Romanello Pierangela, nata il 27/04/1982 a

Romanello Pierangela, nata il 27/04/1982 a Copertino (LE), si è laureata
presso la Facoltà di Giurisprudenza di Siena, a.a. 2006-2007, con votazione 110/110
e lode, tesi intitolata “La conciliazione nel lavoro privato e nel lavoro pubblico”,
relatore prof. Giovanni Cosi.
Ha frequentato, nell’a.a. 2005-2006, il Master di primo livello in “Procedure
stragiudiziali di risoluzione delle controversie” organizzato dall’ Università di Siena
e dalla CCIAA di Grosseto. Nell’ottobre 2008 ha partecipato al corso di
aggiornamento in Conciliazione Societaria, conseguendo la relativa qualifica. Dal
gennaio 2007 è iscritta nell’ albo dei conciliatori presso la Camera Arbitrale e di
Conciliazione della CCIAA di Grosseto.
Attualmente svolge pratica forense e frequenta la Scuola Biennale di
Specializzazione per le Professioni Legali dell’Università di Tor Vergata.
LA CONCILIAZIONE NEL LAVORO PRIVATO E NEL
LAVORO PUBBLICO
Romanello Pierangela
1
INDICE
Introduzione
pag. 4
Capitolo 1
Evoluzione storica della conciliazione :
1. Riforma del processo del lavoro ( l. 533/1973 ).
2. Dal d.lgs. 80/1998 al d.lgs. 165/2001.
2.1 La conciliazione nel d.lgs. 80/1998.
2.2 Considerazioni sul processo storico normativo.
pag.
pag.
pag.
pag.
6
9
9
12
Capitolo 2
La conciliazione nel Diritto del Lavoro:
1. La conciliazione nel lavoro privato.
1.1. La procedura di conciliazione.
1.1.1. La conciliazione in raccordo con la disciplina
dell’art. 2113 c.c.
1.2. La conciliazione in sede amministrativa:
la Commissione di conciliazione.
29
1.3. La conciliazione in sede sindacale.
1.3.1. Accordi interconfederali in materia di conciliazione.
1.4. Punti deboli del sistema conciliativo
nel settore del lavoro privato.
2. La conciliazione nel lavoro pubblico.
2.1. La procedura di conciliazione.
pag. 21
pag. 27
pag. 27
pag.
pag. 33
pag. 35
pag. 37
pag. 42
pag. 42
2.1.1. La responsabilità amministrativa per il rappresentante
della pubblica amministrazione.
pag. 46
2.2
La conciliazione in sede amministrativa :
il Collegio di conciliazione.
pag.
49
2.3
La conciliazione in sede sindacale.
pag. 52
2.3.1. Accordi interconfederali in materia di conciliazione.
pag. 56
2.4.
Punti deboli nel sistema conciliativo
nel settore del lavoro pubblico.
pag. 59
2.4.1. Particolarità della conciliazione nel lavoro pubblico.
pag. 60
2.4.2. Soggetti e uffici predisposti al tentativo di conciliazione.
pag. 63
2
3. La conciliazione monocratica.
65
3.1.
Il procedimento di conciliazione.
3.1.1. La conciliazione monocratica preventiva.
3.1.2. La conciliazione monocratica contestuale.
3.1.3. La diffida accertativa.
3.2. Limiti della conciliazione monocratica.
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
67
67
70
71
72
Capitolo 3
Effetti e futuro della conciliazione nel diritto del lavoro :
1. Analisi della Direzione Provinciale del lavoro.
2. I tentativi di riforma al procedimento conciliativo.
2.1. Il Progetto Foglia ( Ottobre 2001 ).
2.2.
I disegni di legge n. 1047 del 28 settembre 2006 e
n. 1163 del 14 novembre 2006.
pag. 76
pag. 90
pag. 91
pag.
93
2.2.1.
2.2.2.
2.2.3.
2.3.
Il disegno di legge 1047.
Il disegno di legge 1163.
Commenti ai disegni di legge nn. 1047 e 1163.
Il Progetto Foglia ( Novembre 2006 ).
pag.
pag.
pag.
pag.
93
95
97
100
Conclusioni
103
pag.
Bibliografia
105
pag.
Sitografia
111
pag.
3
Introduzione.
La conciliazione, in termini giuridici, è un negozio atipico di natura
contrattuale, derivante dalla sintesi di diversi negozi. All’interno del quale
uno o più soggetti, al termine di un procedimento che prevede l’intervento di
un terzo investito del compito di agevolare lo svolgimento del negoziato,
risolvono una controversia, di fatto o di diritto, facendosi delle concessioni,
rinunzie e riconoscimenti1. Questa procedura stragiudiziale, in quanto mezzo
particolarmente idoneo a instaurare un dialogo tra le parti, consente la presa di
coscienza di problemi permettendo di raggiungere delle soluzioni ottimali e
perseguire il migliore possibile interesse, in cui si dovrebbe sostanziare
l’attività lavorativa. Il nostro paese ha da anni il problema della lunga durata
dei processi e l’unico settore processuale leggermente migliore era proprio
quello del lavoro. L’Italia ha subito una serie di sanzioni a livello europeo, la
più esemplare è data dalla condanna al pagamento a favore di un dipendente
pubblico di diciottomila euro, a titolo di danno morale, oltre a duemila euro,
per le spese legali. La condanna suddetta è motivata dalla violazione del
termine ragionevole di durata di un processo promosso da un
pubblico
dipendente, avente ad oggetto la retrodatazione dell’anzianità di servizio ed il
pagamento dei crediti di lavoro. Il giudizio in esame è durato dodici anni e
1
AA. VV. “ Transazione, arbitrato e risoluzione alternativa delle controversie – appalto – opere pubbliche
– condominio – locazione – lavoro privato e pubblico – mediazione – agenzia – famiglia – successioni –
conciliazione – notariato – impugnazione – diritto trasnazionale ”, Utet, Torino, 2006, p. 574.
4
due mesi2. A parte questo caso limite, la durata media di un giudizio dinanzi
al Tribunale Civile, in funzione del giudice del lavoro, sull’intero territorio
nazionale è di circa cinque anni. L’espandersi della litigiosità non può trovare
come unica causa quella della grande facilità di accesso al giudice e della
scarsa valorizzazione dell’istituto della conciliazione, ma è sicuro indice di un
malessere che risale ad una attività amministrativa non funzionante e ad una
produzione legislativa copiosa, ma irrazionale3. Il legislatore, per risolvere il
problema dei lunghi processi, introdusse nel 1998 il tentativo obbligatorio di
conciliazione, questo obiettivo può essere garantito dall’ordinamento in due
modi : o disponendo l’improcedibilità della domanda attrice in caso di
mancato esperimento del tentativo, oppure prevedendo l’improponibilità della
stessa. Il ricorso alla conciliazione, come ad altri metodi alternativi, dovrebbe
essere visto come una forma di risoluzione parallela delle controversie, deve
essere incentivata particolarmente in tutte quelle dispute in cui la soluzione
non necessita di una decisione vincolante, ma può essere mediata di fronte ad
un conciliatore. Al cittadino non deve essere imposto un tentativo di
conciliazione soltanto per scoraggiarlo dall’adire il giudice togato, piuttosto
gli si dovrebbe offrire una doppia via: da un lato, la via autoritativa, dall’altro,
quella conciliativa. Entrambi i canali devono presentarsi come soluzioni
garantite ed efficienti, con una tendenza ad incentivare il ricorso alla via
conciliativa. Se dunque questo metodo alternativo di risoluzione della lite
fosse preso in considerazione come una facoltà, una libera iniziativa concessa
alle parti, riuscirebbe ad ottenere l’ acquiescenza dell’opinione pubblica.
Come si vedrà in seguito i numerosi interventi normativi hanno contribuito ad
ampliare la materia mediatica in ambito lavoristico, ma omettendo di
salvaguardare il motivo in cui un soggetto si rivolge alla procedura
2
Corte Europea dei Diritti dell’ Uomo, sent. 19 febbraio 2002 n. 26207/00, in http://www.dirittiuomo.it
3
http://www.consulentidellavoro.it
5
conciliativa e alla figura del conciliatore, il quale svolge una semplice
funzione notarile di un accordo raggiunto tra i due litiganti4.
CAPITOLO 1
Evoluzione storica della conciliazione.
1. Riforma del processo del lavoro ( l. 533/1973 ).
Il diritto del lavoro ha da sempre dimostrato una sua attitudine alle forme
di soluzione delle controversie, che si realizzano al di fuori della
giurisdizione statale. Basti pensare alla storica esperienza della
magistratura probivirale o alle procedure conciliative previste in sede di
contrattazione collettiva. Nel periodo corporativo si venne a tracciare una
circostanza per la quale il giudice del lavoro era ormai un giudice
ordinario cui erano assegnate le controversie del settore, abbandonando,
nella prassi, quelle peculiarità di celerità e di oralità che caratterizzavano
il processo del lavoro. Da un lato le corporazioni, attraverso la
conciliazione sindacale, avevano il compito di prevenire il contenzioso
proponendo risoluzioni compromissorie dirette ad assecondare le
eventuali pretese dei lavoratori; dall’altro i giudici si dimostravano
portatori della volontà legislativa e delle contrattazioni collettive.
4
A tale riguardo vedi S. Chiarloni “ Stato attuale e prospettive della conciliazione stragiudiziale ”, in
“ La risoluzione stragiudiziale delle controversie e il ruolo dell’avvocatura ”, a cura di G. Alpa e R. Danovi,
Giuffrè, Milano, 2004, p. 189.
6
La svolta innovativa fu realizzata con la l. 11 agosto 1973, n. 533.
La novella si indirizzò verso le forme alternative di risoluzione delle
controversie individuali di lavoro. La riforma del processo del lavoro è
così riuscita a coordinare la tutela giurisdizionale e le procedure
conciliative5. La l. 533/1973, sostituendo l’intero titolo IV del libro
secondo del c.p.c., dava la possibilità alle parti di risolvere le controversie
tramite le forme alternative di risoluzione delle liti, quali la conciliazione,
per le controversie individuali di lavoro riguardanti i settori elencate
nell’art. 409 c.p.c.. Vennero introdotte regole atte a definire le modalità di
costituzione del collegio di conciliazione, le modalità e i tempi di
svolgimento del tentativo, il ruolo delle associazioni sindacali nell’ambito
della procedura amministrativa e gli effetti di natura sostanziale e
processuale del verbale conclusivo. Chi intendeva proporre una domanda
di conciliazione, e non riteneva di avvalersi di tale disciplina richiamata
dai contratti e accordi collettivi, poteva promuovere, anche tramite
l’associazione sindacale, il tentativo di conciliazione presso l’apposita
Commissione, la quale, ricevuta la richiesta, tentava la risoluzione della
controversia in una riunione da tenersi non oltre dieci giorni dal
ricevimento della richiesta. La Commissione di conciliazione restava un
organismo a carattere burocratico, composta anche da rappresentanti delle
organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro.
La procedura poteva concludersi con un processo verbale di avvenuta o di
mancata conciliazione. In quest’ultimo caso le parti erano libere di
risolvere il conflitto presso il giudice competente. L’articolo 420 c.p.c.
prevedeva un tentativo di conciliazione giudiziale successivo, il giudice
del lavoro nell’ udienza fissata per la discussione interrogava liberamente
5
Carinci Franco, Tamajo, Tosi, Treu, “ Diritto del lavoro 2. Il rapporto di lavoro subordinato ”, quinta
edizione UTET Torino 2003, pagg. 440-441.
7
le parti ed esperiva il tentativo di conciliazione 6. La funzione dell’istituto
era quella di tutelare la posizione del lavoratore poiché contraente debole
e di ridurre la forza contrattuale del datore di lavoro diretta ad influenzare
gli esiti della controversia.
Con la riforma del processo del lavoro il legislatore aveva operato una
scelta determinante: lasciare la libertà al lavoratore o al datore di ricorrere
alla procedura conciliativa o all’ordinaria procedura giudiziaria.
Nel 1990, con l’art. 5 della legge n. 108, il tentativo di conciliazione
ritorna ad essere configurato come obbligatorio per le controversie aventi
ad oggetto l’impugnazione dei licenziamenti nell’area c.d. obbligatoria.
Si sanciva l’improcedibilità della domanda giudiziale non preceduta dalla
richiesta di conciliazione amministrativa o sindacale, con conseguente
sospensione del processo e termine perentorio per la richiesta.
La disciplina enunciata dall’art. 5 della legge sopra richiamata si
atteggiava come un presupposto processuale, il cui mancato assolvimento
era rilevabile solo nella prima udienza di discussione e sottoposto ad un
meccanismo di recupero all’interno del processo.
Un’analoga disposizione fu introdotta nel 1992
con riferimento alle
controversie in materie di pubblico impiego. Per la prima volta, dopo la
caduta dell’ordine fascista, si torna a considerare la conciliazione quale
soluzione alla giurisdizione, e non semplice forma espressiva di un
consenso assistito, idoneo ad infrangere l’inderogabilità delle norme
lavoristiche.
Un’ ulteriore forma di conciliazione obbligatoria precontenziosa venne da
ultimo delineata dall’art. 69 del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, con
riferimento alle controversie in materia di pubblico impiego devolute al
6
G. Amoroso, V. Di Cerbo, A. Maresca, “ Le fonti del diritto italiano. Il Diritto del lavoro Costituzione,
Codice Civile e Leggi speciali ”, volume uno, seconda edizione, Giuffrè, Milano, 2007, 916.
8
giudice ordinario, secondo il rito del lavoro, in seguito alla intervenuta
ampia privatizzazione di tale rapporto di lavorativo7.
2. Dal D.Lgs. 80/1998 al D.Lgs. 165/2001.
2.1 La conciliazione nel D.Lgs. 80/1998.
Il legislatore, seguendo l’indirizzo della conciliazione obbligatoria della
l. 108/1990, procede in tal senso con il d. lgs. 80/1998, sperando di
alleggerire la grossa mole del contenzioso giudiziario. La novella, oltre a
disciplinare il tentativo di conciliazione nel settore del lavoro pubblico,
rende obbligatorio il tentativo in tutte le controversie dell’art. 409 c.p.c.,
riformando il codice di rito.
La riforma del 1998 ha innovato il tentativo di conciliazione seguendo un
duplice binario : da un lato integra e contempla la normativa sulla
conciliazione già contenuta nel precedente d. lgs. 29/1993; dall’altro,
incide sul codice di rito trasformando in obbligo la precedente facoltà del
tentativo.
Il sistema introdotto nel 1998 può essere definito a doppio binario anche
per un ulteriore motivo: prevede per le conciliazioni delle controversie
individuali due normative ben distinte per il settore pubblico e per il
settore privato ed inoltre, conserva la procedura conciliativa pubblica con
quella sindacale, prevista dai contratti o dagli accordi collettivi di lavoro.
Il d. lgs. del 1998 ha da subito provocato ampie critiche dal mondo
giuridico. Uno dei primi dibattiti generò due schieramenti contrapposti:
7
Carrato A., Di Filippo A., “ Il processo del lavoro: la conciliazione e l’arbitrato, il procedimento di primo
grado, l’appello e il ricorso per Cassazione, l’esecuzione forzata e i procedimenti speciali, le controversie
nel pubblico impiego ”, terza edizione, Il sole 24 ore, Milano 1999, pag. 10.
9
alcuni sostenevano l’inutilità della distinzione tra le due procedure
previste per l’impiego privato e per quello pubblico;
altri, diversamente, avallavano tale scelta perché, mantenere l’autonomia
di entrambi i procedimenti conciliativi, rispondeva adeguatamente alle
diverse esigenze lavorative. Tale distinzione non è stata superata dal
legislatore e il dibattito è ancora aperto. Non si riesce a capire tale
disparità di trattamento.
Ci troviamo di fronte ad una disciplina perfettamente delineata in tutte le
sue fasi a partire dalla domanda di richiesta del tentativo di conciliazione,
quale del settore del lavoro pubblico, ed una disciplina generica e priva di
dettagliate e necessarie indicazioni normative, quale del settore del lavoro
privato. Ne segue che la conciliazione, così strutturata in quest’ ultimo
settore, sorge su un terreno privo di informazioni, poco adatto allo spirito
dialettico,
quale
principio
essenziale,
ma
non
esclusivo
della
conciliazione.
Un arduo punto ampliamente dibattuto riguarda proprio il requisito
dell’obbligatorietà del tentativo. La ratio del legislatore risiedeva sulla
volontà di risolvere il problema del sovraccarico di compiti per il giudice
ordinario, con la speranza di ottenere con questo mezzo una drastica
deflazione del contenzioso.
Il tentativo obbligatorio di conciliazione in esame è tracciato, dal testo
dell’art. 412-bis c.p.c., come una condizione di procedibilità all’azione
giudiziaria. Il problema sorge dal fatto che il legislatore dell’epoca ha
posto maggiore attenzione alla risoluzione delle difficoltà tecniche,
tralasciando alcune questioni di principio. Una delle questioni si fondava
sulla pretesa di incostituzionalità del tentativo obbligatorio. Si metteva in
discussione la libertà delle parti di poter scegliere quale via intraprendere
per risolvere il proprio conflitto e si accusava tale procedura come
colpevole di allungare la durata processuale, in sostanza si vantava una
10
violazione dell’art. 24 della Costituzione8. La Corte Costituzionale,
pronunciatasi al riguardo, ritenne che il tentativo obbligatorio non
determinasse un vulnus insanabile alla speditezza e all’effettività del
diritto di azione, vuoi perché trattasi di un impedimento solo temporaneo;
vuoi perché lo scopo cui tende la conciliazione, quello dell’economia
processuale e della riduzione del contenzioso del lavoro, costituisce l’altra
faccia del principio costituzionale ex art. 111 Cost. del giusto processo e
della sua ragionevole durata9. Un’altra questione legata al principio di
obbligatorietà era connessa ad uno degli elementi cardine della
conciliazione. Questo principio è proprio la volontà di risolvere la lite con
tale procedura. Nel periodo napoleonico, era stato già preso come
assodato il fatto che imporre un dato comportamento ad un soggetto porta
conseguentemente ad un’avversione verso tale obbligo ottenendo come
risultato meno conciliazioni di quelle che si sarebbero ottenute con il
tentativo facoltativo. Dal momento dell’entrata in vigore della nuova
disciplina, gli uffici provinciali del lavoro ( oggi Direzione Provinciale
del lavoro ) e della massima occupazione sono stati inondati di un gran
numero di istanze di conciliazione, senza possibilità di poter distinguere
tra istanze introdotte per l’esistenza di una reale volontà conciliativa e
istanze
introdotte
esclusivamente
per
ottemperare
al
comando
legislativo10.
