a differenza del settore privato ove è l’ufficio a convocare il datore di lavoro, qui è il dipendente a dover comunicare alla pubblica amministrazione di aver promosso il tentativo di conciliazione. La richiesta deve contenere tutti gli elementi indicati dall’art. 66 d.lgs. 165/2001, questo dato normativo rappresenta un importante 60 passo in avanti rispetto alla procedura nel lavoro privato. Una domanda così formulata consente alla controparte pubblica di percepire con sicurezza l’oggetto della pretesa e le ragioni su cui si fonda, in modo tale che la pubblica amministrazione sia in grado di predisporre le proprie osservazioni scritte e di valutare le possibilità di un’offerta da porre al lavoratore, e consente all’organo predisposto di analizzare gli elementi della lite al fine di, se necessario, formulare una proposta adeguata al caso concreto. È pur vero che l’art. 66 prescrive l’esposizione sommaria dei fatti e delle ragioni poste a fondamento della pretesa, ma poi non sanziona in alcun modo la richiesta di conciliazione carente di questo requisito. È stato proposto di equiparare, quanto ai contenuti, la richiesta di conciliazione giudiziale e di obbligare il convenuto a replicare con proprie osservazioni. Quanto agli effetti che scaturiscono dall’intervenuta conciliazione, anche parziale, il dato normativo dispone che il verbale abbia subito efficacia esecutiva, senza alcun bisogno della verifica di regolarità da parte del tribunale, così come accade per il verbale delle conciliazioni avvenute per il settore privato. Tale disparità può essere spiegata solo facendo riferimento a motivi di economia processuale connessi ai requisiti dell’amministrazione, la quale è obbligata a concludere delle conciliazione con il rispetto del principio costituzionale di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione. Non si comprende la ratio della rimessione in termini dell’art. 65, il quale prevede che, se il giudice rileva che non è stato promosso il tentativo o che la domanda giudiziale è stata proposta prima dello scadere del termine di novanta giorni dalla promozione del tentativo, sospende il giudizio e fissa il termine perentorio di sessanta giorni per iniziare il procedimento conciliativo, quanto disposto non compromette il diritto di difesa del convenuto. Tale diritto di difesa non pregiudica il mancato esperimento di conciliazione con conseguente improcedibilità della domanda e sospensione del processo. Non può che trattarsi di un vero e proprio favor per il convenuto, solitamente il datore di 61 lavoro, nelle liti di lavoro pubblico53. Si ritiene che la proposta avanzata dal Collegio non sia adeguata allo spirito conciliativo, perché tale circostanza snaturerebbe la procedura conciliativa stragiudiziale, che è un mezzo alternativo di risoluzione delle controversie basato sul comune accordo delle parti, ponendola a metà strada tra il procedimento giudiziario e l’arbitrato. Infine, si dubita sull’utilità di posticipare il tentativo di conciliazione nel corso del giudizio perché un semplice differimento temporale dello svolgimento del tentativo non accrescerebbe la possibilità di una risoluzione della lite54. 2.4.2 Soggetti e uffici predisposti al tentativo di conciliazione. In sede di conciliazione nel lavoro pubblico una figura di particolare importanza è ravvisata nel rappresentante della pubblica amministrazione. Attorno al dirigente si è creato un circuito di responsabilizzazione in relazione all’attività svolta, la quale deve essere conforme alle esigenze di garantire efficienza ed efficacia dell’attività amministrativa, applicabile anche all’attività di gestione dei rapporti di lavoro. Il potere di rappresentare la pubblica amministrazione in sede conciliativa viene delegato, in base all’art. 16, 1° comma, lett. f ), d.lgs. 165/2001, ai dirigenti di seconda fascia, cioè i vicedirigenti55. Un problema è l’ipotesi in cui il rappresentante dell’amministrazione concili una lite andando oltre i limiti conferiti dal 53 D. Borghesi “ Il mancato esperimento del tentativo di conciliazione: rilevabilità e conseguenze ”, in “ Diritto del lavoro: commentario” diretto da F. Carinci, Utet, Torino, 2005, p. 112. 54 M. P. Fuiano “ La conciliazione obbligatoria stragiudiziale tra esigenze di deflazione processuale e dubbi di legittimità costituzionale ”, in “ La deflazione del contenzioso del lavoro. Il caso delle pubbliche amministrazioni ”, a cura di M. G. Garofalo e R. Voza, Cacucci, Bari, 2007. 55 G. Iacovone “ La transazione giustiziale delle controversia di lavoro pubblico tra lacune normative e responsabilità dirigenziale ”, Cacucci, Bari, 2007, p. 117-121. 62 proprio dirigente nell’atto interno di delega. Prima di tutto è ipotizzabile una responsabilità disciplinare del dipendente, mentre la configurabilità di una responsabilità amministrativa sarà ravvisata sulla sussistenza o meno degli elementi dell’illecito. Il verbale che verrà stipulato al termine della conciliazione può essere considerato inefficace nei confronti del lavoratore, qualora l’amministrazione, in persona del dirigente, venga a conoscenza dell’eccesso di delega esercitato dal proprio dipendente. Per quanto riguarda l’organizzazione degli uffici bisogna apportare delle rilevanti riforme degli uffici di conciliazione dal punto di vista della loro composizione e del loro modo di funzionamento. Gli apparati di conciliazione si sono dimostrati sin da subito inidonei, in ragione della scarsa efficienza organizzativa, dell’assenza della cultura necessaria e di tempestività nella gestione delle pratiche contribuendo a rendere il tentativo obbligatorio di conciliazione una mera formalità con effetti meramente dilatori. Alcuni sostengono che per ad una conciliazione attiva e dinamica dove l’organo risulti dotato di ampi poteri propulsivi, si dovrebbero valorizzare gli uffici per la gestione della conciliazione. Lo stesso art. 12 del d.lgs. 165/2001 pone a carico delle amministrazioni pubbliche l’obbligo di organizzare la gestione del contenzioso del lavoro, anche istituendo appositi uffici, in modo da assicurare l’efficace svolgimento di tutte le attività stragiudiziali e giudiziali inerenti le controversie, secondo questa impostazione gli uffici dovrebbero svolgere una funzione consultiva. Il personale destinato a tale incarico deve essere in possesso di una laurea in giurisprudenza, se non addirittura specializzati in diritto del lavoro, inoltre deve essere in possesso di necessarie competenze in materia di conciliazione con il compito di esaminare in prima istanza il contenzioso relativo alle procedure di conciliazione e consigliare i comportamenti dell’amministrazione, in modo da evitare errori nella gestione 63 del personale e l’insorgere delle controversie56. In questo modo la pubblica amministrazione si doterebbe di tutti gli strumenti necessari per gestire nel modo più efficiente il contenzioso, visto che, nella situazione attuale, il Collegio non è posto nelle condizioni materiali di poter formulare una proposta per la risoluzione della lite. L’amministrazione spesso si dimostra contraria al raggiungimento di un accordo conciliativo, e non si comprende il perché non dovrebbe essere sanzionato il suo comportamento, in particolar modo quando ci si imbatte in controversie che non necessitano di istruttoria giudiziaria e che vedrebbero con ogni probabilità soccombere l’amministrazione quando si arrivi a sentenza. In questi casi il rifiuto dell’amministrazione a conciliare dovrebbe configurare una responsabilità amministrativa, perché solo attraverso la predisposizione della sanzione la norma viene osservata57. 3 La conciliazione monocratica. Nel 2004, il legislatore, con lo scopo di realizzare un raccordo efficace tra funzione conciliativa e funzione ispettiva al fine di contribuire alla deflazione del contenzioso, emanò il 23 aprile 2004 il d.lgs. n. 124. Il testo normativo è stato redatto per porre fine alla prassi che si era ormai consolidata: gran parte delle richieste di intervento presentate all’ispettore nella Direzione provinciale del lavoro non venivano effettuate. A ciò contribuivano diversi 56 V. Tenore “ Gli uffici per il contenzioso e la loro organizzazione ” in “ Le nuove controversie sul pubblico impiego privatizzato e gli uffici del contenzioso dopo il testo unico sul pubblico impiego ” di G. Noviello, P. Sordi, E. A. Apicella, V. Tenore, Giuffrè, Milano, 2001, p. 227 ss. 57 R. Santochirico “ Lavoro pubblico e procedimento conciliativo: gli esiti di una ricerca empirica ”, in “ La deflazione del contenzioso del lavoro. Il caso delle pubbliche amministrazioni ” a cura di M. G. Garofalo, R. Voza, Cacucci, Bari, 2007, p. 153-156. 