8
Corte Cost. Ordinanza, 22 ottobre 1999, n.318 in Foro It., 2000, I, 1777; Corte Cost. Sentenza 13 luglio
2000, n. 276, in Foro It., 2000, I, 2752 e ss., Corte Cost. Ordinanza 6 febbraio 2001, n.29, in Giur. It., 2001,
1093 con nota di Fontana.
9
Pizzoferrato, “ Giustizia privata del lavoro ( conciliazione e arbitrato ) ”, in “ Trattato di diritto
commerciale e di diritto pubblico dell’economia ”, di F. Galgano, volume trentaduesimo, Padova, CEDAM,
2003, p.46.
10
Sergio Chiarloni “Stato attuale e prospettive della conciliazione stragiudiziale” , in “La risoluzione
stragiudiziale delle controversie e il ruolo dell’avvocatura” a cura di Guido Alpa e Remo Danavi, Milano,
Giuffrè, 2004, p.191.
11
L’Italia nello stesso anno apportò un’irrilevante ed ulteriore modifica con
il d.lgs. 387/1998 portando una netta separazione dei termini tra quelli per
la presentazione della domanda di conciliazione e quelli per la
celebrazione della prima udienza del giudizio.
Con l’entrata in vigore di quest’ultimo d.lgs. la normativa in esame aveva
subito solo un’ulteriore operazione di affinamento, a seguito della quale
ha di fatto assunto la veste attuale con il recente d.lgs. 165/2001.
Il legislatore ha ridotto le disposizioni
in materia conciliativa
ridefinendone la numerazione, ma senza tuttavia apportare ad essa
modifiche sostanziali di alcun genere. Nell’ ultimo intervento effettuato
dal legislatore confluisce la disciplina processuale dei pubblici dipendenti.
Ai sensi dell’art. 63 del d.lgs. 165/2001, sono ora devolute al giudice
ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative
ai rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, ad
eccezione di quelle relative ai rapporti di lavoro non privatizzati, e di
quelle in materia di procedure concorsuali. La novella del 2001 ha
confermato la separazione strutturale di entrambe le tipologie di lavoro
lasciando ancora una volta irrisolte le problematiche del caso.
2.2 Considerazioni sul processo storico normativo.
La conciliazione, quindi, è un processo consensuale generato dalla sola
volontà delle parti ed è proprio per tale motivo che viene considerata una
procedura alternativa e autonoma rispetto al tradizionale processo basato
sul sistema contraddittorio – accusatorio. La regola della facoltatività del
tentativo consentiva di situare tale procedure in una propria area
funzionale, in un proprio ordine regolativo, parallelo a quello della
12
giustizia formale. Con la riforma del 1998 e l’introduzione della
obbligatorietà, il legislatore ha limitato la libertà delle parti nella scelta di
una giustizia secondaria più rapida e più conveniente, perché ha
modificato la conciliazione passando da uno strumento alternativo a uno
strumento processuale obbligatorio. La realtà sembrò dar subito ragione a
quanti giudicavano inefficace la via della conciliazione obbligatoria,
ritenendo che costituisse un più valido incentivo una conciliazione
fondata sulla libera e volontaria selezione delle vie di tutela, rispetto ad
un onere processuale;
e a quanti hanno osservato che le parti non si conciliano perché qualcuno
o la legge le obbliga a tentare di farlo, ma se e in quanto sono inclini a
trovare una soluzione di compromesso. Il legislatore, all’indomani
dell’entrata in vigore del d.lgs. 387/1998, ottenne da una parte
dell’opinione pubblica una discreta risposta positiva perché dimostrò un
forte impegno a consolidare la disciplina della conciliazione nelle
controversie di lavoro11, ma, contrariamente, un’altra parte non guardò di
buon occhio tale intervento ritenendolo come un inutile aggravio dei
tempi e come un danno alla libera espressione della volontà delle parti.
Il problema più importante posto alla modifica fu quello dell’utilità del
tentativo obbligatorio di conciliazione, perché le prime esperienze
raccolte sul territorio indicarono che solo il sindacato e le direzioni
provinciali del lavoro presero sul serio il tentativo di conciliazione come
strumento di soluzione delle controversie.
La parte imprenditoriale affrontò in modo scettico l’obbligatorietà del
tentativo esprimendo un diniego alla conciliazione, dimostrando di
considerarla solo come un preavviso per la futura controversia giudiziale.
Lo sbaglio effettuato in questi anni è stato quello di non aver guardato
all’esperienza degli Stati Uniti in materia di ADR ( Alternative Dispute
11
http://www.cigl.it
13
Resolution ). L’origine della diffusione di questi strumenti alternativi
(mediazione – arbitrato) in America va ricercata negli anni ’70 come
intervento urgente e diretto a fronteggiare il fenomeno cosiddetto di
“ litigation explosion ”. Tra il 1970 e il 1980 il numero delle cause civili
iscritte presso le Corti americane era più che quadruplicato. Si trattava
soprattutto di cause complesse, che implicavano tempi lunghi ed elevati costi
di gestione.Anche qui vennero applicati, in fase di sperimentazione nelle
Corti federali distrettuali,
tentativi obbligatori dei metodi alternativi
come condizioni di procedibilità necessari. Dopo i primi interventi ci si
rese conto che le procedure di ADR endoprocessuale risultavano aver
avuto scarso effetto sulla riduzione dei costi o dei tempi del contenzioso
civile e nel 1998 entrò in vigore un testo normativo rivoluzionario
denominato Alternative Dispute Resolution Act. La legge imponeva
tuttavia alle parti solamente l’ obbligo di prendere in considerazione la
possibilità dell’ uso di una procedura di soluzione alternativa della
controversia,
aggiungendo
che
ogni
Corte
deve
predisporre
la
disponibilità operativa di almeno una forma di ADR. Ogni forma di ADR
imposta alle parti venne eliminata dal dettato normativo e garantita la
facoltà di scelta tra percorrere le strade alternative o fare ricorso al
procedimento ordinario12. In realtà, le procedure di ADR regolate
dall’ordinamento americano non sono sorte con lo scopo di promuovere le
forme alternative di risoluzione delle controversie, ma per tentare di
limitare l’inflazione processuale rimando all’interno della struttura e della
cultura processuale 13.
Di particolare rilievo è l’anno 1998, in quest’anno gli Stati Uniti trovano
la giusta via per lo sviluppo e l’efficienza di questi strumenti alternativi,
mentre l’Italia, nel regolare al meglio tale materia, decide di intraprendere
12
13
G. Cosi “ Perché conciliare ” , in “ La via della conciliazione ”, a cura di S. Giacomelli, Ipsoa, 2003.
G. Cosi “ Sistemi alternativi di soluzione delle controversie. Intorno all’esperienza americana ”, in
“ Studi senesi. ADR in America ”, p. 10 ss.
14
la strada dell’obbligatorietà cadendo nello stesso sbaglio commesso in
precedenza nel sistema statunitense.
Successivamente al 1998, il legislatore intervenne al riguardo è fu
emanato il d.lgs. 165/2001, tale novella però ha lasciato irrisolti alcuni dei
problemi rinvenuti già in precedenza. Uno tra questi riguarda i soggetti
interessati alla procedura conciliativa. I sostenitori della conciliazione
pura iniziarono a sollevare obiezioni sin da subito per una serie di motivi
che attualmente non sono stati risolti. Prima di tutto si può affermare che
il legislatore, ancora una volta, ha lasciato la conciliazione nelle mani
della Direzione Provinciale del Lavoro con un’apposita Commissione di
conciliazione, dei sindacati e dei giudici degradando gli elementi cardine
che compongono la conciliazione: quali la vontarietà, l’imparzialità e le
caratteristiche del conciliatore in generale. Quanto al primo elemento
basta dire che la conciliazione per produrre i suoi effetti e per poter
funzionare correttamente necessita della libertà di scelta delle parti di
poter adire o meno a tale procedura alternativa.
Altro punto fondamentale è l’imparzialità. Tale carattere specifica ancor
di più l’istituto perché la conciliazione è degna di essere tale solo se
svolta in presenza di un soggetto terzo, neutrale ed imparziale al quale le
persone si rivolgono per risolvere il conflitto che le oppone. Il mediatore
non è un arbitro, e tanto meno un giudice, perché non decide, non taglia il
conflitto, imponendo una decisione alle parti, che rimangono, dall’inizio
alla fine della mediazione, gli unici soggetti dotati di potere decisionale.
Il compito del conciliatore è quello di entrare nel conflitto, ma, rimanendo
contemporaneamente terzo, deve comprendere le pretese di entrambe le
parti senza mostrare di parteggiare per l’uno o per l’altro dei litiganti.
Il mediatore deve essere dotato di un buon livello di competenza tecnica
nella materia di cui è chiamato ad occuparsi e deve mantenere la sua
autorevolezza fin dall’inizio della procedura conciliativa. Questo disegno
15
appena tracciato che descrive la figura del conciliatore e quindi l’intera
procedura del tentativo non si affianca bene al quadro normativo delineato
dal legislatore per una serie di motivi che posso essere sintetizzati in due
gruppi :
1. il mediatore è una figura professionale qualificata a svolgere la propria
funzione in modo adeguato. Questo soggetto, nel processo conciliativo,
deve seguire delle regole di comportamento che fungono da giuda alla
propria condotta e che promuovono la fiducia nella mediazione come
strumento di soluzione delle controversie14. Il conciliatore, per giungere
a tale risultato, deve essere formato adeguatamente, con appositi corsi
idonei ad attribuirgli un’autorità di tipo morale che gli permette di
occuparsi dei fatti altrui. I requisiti richiesti in capo a questa figura
professionale non si adattano bene agli addetti alla conciliazione della
Direzione Provinciale del Lavoro la quale si è vista, da un giorno
all’altro, protagonista di un intervento legislativo privo di una
disciplina riguardante la formazione del mediatore, quale figura – giuda
del procedimento conciliativo. Tale ufficio pubblico, difettando di
funzionari idonei o addirittura di personale ad hoc, necessita di corsi di
riqualificazione e istruzione per lo specifico incarico. Al di là dei grossi
problemi di formazione, la Direzione Provinciale del lavoro riveste
però, nel processo conciliativo, la posizione di garante tra gli opposti
interessi del lavoratore e del datore15. Le caratteristiche tipiche del
mediatore non potrebbero neanche essere ricoperte adeguatamente dai
giudici perché, a causa del loro lavoro, sarebbero portati a ragionare
secondo le regole del diritto tralasciando lo spirito conciliativo.
14
A. Bianchi, R. Caponi, G. Cosi, S. Giacomelli, M. Ippolito, F.P. Luiso, I. Pagni, G. Romualdi, A. Uzqueda
“ La via della conciliazione “ a cura di S. Giacomelli, Unioncamere Toscane, IPSOA 2003, p. 80 ss.
15
http://www.cgil.it/giuridico “ Giurisdizione ordinaria e circuiti conciliativi e arbitrali per la soluzione
delle controversie di lavoro privato e pubblico “gruppo di giuristi della Cgil, Cisl, Uil, P.G. Alleva, G.
Arrigo, F. Coccia, Di Filippo, L. Fiorillo, G. Naccari, C. Russo, novembre 1998.
16
2. un delicato profilo, su cui il legislatore non si è espresso apertamente, è
costituito dal contenuto e dai limiti del potere di controllo dei
rappresentanti
sindacali
sui
termini
dell’accordo
transattivo.
Nella pratica si evidenzia come la volontà del rappresentante sindacale
non possa in alcun modo surrogarsi al consenso espresso dal singolo
lavoratore, la partecipazione del sindacato al processo formativo del
verbale si limita al mero gesto formale della sottoscrizione e alla mera
registrazione dell’accordo intervenuto direttamente tra le parti.
L’assistenza sindacale deve essere effettiva, risultato di un’attiva opera
di sostegno svolta dal sindacalista, e deve essere condotta da un
rappresentante sindacale di fiducia del lavoratore e quindi appartenente
all’organizzazione sindacale cui risulta iscritto o abbia conferito un
apposito incarico.
Volendo delineare le caratteristiche della
partecipazione attiva del conciliatore sindacale la dottrina ha
individuato una serie di comportamenti idonei a tal fine : il
rappresentante sindacale deve fornire all’assistito tutti gli elementi
necessari per valutare la convenienza della composizione stragiudiziale
e per tanto deve instaurare un rapporto più diretto ed immediato con il
lavoratore. In verità i conciliatori sindacali hanno in alcuni casi
accettato l’idea di un loro ruolo passivo, hanno accettato l’idea di
svolgere una funzione di meri notai della volontà altrui, senza né
concorrere
a
formarla,
né
contrastarne
gli
esiti
iniqui.
La consapevolezza dei conciliatori di poter giocare un ruolo incisivo
sulla soluzione dei conflitti, appare un elemento importante per il pieno
decollo del tentativo obbligatorio di conciliazione16. Un problema è
quello di definire se esiste un potere di controllo svolto dal sindacato
16
C Giovannucci Orlandi “ La conciliazione in Italia: diritto vigente e proposte di legge” in “ Médiation,
justice, entreprise: vers une approche européenne”, atti del seminario di Parigi 18-19 maggio 2001.
17
tale da garantire la legalità e prevenire gli abusi ed elusioni ai danni del
contraente “debole”. Dunque, se la conciliazione obbligatoria gestita
dalle strutture amministrative statali non sembra dare buona prova di
sé, e si prospetta il pericolo che il meccanismo assuma una funzione
deflativa solo perché rende l’accesso alla giustizia statale ancor più
lento e complesso, si apre alle parti sociali l’occasione per proporre una
disciplina della conciliazione sindacale capace di fornire una vera
alternativa
in
termini
di
celerità,
efficienza
e
competenza
nell’assistenza delle parti che intendono risolvere il conflitto in modo
pacifico17. Il problema è quello, a detta dei sindacati maggiormente
rappresentativi, di assumere la fase conciliativa come momento
risolutivo del contenzioso, effettuando una riqualificazione dei
funzionari sindacali e quindi una riorganizzazione dei servizi. In altre
parole, oltre ad essere un problema di autoriforma del sindacato, è
anche compito del Governo manifestare la sua convinzione al riguardo.
Oggi siamo immersi in un mondo ad alta litigiosità e la tutela in chiave
individualistica
secondo
alcuni
delle posizioni dei singoli solleva problemi delicati, che
non
sorgerebbero
rivolgendosi
a
momenti
di
autocomposizione delle controversie.
Sembra che, per diverse ragioni, oggi il diritto del lavoro pretenda assai meno
processo che nel passato. È indispensabile che i conciliatori non solo si
adoperino per la conclusione delle liti, raggiungendo un esito così deflativo
del contenzioso del lavoro, ma si impegnino anche a valutare la sostenibilità
dell’accordo sotto il profilo sia di legittimità, sia di convenienza, evitando di
dare avallo a cattive conciliazione, che riportano tutto ad un rapporto di forza
17
F. Borgogelli “ Conciliazione e arbitrato: le nuove regole e il regime di inderogabilità dei contratti
collettivi” in “ Scritti in memoria di Massimo D’Antona”, volume II, parte II, Diritto Sindacale, Milano,
Giuffrè, 2004, p. 1758 ss.
18
contrattuale. La conciliazione, per avere un ottimo risultato, deve puntare
sulla figura del mediatore visto come portatore di un interesse pubblico alla
legalità ed equità del risultato transattivo18.
18
S. Chiarloni “ Lo stato attuale e prospettive della conciliazione stragiudiziale” in “ La risoluzione
stragiudiziale delle controversie e il ruolo dell’avvocatura” a cura di G. Alpa e R. Danavi, Giuffrè, Milano,
2004, p. 108 - 454 ss.
19
CAPITOLO II
La conciliazione nel Diritto del Lavoro
La conciliazione nel diritto del lavoro non si fonda tanto sulla pura e semplice
controversia, ma sull’interesse di conservare nel tempo il rapporto del lavoro.
In quanto mezzo particolarmente idoneo a instaurare un dialogo tra le parti e a
consentire la presa di coscienza di problemi e pretese contrastanti, la
mediazione sembra il migliore strumento per poter soddisfare gli interessi
discrepanti delle parti, quali la conservazione del posto di lavoro e il
mantenimento di un buon dipendente sul posto di lavoro. La composizione
negoziale di una lite è un evento al quale concorrono diversi fattori.
La possibilità di una deflazione consensuale dipenderà dall’oggetto della
pretesa: se questa è diretta al riconoscimento di un elemento della retribuzione
o diretta a risolvere un caso di licenziamento. Nella prima circostanza sarà
facilmente raggiungibile un risultato conciliativo perché, potranno intervenire
delle transazioni reciproche; nel secondo caso tutto ciò sarà molto più
difficile. La convenienza a conciliare sarà maggiore quanto più l’esito della
causa si presenti incerto, come ad esempio la possibilità del datore di lavoro
di ottenere una sentenza favorevole ma di difficile esecuzione o che il
lavoratore non abbia mezzi di prova sufficienti a fondare la pretesa19.
Nel corso degli anni, come si è notato, il legislatore è intervenuto in materia
sdoppiando la procedura conciliativa in due fattispecie, una per il settore del
19
V. Pinto “Controversie di lavoro privato: il tentativo obbligatorio di conciliazione” in “Rivista giuridica
del lavoro e della previdenza sociale”, Roma, 2000, p. 334-335.
20
lavoro privato, l’altra per il settore del lavoro pubblico, producendo a volte
delle discrepanze, altre volte accomunandole.
1. La conciliazione nel lavoro privato
1.1 La procedura di conciliazione.
Il “nuovo” strumento di risoluzione delle liti entra nel panorama legislativo
laburistico del settore privato nel 1973 con la legge 533 prefigurato come
mezzo alternativo; successivamente, tramite l’ultimo intervento normativo
effettuato con il d.lgs. 80/1998, viene tramutato in tentativo obbligatorio.
La procedura di conciliazione viene applicata a tutte le controversie
riguardanti i rapporti di lavoro previsti dall’art. 409 c.p.c. esentate le
controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatoria, non
richiamate né da quest’ultimo articolo né dall’art. 410 c.p.c.. Riguardo alle
controversie previste dai numeri 1 a 4 dell’art. 409 c.p.c. prevede che, oltre
alle procedure in sede sindacale, il tentativo abbia luogo presso una
Commissione di conciliazione costituita dal direttore dell’ufficio provinciale
del lavoro o da un suo delegato e da generici rappresentanti dei datori di
lavoro e dei lavoratori designati dalle rispettive organizzazioni sindacali
maggiormente rappresentative su base nazionale20. All’insorgere di un
diverbio in una di queste attività lavorative, l’attivazione della procedura di
conciliatoria viene effettuata con l’inoltro di una richieste della parte
interessata, direttamente o anche attraverso un’associazione sindacale alla
quale aderisce o conferisce mandato, e la comunicazione di tale istanza
20
A. Proto Pisani “Lezioni di diritto processuale civile”, Novenne, Napoli, 2006, p. 787
21
sospendere la prescrizione ed interrompe, durante la pendenza del
procedimento conciliativo ed anche per i venti giorni successivi alla sua
definizione, ogni termine di decadenza.
L’art. 410 c.p.c. prevede che o il lavoratore o il datore ha l’obbligo di
promuovere il tentativo di conciliazione o in sede sindacale, nelle forma
previste dalla contrattazione collettiva, di cui art. 411 c.p.c., ovvero in sede
amministrativa, tramite la Commissione Provinciale di conciliazione.
La procedura conciliativa deve essere attivata entro sessanta giorni dalla
richiesta, trascorso inutilmente tale termine il tentativo si considera comunque
espletato21. Per la domanda di conciliazione viene imposto una forma scritta
ad substantiam. Tale obbligatorietà è data dall’esigenza di ottenere un mezzo
di prova della data di effettuazione della richiesta, del contenuto della
domanda e delle interruzioni e sospensioni dei termini di prescrizione e di
decadenza. La richiesta di tentativo deve essere predisposta con l’annotazione
degli elementi identificativi dei soggetti litiganti, del titolo e dell’oggetto della
domanda, in quanto, in un eventuale proseguo innanzi all’Autorità giudiziaria,
dovranno essere proposti gli stessi elementi. L’onere del preventivo tentativo
di conciliazione è a carico della parte che intende proporre in giudizio una
domanda relativa ai rapporti previsti dall’art. 409 c.p.c.. A questa conclusione
conduce una rigorosa interpretazione dell’art. 410 c.p.c. e dell’art. 412-bis
c.p.c.. Il primo impone di promuovere il tentativo di conciliazione a chi
intende proporre la domanda di conciliazione, mentre l’art. 412-bis c.p.c. 3°
comma, rilevata dal Giudice l’improcedibilità e sospeso il giudizio, consente
a ciascuna delle parti di promuovere il tentativo di conciliazione ai fini della
riassunzione del giudizio sospeso22. Una copia della richiesta del tentativo
deve essere inviata dal richiedente al convenuto a mezzo di raccomandata
21
O. Mazzotta “ Trattato di diritto privato. Diritto del lavoro ” a cura di Giovanni Iudica e Paolo Zatti,
Giuffrè. Milano, 2002, p. 775.
22
B. Mirando “ Il tentativo obbligatorio di conciliazione e l’arbitrato irritale nelle controversie di lavoro ”,
Cedam, Padova, 2005, p. 11.
22
con ricevuta di ritorno. Competente per territorio e per materia al
procedimento conciliativo è la Commissione di conciliazione, istituita in ogni
provincia presso la Direzione provinciale del lavoro con provvedimento del
direttore. Per l’individuazione, l’art. 410 c.p.c. effettua un rinvio all’art. 413
c.p.c., vale a dire alle modalità di individuazione del giudice territorialmente
competente per la proposizione della domanda ordinaria. È prevista altresì la
possibilità di istituire sottocommissioni, con la medesima composizione, cui
affidare l’esperimento del tentativo. La convocazione delle parti deve essere
fissata dalla Commissione per una riunione da tenersi non oltre dieci giorni
dal ricevimento della richiesta. Perché la riunione sia valida è necessaria la
presenza del presidente e di almeno un rappresentante dei datori di lavoro e
dei lavoratori, diversamente, il Direttore dell’ufficio provinciale del lavoro
certifica l’impossibilità di procedere al tentativo di conciliazione, rilevando
l’assenza dei rappresentanti di categoria. Le parti possono presenziare
personalmente innanzi all’organo competente o possono farsi assistere da
avvocati, sindacalisti, consulenti del lavoro o esperti della materia.
La Commissione, come fase preliminare della riunione, dovrà accertare
l’effettiva identità delle parti presenti interessate alla controversia o se i
soggetti non presenti siano stati correttamente convocati. Nel momento in cui
si verificano problemi in merito, la Commissione dovrà rinviare la riunione a
nuova data, impartendo le disposizioni opportune a depurare i problemi di
contraddittorio. Terminata la fase preliminari, le parti vengono invitate a
sostenere le proprie ragioni e quest’ultime, a loro volta, potranno sottoporre
all’attenzione dell’organo conciliativo documenti che affermano le proprie
ragioni e reciproche proposte transattive. Il ruolo della Commissione sarà
quello di valutare e commentare le posizioni delle parti, suggerire concessioni
transattive, invitare le parti ad una approfondita riflessione sulle proposte
avanzate in sede conciliativa ed, eventualmente, rinviare la riunione a nuova
date. L’incontro mediatico può concludersi o con esito positivo o con esito
23
negativo. A norma dell’art. 411 c.p.c., se si giunge ad un esito positivo si
redige un verbale di avvenuta conciliazione. Tale atto deve contenere la
previsione dell’accordo raggiunto, la sottoscrizione dalle parti e dai membri
della Commissione ed in particolare dal suo presidente. Il processo verbale
viene quindi depositato, a cura delle parti o della Direzione provinciale del
lavoro, nella cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione è stato formato,
il quale sarà competente ad accertare il solo rispetto delle formalità
procedurali. Per il caso in cui invece il tentativo di conciliazione si sia svolto
in sede sindacale, saranno le stesse parti che, anche per il tramite di una
associazione sindacale, provvederanno al deposito del processo verbale presso
la Direzione provinciale del lavoro. Sarà poi compito del direttore o di un suo
delegato che, accertatene l’autenticità, provvederà a depositare il verbale nella
cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione è stato redatto. In entrambi i
casi il giudice, su istanza della parte interessata, dopo averne accertato la
regolarità
formale,
provvede,
con
decreto
a
dichiararlo
esecutivo.
La procedura può concludersi anche con il raggiungimento parziale di
accordo e anche in questo caso viene redatto e sottoscritto il verbale di
conciliazione, che non è impugnabile ai sensi dell’art. 2113 c.c. .
Il deposito in cancelleria può avvenire in qualsiasi momento, non essendo
previsto alcun termine. Il verbale di conciliazione, redatto davanti la
Commissione e non depositato, è privo di efficacia esecutiva e può essere
fatto valere, in quanto scrittura privata, in via monitoria per ottenere il decreto
ingiuntivo. Se invece la conciliazione non riesce, si procede alla formazione
di un processo verbale nel quale devono essere indicate le ragioni del mancato
accordo, come indicato dall’art. 412 c.p.c. modificato dall’art. 38 del d.lgs.
80/1998. Le parti, in tale atto, possono anche indicare una soluzione parziale
sulla quale concordano, precisando, quando è possibile, l’ammontare del
credito che spetta al lavoratore. In quest’ultimo caso, con riferimento al
credito riconosciuto, il processo verbale acquista efficacia di titolo esecutivo,
24
con
le
formalità
previste
dall’art.
c.p.c.23.
411
La Direzione provinciale del lavoro, inoltre, rilascia alla parte copia del
verbale entro cinque giorni dalla richiesta. Tale procedura si applica anche al
tentativo di conciliazione in sede sindacale. Il verbale, che è un atto pubblico
facente fede fino a querela di falso, può contenere dichiarazioni delle parti che
non dovrebbero essere ritenute confessorie e utilizzabili come tali ex art.
2735 c.c. nella fase giudiziale. Il giudice non può valutare le risultanze del
verbale di mancata conciliazione come argomenti di prova, ma può utilizzare
tale atto solo ai fini del regolamento delle spese, come previsto espressamente
dall’art. 412 4° comma c.p.c.. Una volta esperito il tentativo di conciliazione
e decorso il termine di sessanta giorni, il soggetto interessato può proporre in
giudizio una domanda relativa ai rapporti di cui all’art. 409 c.p.c. allegando il
verbale di avvenuta o fallita conciliazione. Se il convenuto non si presenta
dinanzi all’organo conciliativo viene redatto un verbale di mancata presenza,
che consentirebbe all’istante di promuovere immediatamente il giudizio,
senza il bisogno di attendere il decorso del termine di sessanta giorni24.
Come recita l’art. 412-bis c.p.c., l’espletamento del tentativo di conciliazione
costituisce condizione di procedibilità della domanda. Il giudice, ove rilevi
che non sia stato promosso il tentativo di conciliazione ovvero che la
domanda giudiziale sia stata presentata prima del decorso di sessanta giorni
dalla promozione del tentativo stesso, sospende il giudizio e fissa il termine
perentorio di sessanta giorni per promuovere il tentativo di conciliazione.
La sospensione del processo in questi casi è doverosa, non vi è discrezionalità
del
giudice
in
ordine
alla
opportunità
di
sospendere
o
meno.
Trascorso inutilmente tale termine, il processo può essere riassunto entro
centottanta giorni ( termine perentorio ). La mancata riassunzione del
23
C. Filadoro “Il tentativo di conciliazione” in Il Sole 24 ore, Giuda al lavoro, numero 18, 12 maggio 1998,
p. 49 ss..
24
B. Miranda “ Il tentativo obbligatorio di conciliazione e l’arbitrato irritale nelle controversie di lavoro ”,
Cedam, Padova, 2005, p. 27 ss..
25
processo entro i predetti termini comporta l’estinzione del procedimento, che
il
giudice
ha
il
potere
di
dichiarare
d’ufficio
con
decreto25.
Parte della giurisprudenza di merito ha ritenuto di dover attribuire
all’ordinanza emessa in tali termini dal giudice monocratico natura di
sentenza. L’ordinanza del giudice non è reclamabile, ma revocabile da parte
dello stesso. L’improcedibilità della domanda deve essere eccepita dal
convenuto nella memoria difensiva, depositata almeno dieci giorni prima
dell’udienza; se il convenuto non ha segnalato l’improcedibilità, il giudice
può rilevarla d’ufficio entro la prima udienza di discussione; se né il
convenuto né il giudice provvedono ad eccepire l’improcedibilità della
domanda, l’eccezione non può più essere proposta e il processo prosegue
senza che dalla mancata rilevazione del difetto del presupposto processuale
possano derivare i vizi in ordine alla sentenza pronunciata dal giudice.
Nell’ipotesi in cui il termine imposto non sia rispettato, il giudice deve
dichiarare con sentenza l’improcedibilità, concludendo con una pronuncia di
mero rito il processo. Se alla prima udienza si constata che la domanda è stata
proposta prima che fossero decorsi sessanta giorni dalla presentazione
dell’istanza di conciliazione, ma che il procedimento è stato espletato, non
può essere dichiarata l’improcedibilità della domanda. La norma non lo
prevede, ma non avrebbe senso ripetere una nuova fase conciliativa.
Nel caso in cui, invece, il procedimento conciliativo sia esaurito nel prescritto
termine, il processo può essere riassunto dalla parte avente interesse nel
termine perentorio di 180 giorni. Nell’eventualità dell’omessa riassunzione
nel menzionato termine, il giudice dichiara d’ufficio l’estinzione del processo
con decreto26.
25
P. Lenza “Il processo del lavoro, il giudizio di primo grado, le impugnazioni, l’esecuzione, i procedimenti
speciali” in “Il diritto privato oggi” a cura di P. Cendon, Giuffrè, Milano, 2005, p. 73 ss.
26
A. Carrato, A. Di Filippo “Il processo del lavoro : la conciliazione e l’arbitrato, il procedimento di primo
grado, l’appello e il ricorso per Cassazione, l’esecuzione forzata e i procedimenti speciali, le controversie
nel pubblico impiego”, Il sole 24 ore, Milano, 1999, p. 20.
26
1.1.1 La conciliazione in raccordo con la disciplina delle transazioni ex
art. 2113 c.c.
Il 4° comma dell’articolo 2113 c.c. stabilisce che le disposizioni di tale norma
non si applicano alle conciliazioni intervenute ai sensi degli articoli 185, 410
e 411 c.p.c.. Si tratta delle conciliazioni giudiziali, nonché di quelle
amministrative avvenute avanti alla Commissione di conciliazione e arbitrato
presso la Direzione Provinciale del lavoro e di quelle sindacali poste in essere
nell’ambito delle procedure previste dai contratti collettivi. In base ad una
giurisprudenza consolidata, le forme contemplate dall’ultimo comma dell’art.
2113 c.c. per realizzare validamente rinunce e transazioni su diritti
inderogabili del lavoratore sono rigorosamente tassative. In dette ipotesi, si è
affermato la validità di tali negozi proprio perché posti in essere dal
lavoratore con la presenza dell’organo giudiziario, dell’organo pubblico o
dell’organo sindacale, che garantiscono l’equità delle soluzioni raggiunte in
sede conciliativa. Solamente nell’ambito delle conciliazioni sopra menzionate
è garantite un’adeguata assistenza al lavoratore ed è evitato il rischio di
indebite pressioni datoriale sulla libera determinazioni dello stesso. Tali
organi hanno il ruolo in questi contesti di coadiuvare il lavoratore sui temi
quali la fondatezza delle sue pretese, la probabilità di esito positivo di
eventuale causa, la difficoltà che la controversia presenta e la convenienza
della rinunzia e della transazione. Per quanto riguarda i requisiti formali
necessari per la stipulazione delle rinunce e transazioni la giurisprudenza è
unanime nel ritenere che non sia essenziale l’espletamento degli adempimenti
successivi alla sottoscrizione del verbale di conciliazione, quali il deposito
presso la Direzione provinciale del lavoro o la cancelleria del Tribunale.
27
Pertanto la disciplina dell’ultimo comma dell’art. 2113 c.c. non sono
impugnabili, indipendentemente dal rispetto o meno delle formalità previste
dall’art. 411 c.p.c.. Numerose sentenze della Cassazione sono concordi nel
ritenere che una volta avvenuto il tentativo, l’incontro delle volontà delle parti
resta perfezionato indipendentemente dagli adempimenti successivi che
fungono da mera garanzia. Ne consegue che, ai fini dell’inoppugnabilità, ex
art. 2113, ultimo comma c.c. , delle conciliazioni avvenute ai sensi degli art.
410 e 411 c.p.c. rimane estranea l’osservanza delle formalità esterne al
processo conciliativo27. Dette formalità perseguono il fine di consentire alle
parti
interessate
di
avviare
un’eventuale
procedura
per
ottenere
l’adempimento delle obbligazioni assunte in sede conciliativa. È controverso
il grado di assistenza che gli organi preposti alla procedura conciliativa
devono fornire alle parti. Secondo l’orientamento prevalente in dottrina,
riguardo
le
inoppugnabilità
delle
conciliazioni
occorre
un’effettiva
partecipazione degli organi che assistono le parti. Ciò che rileva non è il
rispetto delle regole formali e procedurali, ma il ruolo di assistenza che l’
organo conciliatore deve svolgere in favore dell’autonomia individuale del
lavoratore, tanto da indurre la giurisprudenza a ribadire più volte che gli
adempimenti previsti dall’art. 411 c.p.c. sono formalità esterne ed estranee
rispetto all’essenza negoziale della conciliazione e non costituiscono, dunque,
motivo di impugnazione. Bisogna tenere ben presente che anche le
conciliazioni stipulate ai sensi dell’art. 2113 c.c. possono in realtà formare
oggetto di impugnazione.
Il verbale di conciliazione, privo di
efficacia esecutiva, ha comunque
valenza transattiva e, in caso di
conciliazione su diritti indisponibili, la sua invalidità può essere proposta
tramite i metodi di impugnazione di cui l’art. 2113 c.c. ; diversamente, rimane
valida una mediazione dei diritti derogabili e viene sottratta all’impugnazione.
27
S. Ciucciovino “Rinunce e transazioni” in “ Le fonti del diritto italiano. Il diritto del lavoro. Costituzione,
Codice Civile e leggi speciali ” di G. Amoroso, V. Di Cerbo, A. Maresca, Volume I, Giuffrè, Milano, 2007,
p.893-894.
28
Quindi, la conciliazione è impugnabile nel solo caso di violazione di diritti
inderogabili del lavoratore, derivanti da norme di legge o dai contratti o
accordi collettivi. L’atto è annullabile, purché l’impugnazione avvenga entro
sei mesi dalla cessazione del rapporto o dalla sua pattuizione, decorso il
termine di decadenza la conciliazione acquisisce piena validità. L’invalidità
contemplata
dalla
norma
in
commento
appartiene
alla
specie
dell’annullabilità. Quest’ultima deve essere dichiarata dal giudice con
sentenza di accertamento costitutivo, ma deve essere fatta valere dallo stesso
lavoratore. L’articolo 2113 c.c. stabilisce che le rinunce e transazioni poste in
essere dal lavoratore in sede giudiziale, sindacale o amministrativa sono
valide perché formate con assistenza valida, mentre al di fuori di tali
circostanze, le rinunce e le transazioni possono essere impugnate e quindi
invalidate dal lavoratore stesso28.
1.2 La conciliazione in sede amministrativa : la Commissione di
conciliazione.