64 fattori, quali l’alto numero delle richieste, la necessità di privilegiare, nell’ottica della prevenzione e della lotta al lavoro irregolare, le visite in settori ad alto rischio di evasione e di pericolosità ( es. edilizia, pubblici servizi, autotrasporti, ecc. ), la carenza di organico di personale addetto alla vigilanza. Tramite l’art. 11 del d.lgs. 124/2003 si è data attuazione al principio contenuto nella legge delega n. 30/2003, in questo modo si è cercato, per la prima volta, di realizzare un stretta relazione tra le due attività principali dell’organo periferico del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Un funzionario della Direzione provinciale del lavoro ha il compito di tentare una soluzione conciliativa in una controversia fra lavoratore e datore di lavoro. La conciliazione monocratica è svolta da un conciliatore unico, tale figura era presente prima del 1973, ma la legge n. 533 dello stesso anno la eliminò introducendo il tentativo avanti ad una Commissione ad hoc. Sul grado di tutela della conciliazione monocratica si è molto discusso a lungo, fino ad una sentenza della Corte di Cassazione n. 17785 del 12 dicembre 2002, la quale ha reso questo strumento idoneo a sottrarre il lavoratore a quella condizione di soggezione rispetto al datore di lavoro, solo se questo organismo partecipi attivamente alla composizione dei contrapposti interessi delle parti e riconosca, in una transazione già delineata dalle parti, l’espressione di una sana volontà dei soggetti interessati58. Nell’art. 11 vi sono due diverse tipologie di conciliazione monocratica. La prima è la conciliazione preventiva ( art 11, 1°-5° comma ), può essere attivata dalla Direzione provinciale del lavoro quando, su segnalazione del lavoratore, ritiene emergano elementi per una soluzione conciliativa della controversia. La seconde è la conciliazione contestuale ( art. 11, 6° comma ), avviata nel corso della verifica, quando l’ispettore ritenga che vi siano i presupposti per un tentativo di conciliazione fra lavoratore e datore di lavoro. 58 A. Casotti, M. R. Gheido “ Le strategie difensive del datore di lavoro d.lgs. 124/2004. Dalla diffida accertativi alla conciliazione monocratica ”, Giuffrè, Milano, 2005, p. 25-27. 65 Una terza fattispecie è regolata dall’art. 12 che, in tema di diffida accertativi per crediti retributivi del lavoratore, il datore di lavoro può promuovere il tentativo di conciliazione presso la Direzione provinciale del lavoro. 3.1 Il procedimento della conciliazione monocratica. L’art. 11, 1° comma, del d.lgs. 124/2004, prevede l’applicazione della procedura conciliativa monocratica ai soli diverbi in cui è semplice individuare degli elementi per una soluzione mediatica della controversia, la scelta finale di iniziare la procedura viene lasciata al dirigente della Direzione provinciale del lavoro che può avviare il tentativo sulle questioni che sono state segnalate. Non necessariamente la richiesta deve prevenire da un lavoratore subordinato, ma anche da lavoratori autonomi. Oggetto della conciliazione possono essere solo diritti patrimoniali del lavoratore, e può sorgere sia da disposizioni normative, sia da previsioni contrattuali. Nel caso di rapporti certificati non è possibile procedere mediante conciliazione monocratica, perché in questo caso bisogna rivolgersi obbligatoriamente alla commissione di certificazione per espletare il tentativo di conciliazione ai sensi dell’art. 410 c.p.c. 59. 59 Ministero del lavoro, circolare del 24 giugno 2004, n. 24. 66 3.1.1 La conciliazione monocratica preventiva. Il tentativo di conciliazione monocratica preventiva può essere avviato dalla Direzione provinciale del lavoro quando la richiesta proviene sia da un lavoratore sia da più lavoratori, in tal caso saranno attivati più tentativi di conciliazione per quanti sono i lavoratori interessati. Nel caso in cui alcune conciliazione non terminano con esito positivo, si dovrà precedere con l’accertamento ispettivo. A differenza di quanto avviene nel tentativo obbligatorio di conciliazione, di cui l’art. 410 e seguenti del c.p.c., spetterà al dirigente decidere se avviare o meno il procedimento, fermo restando che la conciliazione non potrà essere avviata quando vi siano evidenti e chiari indizi di violazione penalmente rilevanti. Ricevuta la richiesta e accertato che il tentativo può essere esperito, il dirigente provvede alla convocazione delle parti tramite l’invio di una raccomandata. Il conciliatore monocratico deve essere o un funzionario in possesso di un’adeguata e specifica professionalità maturata in tale ambito o un dipendente con qualifica ispettiva in quanto idoneo a gestire la conciliazione in vista di un possibile seguito ispettivo. Spetta al dirigente l’individuazione del personale destinato a svolgere tale nuovo compito, ma bisogna ricordare che gli ispettori servono soprattutto per l’attività esterna e che i conciliatori devono essere in possesso di particolari capacità professionali finalizzate a far giungere fra le parti un accordo complessivo. Sarà competente territorialmente l’ufficio che risiede nel luogo in cui si è svolto il rapporto di lavoro e dove gli organi di vigilanza possono intervenire per il recupero contributivo. Le parti possono farsi assistere, nel giorno e nell’ora fissata nella convocazione, da rappresentanti di organizzazioni sindacali o da un professionista ( consulenti del lavoro, avvocati, dottori commercialisti, ragionieri e periti commerciali ), i quali siano in possesso di specifico mandato, oppure possono farsi sostituire da 67 persone alle quali sia conferita delega a conciliare. Se una parte o entrambe non si presentano o non motivano l’assenza, il tentativo di conciliazione si intende fallito e riprende la normale procedura ispettiva. Se le parti raggiungono un accordo, viene redatto un verbale che, sottoscritto dal funzionario incaricato, acquista piena efficacia. In base all’art. 11, 3° comma, trova applicazione l’ultimo comma dell’art. 2113 c.c. , quindi il verbale può definirsi inoppugnabile, così come viene previsto per le conciliazioni in sede giudiziale, avanti la Commissione provinciale di conciliazione e in sede sindacale. Ciò lo si ricava dal fatto che il comma 3 dell’art 11 dichiara espressamente che non trovano applicazione i commi 1, 2 e 3 dell’art. 2113 c.c. . Dopo la sottoscrizione dell’accordo, il pagamento delle somme concordate in sede conciliativa, assieme al versamento dei contributi previdenziale e assicurativi in relazione al periodo lavorativo concordato dalle parti, estingue il procedimento ispettivo. Con la firma dell’atto, quindi, non è più possibile perseguire altri comportamenti scorretti del datore di lavoro riferibili a quel rapporto, gli organi di vigilanza non potranno più proseguire né iniziare accertamenti ispettivi per i medesimi fatti e per le identiche circostanze. Le violazioni amministrative riguardanti l’irregolare occupazione del lavoratore conciliate non sono neppure in un momento successivo rilevabili, contestabili o sanzionabili60. La D.P.L. è tenuta a trasmettere tutta la documentazione riguardante l’accordo agli Enti previdenziali, sui quali incombe l’obbligo di sorvegliare sui versamenti avvenuti (art. 11, 4° comma). La disposizione tace riguardo al momento in cui debba essere effettuato il versamento, ma si pensa che debba avvenire nella prima scadenza prevista. Se il tentativo di conciliazione si conclude con esito negativo, la Direzione provinciale del lavoro prosegue la sua attività ispettiva ( art. 11, 5° comma ). L’esito negativo qui prodotto, non equivale all’esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione previsto nel lavoro privato ex art. 410 c.p.c. , il 60 “ Diritto e pratica del lavoro ”, n. 6, Ipsoa, Torino, febbraio 2006. 