Una delle innovazioni maggiormente rilevanti, introdotte con la legge di
riforma del processo del lavoro, si identifica con l’istituzione di Commissioni
di conciliazione quale organo pubblico, avente composizione paritetica
sindacale e non burocratica. Tale organo deve essere terzo rispetto alle parti,
deve svolgere un ruolo di mediazione e di assistenza qualificata allo scopo di
favorire
un’efficiente
conciliazione
della
lite.
Le
Commissioni
di
conciliazione vengono costituite con provvedimento del direttore della
Direzione provinciale del lavoro o attraverso un suo delegato (art. 410, 3°
comma, c.p.c.). Inoltre, obbedendo ad un’esigenza di decentramento, è stato
28
L. Tartaglione “Conciliazione e arbitrato nelle controversie di lavoro”, Il sole 24 ore, Milano, 2000, p. 95
29
previsto che il direttore possa istituire apposite Commissioni anche presso le
sezioni zonali delle Direzioni provinciali(art. 410, 4° comma, c.p.c.);
in ultima istanza, le Commissioni possono per conto loro affidare il tentativo
a proprie sottocommissioni, egualmente presiedute dal direttore della
Direzione provinciale o da un suo delegato, formate in modo da rispecchiare
la composizione delle Commissioni (art. 410, 5° comma, c.p.c.). Queste
ultime sono composte, oltre che dal Presidente, da quattro rappresentanti e da
quattro supplenti dei datori di lavoro e da rappresentanti della categoria dei
lavoratori, la loro nomina deve essere preceduta dalla designazione da parte
delle rispettive organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul
piano nazionale. Per la validità della riunione della Commissione in sede di
esperimento del tentativo conciliativo è necessaria la presenza del presidente,
di almeno un rappresentante degli imprenditori e di un rappresentante dei
lavoratori. Tale composizione è necessaria per garantire il rispetto della
caratteristica della pariteticità, in caso di assenza di uno dei rappresentanti
delle contrapposte categorie o di difetto dell’osservanza dei requisiti
strutturali, ne consegue l’impossibilità di procedere al tentativo di
conciliazione (art. 410, 6° comma, c.p.c.). Da quanto appena esposto si può
dedurre che i sindacati hanno ampie possibilità di mandare a monte una
soluzione conciliativa non gradita, semplicemente disertando o abbandonando
la riunione della Commissione, determinando l’impossibilità di prosecuzione
della procedura ex art. 410, 8° comma, c.p.c.. La Commissione di
conciliazione ha competenza in tutte le controversie inerenti i rapporti
elencati nell’art. 409 c.p.c.; sotto il profilo della competenza territoriale, la
Commissione abilitata allo svolgimento della relativa attività viene
individuata tramite quanto disposto dall’art. 413 c.p.c.. L’eventuale
incompetenza
dell’ufficio
non
determina
riflessi
sulla
procedibilità
dell’azione giurisdizionale. La dottrina e la giurisprudenza, sin da subito,
hanno aperto un profondo e complesso dibattito sull’individuazione del
30
requisito della maggiore rappresentatività delle organizzazioni sindacali.
Le istruzioni ministeriali impartite per la designazione dei rappresentanti in
seno la Commissione, hanno cercato di puntare ad alcuni indici ricavati
dall’esperienza comune e dall’attività esercitata dalle organizzazioni sul piano
contrattuale e nei rapporti con il Governo per la tutela dei lavoratori.
La nozione di associazione maggiormente rappresentativa, secondo la
giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, deve essere individuata
secondo i seguenti indici:
• la consistenza numerica del sindacato;
• l’equilibrata presenza in un ampio arco di settori produttivi;
• la significativa presenza su tutto il territorio nazionale;
•
lo svolgimento di un’attività di contrattazione e di autotutela29.
Il potere di designazione era conferito a quelle organizzazioni sindacali che
svolgevano la loro attività a livello provinciale. Soltanto in tal modo la
designazione da parte delle organizzazioni provinciali garantiva sia il
requisito della maggiore rappresentatività a livello nazionale, sia un rapporto
diretto con la realtà locale. Sulla scorta di tali argomentazioni è stata ritenuta
tale possibilità alle tre grandi confederazioni nazionali (CGIL, CISL, UIL).
Con riferimento alle organizzazioni dei
datori di lavoro abilitate alla designazione, il problema è stato posto
essenzialmente nella mancanza, sia a livello nazionale sia a livello periferico,
di organizzazioni orizzontali ricomprensive di tutte le categorie. Erano
presenti solo organizzazioni per settori di produzione, quali si configuravano,
a livello nazionale, la Confindustria, la Confagricoltura e la Confcommercio.
In relazione alla organizzazione dei datori di lavoro, la legittimazione alla
designazione doveva assegnarsi alle organizzazioni orizzontali provinciali e le
29
G. Giugni “Diritto sindacale” Cacucci, Bari, 2004, p. 65
31
stesse dovevano raggiungere un accordo sulla individuazione dei criteri di
designazione. Qualora non si fosse riusciti a raggiungere un accordo, si è
sostenuto che sarebbe dovuto subentrare nell’attività decisionale il direttore
della Direzione provinciale del lavoro. L’individuazione delle organizzazioni
sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale hanno dato, sin da
subito, adito a molteplici controversie sia sul lato dei sindacati dei lavoratori,
sia sul lato dei sindacati dei datori di lavoro, in quanto in entrambi gli
schieramenti operano molteplici organismi interessati a far parte delle
Commissioni provinciali di conciliazione. Sotto l’aspetto della tutela
giurisdizionale, è stato affermato che il provvedimento con il quale il direttore
nomina la Commissione è qualificabile come un atto amministrativo,
impugnabile dinanzi al TAR, dal momento che incide direttamente sulla
disciplina dell’attività della Direzione potendo sfociare in un distorto
esercizio del potere attribuitogli e, pertanto, in una lesione di posizioni di
interesse legittimo. In genere i soggetti lesi sono le organizzazioni sindacali
escluse perché non considerate maggiormente rappresentative sul piano
nazionale. La legge tace in ordine alla previsione della durata in carica dei
componenti rappresentativi, per cui, secondo l’indirizzo maggioritario, deve
ritenersi che le organizzazioni sindacali interessate possono, senza dover
osservare determinate cadenze temporali, provvedere alla surrogazione del
rappresentante nominato in precedenza tenendo presente la possibilità di
mutamenti di rappresentatività delle organizzazioni sindacali30.
1.3 La conciliazione in sede sindacale
30
A. Carrato, A. Di Filippo “Il processo del lavoro: la conciliazione e l’arbitrato, il procedimento di primo
grado e il ricorso per Cassazione, l’esecuzione forzata e i procedimenti speciali, le controversie nel pubblico
impiego”, terza edizione, Il sole 24 ore, Milano, 1999, p. 10 ss.
32
La forma di conciliazione sindacale fu introdotta nel codice di rito con la
novella del 1973 e, con la legge di riforma del processo del lavoro, è stata
collocata in una posizione di alternatività relativamente alla conciliazione
amministrativa. La conciliazione in sede sindacale non si configura come una
forma di minore intensità o di secondo piano rispetto a quella prevista in sede
amministrativa31.
L’art. 410, 1° comma, c.p.c., prevede, in alternativa alla sede amministrativa,
il tentativo di conciliazione in sede sindacale, avvalendosi della procedura di
conciliazione prevista dai contratti collettivi e accordi collettivi. L’operatività
dell’una o dell’altra discende esclusivamente dalla scelta compiuta dal
soggetto proponente la richiesta. La conciliazione sindacale è prevista da
quasi tutti i contratti di categoria ed è anche presente in alcuni contratti
aziendali. Per la validità del tentativo è opportuno accertare la contrattazione
collettiva applicabile, la previsione che il contratto collettivo disciplini una
tale procedura e la costituzione di una Commissione territoriale paritetica, in
genere composta da un rappresentante dell’associazione sindacale datoriale e
un rappresentante dell’organizzazione sindacale, cui il lavoratore sia iscritto o
abbia conferito mandato. La richiesta del tentativo di conciliazione deve
essere proposta all’ufficio sindacale territoriale dietro istanza di un organismo
sindacale, anche aziendale, che abbia sede nel luogo in cui è sorta la
controversia di lavoro. Numerosi dibattiti sono sorti in ordine alla corretta
individuazione dell’organizzazione sindacale legittimata a proporre e a
partecipare ad una conciliazione sindacale. In dottrina si sostiene che il
tentativo, per rivestire il carattere dell’inoppugnabilità, deve svolgersi con la
presenza di un sindacato maggiormente rappresentativo. La ratio di questa
decisione si fonda su un criterio di coerenza con la composizione dell’organo
conciliativo in sede amministrativa. In giurisprudenza, si ritiene sufficiente la
31
A. Carrato, A. Di Filippo “Il processo del lavoro: la conciliazione e l’arbitrato, il procedimento di primo
grado, l’appello e il ricorso per Cassazione, l’esecuzione forzata e i procedimenti speciali, le controversie
nel pubblico impiego”, Il sole 24 ore, Milano, 1999, p. 20 ss.
33
presenza del rappresentante sindacale, nel quale il lavoratore si è affidato.
Irrilevante è ritenuta la presenza di un avvocato ed anche di un rappresentante
sindacale del datore di lavoro. La richiesta deve essere inoltrata tramite un
mezzo idoneo a certificare la data di ricevimento, dal quale decorre, secondo
l’art. 410-bis c.p.c., il termine di sessanta giorni oltre il quale è possibile
rivolgersi all’Autorità Giudiziaria. La Commissione adita provvede a
convocare innanzi a sé le parti interessate per il tentativo. Se il tentativo riesce
viene redatto apposito verbale, che viene sottoscritto dai conciliatori, dalle
parti e dai rappresentanti sindacali, che hanno partecipato alla trattativa.
Il verbale, per essere dichiarato esecutivo secondo quanto dispone l’art. 411
c.p.c., deve, in primo luogo, essere depositato presso la Direzione Provinciale
del lavoro competente per territorio; il direttore, o un suo delegato,
accertatane l’autenticità, depositano a loro volta il verbale di conciliazione
nella cancelleria del Tribunale, nella cui circoscrizione è stato redatto;
il Giudice del Lavoro, accertata la regolarità formale dell’atto, con decreto
dichiara esecutivo il verbale di conciliazione32. Il sindacato, con questa forma
di composizione della lite, amministra direttamente la conflittualità,
garantendo l’effettiva volontà del lavoratore nel raggiungimento dell’accordo.
Per concludere una giusta conciliazione, il sindacato deve sottostare alla
corretta osservanza delle procedure previste dalla contrattazione collettiva.
Ove non si realizzi tale coincidenza il verbale conciliativo non potrà rivestire
la forma di titolo esecutivo e le stesse conciliazioni intervenute potranno
essere impugnate per il loro annullamento ex art. 2113 c.c. .
La giurisprudenza ha avuto modo di precisare che il verbale di conciliazione
sindacale, una volta sottoposto ad accertamento di autenticità da parte della
Direzione Provinciale del lavoro, ma non depositato nella cancelleria del
32
B. Miranda “Il tentativo obbligatorio di conciliazione e l’arbitrato irritale nelle controversie di lavoro”,
Cedam, Padova, 2005, p. 17-18.
34
Tribunale e non dichiarato esecutivo dal giudice, deve ritenersi valido e
sottratto all’impugnazione prevista dall’art. 2113 c.c.33 .
1.3.1
Accordi interconfederali in materia di conciliazione.
Subito dopo la riforma del 1998, in materia di conciliazione furono conclusi
due accordi interconfederali. Il primo è quello concluso fra Confsercenti
Cispel e CGIL, CISL e UIL il 15 Giugno 2000. L’intesa ha regolato il
tentativo in sede sindacale introducendo procedure e adempimenti che mirano
a rendere effettivo l’esperimento del tentativo stesso e a garantire una vera
trattazione in fase pre-contenziosa di una controversia. Istituisce, al punto 1,
l’Ufficio sindacale di conciliazione, il quale riceverà la richiesta scritta del
soggetto che intende procedere. A differenza della disciplina legale contenuta
nel codice di procedura civile, l’accordo in esame, al punto 2, disciplina il
contenuto della richiesta. L’istanza deve contenere: l’indicazione delle parti;
l’oggetto della controversia con l’esposizione completa dei fatti; il riepilogo
dei documenti allegati; l’elezione del domicilio presso la segreteria ;
il nominativo del rappresentante sindacale con procura speciale, che comporrà
l’organo conciliatore assieme al rappresentante della controparte. Le parti
devono riunirsi entro venti giorni dall’avvenuto ricevimento della richiesta ,
alla riunione potranno prendere parte esperti appartenenti alle rispettive
organizzazioni sindacali ( punto 3 ). Elemento di interesse è quello relativo al
verbale di mancata conciliazione ( punto 7 ), deve contenere i rispettivi
termini della controversia, le rispettive prospettazioni, le eventuali
disponibilità transattive manifestate dalle parti, la proposta di definizione
33
G. Alvino “Il ruolo del sindacato nell’attività di conciliazione: uno strumento di amministrazione del
CCNL”, in “La testimonianza del giurista nell’impresa” a cura di C. Cordaus, R. Romei, G. Sapelli,
Cacucci, Bari, 2001
35
della controversia e/o i motivi del mancato accordo formulati all’Ufficio34.
L’accordo Cispel – sindacati prende posizione su alcuni punti: regola la
richiesta scritta da inviare all’Ufficio e alla controparte; delinea i contenuti
della richiesta e, delineando il contenuto del verbale di mancata conciliazione,
permette di fornire al giudice un resoconto da utilizzare per la decisione sulle
spese del successivo giudizio. Il secondo accordo è quello siglato il 20
Dicembre 2000 fra Confai e CIGL,CISL e UIL , il quale delinea una
procedura più snella. Viene costituita una Commissione sindacale di
conciliazione con il compito di assistere le parti nel tentativo di composizione
della controversia. In caso di mancata conciliazione ( punto 8 ), l’accordo
prevede che si possa ricorrere all’arbitrato irritale il cui lodo ha valore di
contratto. Inoltre è stata prevista la possibilità di ricorrere alla conciliazione
anche nel corso del giudizio arbitrale35. Un ruolo attivo viene riconosciuto alle
organizzazioni sindacali piuttosto che alle parti della controversia. L’accordo
prevede l’impegno a intraprendere iniziative per la formazione di tecnici
competenti a divulgare e attuare l’accordo, inoltre, prevede l’incontro ai
Ministeri interessati per divulgare l’accordo36.
1.4 Punti deboli del sistema conciliativo nel settore del lavoro privato.
Un primo aspetto attentamente esaminato dalla dottrina e dalla giurisprudenza
è quello connesso alla completa assenza di regolamentazione nella disciplina
di legge sulla richiesta del tentativo di conciliazione e, in particolare, sui suoi
34
Il testo di entrambi gli accodi è reperibile su: http://www.cnel.it
35
G. Andrei, servizio politiche del lavoro Confai “Conciliazione e arbitrato. Accordo interconfederale 20
Dicembre 2000”, in “Guida al lavoro”, Il sole 24 ore, Milano, 23 Gennaio 2001, n. 3, p.74.
36
http://www.filcams.cigl.it
36
contenuti. Per quanto concerne l’aspetto formale, sembra preferire la tesi di
quanti sostengono la necessità di una richiesta di conciliazione effettuata per
iscritto. Contrariamente, parte della dottrina propende per una richiesta orale,
attribuendo la competenza alla Commissione ricevente la redazione di un
apposito verbale, quindi, implicitamente, ammette anch’essa la presenza di un
atto scritto. Problemi più delicati si pongono con riferimento ai contenuti
della richiesta medesima, necessari a consentire l’individuazione dell’oggetto,
della lite e della motivazione delle pretese vantate all’organo conciliativo.
Nel silenzio del legislatore da un lato vi è chi, facendo leva sulla mancata
estensione esplicita dell’art. 66 d.lgs. n. 165/2001 alle controversie del settore
privato e in riferimento alla circostanza letterale dell’art. 410 c.p.c.,
sosterrebbe solo la richiesta del tentativo di conciliazione, senza ulteriori
obblighi di descrizione della vicenda sia sotto il profilo fattuale che giuridico.
Dall’altro si pongono coloro che, valorizzando il principio della trasparenza,
sostengono la redazione di una domanda di conciliazione completa in tutti i
suoi elementi, quali i vari fattori identificativi della controversia,
l’esposizione dei fatti e le ragioni poste a fondamento delle pretese vantate.
Quest’ultima tesi si basa su due elementi, il primo riguarda l’estensione del
campo di applicazione dell’art. 66 d.lgs. 165/2001, che è appunto quello di
mettere sin dall’inizio in chiaro i termini della contesa in modo da permettere
un’analisi accurata pre-conciliativa da parte dell’organo competente,
il secondo si basa sul complessivo quadro delineato dalla riforma del 1998 e
le finalità generali che hanno investito l’istituto della conciliazione.
Visto che la struttura della conciliazione è orientata al raggiungimento di
effetti deflativi e accelerazione della risoluzione delle vertenze, sembrerebbe
più conforme a tale obiettivo la redazione di una richiesta del tentativo
completa di tutti elementi necessari, così come avviene nel settore del lavoro
pubblico, in modo da evitare che la Commissione giunga alla riunione con le
parti all’oscuro di quelli che sono i reali fondamenti del contendere e, dunque,
37
meno attrezzata per compiere un’opera davvero efficiente per la
composizione della controversia. Per tanto, perché il dialogo fra le parti possa
iniziare e possa essere incanalato dal conciliatore verso un esito positivo ci
dovrà essere in capo alle parti l’esatta conoscenza delle pretese avanzate, il
quale richiede una loro preventiva esposizione e discussione sia sotto il
profilo fattuale sia delle conseguenze giuridiche prodotte. In assenza di questi
elementi fondamentali, il tentativo rischia di risolversi in un arido momento
procedurale, non in un momento di effettiva riflessione e di razionale ricerca
di una soluzione appagante per entrambe le parti. La contrattazione collettiva,
conscia di ciò, tutte le volte in cui è intervenuta a regolare il tentativo di
conciliazione in sede sindacale, ha prescritto una precisa delimitazione
dell’oggetto, dei fatti e delle ragioni poste a fondamento della pretesa ed il
riepilogo dei documenti allegati37. Concludendo, si dovrebbe almeno
riconoscere che il tentativo di conciliazione previsto dall’art. 410 c.p.c. è
comunque un tentativo necessario, che analizza le posizioni contrapposte per
trovare punti di contatto. Una volta iniziato il procedimento conciliativo,
questo dovrà svolgersi sulle stesse questioni su cui sarà chiamato ad
intervenire il giudice, con la consapevolezza che un eventuale scostamento fra
oggetto del tentativo e oggetto della successiva domanda giudiziale possa
essere causa di una sospensione del processo. In un ottica di chiarificazione
ab origine
dei termini della controversia, sarebbe anche sufficiente il
semplice deposito, presso l’ufficio competente, delle osservazioni scritte di
controparte per meglio delineare i margini del contendere.