68 quale è una condizione di procedibilità della domanda. La norma non pone alcun termine specifico per giungere ad un accordo transattivo, per tanto il conciliatore monocratico della Direzione provinciale del lavoro non deve necessariamente giungere ad una soluzione positiva o negativa entro un termine predeterminato61. 3.1.2 La conciliazione monocratica contestuale. L’ultimo comma dell’art 11 traccia la disciplina della conciliazione contestuale alla visita ispettiva. Nel corso di un’attività di vigilanza, il personale ispettivo, se ritiene che esistano tutti i presupposti per una soluzione conciliativa può, ottenendo il consenso delle parti, effettuare un tentativo di conciliazione su questioni sorte durante il controllo. Ciò lo si desume dall’inciso “ acquisito il consenso delle parti interessate ” (art. 11, 6° comma), per tanto, il volontà concorde del datore di lavoro è consequenziale alla previa conoscenza del nominativo del lavoratore proponente, il consenso va acquisito per iscritto. La procedura può attivarsi anche in questo caso solo su questioni riguardanti i diritti patrimoniali dei lavoratori. Per attivare la procedura l’ispettore dovrà dare comunicazione alla Direzione provinciale del lavoro, la relazione si ritiene che debba essere il più possibile precisa e puntuale, in modo da mettere a fuoco le situazioni e gli elementi in base ai quali si ritiene fattibile l’accordo conciliativo. Da qui in poi si seguirà l’iter della conciliazione preventiva, l’unica particolarità è data dal fatto che la pratica conciliativa verrà assegnata preferibilmente al medesimo funzionario che ha proceduto all’ispezione, anche se nella realtà ciò non è sempre 61 C. L. Monticelli e M. Tiraboschi “ La riforma dei servizi ispettivi in materia di lavoro e previdenza. Commento al decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124 ”, Giuffrè, Milano, 2004, p. 194 ss. 69 possibile62. La conciliazione contestuale non può essere avviata oltre l’emanazione di un qualsiasi provvedimento amministrativo sanzionatorio e, nel caso di richiesta non ammessa di conciliazione monocratica preventiva, il personale ispettivo, una volta iniziato il controllo, non potrà procedere alla conciliazione contestuale63. 3.1.3 La diffida accertativi. Une terza fattispecie, seppure con caratteristiche diverse, si rinviene nell’art. 12 intitolato “ Diffida accertativa per crediti patrimoniali ”. Il personale ispettivo ha il compito di vigilare, oltre che sull’applicazione di tutte le leggi in materia di tutela dei rapporti di lavoro, anche sulla corretta osservanza dei contratti e accordi collettivi di lavoro. L’art. 12 prevede che, qualora l’ispettore prenda atto della presenza di crediti retributivi a favore del lavoratore, può diffidare il datore a corrispondere il dovuto al prestatore di lavoro. La competenza per la diffida è riconosciuta solo al personale ispettivo della Direzione del lavoro, l’ispettore procede a diffidare il datore solo quando ha acquisito elementi obiettivi, certi e idonei a determinare il calcolo delle spettanze patrimoniali del lavoratore. Il datore di lavoro che riceve la diffida accertativa può, nel termine perentorio di trenta giorni dalla notifica, promuovere il tentativo di conciliazione presso la Direzione provinciale del lavoro. Dal silenzio della norma, il Ministero del lavoro ha dedotto che debba essere attivato il procedimento conciliativo monocratico ( art. 11 del d.lgs. 124/2004 ) e non quello disciplinato dall’art. 410 c.p.c.. Diversamente da quanto previsto nell’ipotesi della conciliazione monocratica, tale procedura non incide sullo svolgimento del procedimento ispettivo. Se la conciliazione 62 C. L. Monticelli, M. Tiraboschi “ La riforma dei servizi ispettivi in materia di lavoro e e previdenza sociale. Commento al decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124 ”, Giuffrè, Milano, 2004, p. 203-204. 63 Ministero del lavoro, circolare 24 giugno 2004, n. 24. 70 termina con esito positivo, il verbale produrrà solo la perdita di efficacia della diffida accertativa e la non impugnabilità delle rinunce e transazioni, ma il procedimento ispettivo proseguirà per gli altri aspetti procedurali ed il credito vantato dal lavoratore sarà pari alla somma concordata in sede conciliativa64. Un altro elemento che differenzia la conciliazione dell’art. 12 riguarda gli effetti dell’accordo, nella conciliazione monocratica, ex art. 11, il verbale produce i suoi effetti con il pagamento del dovuto, mentre in questo caso l’accordo inizia a produrre i suoi effetti dal momento della sottoscrizione. Se la conciliazione termina con esito negativo o il datore di lavoro non promuove il tentativo, la diffida accertativa acquista valore di accertamento tecnico, con efficacia di titolo esecutivo tramite un provvedimento del direttore della Direzione provinciale del lavoro. Il lavoratore, in questo caso, può agire sulla base del titolo esecutivo per soddisfare i propri crediti retributivi65. Ci troviamo così di fronte a tre tipologie di conciliazione monocratica: una attivata su segnalazione del lavoratore, una su iniziativa dell’ispettore nel corso dell’attività di vigilanza e una su iniziativa del datore di lavoro. 3.2 Limiti della conciliazione monocratica. Un primo punto particolarmente discutibile riguarda gli effetti dell’accordo raggiunto in sede di conciliazione monocratica, dal quale possono sorgere forti dubbi di legittimità costituzionale con riguardo ai limiti dell’esercizio del potere legislativo delegato e al principio dell’indisponibilità dei contributi. In primo luogo, il Governo, nel dare attuazione alla delega, non si è limitato 64 Ministero del lavoro, circolare 24 giugno 2004, n. 24. 65 A. Casotti, M. R. Gheido “ Le strategie difensive del datore di lavoro d.lgs. 124/2004. Dalla diffida accertativa alla conciliazione monocratica. ”, Giuffrè, Milano, 2005, p. 43 ss. 71 solo a predisporre un mero collegamento procedurale tra la funzione ispettiva e quella di conciliazione delle controversie, ma ha introdotto il principio di inoppugnabilità in base all’ultimo comma dell’art. 2113 c.c. per la conciliazione monocratica. In secondo luogo, il pagamento delle somme concordate dalle parti e dei relativi contributi preclude l’accertamento ispettivo della Direzione provinciale del lavoro. L’accordo intercorrente tra le parti viene sottoposto alla supervisione di un terzo, l’Ente previdenziale, che, in sostanza, vigila sull’obbligo contributivo. Tale sistema rischia di entrare in collisione con il principio dell’indisponibilità dei contributi, in base al quale dovrebbe essere esclusa la validità di una transazione tra le parti in ordine alla contribuzione obbligatoria dovuta all’Inps o ad altro Ente previdenziale. L’art. 11 del d.lgs. non indica il termine entro cui effettuare il versamento dei contributi dovuti a seguito dell’intervenuta conciliazione. La lacuna in questione è abbastanza grave, dato che il rispetto del termine è destinato a produrre effetti sulla durata del procedimento ispettivo, la cui estinzione si produce con il pagamento dei contributi. In considerazione di ciò, sarebbe opportuno ritenere che tale termine non sia necessariamente lungo. Con riguardo al periodo per il versamento delle somme concordate, non deve essere lasciato un ampio margine di discrezionalità nella determinazione del termine entro cui adempiere le obbligazioni derivanti dall’accordo conciliativo. Sull’argomento si sono pronunciate due circolari, una dell’Inps del 17 2004 dicembre n. 132, e una del Ministero del lavoro del 24 giugno 2004 n. 24, le quali dispongono che l’indicazione del termine sul verbale solleva forti dubbi di compatibilità con la legge, perché la determinazione del momento in cui sorge l’obbligo contributivo deve sorgere ex lege, non certo dal potere discrezionale di un soggetto terzo, peraltro estraneo al rapporto contributivo. Secondo una costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, l’obbligazione contributiva non può essere lasciata nelle mani della volontà negoziale. Nella conciliazione monocratica le parti possono modificare il 72 momento in cui è sorto il rapporto di lavoro e, così facendo, l’obbligazione contributiva non sorgerà più dalla legge, ma dal contratto e ciò in violazione dei principi generali posti a fondamento dell’ordinamento previdenziale66. Un secondo punto è dato dal fatto che il legislatore non è stato in grado di creare un ottimo raccordo tra le funzioni di ispezione e di conciliazione con lo scopo di deflazionare il contenzioso, lo si deduce quando si pensa che l’esperimento di conciliazione monocratica con esito negativo non equivale al tentativo obbligatorio ai sensi dell’art. 410 c.p.c.. Le parti che non raggiungono un accordo in sede di conciliazione monocratica, sono costrette, per ricorrere in giudizio, a ripetere il medesimo tentativo davanti ad una Commissione di conciliazione ai sensi dell’art. 410 del codice di procedura civile. In merito all’individuazione dei casi che possono essere portati in sede di conciliazione, la Circolare del Ministero del lavoro non risolve tutti i dubbi delimitando le questioni conciliabili alle sole ipotesi che appartengono ai diritti patrimoniali dei lavoratori sia di origine contrattuale, sia di origine legale. Presupposto per l’avvio del tentativo di conciliazione è l’esistenza di elementi per una soluzione conciliativa della controversia, pertanto, parrebbero esclusi dall’ambito di operatività, tutte le questioni relative alla qualifica del rapporto di lavoro, perché non rientrano nella libera disponibilità delle parti. In merito all’effettiva volontà delle parti di conciliare sarebbe opportuno prevedere una corretta informazione circa le implicazioni delle diverse modalità di intervento, ispettivo o conciliativo. Le organizzazioni sindacali hanno sin da subito alzato delle critiche riguardo la conciliazione monocratica. Sostengono che il processo di conciliazione deve essere espletato all’interno delle Commissioni già esistenti, che a tale scopo andrebbero rafforzate, o all’interno delle commissioni previste dai ccnl; non ammettono che venga portata avanti una conciliazione, magari conclusa 66 A. Guadagnino “ Gli effetti della conciliazione monocratica sul rapporto contributivo ”, 2005, http://www.cnsd.it , p. 4. 73 anche con un verbale positivo, senza la presenza delle parti sociali 67. Sul piano della gestione delle risorse, il personale ispettivo che svolge anche la funzione di conciliatore, deve essere formato al riguardo e deve maturare la specifica professionalità richiesta ad una funzione basata sulla valutazione degli interessi espressi e soprattutto inespressi, l’apprendimento del linguaggio delle parti sociali, la capacità di ascoltare il lavoratore e il datore e di comprendere a fondo le rispettive richieste. Sarà indispensabile un raccordo tra conciliazione e ispezione perché, in questa struttura, il medesimo funzionario si troverà a rivestire nei confronti delle medesime parti interessate, in un primo momento il ruolo di ispettore, e successivamente, il ruolo di mediatore. Tale commistione di ruoli e l’alternativa tra fase conciliativa e fase accertativa potrebbe pregiudicare la conciliazione, che deve svolgersi tra le parti senza timore di incidere sull’eventuale e successiva attività di vigilanza68. Per quanto riguarda l’istituto della diffida accertativa, il decreto prevede che il datore di lavoro e il lavoratore possano stilare un verbale di conciliazione il cui contenuto sarà probabilmente in contrasto con il contenuto della diffida e che, oltre ad avere efficacia definitiva tra le parti, priva di efficacia l’atto di diffida emesso in sede ispettiva. L’accordo delle parti inciderà sull’ammontare del debito contributivo dell’azienda in violazione del principio costituzionale di indisponibilità dei contributi, eludendo gli obiettivi di tutela che dovrebbero essere la ratio del nuovo istituto69. 67 http://www.rassegna.it 68 “ Diritto e pratica del lavoro ” , inserto n. 42/2004, Ipsoa, Torino, p. X ss. 69 “ Diritto e pratica del lavoro ” , n. 6, febbraio 2006, Ipsoa, Torino. 74 CAPITOLO 3 Effetti e futuro della conciliazione nel diritto del lavoro. 1. Analisi della Direzione Provinciale del lavoro. Dal momento dell’entrata in vigore della nuova disciplina si è reso sempre più difficile, nel settore del diritto del lavoro, individuare l’istanze introdotte per l’esistenza di una reale volontà conciliativa e istanze introdotte esclusivamente per ottemperare al comando legislativo. Se è vero che introdurre come condizione di procedibilità della domanda l’esperimento di un tentativo di conciliazione non viola le disposizioni costituzionali sul diritto di azione, è dunque vero che tale scelta si è rivelata abbastanza inopportuna in grado di falsare il vero spirito conciliativo. I Decreti Legislativi n. 80/1998 e n. 387/1998, hanno attribuiti alla Direzione provinciale del lavoro delle nuove competenza che l’ha portata a dover affrontare numerosi problemi in conseguenza dell’eccezionale incremento delle vertenze individuali e plurime. Di seguito sono allegate delle tavole che sintetizzano lo stato dell’attività 75 conciliativa svolta dalla Direzione provinciale del lavoro, le quali consentono di misurare gli effetti prodotti dagli interventi normativi. Il numero delle vertenze instaurate nel 2004 è stato complessivamente 495.919, di cui 319.815 nel settore privato. (1) 76 77 Dalla tabella n. 1 si può notare la differenza tra il 1997 e il 1998, anni in cui il legislatore è intervenuto sulla struttura della conciliazione portandola ad essere obbligatoria. Nel 1997 le domande pervenute furono 71.867, quelle conciliate furono poco più della metà ( 38.986 ), quelle non trattate furono una buona fetta e le vertenze non conciliate un esiguo numero. Nel 1998 chiaramente le richieste di conciliazione furono, a seguito dell’introduzione dell’obbligatorietà, 192.863 per il settore privato e 3.555 per il settore pubblico, nella tabella si nota subito che furono molto di più quelle non trattate ( 59.269 lavoro privato, 1.471 lavoro pubblico ), che quelle conciliate. Da questa prima analisi si può trarre un dato importante : le conciliazione terminate positivamente nel 1997 sono maggiori di quelle del 1998 perché sono state instaurate da soggetti effettivamente predisposti e volenterosi di risolvere la lite pacificamente. 78 (2) 79 La tavola n. 2 analizza l’impatto che ha avuto l’istituto della conciliazione nelle varie regioni italiane. Circa la distribuzione territoriale i dati disponibili per il settore privato consentono di affermare che il fenomeno si concentra soprattutto in quelle regioni in cui sono presenti grossi agglomerati urbani ( 86,37 % delle vertenze instaurate è localizzato nel Lazio, Lombardia, Campania, Piemonte, Puglia, Sicilia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana ); inoltre il 24,40 % delle vertenze è localizzato nel Lazio. Anche per il settore pubblico ( tabella n. 3 ) i tentativi di conciliazione sono fortemente concentrati in Campania, Lazio, Puglia e Sicilia con oltre il 68,23 % delle controversie instaurate. (3) 80 81 Controversie individuali e plurime di lavoro nel settore privato. La controversia instaurata nel settore privato costituisce l’unità di rilevazione, con la differenza che la vertenza individuale è attivata dal singolo lavoratore e la plurima avviene per iniziativa di due o più lavoratori. Lo studio sulle controversie nel settore privato si basa sulle vertenze con oggetto la mancata applicazione delle norme contrattuali e l’impugnazione al licenziamento. (4) 82 (5) Le controversie trattate, cioè conciliate e non conciliate, ammontano a 128.755 pari al 22,23 % del totale delle vertenze ( 578.976 ), mentre le vertenze non trattate, che riguardano le conciliazioni con assenza di una delle parti, abbandonate, in mancanza del numero legale dei membri di commissione, conciliazioni demandate ad altri organi, sono 260.708 e rappresentano il 45,02% del totale delle vertenze. In particolare la causa primaria della mancata trattazione è l’assenza di una delle parti, anche se si registra un notevole incremento delle conciliazioni abbandonate. Dai