Riguardo al procedimento di conciliazione avanti la Commissione, un punto
debole è da ravvisare nei termini per l’espletamento del tentativo. Se gli
organi ad hoc saranno in grado di fissare entro sessanta giorni dalle richieste
pervenute le riunioni per l’espletamento dei tentativi di conciliazione, allora
37
Pizzoferrato “Giustizia privata del lavoro (conciliazione e arbitrato)”, in “Trattato di diritto commerciale
e di diritto pubblico dell’economia”diretto da F. Galgano, vol. trentaduesimo, Cedam, Padova, 2003, p.69 ss.
38
l’obbligatorietà del tentativo avrà raggiunto il proprio scopo che è quello
dell’effettivo espletamento di conciliazione, a prescindere che le parti abbiano
o meno raggiunto l’accordo. Se le Commissioni non saranno in grado, a causa
dell’elevato numero di controversie o a causa della carenza di membri
adeguati, di fissare il termine sopra detto per le riunioni, la novella potrà
essere considerata fallita. Sarà più ragionevole per le parti, consapevoli della
difficoltà di tale procedura, di rivolgersi immediatamente al giudice, visto
che, per quanto stabilito dall’art. 410 c.p.c. , il tentativo si intende espletato se
non compiuto nel termine di sessanta giorni. In questo caso la richiesta del
tentativo di conciliazione finirebbe per essere una mera ed inutile perdita di
tempo e di denaro38. Con l’introduzione dell’obbligatorietà, il legislatore è
intervenuto sulla disciplina, ma non sulla struttura dell’organo conciliatore
che, a distanza di quasi dieci anni, si ritrova immerso da numerose domande
di conciliazione così come accadeva all’entrata in vigore della riforma.
Questo grave problema, inevitabilmente, sta producendo un’ulteriore
questione, che è quello di far diventare la procedura conciliativa una noiosa
formalità priva dei suoi caratteri fondamentali e salienti. La procedura
conciliativa, come già detto, può concludersi con la redazione di un verbale di
avvenuta conciliazione o di mancata conciliazione. Riguardo quest’ultimo
caso, in sede processuale, il giudice dovrà tenere conto, nella decisione sulle
spese, del contenuto del verbale, il quale, secondo quanto disposto
dall’art. 412, 1° comma, c.p.c., dovrà indicare i motivi del mancato accordo.
Tali ragioni riguardano le richieste e le offerte che ciascuna parte ha effettuato
nel corso del tentativo, per tanto, un punto di particolare delicatezza risiede
nella verbalizzazione delle ragioni di ciascuna parte. Il tentativo di
conciliazione non deve costituire una fase di trattazione anticipata del
successivo processo, il verbale non deve contenere le ragioni di merito
38
L. Tartaglione “Conciliazione e arbitrato nelle controversie di lavoro”, Il sole 24 ore, Milano, 2000,
p. 167.
39
sostenute dalle parti, perché, così facendo si potrebbe sia eludere il principio
della riservatezza dell’istituto conciliativo, sia influenzare la decisione del
giudice nell’apposita sede.
Il legislatore, imponendo di indicare le motivazioni del mancato accordo,
porta le parti ad assumere atteggiamenti ambigui tali da irrigidire le loro
posizioni e, di conseguenza, concludere la conciliazione con un verbale in
negativo.
Le
parti
cercheranno
di
non
pregiudicare
con il
loro
comportamento, e quindi con le loro offerte e ammissioni, gli eventuali
sviluppi della lite nella successiva sede processuale, e, così facendo, non
applicheranno gli elementi caratterizzanti della conciliazione. Per cercare di
incentivare i soggetti ad assumere degli atteggiamenti disinvolti in sede
conciliativa si dovrebbe, per lo meno, redigere un verbale non formato sulle
ragioni di fatto o di diritto,
ma sull’ indicazione delle circostanze sulla
basa delle quali le parti erano disposte a conciliare, quindi, si devono indicare
le offerte transattiva ed il rifiuto delle medesime39. Riguardo l’ultimo comma
dell’art. 2113 c.c. ,
il legislatore non ha previsto l’impugnazione delle
rinunce e delle transazioni intervenute innanzi al giudice, presso la
Commissione di conciliazione ovvero in sede sindacale. Tale previsione
risiede
sul ruolo di assistenza che l’organo conciliatore, e, soprattutto,
l’organizzazione
sindacale,
deve
svolgere
in
favore
dell’autonomia
individuale del lavoratore. Un’ulteriore argomento da analizzare è, per
l’appunto, la figura del mediatore. Il buon esito della negoziazione dipende in
larga misura dalla presenza di un soggetto terzo autorevole, al quale le parti
riconoscano competenza tecnica e, in particolar modo, credibilità. Il
mediatore deve disporre di tempo sufficiente per l’esposizione e la
discussione delle ragioni poste a fondamento delle pretese vantate dalle parti,
una Commissione di conciliazione che si ritrovi appesantita di lavoro e che
operi in tempi ristretti, difficilmente potrà svolgere il proprio ruolo in modo
39
E. Gabrielli, F.P. Luiso “I contratti di composizione delle liti”, UTET, Torino, 2005, p. 361 ss.
40
efficiente40. L’attività del conciliatore non deve basarsi esclusivamente su
un’indagine circa la produzione di una conciliazione priva di vizi causati della
soggezione psicologica del lavoratore, ma deve estrinsecarsi in una reale
azione di tutela di quest’ultimo attraverso consulenze sul quadro giuridico di
riferimento e consigli circa la convenienza economica delle proposte
avanzate. La ratio dell’art. 2113 c.c. è quella in cui il lavoratore venga
assistito da soggetti terzi e venga guidato all’interno della procedura
giungendo a termine con l’autenticità del proprio consenso prestato ad una
certa ipotesi conciliativa.
2
La conciliazione nel lavoro pubblico.
2.1 La procedura di conciliazione.
Anche le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle
pubbliche amministrazioni sono assoggettate al tentativo di conciliazione, ma
esso si svolge secondo le speciali modalità delineate dal d.lgs. 165/2001,
anziché con le modalità degli articoli 410 ss. c.p.c.. La procedura deflativa del
contenzioso giurisdizionale attualmente prevista è disciplinata dalla
disposizione di cui all’art. 65 del d.lgs. n. 165 del 30 Marzo 2001
( Testo Unico delle disposizioni concernenti lo Statuto degli impiegati civili
dello Stato ) e recante la seguente rubrica: “ Tentativo obbligatorio di
40
G. Leone “Il tentativo di conciliazione nel settore privato. Obbligatorietà, immediatezza e tutela dei
diritti” in “La deflazione del contenzioso del lavoro. Il caso delle Pubbliche Amministrazioni” a cura di M.
G. Garofano e R. Voza, Cacucci, Bari, 2007, p. 72.
41
conciliazione nelle controversie individuali ”. A norma dell’ art. 66 del T.U. ,
il tentativo di conciliazione può essere promosso dal lavoratore o dalla stessa
pubblica amministrazione e si svolge o secondo le procedure previste dai
contratti collettivi o davanti ad un Collegio di conciliazione. L’istanza di
conciliazione, sottoscritta dal lavoratore, deve essere depositata o spedita con
raccomandata con avviso di ricevimento al competente ufficio di
conciliazione ed all’ amministrazione di appartenenza. La data di ricezione
della raccomandata da parte del collegio interrompe la prescrizione e
sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni
successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza.
Infatti, in assenza di una disciplina espressa, dovrà applicarsi quella generale
disposte dall’art. 410, 2° comma, c.p.c.. inoltre, la stessa comunicazione vale
a far decorrere sia il termine di trenta giorni entro cui l’amministrazione deve
depositare le osservazioni scritte e nominare il proprio rappresentante in seno
al Collegio di conciliazione, sia il termine di procedibilità della domanda
giudiziale. Nella istanza il lavoratore deve indicare tutti gli elementi che sono
specificati nell’art. 66, 3° comma, d.lgs. 165/2001. Tali requisiti formali sono:
a) l’amministrazione di appartenenza e la sede alla quale il lavoratore è
addetto; b) il luogo dove gli devono essere fatte le comunicazioni inerenti alla
procedura; c) l’esposizione sommaria dei fatti e delle ragioni poste a
fondamento della pretesa; d) la nomina del proprio rappresentante nel collegio
di conciliazione o la delega per la nomina medesima ad un’organizzazione
sindacale. Spetterà all’ufficio competente verificare la sussistenza dei requisiti
minimi dell’istanza, che dovrà valutare quanto sommaria possa essere
l’indicazione dei fatti e delle ragioni addotte dal lavoratore. Qualora l’ufficio
inviti il lavoratore ad integrare la richiesta del tentativo e in attesa di rettifica
dell’istanza, il termine di trenta giorni viene interrotto, ricominciando a
42
decorrere
quando
l’amministrazione
riceve
la
nuova
copia41.
L’amministrazione, ricevuta la suddetta istanza dal lavoratore, entro trenta
giorni deve depositare presso la Direzione Provinciale del lavoro le proprie
osservazioni ( in fatto e in diritto ) sulla pretesa del lavoratore e nominare il
proprio rappresentante in seno al collegio di conciliazione. Si ritiene che tale
termine sia ordinatorio e l’amministrazione può riservare di presentare le
proprie osservazioni successivamente o anche svolgerle oralmente dinnanzi al
collegio, purché entro trenta giorni indichi il proprio rappresentante,
consentendo così la costituzione del collegio, la mancata nomina del
rappresentante di parte pubblica che non permette la costituzione dell’organo
per
colpa
dell’amministrazione
è
valutabile
in
sede
giudiziale.
Se l’amministrazione non deposita entro trenta giorni alcuna memoria, il
lavoratore deve comunque aspettare il decorso dei novanta giorni ai fini della
procedibilità della domanda. Entro dieci giorni dal deposito delle osservazioni
scritte e dalla nomina, il presidente del collegio deve fissare una data per la
comparizione delle parti. Tale termine si ritiene ordinatorio. Dinnanzi al
collegio di conciliazione, il lavoratore può comparire personalmente, senza
assistenza alcuna, diversamente farsi rappresentare o assistere anche da
un’organizzazione cui aderisce o conferisce mandato. Per quanto riguarda
l’amministrazione, la legge prevede che debba comparire un soggetto munito
del potere di conciliare ( art. 66, 4° comma ). Poiché il potere di conciliare
compete ex lege nelle amministrazioni statali al dirigente dell’ufficio
dirigenziale generale, tale organo dovrà delegare il proprio subordinato
all’espletamento di tale attività. Non è possibile sommare in capo al delegato
dell’amministrazione per la conciliazione anche il ruolo di componente del
collegio, trattandosi di funzioni diverse che devono far capo a soggetti
distinti. La delega, se non contiene dei limiti, attribuisce al delegato una sfera
41
R. Voza “ La peculiarità del tentativo obbligatorio di conciliazione nel lavoro pubblico” in
“ La deflazione del contenzioso del lavoro. Il caso delle pubbliche amministrazioni ”, a cura di G. Garofano
e R. Voza, Cacucci, Bari, 2007, p. 86-87.
43
incondizionata d’azione. Nel caso di delega che conferisce dei limiti al potere
di conciliazione , si può verificare l’inconveniente in cui il funzionario
disobbedisca alle direttive impartite dal proprio dirigente, in questo caso è
ipotizzabile una responsabilità disciplinare. Se vi è un eccesso di delega,
l’accordo in cui viene trasfusa la conciliazione, essendo viziato, si ritiene
inefficacie nei confronti del lavoratore, salvo la facoltà di ratifica da parte
dell’amministrazione. Se tra le parti non si raggiunge alcun accordo, il
collegio di conciliazione formula una proposta per la bonaria definizione della
controversia. Se la proposta non viene accettata, viene redatto un verbale
contenente i termini della stessa e le valutazioni espresse dalle parti.
Tale struttura di conciliazione valutativa, permette al Collegio, in assenza di
disposizioni che lo vietino, anche di suggerire ad una delle parti il totale
abbandono della propria posizione. La proposta del Collegio viene presa a
maggioranza, in tal caso, il membro dissenziente, potrà pretendere la
verbalizzazione della propria posizione, ma non che venga formulata alle
parti. Gli atti, relativi al tentativo di conciliazione non riuscito, sono acquisiti
nel successivo giudizio, anche d’ufficio. Il giudice ha la facoltà di valutare, ai
fini del regolamento delle spese del giudizio, anche il comportamento delle
parti nella fase conciliativa. Il verbale dovrebbe manifestare il vero spirito
della disciplina conciliativa, che non è quello di prevedere un tentativo
burocratico in più, ma di creare una nuova sede di confronto, di soluzione
concordata e negoziata delle controversie. La legge prevede che la
conciliazione
della
lite
da
parte
di
chi
rappresenta
la
pubblica
amministrazione, riguardo la proposta formulata dal collegio o in sede
giudiziale non può dar luogo a responsabilità amministrativa. Nel caso di
avvenuta conciliazione, anche limitatamente ad una parte della pretesa
avanzata dal lavoratore, in base a quanto prescritto dall’art. 65, 5° comma,
viene redatto un processo verbale, il quale sottoscritto dalle parti e dai
componenti del collegio di conciliazione, costituisce titolo esecutivo, senza
44
alcun bisogno della verifica di regolarità da parte del Tribunale. Tale verbale
non necessita di controlli successivi, acquisisce efficacia di titolo esecutivo
ipso iure e, se redatti innanzi al collegio ( art. 66, 5° comma, d.lgs. 165/2001 e
art 2113, 4° comma, c.c.) o innanzi al giudice nell’apposita udienza
( art. 2113, 4° comma, c.c.), non è impugnabile. In caso di conciliazione non
avvenuta innanzi al Collegio o al di fuori dell’udienza di cui l’art. 420 c.p.c.,
troveranno applicazione le disposizioni di cui all’art. 2113, 1°-3° comma, c.c.
, ed il relativo verbale sarà dunque impugnabile in sede giudiziale. Qualora il
Collegio non proceda all’esperimento del tentativo perché la materia del
contendere rientra nelle competenze del giudice amministrativo, o perché la
vicenda, anche se di competenza del giudice ordinario, attiene a fatti anteriori
al 30/06/1998, spetterà al direttore dell’ufficio del lavoro rilevare il difetto di
giurisdizione, ma si ritiene che possa essere anche sollevato dalla stessa
pubblica amministrazione, nelle proprie osservazioni scritte. In senso
contrario si è espressa un’autorevole dottrina, secondo la quale, il tentativo
dovrebbe comunque aver luogo, in quanto le questioni di giurisdizione non
sono devolute alla valutazione dell’amministrazione, bensì alla magistratura.
Nell’ipotesi in cui la conciliazione ex art. 66 d.lgs. 165/2001 intervenga in
relazione a controversie devolute al giudice amministrativo, e per adire il
quale non è necessario attivare previamente il meccanismo deflativo, è
ipotizzabile l’impugnativa del verbale di conciliazione , in quanto l’art. 66, 5°
comma, d.lgs. 165 preclude l’impugnabilità dello stesso solo in relazione alle
controversie devolute al giudice ordinario. In sede conciliativa può accadere
che la pubblica amministrazione viene chiamata a disporre di situazioni
soggettive che fanno capo ad un terzo. L’art. 66 del d.lgs. 165/2001 nulla
dispone l riguardo, ma non sembra escludere la possibilità che ciascun
lavoratore coinvolto nomini un proprio rappresentante in seno al Collegio e
partecipi alla procedura di conciliazione. Per tanto, la giurisprudenza, ha
45
affermato la necessità di esperire il tentativo di conciliazione nei confronti del
terzo chiamato42.
2.1.1 La responsabilità amministrativa
per il rappresentante della
pubblica amministrazione.
Una delle maggiori novità introdotte dal d.lgs. 80/1998 in materia di
conciliazione è quella attualmente contenuta nell’ottavo comma dell’art. 66
d.lgs. 165/2001. La conciliazione della lite da parte del rappresentante
dell’amministrazione, in adesione della proposta formulata dal Collegio,
ovvero in sede giudiziale ai sensi dell’art. 420 c.p.c., non può dar luogo a
responsabilità amministrativa. Tale circostanza si verifica esclusivamente
nell’ipotesi in cui l’accordo sia raggiunto innanzi al giudice, oppure in sede
amministrativa, ma soltanto a seguito della proposta formulata. Perché il
rappresentante dell’amministrazione si consideri munito del potere di
conciliare, occorre un normale provvedimento amministrativo rilasciato dal
dirigente
amministrativo
dotato
della
competenza
ad
impegnare
l’amministrazione verso l’esterno. L’intento del legislatore è quello di non
sollevare da responsabilità coloro che, in veste di rappresentanti della
pubblica amministrazione, giungono ad una conciliazione trovando un
accordo diretto con la controparte, senza l’intermediazione di soggetti terzi
quali il Collegio o il giudice, quindi, l’intentio legis è quella di impedire
accordi fortemente sbilanciati a danno del lavoratore. Il soggetto sollevato da
responsabilità è soltanto colui che rappresenta l’amministrazione nella fase
conciliativa, non viene estesa tale garanzia anche a colui che, pur essendo un
42
G. Noviello “ Gli strumenti deflativi del contenzioso ”, in “ Le nuove controversie sul pubblico impiego
privatizzato e gli uffici del contenzioso dopo il testo unico sul pubblico impiego” di G. Noviello, P. Sordi, E.