grafici sopra riportati è subito visibile l’alto numero delle conciliazione non trattate rispetto a quelle trattate. Nel corso del 2004 si conferma la sensibile incidenza delle conciliazioni nell’industria ( 40,01 % ), ciò perché 83 spesso le imprese, in particolar modo le grosse attività industriali, tendono a concludere qualsiasi controversia in sede conciliativa, per il motivo in cui questa procedura permette loro di non rendere noti i problemi legali sorti all’interno dell’impresa al fine di non compromettere il loro nome e il loro prestigio. Le controversie instaurate in opposizione dei licenziamenti individuali, ai sensi della legge n. 108/1990 costituiscono circa il 12,05 % delle vertenze instaurate nel 2004 con maggiore frequenza per le aziende con un numero da sei a quindici dipendenti. Le controversie conciliate sono state 9.127 pari al 52,7 % di quelle trattate, contro il 60,18 % del complesso. La prevalenza delle conciliazioni è avvenuta con un risarcimento che ha comportato un onere per le aziende di circa 48 milioni di Euro. La riassunzione ha riguardato, invece, l’ 11,7 % delle controversie conciliate. (6) 84 Controversi individuali di lavoro nel settore pubblico. Con riferimento al settore pubblico, nel corso del 2004 la Direzione provinciale del lavoro è stata coinvolta nella soluzione di numerosi problemi legati alle caratteristiche del procedimento amministrativo che ha portato il sorgere di 176.104 nuove istanze, cui si devono aggiungere altre 66.664 controversie in corso all’inizio dell’anno. I comparti maggiormente interessati sono stati i Ministeri, gli Enti Locali, Enti Pubblici Non Economici e la Sanità con una percentuale complessiva del 95,39 % la cui incidenza risulta di oltre due punti superiore rispetto a quella registrata nel 2003. 85 (7) (8) 86 Nel settore pubblico le controversie trattate ammontano a 35,734 pari al 14,71 % del totale ( 242.768 ), mentre le vertenze non trattate ( 94.439 ) rappresentano il 38,90 % del totale delle vertenze. In particolare la difficoltà nella costituzione dei collegi di conciliazione risulta la causa più frequente della mancata trattazione, anche se con una lieve diminuzione rispetto all’anno precedente ( 79,47 % contro l’ 81,46 del 2003 ). Appare importante rilevare che mentre nel settore privato le vertenze conciliate costituiscono oltre il 60 % di quelle trattate, nel settore pubblico la percentuale supera il 14 % , con una flessione rispetto all’anno precedente. 87 Controversie collettive di lavoro. Le controversie collettive instaurate presso la Direzione provinciale del lavoro nel corso dell’anno 2004 sono state 2063, con un aumento superiore al 10 % rispetto all’anno 2003. Secondo quanto riportato dalla tabella B, su un totale di 2.174 vertenze, di cui 111 esistenti all’inizio dell’anno, quelle definite, cioè conciliate, non conciliate e abbandonate, sono state 1.984 ed hanno riguardato 74752 lavoratori, mentre le conciliate sono state 822, interessando 54.628 lavoratori. (9) 88 70 I dati appena riportati dimostrano subito l’inefficienza della conciliazione obbligatoria e nonostante il giudizio negativo che si evince, il legislatore, negli 70 interventi successivi, ha mantenuto sempre la linea guida Relazione Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Direzione Generale della Tutela delle Condizioni di Lavoro, Divisione IV “ Attività conciliativa svolta dalla Direzione del Lavoro nel corso dell’anno 2004 ”, http://www.lavoro.gov.it 89 dell’obbligatorietà, imponendo un data comportamento alle parti in lite con una serie di interventi paternalistici. 2. I tentativi di riforma al tentativo di conciliazione. L’espandersi della litigiosità non può trovare come unica causa quella della grande facilità di accesso al giudice e della scarsa valorizzazione dell’istituto della conciliazione, ma è sicuro indice di un malessere sorto dallo scorretto funzionamento dell’attività amministrativa e da una copiosa produzione legislativa. I tempi del processo si sono dilatati provocando dei grossi problemi, tra i quali le severe censure mosse all’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per l’eccessiva durata dei processi. Problemi che investono sia la parte che chiede tutela dei propri diritti, sia il datore di lavoro. Riguardo al primo la tutela richiesta giungerà solo dopo lungo tempo e quando il rapporto di lavoro avrà subito mutamenti, a fronte dei quali la sentenza, per quanto favorevole, diventa inutile; riguardo al datore di lavoro, a fronte di una decisione del giudice sfavorevole, dovrà sopportare un costo ingente che un processo terminato in tempi normali avrebbe evitato71. Dopo gli ultimi interventi normativi sulla conciliazione nelle controversie fra datore e lavoratore, di particolare importanza è stato il Progetto Foglia del 2001, i disegni di legge nn. 1047 e 1163 del 2006 presentati in Senato dalla maggioranza e, rispettivamente, dall’opposizione e, da ultimo, il testo deliberato l’8 maggio 2007 da una commissione ministeriale istituita con D.M. 28 novembre 2006 e presieduta dal magistrato Raffaele Foglia. 71 M. Fezzi “ La proposta di riforma del processo del lavoro ”, 2006, http://www.di-elle.it 90 2.1. Il Progetto Foglia ( Ottobre 2001 ). Nell’ottobre del 2001 venne istituita la Commissione per lo studio e la revisione della normativa processuale del lavoro presieduta dal Consigliere della Corte Suprema di Cassazione – sezione lavoro – Raffaele Foglia. La Commissione ha preso in considerazione, oltre ad altri spetti da revisionare nel processo del lavoro, gli istituti della conciliazione e dell’arbitrato, quali diretti strumenti di deflazione del carico giudiziario. I punti critici rilevati in sede di lavori sono stati in primo luogo il problema delle Commissioni di conciliazione costituite presso le Direzioni provinciali di lavoro le quali, specialmente in grandi centri, sono soffocate da un enorme numero di pratiche, visto che tutto si risolve in una passiva decorrenza del termine che apre la via per il ricorso al giudice. Nel settore pubblico, anche se il tentativo di conciliazione appare meglio strutturato, permane il deficit di potere decisionale dei rappresentanti della parte datoriale, nonostante l’esenzione da responsabilità amministrativa in caso di adesione alla proposta conciliativa. L’insuccesso del procedimento conciliativo è imputabile alla scarsa impegnatività dello strumento, dell’assoluta assenza di incentivi positivi e negativi anche per le parti in lite. Il Progetto Foglia, nel rimodellare i sistemi stragiudiziali di risoluzione della lite, prevede che se le parti si incontrano quando gia sono assistite dai propri difensori, quando i termini di fatto e di diritto della controversia sono stati fissati nei rispettivi atti difensivi, e quando incombe la prospettiva di una sentenza, la conciliazione diventa più conveniente per tutti. Lo scopo potrebbe essere realizzato riservando al giudice il compito di gestire il tentativo di conciliazione, così come era previsto nella riforma del processo del lavoro operata nel 1973. Il problema che si verificò in quegli anni però fu di degradazione della conciliazione ad un mero passaggio sbrigativo e inconcludente, ecco perché il Progetto ha 91 sviluppato l’idea di realizzare un meccanismo che miri a fare della fase conciliativa una fase precontenziosa, a giudizio formalmente già iniziato. In base a tale prospettiva, la procedura conciliativa viene come segue disegnata. Il giudice fissa con decreto, da emanarsi entro 15 giorni dal deposito del ricorso, la data della conciliazione, che dovrà essere espletata entro un termine non superiore a sessanta giorni, da tenersi davanti a sé, oppure davanti ad un conciliatore. Si prevede l’istituzione di un albo dei conciliatori, tenuto dal Presidente di ciascun tribunale, al quale possono iscriversi docenti universitari di materie giuslavoristiche, avvocati e commercialisti specializzati in diritto del lavoro, consulenti del lavoro, sindacalisti, o funzionari delle Direzioni provinciali del lavoro. L’assenza ingiustificata del ricorrente o di entrambe le parti all’udienza fissata per la conciliazione comporta l’estinzione del processo, mentre l’assenza del convenuto può dar luogo all’emanazione di un’ordinanza provvisoria di pagamento totale o parziale delle somme domandate. Se la conciliazione non riesce è prevista la redazione di un verbale con l’indicazione delle soluzioni della controversia allo stato degli atti. Se viene raggiunta una conciliazione parziale, il verbale può acquisire efficacia esecutiva con decreto del giudice. In qualunque fase della conciliazione le parti possono decidere di affidare allo stesso conciliatore la risoluzione della lite tramite l’arbitrato72. 