A. Apicella, V. Tenore, Giuffrè, Milano, 2001, p. 168 ss.
46
pubblico funzionario, presieda il Collegio che fa la proposta. Secondo
un’autorevole dottrina si afferma che, il funzionario non è investito di
un’ampia discrezionalità nel decidere se accettare o meno l’accordo proposto
dall’organo competente, ma viene assistito dall’amministrazione, la quale
dovrà fornirgli le opportune indicazioni anche tramite
atti di carattere generale che prescrivano il comportamento da tenere.
L’art. 66, ultimo comma, da un lato libera il funzionario da un’eventuale
successiva azione di responsabilità da parte della pubblica amministrazione di
appartenenza, mentre, dall’altro, permette all’amministrazione di agire nei
confronti del funzionario seguito dell’ingiustificato rifiuto di quest’ultimo di
concludere la transazione. L’amministrazione, in un contesto litigioso, si
troverà a dover analizzare due strade per la risoluzione della lite, una fondata
sulla convenienza di raggiungere un accordo in sede conciliativo, l’altra
sull’opportunità di portare la controversia in sede giudiziale. Quest’ultima
soluzione consta di alti dischi, perché si troverebbe ad affrontare un
estenuante giudizio, con relativo dispendio di energie lavorative ed
economiche, e di subire anche la condanna al pagamento delle spese in favore
della parte ricorrente vittoriosa. L’amministrazione sarà propensa a risolvere
la lite in sede conciliativa prima di tutto perché eviterebbe tutti gli
inconvenienti sopra esposti e anche perché il legislatore ha previsto
l’esclusione da responsabilità del rappresentante, che, senza dubbio, si
manifesta, dunque, come un incentivo, se non un’indispensabile premessa, per
garantire il successo del tentativo di conciliazione43. La disposizione è
essenziale, perché altrimenti ben difficilmente il rappresentante della pubblica
amministrazione è disposto a conciliare, sapendo di poter essere chiamato a
rispondere della propria decisione. La norma limita il proprio campo d’azione
solo alle conciliazioni amministrative e giudiziali, estromettendo quelle
43
G. Iacovone “ La transazione giustiziale delle controversie di lavoro pubblico tra lacune normative e
responsabilità dirigenziale”, in “ La deflazione del contenzioso del lavoro. Il caso delle pubbliche
amministrazioni”, a cura di M. G. Garofano e R. Voza, Cacucci, Bari, 2007, p. 130 ss.
47
previste dalla contrattazione collettiva. In questo quadro normativo, non solo
si rallenta quel cambiamento culturale e di mentalità indispensabile per una
corretta valorizzazione degli strumenti alternativi di risoluzione delle
controversie nella pubblica amministrazione, ma soprattutto non incentiva lo
strumento conciliativo ad essere visto come un effettivo canale alternativo a
quello amministrativo, alleggerendo il grosso carico di lavoro pendente sulla
Direzione Provinciale del lavoro, il quale produce un inevitabile arretrato
nella trattazione delle cause.
2.2 La conciliazione in sede amministrativa : il Collegio di conciliazione.
Nelle controversie insorte fra dipendente e pubblica amministrazione,
competente è il Collegio di conciliazione di cui all’art. 66 d.lgs. 165/2001, ciò
rappresenta una sorta di anello di congiunzione tra conciliazione e arbitrato.
Tale organo è composto dal Direttore della Direzione Provinciale del lavoro,
che lo presiede, e da due componenti nominati direttamente dalle parti,
rispettivamente
rappresentanti
del
lavoratore
e
della
pubblica
amministrazione. Si tratta di un organo amministrativo temporaneo, viene
istituito di volta in volta al sorgere di una controversia dietro designazione
delle parti stesse. I criteri di composizione vengono predeterminati attraverso
criteri stabiliti dalla legge, il Collegio di conciliazione si configura come un
organismo istituito ad hoc come espressione della volontà delle parti.
48
L’imparzialità dell’organo ricade interamente sulle spalle del presidente, il
quale deve cercare un punto di equilibrio tra i rappresentanti che costituiscono
il collegio. La presenza sindacale è meramente eventuale, al riguardo alcuni
sostengono che, in quanto organo, non è rappresentativo di interessi collettivi
o di gruppo, ma è espressione diretta delle parti, in realtà, la presenza
sindacale dipende da chi, i soggetti, intendano designare. La necessità di
nominare un proprio rappresentante in seno al collegio, da un lato valorizza
l’iniziativa individuale del lavoratore, ma dall’altro lato può essere
disincentivante sotto il profilo economico che lo stesso lavoratore dovrà
sostenere, ferma restando la facoltà di designare un soggetto che eserciti
gratuitamente tale funzione44. Riguardo il profilo della funzionalità,
l’orientamento maggioritario ha sostenuto che la caratteristica della
temporaneità dell’organo, costituito di volta in volta da rappresentanti di
fiducia nominati direttamente dalle parti, non fa che aumentare le occasioni di
tempestività del tentativo di conciliazione. La competenza per territorio viene
individuata in base all’ufficio cui il lavoratore è addetto, ovvero dove era
addetto al momento della cessazione del rapporto,quindi, in base all’art. 413,
5° comma, c.p.c., vi è un foro esclusivo. Le disposizioni sulla competenza
territoriale riguarda i rapporti di lavoro pubblici privatizzati, per gli altri
rapporti di pubblico impiego, ancora soggetti al regime pubblicistico, si
applica il procedimento giurisdizionale amministrativo che non prevede il
tentativo obbligatorio di conciliazione. L’eventuale incompetenza dell’organo
non genera problemi sulla procedibilità dell’azione giurisdizionale, sulla base
di ciò l’accordo raggiunto dinanzi il Collegio incompetente territorialmente o
funzionalmente sarà pienamente valido e idoneo a diventare titolo esecutivo,
inoltre, la conciliazione conclusa con un verbale di mancato accordo, rende
comunque procedibile l’azione giudiziaria perché è stato soddisfatto
44
R. Voza “ La peculiarità del tentativo obbligatorio di conciliazione nel lavoro pubblico”, in
“ La deflazione del contenzioso del lavoro. Il caso delle pubbliche amministrazioni”, a cura di M. G.
Garofalo e R. Voza, Cacucci, Bari, 2007, p. 83 ss.
49
l’obiettivo del tentativo, è stato rispettato pienamente il confronto dialettico
tra le parti45. Particolare rilievo assumono i compiti del Collegio in ordine alla
gestione della tentativo, in particolar modo con riferimento al potere di
svolgere una conciliazione di tipo valutativa espressamente prevista
all’art.
66 , 6° comma. In base al dettato normativo, ove il Collegio non
riesca ad indurre le parti a trovare un accordo, è obbligato a formulare una
proposta, ed in caso di disaccordo delle parti, quest’ultime possono trascrivere
nel verbale le loro osservazioni. Il verbale, una volta concluso il procedimento
conciliativo, contribuirà a formare i documenti processuali, inoltre, potrà
essere anche acquisito d’ufficio dal giudice per una valutazione del
comportamento delle parti e, sia pur per una rilevanza limitata, per la
regolamentazione delle spese processuali. La dottrina, riguardo al compito del
Collegio che è quello di valutare e condurre le parti al raggiungimento di un
accordo, ha colto una funzione di mediazione, anziché di conciliazione.
Tale posizione muove dal diverso modo di identificare i due istituti.
Il conciliatore ha esclusivamente il ruolo di assistere le parti, le quali
mantengono uno stretto controllo della procedura; il mediatore promuove la
soluzione della controversia anche presentando una possibile soluzione alle
parti che lo hanno prescelto. In realtà, il legislatore ha voluto strutturare in
questo modo il tentativo conciliativo solo per favorire il percorso
stragiudiziale rendendo il compito del conciliatore più dinamico, non
limitandolo all’assistenza silenziosa delle trattative e alla conseguente
registrazione dell’esito. Da questa proposta avanzata dal Collegio discende
l’esonero
della
responsabilità
del
rappresentante
della
pubblica
amministrazione, che viene ad applicarsi solo quando le parti facciano propria
la proposta formulata dall’organo in sede amministrativa. Si è voluto
attribuire una certa importanza alla proposta avanzata perché proviene da un
45
Pizzoferrato “ Giustizia privata del lavoro ( conciliazione e arbitrato )”, in “ Trattato di diritto
commerciale e di diritto pubblico dell’economia ” diretto da F. Galgano, vol. tredicesimo, Padova, Cedam,
2003, p. 99-100.
50
Collegio la cui natura e composizione offrono la garanzia della formulazione
di una proposta equilibrata, rispetto a quanto possa fare l’organo di
conciliazione previsto dalla contrattazione collettiva. Sembra che il legislatore
abbia pensato al Collegio come ad un organo giustiziale e, a rafforzare questa
teoria, basta rivolgere uno sguardo sia all’accordo di conciliazione, il quale,
anche se raggiunto parzialmente, è subito titolo esecutivo, senza bisogno della
ratifica da parte dell’autorità giudiziaria, diversamente da quanto accade sia
per il lavoro privato, sia per la conciliazione in sede sindacale; quanto alla
composizione dell’organo, formato da soggetti in grado di rispecchiare le
posizioni delle parti litiganti e di riprodurre il tipico contraddittorio
processuale. Il legislatore ha attribuito al Collegio il compito di formulare, in
caso di mancato accordo, una proposta per la bonaria definizione della lite,
tanto da assegnargli un ruolo di impulso teso a favorire la conciliazione.
I Collegi di conciliazione, così disegnati dall’art. 66 d.lgs. 165/2001, risultano
essere ancor più strettamente legati alle parti in lite rispetto alle Commissioni
disciplinate dal codice di procedura civile. Ne consegue un grosso rischi per il
conseguimento dell’esito positivo della conciliazione, dal momento che, i
membri dell’organo, essendo nominati dalle parti, potrebbero non ricoprire in
modo costruttivo il ruolo a loro assegnato e sostenere le posizioni delle parti
contendenti ampliando la litigiosità, tutto il peso della procedura finirebbero
per gravare sul solo presidente e sulle sue capacità conciliative. Il Collegio di
conciliazione è stato previsto come un organo ad hoc, istituito solo dietro
domanda della parte, ciò può comportare l’inconveniente di rendere meno
agevole la formazione di un bagaglio di esperienza pratica nella gestione del
tentativo di conciliazione e l’acquisizione di un’adeguata padronanza delle
tecniche di mediazione, requisiti che, indubbiamente, risultano determinanti
in vista del raggiungimento di una soluzione soddisfacente e conveniente
rispetto a ciò che si potrebbe ottenere in una fase giurisdizionale. Un’ultima
scelta normativa riguardante il Collegio è quella di affidare a questo stesso
51
organo anche il ruolo di Collegio arbitrale nella materia delle impugnazioni
delle sanzioni disciplinari46.
2.3 La conciliazione in sede sindacale.
La conciliazione sindacale viene considerata equivalente alla conciliazione in
sede amministrativa per la regolamentazione di aspetti quali i termini per
l’espletamento, il caso di mancata conciliazione, l’efficacia di titolo esecutivo
in caso di soluzione parziale. In dottrina si è parlato di “ istituzionalizzazione
” perché tali regole devono applicarsi sempre, anche quando la contrattazione
collettiva che prevede il tentativo di conciliazione non le indichi.
La conciliazione sindacale è prevista da quasi tutti i contratti di categoria ed è
presente anche in alcuni contratti aziendali. Questo istituto ha permesso ai
sindacale non solo di imporre norme che sanciscono diritti e doveri per i
datori di lavoro e per i lavoratori, ma anche, tramite la loro autonomia, di
realizzare istituti per la creazione e il mantenimento della pace industriale47.
In questo modo i sindacati sono stati incentivati a progettare strumenti per la
retta interpretazione dei contratti collettivi e per il ricorso ad organi
conciliativi per la risoluzione non solo delle controversie nascenti
dall’applicazione del contratto, ma, in genere, per quelle inerenti ai diritti ed
agli obblighi connessi alla prestazione di lavoro. Nel caso di contestazione da
parte di un lavoratore di determinati istituti che trovano la loro fonte
normativa nel contratto di lavoro, la conciliazione sindacale da un lato
46
M. A. Guarnaccia “ Il tentativo obbligatorio di conciliazione nel pubblico impiego ”, in “ Rivista
elettronica di diritto pubblico, di diritto dell’economia e di scienza dell’amministrazione ”, http://www.luis.it
a.a. 2003-2004, p. 5-6.
47
F. Borgogelli “ Conciliazione e arbitrato: le nuove regole e il regime di inderogabilità dei contratti
collettivi ”, in “ Scritti in memoria di Massimo D’Antona. Diritto sindacale ”, volume 2, parte 2, Milano,
Giuffré, 2004, p. 1733.
52
rappresenta una garanzia per il lavoratore, dall’altro favorisce la risoluzione
della stessa controversia. La conciliazione sindacale evita il ricorso agli
organi dello Stato, ma non per questo la si può ravvisare come uno strumento
limitativo della volontà del soggetto di scegliere a quale organo rivolgersi per
risolvere la lite, dato che si tratta di un’attività che cerca di evitare
l’intervento degli organi giurisdizionali. L’associazione sindacale, attraverso
quest’istituto svolge la sua attività di amministrazione del contratto, sia
nell’ipotesi in cui occorra compiere un’interpretazione delle norme collettive,
sia che occorra risolvere una controversia mediante una conciliazione.
Normalmente i contratti collettivi prevedono un duplice grado di
composizione stragiudiziale delle controversie di lavoro. In una prima fase
aziendale si trovano a dover colloquiare soggetti che sono tutti uniti tra di loro
dal rapporto di lavoro con il datore di lavoro e lo stesso datore di lavoro. In
una seconda fase i soggetti sono posti al di fuori dell’impresa, sono
indipendenti dalla controparte, sono cioè solo i rappresentanti sindacali. Vi
sono altri tipi di contratti collettivi che prevedono l’istituzione di commissioni
paritetiche formate da membri nominati dalle contrapposte organizzazioni
sindacali e presiedute da un soggetto imparziale eletto da queste ultime in
caso di disaccordo dal Presidente del Tribunale. La stabilità di queste
commissioni tende a portare a termine il tentativo di conciliazione in un solo
incontro. La contrattazione collettiva ha un forte interesse nel rendere sempre
più efficienti gli strumenti diretti all’autocomposizione delle controversie dei
lavoratori, dato che è proprio dall’autorità delle associazioni sindacali che può
discendere un esito finale positivo della conciliazione. La presenza del
sindacato accanto ai singoli litiganti, dimostra una volontà dell’associazione
di voler partecipare al procedimento conciliativo ponendo particolare
attenzione all’interesse del soggetto. Il legislatore, nel disciplinare il
panorama conciliativo nelle controversie lavorative, ha strutturato la
conciliazione sindacale in base alla situazione di inferiorità del prestatore di
53
lavoro, individuato in sede contrattuale come il contraente debole.
Nell’ambito del lavoro pubblico, l’amministrazione, datrice di lavoro, ha
maggiore forza contrattuale ed è in grado di raggirare il lavoratore
garantendoli poco di più dei diritti e doveri essenziali. La clausola di
conciliazione presente nei contratti collettivi ha lo scopo di tentare una
amichevole composizione della lite, evitando un giudizio di fronte alla
magistratura e permettendo al sindacato di esplicare un intervento immediato,
inoltre, prevede un implicito obbligo ad una tregua sindacale con il dovere di
pace fino alla fine del tentativo di conciliazione. Riguardo l’inciso
“
conciliazione sindacale ” previsto nell’art. 411 c.p.c., la dottrina maggioritaria
la considera quella che si svolge con l’osservanza delle disposizioni impartite
dai contratti collettivi, con conseguente possibilità di ottenere un verbale
conclusivo avente forma di titolo esecutivo non impugnabile ai sensi dell’art
2113 c.c. . Contro questo orientamento parte della dottrina ha sottolineato che
ci si trova lo stesso di fronte ad una vera e propria conciliazione sindacale se
il tentativo sia compiuto con l’assistenza dei rappresentanti sindacali,
indipendentemente dall’assistenza o meno di una normativa contrattuale.
Questo orientamento è rimasto però minoritario e quindi privo di applicazione
pratica48. La conciliazione sindacale permette il coinvolgimento di entrambe
le parti nella risoluzione della lite, con la conseguenza che il verbale
sottoscritto rappresenta la vera volontà di entrambe le parti, riuscendo a
superare le tradizionali posizioni antagoniste. Nella conciliazione in sede
amministrativa, la proposta dell’organo predisposto volta a suggerire
un’ipotesi è idonea a far scattare il meccanismo dell’esonero della
responsabilità per il rappresentante dell’amministrazione, mentre in sede
sindacale ciò non avviene. La volontà del legislatore è quella di sottrarre la
conciliazione sindacale dagli effetti voluti dall’art. 66, 8° comma, d.lgs.
48
G. Alvino “ Il ruolo del sindacato nell’attività di conciliazione: uno strumento di amministrazione del
CCNL ”, in “ La testimonianza del giurista nell’impresa ”, a cura di C. Cordaus, R. Romei, G. Sapelli,
Cacucci, Bari, 2001, p. 202 ss.
54
165/2001, evidentemente in quanto l’organismo conciliativo previsto dalla
contrattazione collettiva non viene reputato idoneo a formulare una proposta
sufficientemente equilibrata. Un altro elemento di disparità tra le due
tipologie di conciliazione riguarda l’esecutività del verbale di conciliazione. Il
legislatore ha riservato al solo verbale di conciliazione in sede amministrativa
l’effetto dell’automatica esecutività, in ambito sindacale l’esecutività del
processo verbale è sottoposta all’iter procedimentale previsto dall’art. 411,
ultimo comma, c.p.c.. Nella prassi tali difformità e problematiche inducono a
privilegiare la conciliazione in sede amministrativa rispetto a quella
sindacale49.
2.3.1 Accordi interconfederali in materia di conciliazione.
A distanza di qualche anno dall’introduzione del tentativo obbligatorio di
conciliazione, i sindacati stipularono il C.C.N.Q. su arbitrato e conciliazione
del 23 gennaio 2001 nel quale il tentativo di conciliazione è configurato come
una fase interna al procedimento di arbitrato. Il menzionato accordo prevede
che, qualora le parti decidano di fare ricorso all’arbitro, quest’ultimo viene
incaricato di espletare il tentativo di conciliazione, che sostituisce e produce i
medesimi effetti previsti dall’art. 66 d.lgs. 165/2001. La legge individua il
tentativo di conciliazione come un presupposto indispensabile per la proposta
della domanda di arbitrato, ma consente all’autonomia sindacale di regolare il
tentativo secondo modalità diverse rispetto a quelle poste dalla legge.
L’accordo accorpando in un unico organo due funzioni tra loro
complementari, quali quella della conciliazione e dell’arbitrato, prevede che
49
R. Voza “ Le peculiarità del tentativo obbligatorio di conciliazione nel lavoro pubblico ”, in
“ La deflazione del contenzioso del lavoro. Il caso delle pubbliche amministrazioni ” a cura di M. G.
Garofalo, R. Voza, Cacucci, Bari, 2007, p. 98-100.
55
per proporre una domanda di arbitrato non è necessario il previo esperimento
della
conciliazione, inoltre, il tentativo svolto in corso di arbitrato è
equiparato a quello effettuato davanti agli organi appositamente istituiti in
sede sindacale o amministrativa. Il procedimento conciliativo si apre con il
deposito presso la sede dell’arbitro della documentazione contenente
l’esposizione dei fatti, delle ragioni poste a fondamento della pretesa, della
memoria difensiva con la quale l’amministrazione prende posizione sui fatti
affermati dal prestatore di lavoro. Il proponente deve depositare tali atti nel
termine di dieci giorni, mentre l’altra parte deve depositarli entro venti giorni
a partire dalla data in cui l’arbitro ha accettato la designazione.
La comparizione dinnanzi al conciliatore deve avvenire entro trenta giorni
dalla data in cui il soggetto preposto ha accettato la designazione e il tentativo
dovrà esaurirsi entro dieci giorni dalla data di comparizione ( art. 4, 3°
comma, CCNQ Aran/OO.SS. 23/01/2001 ). Se al termine del procedimento
conciliativo le parti sono state in grado di raggiungere una soluzione
concordata e negoziata della controversia, si redige processo verbale ai sensi
dall’art. 411 c.p.c. e l’atto viene trasmesso alla camera arbitrale stabile, a cura
dell’arbitro ( art. 4, 5° comma ). Se la conciliazione non riesce, l’arbitro,
sempre in funzione di conciliatore, formula una proposta che, ove accettata,
produrrà per il rappresentante della pubblica amministrazione l’effetto di
esonero di responsabilità amministrativa ( art. 4, 6° comma ). Se la proposta
non viene accettata, l’arbitro fissa la prima udienza per la trattazione
contenziosa ( art. 4, 7° comma )50. Un problema di non poca importanza è
ravvisabile nel fatto in cui nei contratti di comparto relativi al quadriennio
normativo 2002/2005, non compare alcuna disposizione in materia, salvo un
generico rinvio alla disciplina del contratto quadro. Fa eccezione il comparto
della scuola che ha regolato il tentativo nell’Accordo di disciplina
50
Il testo di entrambi gli accordi sono reperibile su : http://www.aranagenzia.it
56
sperimentale di conciliazione e arbitrato stipulato il 18/12/2001. L’organo
competente è istituito presso le articolazioni territoriali del Ministero
dell’istruzione, non è istituito ad hoc, ma è un organo stabile
dell’organizzazione scolastica decentrata. Tale ufficio
viene investito di
compiti di segreteria per le parti che devono svolgere il tentativo di
conciliazione ( art. 1, 2° comma, accordo 18 ottobre 2001 ). Riguardo la
modalità di presentazione della domanda, l’accordo segue le previsioni
dell’art. 66 d.lgs. 165/2001. Sono da notare alcune diversità: in primo luogo è
stato ridotto a quindici giorni il termine entro cui l’amministrazione deve
prendere visione delle pretese del lavoratore e o accoglierle o, in caso
contrario, formulare le proprie osservazioni scritte depositandole presso
l’ufficio di segreteria, è esplicitamente previsto che il lavoratore possa
prendere visione. La comparizione delle parti per l’esperimento del tentativo
di conciliazione è fissata dall’ufficio entro dieci giorni dal deposito delle
osservazioni dell’amministrazione ( art. 1, 5° comma ). Se il tentativo riesce
viene redatto apposito verbale sottoscritto dalle parti, che costituisce titolo
esecutivo , previo decreto del giudice del lavoro. In caso di mancato accordo,
anche dietro un’attiva partecipazione dell’ufficio, quest’ultimo stilerà il
verbale di mancata conciliazione e, una volta sottoscritto dalle parti, verrà
depositato presso la competente Direzione provinciale del lavoro ( art. 1,
8° comma ). L’inerzia dell’amministrazione nel depositare le proprie
osservazioni e l’assenza in sede conciliativa non paralizza l’iter del
procedimento, in quanto, nel primo caso l’ufficio potrà convocare ugualmente
le parti e, nel secondo caso potrà stilare un verbale motivando la mancata
conciliazione ( art. 1, 9° comma ). L’ultimo comma dell’art. 1 dispone
l’esenzione della responsabilità amministrativa per il rappresentante della
pubblica amministrazione. In questo modo, si pone rimedio alla differenza tra
57
le due modalità di conciliazione che portava a preferire la conciliazione
amministrativa a causa dell’ esonero di responsabilità51.
2.4 Punti deboli del sistema conciliativo nel settore del lavoro pubblico.
Nel rapporto di lavoro pubblico, a differenza di quanto avviene nel settore
privato, c’è la presenza di un elemento rilevante, è l’interesse della pubblica
amministrazione al miglior espletamento della funzione pubblica che,
attraverso quel rapporto di lavoro si realizza. La pubblica amministrazione, in
sede conciliativa, non potrà guardare solo agli aspetti economici e
contrattuali, ma dovrà tener conto dell’interesse pubblico, ecco perché
l’amministrazione preferirà sacrificare l’interesse del singolo per un interesse
pubblico superiore. Uno dei problemi principali, già altre volte analizzato è il
principio di obbligatorietà introdotto dal legislatore. La scarsa organizzazione
degli apparati conciliativi e la poca speditezza nella gestione delle pratiche,
hanno reso la conciliazione obbligatoria una mera formalità che innesca un
meccanismo dilatorio dei tempi del processo che si aggiunge a tanti altri
ritardi nella nostra giustizia. Dall’ingresso della riforma sino ad oggi si è
sviluppata la prassi, da parte della pubblica amministrazione, di non voler
raggiungere l’accordo con una conciliazione totale, ma anche parziale e
questo perché si è ancora oggi legati al classico iter di risolvere una lite
innanzi all’autorità giudiziaria, a costo di assumere tutte le responsabilità
51
http://edscuola.it/archivio
58
assenti in sede conciliativa. È necessario che, alla luce dei principi
costituzionali
di
buon
andamento
ed
imparzialità
della
pubblica
amministrazione, si faccia ampio uso della conciliazione e non solo nelle sedi
indicate dalla normativa vigente, ma non appena si accerti la pretesa del
dipendente52. Si deve cercare di staccarsi dai classici schemi processuali e
percorrere la strada, di certo conveniente dal punto di vista dei costi e dei
benefici, diretta al raggiungimento di soluzioni convenienti. Un ruolo molto
importante, per un raggiungimento di un accordo bonario in fase conciliativa,
lo ricopre il Collegio di conciliazione, chiamato a formulare, nel caso in cui le
parti non riescano a trovare un accordo, una proposta transattiva, ma per poter
svolgere tale ruolo necessita di un organizzazione adeguata al caso.
Così come nel lavoro privato, il tentativo “ obbligatorio ” di conciliazione è
stato evidenziato come un fallimento.
2.4.1
Particolarità della conciliazione nel lavoro pubblico.
Una prima peculiarità della disciplina conciliativa nei rapporti di pubblica
amministrazione traspare nella figura del Collegio di conciliazione, mentre
nel lavoro privato la lite è gestita da una Commissione di conciliazione
(art. 410 c.p.c.). Una prima differenza è che mentre quest’ultima è un
organismo permanente, stabilmente situato presso ciascuna Direzione
provinciale del lavoro, il Collegio di conciliazione, chiamato a risolvere le
controversie nel pubblico impiego, è invece costituito volta per volta, con una
specifica composizione per ogni lite, ciò si evince dal dettato dell’art. 66
d.lgs. 165/2001, il quale prevede che la richiesta di conciliazione deve
52
M. A. Guarnaccia “ Il tentativo obbligatorio di conciliazione nel pubblico impiego ”, in “ Rivista
elettronica di diritto pubblico e di scienza dell’amministrazione a cura del centro di ricerche sulle
amministrazioni pubbliche Vittorio Bachelet ”, a.a. 2003-2004, p. 12-13, in http://www.luis.it
59
contenere la nomina del rappresentante in seno al Collegio di conciliazione.
Sarebbe opportuna una equiparazione di entrambi i soggetti predisposti alla
procedura conciliativa, perché il Collegio, così istituito, rischia di produrre dei
fallimenti conciliativi: la sua costituzione saltuaria non può permettere la
formazione di un bagaglio di esperienze volto a modificare le sue
imperfezioni ed inoltre, i membri del Collegio, essendo direttamente nominati
dalle parti, potrebbero rendere problematico il raggiungimento di un accordo,
dal momento che non sarebbero in grado di rivestire il loro ruolo in un modo
imparziale, staccandosi dalle posizioni delle parti che li hanno nominati.
Questo quadro, poco consono alla procedura conciliativa, metterebbe in crisi
la figura del presidente, unico vero imparziale, il quale dovrà gestire da solo
l’incontro e far forza sulle sue capacità conciliative in modo da formulare una
proposta per la risoluzione della controversia. La pubblica amministrazione,
se entro trenta giorni dalla ricezione dell’istanza di conciliazione non deposita
le proprie osservazioni scritte, potrebbe rendere impossibile l’espletamento
del tentativo di conciliazione e siffatto atteggiamento produrrà sicuramente
l’irreversibile e totale impasse della procedura, visto che la costituzione del
Collegio è un atto necessario per la risoluzione della lite. È ovvio che una
condotta di tale genere comporta a carico dell’ente pubblico inadempiente
rilevanti conseguenze nel corso del successivo processo, ma ciò non toglie
che il fallimento della procedura conciliativa si sia inevitabilmente prodotto.
Questa situazione nella prassi è molto frequente, ma al fine di evitarla,
sarebbe opportuno che la pubblica amministrazione nomini il proprio
rappresentante in seno al collegio, visto che può depositare anche in ritardo le
osservazioni sull’oggetto del contendere. Inoltre, a differenza del settore
privato ove è l’ufficio a convocare il datore di lavoro, qui è il dipendente a
dover comunicare alla pubblica amministrazione di aver promosso il tentativo
di conciliazione. La richiesta deve contenere tutti gli elementi indicati
dall’art. 66 d.lgs. 165/2001, questo dato normativo rappresenta un importante
60
passo in avanti rispetto alla procedura nel lavoro privato. Una domanda così
formulata consente alla controparte pubblica di percepire con sicurezza
l’oggetto della pretesa e le ragioni su cui si fonda, in modo tale che la
pubblica amministrazione sia in grado di predisporre le proprie osservazioni
scritte e di valutare le possibilità di un’offerta da porre al lavoratore, e
consente all’organo predisposto di analizzare gli elementi della lite al fine di,
se necessario, formulare una proposta adeguata al caso concreto. È pur vero
che l’art. 66 prescrive l’esposizione sommaria dei fatti e delle ragioni poste a
fondamento della pretesa, ma poi non sanziona in alcun modo la richiesta di
conciliazione carente di questo requisito. È stato proposto di equiparare,
quanto ai contenuti, la richiesta di conciliazione giudiziale e di obbligare il
convenuto a replicare con proprie osservazioni. Quanto agli effetti che
scaturiscono dall’intervenuta conciliazione, anche parziale, il dato normativo
dispone che il verbale abbia subito efficacia esecutiva, senza alcun bisogno
della verifica di regolarità da parte del tribunale, così come accade per il
verbale delle conciliazioni avvenute per il settore privato. Tale disparità può
essere spiegata solo facendo riferimento a motivi di economia processuale
connessi ai requisiti dell’amministrazione, la quale è obbligata a concludere
delle conciliazione con il rispetto del principio costituzionale di imparzialità e
buon andamento della pubblica amministrazione. Non si comprende la ratio
della rimessione in termini dell’art. 65, il quale prevede che, se il giudice
rileva che non è stato promosso il tentativo o che la domanda giudiziale è
stata proposta prima dello scadere del termine di novanta giorni dalla
promozione del tentativo, sospende il giudizio e fissa il termine perentorio di
sessanta giorni per iniziare il procedimento conciliativo, quanto disposto non
compromette il diritto di difesa del convenuto. Tale diritto di difesa non
pregiudica il mancato esperimento di conciliazione con conseguente
improcedibilità della domanda e sospensione del processo. Non può che
trattarsi di un vero e proprio favor per il convenuto, solitamente il datore di
61
lavoro, nelle liti di lavoro pubblico53. Si ritiene che la proposta avanzata dal
Collegio non sia adeguata allo spirito conciliativo, perché tale circostanza
snaturerebbe la procedura conciliativa stragiudiziale, che è un mezzo
alternativo di risoluzione delle controversie basato sul comune accordo delle
parti, ponendola a metà strada tra il procedimento giudiziario e l’arbitrato.
Infine, si dubita sull’utilità di posticipare il tentativo di conciliazione nel
corso del giudizio perché un semplice differimento temporale dello
svolgimento del tentativo non accrescerebbe la possibilità di una risoluzione
della lite54.
2.4.2 Soggetti e uffici predisposti al tentativo di conciliazione.
In sede di conciliazione nel lavoro pubblico una figura di particolare
importanza è ravvisata nel rappresentante della pubblica amministrazione.
Attorno al dirigente si è creato un circuito di responsabilizzazione in relazione
all’attività svolta, la quale deve essere conforme alle esigenze di garantire
efficienza ed efficacia dell’attività amministrativa, applicabile anche
all’attività di gestione dei rapporti di lavoro. Il potere di rappresentare la
pubblica amministrazione in sede conciliativa viene delegato, in base
all’art. 16, 1° comma, lett. f ), d.lgs. 165/2001, ai dirigenti di seconda fascia,
cioè i vicedirigenti55. Un problema è l’ipotesi in cui il rappresentante
dell’amministrazione concili una lite andando oltre i limiti conferiti dal
53
D. Borghesi “ Il mancato esperimento del tentativo di conciliazione: rilevabilità e conseguenze ”, in
“ Diritto del lavoro: commentario” diretto da F. Carinci, Utet, Torino, 2005, p. 112.
54
M. P. Fuiano “ La conciliazione obbligatoria stragiudiziale tra esigenze di deflazione processuale e dubbi
di legittimità costituzionale ”, in “ La deflazione del contenzioso del lavoro. Il caso delle pubbliche
amministrazioni ”, a cura di M. G. Garofalo e R. Voza, Cacucci, Bari, 2007.
55
G. Iacovone “ La transazione giustiziale delle controversia di lavoro pubblico tra lacune normative e
responsabilità dirigenziale ”, Cacucci, Bari, 2007, p. 117-121.
62
proprio dirigente nell’atto interno di delega. Prima di tutto è ipotizzabile una
responsabilità disciplinare del dipendente, mentre la configurabilità di una
responsabilità amministrativa sarà ravvisata sulla sussistenza o meno degli
elementi dell’illecito. Il verbale che verrà stipulato al termine della
conciliazione può essere considerato inefficace nei confronti del lavoratore,
qualora l’amministrazione, in persona del dirigente, venga a conoscenza
dell’eccesso di delega esercitato dal proprio dipendente. Per quanto riguarda
l’organizzazione degli uffici bisogna apportare delle rilevanti riforme degli
uffici di conciliazione dal punto di vista della loro composizione e del loro
modo di funzionamento. Gli apparati di conciliazione si sono dimostrati sin
da subito inidonei, in ragione della scarsa efficienza organizzativa,
dell’assenza della cultura necessaria e di tempestività nella gestione delle
pratiche contribuendo a rendere il tentativo obbligatorio di conciliazione una
mera formalità con effetti meramente dilatori. Alcuni sostengono che per ad
una conciliazione attiva e dinamica dove l’organo risulti dotato di ampi poteri
propulsivi, si dovrebbero valorizzare gli uffici per la gestione della
conciliazione. Lo stesso art. 12 del d.lgs. 165/2001 pone a carico delle
amministrazioni pubbliche l’obbligo di organizzare la gestione del
contenzioso del lavoro, anche istituendo appositi uffici, in modo da assicurare
l’efficace svolgimento di tutte le attività stragiudiziali e giudiziali inerenti le
controversie, secondo questa impostazione gli uffici dovrebbero svolgere una
funzione consultiva. Il personale destinato a tale incarico deve essere in
possesso di una laurea in giurisprudenza, se non addirittura specializzati in
diritto del lavoro, inoltre deve essere in possesso di necessarie competenze in
materia di conciliazione con il compito di esaminare in prima istanza il
contenzioso relativo alle procedure di conciliazione e consigliare i
comportamenti dell’amministrazione, in modo da evitare errori nella gestione
63
del personale e l’insorgere delle controversie56. In questo modo la pubblica
amministrazione si doterebbe di tutti gli strumenti necessari per gestire nel
modo più efficiente il contenzioso, visto che, nella situazione attuale, il
Collegio non è posto nelle condizioni materiali di poter formulare una
proposta per la risoluzione della lite. L’amministrazione spesso si dimostra
contraria al raggiungimento di un accordo conciliativo, e non si comprende il
perché non dovrebbe essere sanzionato il suo comportamento, in particolar
modo quando ci si imbatte in controversie che non necessitano di istruttoria
giudiziaria
e
che
vedrebbero
con
ogni
probabilità
soccombere
l’amministrazione quando si arrivi a sentenza. In questi casi il rifiuto
dell’amministrazione a conciliare dovrebbe configurare una responsabilità
amministrativa, perché solo attraverso la predisposizione della sanzione la
norma viene osservata57.
3
La conciliazione monocratica.