2.2. I disegni di legge n. 1047 del 28 settembre 2006 e n. 1163 del 14 novembre 2006. 72 Incontro di studio organizzato con la Corte Suprema di Cassazione – Sezione Lavoro “ Conciliazione e arbitrato nelle controversie di lavoro individuale ”, intervento di R. Foglia, Bancaria Editrice, Roma, 2002, p. 77 ss. 92 2.2.1. Il disegno di legge 1047. Il d.d.l. 1047, denominato “ Riforma del processo del lavoro ”, dispone diverse modifiche al processo del lavoro, con l’obiettivo di rendere più celere il rito del lavoro e favorire la soluzione anticipata delle controversie tramite gli istituti della conciliazione e dell’arbitrato. Il disegno di legge Salvi – Treu si pone in linea di continuità con i risultati della Commissione Foglia del 2001, si pone nell’ottica di rafforzare la struttura processuale delle controversie in campo lavoristico. Il capo terzo della proposta di legge tratta del procedimento di conciliazione. Il meccanismo disegnato conserva l’obbligatorietà del tentativo giacché esso tende a soddisfare l’interesse generale sotto un duplice profilo : evitando, da un lato, che l’aumento delle controversie attribuite al giudice ordinario del lavoro provochino un sovraccarico dell’apparato giudiziario, ostacolandone il funzionamento; dall’altro, favorendo la composizione preventiva delle liti e assicurando alle parti un soddisfacimento più immediato rispetto a quello del processo 73. Il nuovo tentativo obbligatorio di conciliazione, escluso per le controversie previdenziali, per i provvedimenti sommari o urgenti e per i rapporti di pubblico impiego, è esperito o sollecitato dal giudice dopo la proposizione del processo in giudizio ( art. 13, secondo capoverso ). Se non viene esperito dal giudice, il tentativo di conciliazione viene affidato ad un conciliatore designato con decreto tra i soggetti iscritti in un apposito albo, tenuto dal presidente della sezione lavoro del Tribunale. Il giudice nominerà il conciliatore solo quando non sarà in grado di fissare la comparizione delle parti o la trattazione entro il termine di trenta giorni dal deposito. Questo tentativo deve svolgersi, ove possibile, negli uffici giudiziari. All’albo possono iscriversi i docenti universitari, gli avvocati giuslavoristi, i funzionari 73 “ La sintesi del disegno di legge n. 1047 comunicato alla Presidenza il 28 settembre 2006 ”, Bollettino ADAPT n. 62, 6 dicembre 2006, p. 10, http://www.fmb.unimore.it 93 della Direzione provinciale del lavoro e i Consulenti del lavoro. Prima del giudizio, il tentativo di conciliazione può essere svolto presso le sedi previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative e presso le Direzioni provinciali del lavoro. Il tentativo di conciliazione promosso prima del giudizio, per rendere procedibile l’azione giudiziaria, deve essere esperito da un conciliatore su richiesta di entrambe le parti e deve essere effettuato sulla base di memorie scritte che illustrino le rispettive ragioni di fatto e di diritto. La risoluzione della lite con la procedura alternativa al processo si svolge sulla base di memorie che descrivono le pretese e le posizioni delle rispettive parti. Il conciliatore può ricevere dai soggetti, dopo il fallimento della procedura conciliativa, il mandato di risolvere in via arbitrale la controversia nel rispetto delle norme inderogabili di legge e del contratto collettivo, sulla base dei documenti in suo possesso e acquisendo altri mezzi istruttori ( art. 16 )74. Qualora il ricorrente o entrambe le parti non siano presenti al tentativo di conciliazione il processo viene estinto, mentre se è assente solo la parte convenuta si può dar luogo all’emanazione di un’ ordinanza provvisoria di pagamento parziale o totale delle somme domandate ( art. 15 ). Nel caso in cui la conciliazione è raggiunta, viene redatto un verbale che diviene subito esecutivo tramite decreto del giudice ( art. 14, quarto capoverso ). Se la conciliazione non viene raggiunta, il giudice o il conciliatore possono svolgere un ruolo attivo all’interno della procedura tramite l’esercizio di una serie di poteri a loro conferiti: la possibilità di fissare nel verbale di mancata conciliazione le questioni non contestate o le possibili soluzioni prospettate anche se non accettate dalle parti ( art. 15 ), hanno l’evidente scopo di forzare le parti a raggiungere la conciliazione o, quanto meno, di rendere più agile il giudizio successivo. Viene attribuito ampio potere al conciliatore anche nella 74 Audizione informale, Commissioni riunite Giustizia e Lavoro, Previdenza Sociale “ Sui disegni di legge n. 1047 e n. 1163 di riforma del processo del lavoro ”, Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro, 15 marzo 2007, http://www.fmb.unimore.it 94 redazione del verbale di mancata conciliazione, il quale può introdurre tutto ciò che ritiene utile comunicare al giudice per il proseguo della controversia75. 2.2.2. Il disegno di legge n. 1163. A pochi mesi di distanza, il 14 novembre 2006 venne presentato un nuovo disegno di legge, denominato anch’esso “ Riforma del processo del lavoro ”. Il nuovo disegno di legge n. 1163 presenta modifiche all’attuale sistema del processo del lavoro tendenti soprattutto a regolare i rapporti di lavoro e favorire la soluzione delle controversie con procedure alternative a quelle giudiziarie. Gli artt. 5 e 6 del d.d.l. definiscono un nuovo modello di conciliazione novellando l’art. 410 c.p.c.. Un passo innovativo è quello di eliminare l’obbligatorietà del tentativo, inoltre le parti dovranno, in sede conciliativa, esporre in modo analitico le ragioni poste a fondamento della domanda e della difesa; il d.d.l. 1163, introducendo gli elementi della domanda tipici del lavoro pubblico anche per il lavoro privato, vuole prima di tutto omogeneizzare il tentativo di conciliazione per entrambi i rapporti di lavoro. Il ritorno del tentativo facoltativo di conciliazione prevede incentivi per la scelta, libera, dell’ADR; sarà volontà delle parti seguire tale procedura76. Si ritiene che sulla scorta delle ragioni espresse dalle parti sia maggiormente ipotizzabile la possibilità di prevenire ad una mediazione, e in tal caso l’organo conciliativo può utilmente indicare alle parti la via per una bonaria definizione della lite. In caso di mancato accordo tra le parti, la commissione formula una proposta per la bonaria definizione della controversia, la quale, se non accolta, viene riportata nel verbale con 75 M. Crippa “ Note al disegno di legge n. 1047 di modifica del processo del lavoro ”, 15 novembre 2006, Monza, http://www.personaedanno.it 76 “ La sintesi del disegno di legge n. 1163 comunicato alla Presidenza il 14 novembre 2006 ”, Bollettino ADAPT n. 62, 6 dicembre 2006, p. 11 ss. , http://www.fmb.unimore.it 95 indicazione delle valutazioni espresse dalle parti. Tali considerazioni verranno poi prese in considerazione dal giudice ai fini del regolamento delle spese. Questa circostanza di mancato esperimento non porta niente di nuovo sul panorama del tentativo di conciliazione, considerandolo come un fondamentale incentivo al raggiungimento di un accordo conciliativo. In qualunque fase del tentativo le parti possono accordarsi per la risoluzione consensuale della lite, affidando alla commissione di conciliazione il mandato a risolvere in via arbitrale la controversia , indicando il termine per l’emanazione del lodo e le norme che la commissione dovrà applicare al merito, compresa la decisione secondo equità, nel rispetto dei principi generali del diritto ( art. 7 )77. L’art. 8 prende in considerazione altre modalità di conciliazione previste dalla contrattazione collettiva, la così detta conciliazione sindacale. La procedura viene disciplinata dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative. Il tentativo di conciliazione viene effettuato dietro una richiesta congiunta delle parti interessate con la presentazione di memorie scritte da entrambi i soggetti che illustrino le relative posizioni. Una seconda possibile sede di conciliazione è rappresentata dal collegio di conciliazione e arbitrato composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e un terzo membro, il Presidente, designato tra i professori universitari di materie giuridiche o tra gli avvocati patrocinati in Cassazione78. La procedura seguita per la risoluzione della lite sarà quella dell’arbitrato irrituale. L’art. 5 propone una sostanziale modifica all’art. 410 c.p.c., cioè ripropone la conciliazione facoltativa. Il meccanismo del tentativo obbligatorio non è mai stato, fin dalla riforma del 1973, efficace, perché, anziché alleggerire il carico di lavoro dei magistrati addetti alla 77 M. Biagi, continuato da M. Tiraboschi “ Istituzione di diritto del lavoro ”, Giuffrè, Milano, 2004, http://www.fmb.unimore.it 78 Commissioni riunite Giustizia e Lavoro, Previdenza Sociale su Riforma del Processo del Lavoro, 15 marzo 2007, p. 7-9, http://www.consulentidellavoro.it 96 trattazione delle controversie di lavoro e offrire strumenti efficaci e veloci alla risoluzione delle controversie, il meccanismo dell’obbligatorietà di cui all’art. 410 c.p.c. si è tradotto in una inutile fase precontenziosa, con conseguente aggravio di tempi. Il disegno di legge n. 1163, traendo spunti dalle riforme riguardanti il lavoro pubblico, il quale ha ottenuto un complessivo giudizio favorevole, vuole introdurre un meccanismo che miri ad anticipare le esposizioni delle ragioni a fondamento della domanda, in modo da introdurre degli incentivi per le parti in lite e per il ceto tecnico-forense e rendere più impegnativo lo strumento conciliativo. 2.2.3. Commenti ai disegni di legge nn. 1047 e 1163. La prima proposta di modifica del tentativo di conciliazione mantiene ferma l’idea del principio di obbligatorietà, ciò è al quanto criticabile, visto che numerosi studi e la stessa relazione della Direzione provinciale del lavoro ha dimostrato il grande fallimento del tentativo di deflazionare il contenzioso. Il disegno di legge n. 1047 permette di esperire il procedimento mediatico dal giudice e, solo in ultima battuta, quest’ultimo può chiamare in causa un conciliatore designato con decreto tra i soggetti iscritti ad un apposito albo, tenuto dal Presidente del Tribunale sezione lavoro. Così facendo si rende il tentativo di conciliazione da un lato un noioso passaggio burocratico e, dall’altro lato, mettere la lite nelle mani di un soggetto certamente non appropriato, quale il giudice, che è posto nelle condizioni di risolvere la lite, eludendo l’utilizzo dei classici e propri strumenti giuridico – processuali, trovandosi nelle condizioni di utilizzare dei mezzi che non gli appartengono cercando di mettersi nei panni, troppo stretti per lui, del conciliatore. Il nuovo tentativo di conciliazione appare abbastanza macchinoso, perché vengono 97 creati intralci, nuova burocrazia, impedimenti al normale processo del lavoro, per non parlare delle maggiori spese, quali i compensi aggiuntivi del conciliatore. Si tratta di un tentativo di deflazionare il processo del lavoro, già inutilmente esperito con precedenti interventi legislativi79. Elemento favorevole consiste nella figura del conciliatore iscritto ad un apposito albo, ciò è da considerare di particolare importanza perché permette alle parti in lite di rivolgersi ad un soggetto competente e qualificato professionalmente in materia conciliativa e in diritto del lavoro, ma il Progetto non prevede il supporto di risorse umane o strumenti necessari. Il conciliatore, prima del tentativo, avrà a disposizione l’intero iter argomentativo delle parti. Il disegno di legge tramuta la conciliazione da una fase esterna al processo ad una vera fase processuale. Tale struttura, nella pratica può produrre degli ulteriori aggravi al processo del lavoro, perché la conciliazione viene inserita in un momento in cui le parti, trovandosi nel pieno di un processo, sono altamente litigiose e poco inclini ad adottare uno spirito conciliativo80. Il resto della procedura conciliativa non è cambiata in modo significativo, per tanto tale sistema non permetterebbe di risolvere il grosso problema dell’integrazione della procedura conciliativa e di alleggerire il carico di cause pendenti davanti al giudice del lavoro. Il disegno di legge ridimensiona l’attività di mediazione e di conciliazione espletata dalle parti sociali, questa modalità di espletamento del tentativo ha sempre trovato la sua massima espressione nei verbali di conciliazione redatti in sede sindacale, depositati presso la Direzione provinciale del lavoro, che ne attesta l’autenticità e ne cura il deposito presso il tribunale competente ai fini della dichiarazione di esecutività. Con riferimento al disegno di legge n. 1163 del 14 novembre 2006, modifica rilevante è l’eliminazione dell’obbligatorietà. Si è voluti ritornare al vecchio 79 Avv. M. Lavizzari “ Commento al ddl n. 1047. Il punto di vista dell’avvocato ”, Bollettino ADAPT n. 62, 6 dicembre 2006, p. 9 ss. , http://www.fmb.unimore.it . 80 F. Dondolato, “ Prime note al testo della Commissione Foglia, sulla revisione della normativa processuale del lavoro ”, 25 agosto 2007, http://www.personaedanno.it 98 sistema della riforma del processo del lavoro del 1973, con l’intento di far comprendere il vero spirito conciliativo in modo da raggiungere delle conciliazioni concluse con la “ vera ” volontà delle parti, realmente predisposte ad una risoluzione pacifica della lite. Questa proposta cerca di creare una disciplina conciliativa uguale sia per il lavoro pubblico, sia per il lavoro privato. Amalgamando entrambe le procedure si è prefissato l’obiettivo di eliminare i punti deboli a vantaggio degli elementi positivi e di evitare eventuali incomprensioni, dovute dalle differenti procedure conciliative, tra gli operatori. L’art. 8, che prospetta ulteriori possibilità di risoluzione della controversia, prevede la costituzione di collegi composti da arbitri in alternativa agli organi presenti presso le sedi della commissioni di certificazione ( art. 82 d.lgs. 276/2003 ), alle commissioni istituite presso le Direzioni provinciali del lavoro ed a quelle individuate dai contratti collettivi. Il disegno di legge n. 1163 cerca di incentivare la classica conciliazione sindacale e di incrementare le forme in tal senso di risoluzione stragiudiziale della lite 81. 2.3. Il Progetto Foglia ( Novembre 2006 ). L’ultimo intervento in materia è rappresentato dal testo deliberato l’ 8 maggio 2007 da una commissione ministeriale istituita con D. M. 28 novembre 2006 e presieduta dal magistrato Raffaele Foglia. Nella premessa della relazione generale, si dice appunto della crisi del processo del lavoro come uno degli aspetti più allarmanti della crisi della giustizia civile. Vengono richiamate le 81 Commento al Disegno di legge n. 1163 del 14 novembre 2006, in “ La riforma del processo del lavoro ”, http://www.fmb.unimore.it 99 diverse situazioni esistenti negli altri paesi dell’Unione europea e le censure mosse all’Italia dalla Corte Europea dei diritti dell’ uomo per l’eccessiva durata dei processi, si sottolinea la violazione di quel principio della ragionevole durata del processo che è stato costituzionalizzato dall’art. 111 Cost. . Nel Progetto è stato lasciato il tentativo obbligatorio di conciliazione, che secondo il d.d.l. 1163/2006 lo si doveva ridimensionare a facoltativo. Il grande problema dell’obbligatorietà è ormai sempre presente in qualsiasi intervento venga fatto sulla conciliazione, per tanto, non si potrebbe seguire sempre una linea guida costante, altrimenti verrebbero meno i dibattiti, dei quali si sentirebbe la nostalgia. Si è optato per una procedura uguale sia per il lavoro privato sia per quello pubblico e si è compreso che la composizione conciliativa necessiti, per dare buoni frutti, di organi conciliativi motivati e culturalmente ben attrezzati. Il disegno delineato dal Progetto è destinato ad operare su tutte le controversie di lavoro, ad eccezione di quelle per cui siano stabiliti procedimenti sommari o d’urgenza e di quelle previdenziali. Il conciliatore deve essere in grado di comprendere giuridicamente le singole vicende, deve essere motivato a far bene e avere e dimostrare un certo grado di autorevolezza. La consapevolezza di ciò, ha portato il Progetto a prevedere che i conciliatori devono essere scelti tra quelli compresi in un albo cui hanno accesso solo soggetti esperti in materie lavoristiche. La conciliazione viene ravvisata come una fase precontenziosa endogiudiziale, perché si innesca in un momento in cui il giudice, ricevuto il ricorso, fissa per la comparizione delle parti avanti a sé, entro sessanta giorni, l’udienza per condurre il tentativo obbligatorio di conciliazione, che con decreto può affidare ad un conciliatore esterno nominato tra quelli iscritti all’albo. Il decreto di fissazione dell’udienza, insieme al ricorso, deve essere notificato e il convenuto deve costituirsi almeno dieci giorni prima della data fissata per il tentativo di conciliazione, entro lo stesso termine va depositata la memoria costitutiva. Viene prevista l’estinzione del processo per 100 ingiustificata assenza del ricorrente o di entrambe le parti a tale udienza e la possibilità di emissione di ordinanza di pagamento delle somme richieste. Il giudice o il conciliatore devono rivestire un ruolo attivo nella fase conciliativa, la quale deve svolgersi in un' unica seduta, che può essere rinviata una sola volta entro un termine non superiore a trenta giorni dalla data iniziale. La disciplina si completa con regole tese a disciplinare lo svolgimento della seduta ed il ruolo del conciliatore, in caso di avvenuta conciliazione il verbale diviene subito esecutivo, in caso contrario si procede davanti al giudice in fase contenziosa. Nel caso in cui il tentativo sia svolto da conciliatore appositamente nominato, il verbale di mancata conciliazione viene trasmesso entro cinque giorni al giudice, che fissa con decreto l’udienza avanti a sé entro i quindici giorni successivi, attribuendo a una o ad entrambe le parti il pagamento dovuto al conciliatore. Se la parte vittoriosa ha irragionevolmente rifiutato una proposta mediatica, il giudice può porre a suo carico le spese82. Due elementi procedurali della soluzione prospettata possono generare gravi inconvenienti : il primo è che si prevede la competenza ab initio dell’impegno e dell’intervento dei difensori delle parti. La presenza dell’avvocato di parte produce, inevitabilmente per l’assistito, il pagamento di un costo aggiuntivo per il lavoro effettuato dal difensore, ciò abbatte uno dei tanti vantaggi della conciliazione che è appunto definita una procedura poco dispendiosa per la parte in lite, proprio perché può presentarsi in sede mediatica senza l’assistenza di un difensore; per tanto, tale figura che affianca la parte in causa, ha un peso tale che fa diminuire il tasso di probabilità della riuscita del tentativo, per il motivo in cui è ancorato ad una mentalità tutt’ altro che incline allo spirito conciliativo. Il secondo inconveniente è che anche in caso di affidamento all’esterno dell’espletamento del tentativo, l’ufficio giudiziario è comunque impegnato in ricezione di atti, registrazioni e adempimenti vari che vanno avanti e indietro. 82 M. Fezzi “ Le proposte di riforma del processo del lavoro ”, http://www.di-elle.it 101 Il giudice, investito sin dall’inizio del procedimento conciliativo, se deve evitare di far diventare il tentativo un semplice orpello burocratico, deve impegnare del tempo sull’atto introduttivo della lite per decidere se trattare o meno il procedimento precontenziosa. L’attuale meccanismo appare in un certo senso preferibile, anche se andrebbe perfezionato con alcuni interventi. Una prima modifica, indicata nel Progetto, dovrebbe essere apportata sul punto della duplicità dei meccanismi, tra controversie alle dipendenze di privati e di pubbliche amministrazioni, cercando di favorire il modello del lavoro pubblico, il quale appare più completo rispetto al settore privato. Un secondo intervento, di fondamentale importanza, è di investire sulla formazione dei conciliatori, dai quali dipende in buona parte la riuscita del tentativo, per tanto, il mediatore ben formato deve essere in possesso di autorità perché riuscirebbe a dare maggiore spessore alla procedura conciliativa83. CONCLUSIONI All’esito di quanto fin ora illustrato risulta evidente che l’idea di conciliazione ripugna al concetto di coazione, nel senso che essa nasce dal comune interesse dei litiganti a porre fine a una contesa e che l’imposizione dell’obbligo di raggiungere un accordo rappresenta una contraddizione nei termini. Le conciliazione non aumentano se si impone l’incontro tra le parti, ma solo se si verificano le condizioni favorevoli per raggiungere un’intesa. 83 L. De Angelis “ Rilievi critici al Progetto Foglia di riforma del processo del lavoro ”, Centro Studi di Diritto del Lavoro Europeo Massimo D’Antona, p. 14 ss. , http://www.lex.unicz.it 102 In entrambi i settori lavorativi, la scarsa efficienza organizzativa degli apparati di conciliazione e la poca speditezza nella gestione delle pratiche hanno reso la conciliazione obbligatoria una mera formalità che innesca, di fatto, un meccanismo dilatorio del processo che si aggiunge ai tanti ritardi della nostra giustizia. Per quanto riguarda il settore del lavoro privato è evidente lo scetticismo delle parti verso l’efficacia di tale strumento mediatico, ciò dato dalla causa della fattuale impossibilità che i sessanta giorni di tempo dalla richiesta di conciliazione prima che la domanda diventi improcedibile, siano sufficienti a raggiungere l’accordo 84 . Nel settore del lavoro privato, si rileva da parte della pubbliche amministrazioni un tenace rifiuto a raggiungere l’accordo con una conciliazione totale o anche parziale, la classe dirigenziale preferisce non assumere le necessarie responsabilità, ma demanda la composizione della lite alla autorità giudiziaria. Le organizzazioni sindacali devono svolgere un ruolo attivo in sede conciliativa in modo da superare le tradizionali posizioni contrastanti lavoratore – datore di lavoro e creare un buon punto di partenza per il raggiungimento di un accordo teso ad abbattere le rigide posizioni85. La conciliazione e più in generale i mezzi alternativi di risoluzione delle controversie non devono essere considerati un ripiego a fronte di una situazione drammatica a livello giurisdizionale, non devono essere neppure considerati uno strumento deflativo. Soltanto dopo aver risanato lo stato della giustizia e create le condizioni minime affinché le parti possono avere interesse a risolvere una controversia al di fuori del giudizio, vanno potenziate le procedure conciliative. Per fare dei passi in avanti in materia di conciliazione bisogna ritornare al passato e abbandonare la pretesa di 84 R Tiscini “ Il tentativo obbligatorio di conciliazione ”, in “ Processo del lavoro e rapporto alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. Il d.lgs. 80/98 ”, a cura di Perrone e Sassani, Cedam, Padova, 1999, p. 49 ss. 85 G. Alvino “ Il ruolo del sindacato nell’attività di conciliazione : uno strumento di amministrazione del CCNL ”, in “ La testimonianza del giurista nell’impresa ”, a cura di C. Cordaus, R. Romei, G. Sapelli, Cacucci, Bari, 2001, p. 222. 103 obbligare le parti a tentare di conciliare, come d’altronde prevede il disegno di legge n. 1163/2006. Il conciliatore, ormai declassificato allo svolgimento di un’attività notarile, deve essere reso protagonista da parte del legislatore, il quale deve restituire alla conciliazione e ai suoi operatori gli elementi caratterizzanti che hanno reso quest’istituto importante sia perché mantiene aperto il dialogo tra le parti in lite, sia perché permette di instaurare dei rapporti pacifici smantellando le cause della litigiosità. BIBLIOGRAFIA AA. 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