Nel 2004, il legislatore, con lo scopo di realizzare un raccordo efficace tra
funzione conciliativa e funzione ispettiva al fine di contribuire alla deflazione
del contenzioso, emanò il 23 aprile 2004 il d.lgs. n. 124. Il testo normativo è
stato redatto per porre fine alla prassi che si era ormai consolidata: gran parte
delle richieste di intervento presentate all’ispettore nella Direzione
provinciale del lavoro non venivano effettuate. A ciò contribuivano diversi
56
V. Tenore “ Gli uffici per il contenzioso e la loro organizzazione ” in “ Le nuove controversie sul pubblico
impiego privatizzato e gli uffici del contenzioso dopo il testo unico sul pubblico impiego ” di G. Noviello, P.
Sordi, E. A. Apicella, V. Tenore, Giuffrè, Milano, 2001, p. 227 ss.
57
R. Santochirico “ Lavoro pubblico e procedimento conciliativo: gli esiti di una ricerca empirica ”, in “ La
deflazione del contenzioso del lavoro. Il caso delle pubbliche amministrazioni ” a cura di M. G. Garofalo, R.
Voza, Cacucci, Bari, 2007, p. 153-156.
64
fattori, quali l’alto numero delle richieste, la necessità di privilegiare,
nell’ottica della prevenzione e della lotta al lavoro irregolare, le visite in
settori ad alto rischio di evasione e di pericolosità
( es. edilizia, pubblici
servizi, autotrasporti, ecc. ), la carenza di organico di personale addetto alla
vigilanza. Tramite
l’art. 11 del d.lgs. 124/2003 si è data attuazione al
principio contenuto nella legge delega n. 30/2003, in questo modo si è
cercato, per la prima volta, di realizzare un stretta relazione tra le due attività
principali dell’organo periferico del Ministero del lavoro e delle politiche
sociali. Un funzionario della Direzione provinciale del lavoro ha il compito di
tentare una soluzione conciliativa in una controversia fra lavoratore e datore
di lavoro.
La conciliazione monocratica è svolta da un
conciliatore unico, tale figura era presente prima del 1973, ma la legge n. 533
dello stesso anno la eliminò introducendo il tentativo avanti ad una
Commissione ad hoc. Sul grado di tutela della conciliazione monocratica si è
molto discusso a lungo, fino ad una sentenza della Corte di Cassazione n.
17785 del 12 dicembre 2002, la quale ha reso questo strumento idoneo a
sottrarre il lavoratore a quella condizione di soggezione rispetto al datore di
lavoro, solo se questo organismo partecipi attivamente alla composizione dei
contrapposti interessi delle parti e riconosca, in una transazione già delineata
dalle parti, l’espressione di una sana volontà dei soggetti interessati58.
Nell’art. 11 vi sono due diverse tipologie di conciliazione monocratica. La
prima è la conciliazione preventiva ( art 11, 1°-5° comma ), può essere
attivata dalla Direzione provinciale del lavoro quando, su segnalazione del
lavoratore, ritiene emergano elementi per una soluzione conciliativa della
controversia. La seconde è la conciliazione contestuale ( art. 11, 6° comma ),
avviata nel corso della verifica, quando l’ispettore ritenga che vi siano i
presupposti per un tentativo di conciliazione fra lavoratore e datore di lavoro.
58
A. Casotti, M. R. Gheido “ Le strategie difensive del datore di lavoro d.lgs. 124/2004. Dalla diffida
accertativi alla conciliazione monocratica ”, Giuffrè, Milano, 2005, p. 25-27.
65
Una terza fattispecie è regolata dall’art. 12 che, in tema di diffida accertativi
per crediti retributivi del lavoratore, il datore di lavoro può promuovere il
tentativo di conciliazione presso la Direzione provinciale del lavoro.
3.1 Il procedimento della conciliazione monocratica.
L’art. 11, 1° comma, del d.lgs. 124/2004, prevede l’applicazione della
procedura conciliativa monocratica ai soli diverbi in cui è semplice
individuare degli elementi per una soluzione mediatica della controversia, la
scelta finale di iniziare la procedura viene lasciata al dirigente della Direzione
provinciale del lavoro che può avviare il tentativo sulle questioni che sono
state segnalate. Non necessariamente la richiesta deve prevenire da un
lavoratore subordinato, ma anche da lavoratori autonomi. Oggetto della
conciliazione possono essere solo diritti patrimoniali del lavoratore, e può
sorgere sia da disposizioni normative, sia da previsioni contrattuali. Nel caso
di rapporti certificati non è possibile procedere mediante conciliazione
monocratica, perché in questo caso bisogna rivolgersi obbligatoriamente alla
commissione di certificazione per espletare il tentativo di conciliazione ai
sensi dell’art. 410 c.p.c. 59.
59
Ministero del lavoro, circolare del 24 giugno 2004, n. 24.
66
3.1.1
La conciliazione monocratica preventiva.
Il tentativo di conciliazione monocratica preventiva può essere avviato dalla
Direzione provinciale del lavoro quando la richiesta proviene sia
da un
lavoratore sia da più lavoratori, in tal caso saranno attivati più tentativi di
conciliazione per quanti sono i lavoratori interessati. Nel caso in cui alcune
conciliazione non terminano con esito positivo, si dovrà precedere con
l’accertamento ispettivo. A differenza di quanto avviene nel tentativo
obbligatorio di conciliazione, di cui l’art. 410 e seguenti del c.p.c., spetterà al
dirigente decidere se avviare o meno il procedimento, fermo restando che la
conciliazione non potrà essere avviata quando vi siano evidenti e chiari indizi
di violazione penalmente rilevanti. Ricevuta la richiesta e accertato che il
tentativo può essere esperito, il dirigente provvede alla convocazione delle
parti tramite l’invio di una raccomandata. Il conciliatore monocratico deve
essere o un funzionario in possesso di un’adeguata e specifica professionalità
maturata in tale ambito o un dipendente con qualifica ispettiva in quanto
idoneo a gestire la conciliazione in vista di un possibile seguito ispettivo.
Spetta al dirigente l’individuazione del personale destinato a svolgere tale
nuovo compito, ma bisogna ricordare che gli ispettori servono soprattutto per
l’attività esterna e che i conciliatori devono essere in possesso di particolari
capacità professionali finalizzate a far giungere fra le parti un accordo
complessivo. Sarà competente territorialmente l’ufficio che risiede nel luogo
in cui si è svolto il rapporto di lavoro e dove gli organi di vigilanza possono
intervenire per il recupero contributivo. Le parti possono farsi assistere, nel
giorno e nell’ora fissata nella convocazione, da rappresentanti di
organizzazioni sindacali o da un professionista
( consulenti del lavoro,
avvocati, dottori commercialisti, ragionieri e periti commerciali ), i quali
siano in possesso di specifico mandato, oppure possono farsi sostituire da
67
persone alle quali sia conferita delega a conciliare. Se una parte o entrambe
non si presentano o non motivano l’assenza, il tentativo di conciliazione si
intende fallito e riprende la normale procedura ispettiva. Se le parti
raggiungono un accordo, viene redatto un verbale che, sottoscritto dal
funzionario incaricato, acquista piena efficacia. In base all’art. 11, 3° comma,
trova applicazione l’ultimo comma dell’art. 2113 c.c. , quindi il verbale può
definirsi inoppugnabile, così come viene previsto per le conciliazioni in sede
giudiziale, avanti la Commissione provinciale di conciliazione e in sede
sindacale. Ciò lo si ricava dal fatto che il comma 3 dell’art 11 dichiara
espressamente che non trovano applicazione i commi 1, 2 e 3 dell’art. 2113
c.c. . Dopo la sottoscrizione dell’accordo, il pagamento delle somme
concordate in sede conciliativa, assieme al versamento dei contributi
previdenziale e assicurativi in relazione al periodo lavorativo concordato dalle
parti, estingue il procedimento ispettivo. Con la firma dell’atto, quindi, non è
più possibile perseguire altri comportamenti scorretti del datore di lavoro
riferibili a quel rapporto, gli organi di vigilanza non potranno più proseguire
né iniziare accertamenti ispettivi per i medesimi fatti e per le identiche
circostanze. Le violazioni amministrative riguardanti l’irregolare occupazione
del lavoratore conciliate non sono neppure in un momento successivo
rilevabili, contestabili o sanzionabili60. La D.P.L. è tenuta a trasmettere tutta la
documentazione riguardante l’accordo agli Enti previdenziali, sui quali
incombe l’obbligo di sorvegliare sui versamenti avvenuti (art. 11, 4° comma).
La disposizione tace riguardo al momento in cui debba essere effettuato il
versamento, ma si pensa che debba avvenire nella prima scadenza prevista.
Se il tentativo di conciliazione si conclude con esito negativo, la Direzione
provinciale del lavoro prosegue la sua attività ispettiva ( art. 11, 5° comma ).
L’esito negativo qui prodotto, non equivale all’esperimento del tentativo
obbligatorio di conciliazione previsto nel lavoro privato ex art. 410 c.p.c. , il
60
“ Diritto e pratica del lavoro ”, n. 6, Ipsoa, Torino, febbraio 2006.
68
quale è una condizione di procedibilità della domanda. La norma non pone
alcun termine specifico per giungere ad un accordo transattivo, per tanto il
conciliatore monocratico della Direzione provinciale del lavoro non deve
necessariamente giungere ad una soluzione positiva o negativa entro un
termine predeterminato61.
3.1.2
La conciliazione monocratica contestuale.
L’ultimo comma dell’art 11 traccia la disciplina della conciliazione
contestuale alla visita ispettiva. Nel corso di un’attività di vigilanza, il
personale ispettivo, se ritiene che esistano tutti i presupposti per una soluzione
conciliativa può, ottenendo il consenso delle parti, effettuare un tentativo di
conciliazione su questioni sorte durante il controllo. Ciò lo si desume
dall’inciso “ acquisito il consenso delle parti interessate ” (art. 11, 6° comma),
per tanto, il volontà concorde del datore di lavoro è consequenziale alla previa
conoscenza del nominativo del lavoratore proponente,
il consenso va
acquisito per iscritto. La procedura può attivarsi anche in questo caso solo su
questioni riguardanti i diritti patrimoniali dei lavoratori. Per attivare la
procedura l’ispettore dovrà dare comunicazione alla Direzione provinciale del
lavoro, la relazione si ritiene che debba essere il più possibile precisa e
puntuale, in modo da mettere a fuoco le situazioni e gli elementi in base ai
quali si ritiene fattibile l’accordo conciliativo. Da qui in poi si seguirà l’iter
della conciliazione preventiva, l’unica particolarità è data dal fatto che la
pratica conciliativa verrà assegnata preferibilmente al medesimo funzionario
che ha proceduto all’ispezione, anche se nella realtà ciò non è sempre
61
C. L. Monticelli e M. Tiraboschi “ La riforma dei servizi ispettivi in materia di lavoro e previdenza.
Commento al decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124 ”, Giuffrè, Milano, 2004, p. 194 ss.
69
possibile62. La conciliazione contestuale non può essere avviata oltre
l’emanazione di un qualsiasi provvedimento amministrativo sanzionatorio e,
nel caso di richiesta non ammessa di conciliazione monocratica preventiva,
il personale ispettivo, una volta iniziato il controllo, non potrà procedere alla
conciliazione contestuale63.
3.1.3 La diffida accertativi.
Une terza fattispecie, seppure con caratteristiche diverse, si rinviene
nell’art. 12 intitolato “ Diffida accertativa per crediti patrimoniali ”.
Il personale ispettivo ha il compito di vigilare, oltre che sull’applicazione di
tutte le leggi in materia di tutela dei rapporti di lavoro, anche sulla corretta
osservanza dei contratti e accordi collettivi di lavoro. L’art. 12 prevede che,
qualora l’ispettore prenda atto della presenza di crediti retributivi a favore del
lavoratore, può diffidare il datore a corrispondere il dovuto al prestatore di
lavoro. La competenza per la diffida è riconosciuta solo al personale ispettivo
della Direzione del lavoro, l’ispettore procede a diffidare il datore solo
quando ha acquisito elementi obiettivi, certi e idonei a determinare il calcolo
delle spettanze patrimoniali del lavoratore. Il datore di lavoro che riceve la
diffida accertativa può, nel termine perentorio di trenta giorni dalla notifica,
promuovere il tentativo di conciliazione presso la Direzione provinciale del
lavoro. Dal silenzio della norma, il Ministero del lavoro ha dedotto che debba
essere attivato il procedimento conciliativo monocratico ( art. 11 del d.lgs.
124/2004 ) e non quello disciplinato dall’art. 410 c.p.c.. Diversamente da
quanto previsto nell’ipotesi della conciliazione monocratica, tale procedura
non incide sullo svolgimento del procedimento ispettivo. Se la conciliazione
62
C. L. Monticelli, M. Tiraboschi “ La riforma dei servizi ispettivi in materia di lavoro e e previdenza
sociale. Commento al decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124 ”, Giuffrè, Milano, 2004, p. 203-204.
63
Ministero del lavoro, circolare 24 giugno 2004, n. 24.
70
termina con esito positivo, il verbale produrrà solo la perdita di efficacia della
diffida accertativa e la non impugnabilità delle rinunce e transazioni, ma il
procedimento ispettivo proseguirà per gli altri aspetti procedurali ed il credito
vantato dal lavoratore sarà pari alla somma concordata in sede conciliativa64.
Un altro elemento che differenzia la conciliazione dell’art. 12 riguarda gli
effetti dell’accordo, nella conciliazione monocratica, ex art. 11, il verbale
produce i suoi effetti con il pagamento del dovuto, mentre in questo caso
l’accordo inizia a produrre i suoi effetti dal momento della sottoscrizione.
Se la conciliazione termina con esito negativo o il datore di lavoro non
promuove il tentativo, la diffida accertativa acquista valore di accertamento
tecnico, con efficacia di titolo esecutivo tramite un provvedimento del
direttore della Direzione provinciale del lavoro. Il lavoratore, in questo caso,
può agire sulla base del titolo esecutivo per soddisfare i propri crediti
retributivi65. Ci troviamo così di fronte a tre tipologie di conciliazione
monocratica: una attivata su segnalazione del lavoratore, una su iniziativa
dell’ispettore nel corso dell’attività di vigilanza e una su iniziativa del datore
di lavoro.
3.2 Limiti della conciliazione monocratica.
Un primo punto particolarmente discutibile riguarda gli effetti dell’accordo
raggiunto in sede di conciliazione monocratica, dal quale possono sorgere
forti dubbi di legittimità costituzionale con riguardo ai limiti dell’esercizio del
potere legislativo delegato e al principio dell’indisponibilità dei contributi.
In primo luogo, il Governo, nel dare attuazione alla delega, non si è limitato
64
Ministero del lavoro, circolare 24 giugno 2004, n. 24.
65
A. Casotti, M. R. Gheido “ Le strategie difensive del datore di lavoro d.lgs. 124/2004. Dalla diffida
accertativa alla conciliazione monocratica. ”, Giuffrè, Milano, 2005, p. 43 ss.
71
solo a predisporre un mero collegamento procedurale tra la funzione ispettiva
e quella di conciliazione delle controversie, ma ha introdotto il principio di
inoppugnabilità in base all’ultimo comma dell’art. 2113 c.c. per la
conciliazione monocratica. In secondo luogo, il pagamento delle somme
concordate dalle parti e dei relativi contributi preclude l’accertamento
ispettivo della Direzione provinciale del lavoro. L’accordo intercorrente tra le
parti viene sottoposto alla supervisione di un terzo, l’Ente previdenziale, che,
in sostanza, vigila sull’obbligo contributivo. Tale sistema rischia di entrare in
collisione con il principio dell’indisponibilità dei contributi, in base al quale
dovrebbe essere esclusa la validità di una transazione tra le parti in ordine alla
contribuzione obbligatoria dovuta all’Inps o ad altro Ente previdenziale.
L’art. 11 del d.lgs. non indica il termine entro cui effettuare il versamento dei
contributi dovuti a seguito dell’intervenuta conciliazione. La lacuna in
questione è abbastanza grave, dato che il rispetto del termine è destinato a
produrre effetti sulla durata del procedimento ispettivo, la cui estinzione si
produce con il pagamento dei contributi. In considerazione di ciò, sarebbe
opportuno ritenere che tale termine non sia necessariamente lungo.
Con riguardo al periodo per il versamento delle somme concordate, non deve
essere lasciato un ampio margine di discrezionalità nella determinazione del
termine entro cui adempiere le obbligazioni derivanti dall’accordo
conciliativo. Sull’argomento si sono pronunciate due circolari, una dell’Inps
del 17 2004 dicembre n. 132, e una del Ministero del lavoro del 24 giugno
2004 n. 24, le quali dispongono che l’indicazione del termine sul verbale
solleva forti dubbi di compatibilità con la legge, perché la determinazione del
momento in cui sorge l’obbligo contributivo deve sorgere ex lege, non certo
dal potere discrezionale di un soggetto terzo, peraltro estraneo al rapporto
contributivo. Secondo una costante giurisprudenza della Corte di Cassazione,
l’obbligazione contributiva non può essere lasciata nelle mani della volontà
negoziale. Nella conciliazione monocratica le parti possono modificare il
72
momento in cui è sorto il rapporto di lavoro e, così facendo, l’obbligazione
contributiva non sorgerà più dalla legge, ma dal contratto e ciò in violazione
dei principi generali posti a fondamento dell’ordinamento previdenziale66.
Un secondo punto è dato dal fatto che il legislatore non è stato in grado di
creare un ottimo raccordo tra le funzioni di ispezione e di conciliazione con lo
scopo di deflazionare il contenzioso, lo si deduce quando si pensa che
l’esperimento di conciliazione monocratica con esito negativo non equivale al
tentativo obbligatorio ai sensi dell’art. 410 c.p.c.. Le parti che non
raggiungono un accordo in sede di conciliazione monocratica, sono costrette,
per ricorrere in giudizio, a ripetere il medesimo tentativo davanti ad una
Commissione di conciliazione ai sensi dell’art. 410 del codice di procedura
civile. In merito all’individuazione dei casi che possono essere portati in sede
di conciliazione, la Circolare del Ministero del lavoro non risolve tutti i dubbi
delimitando le questioni conciliabili alle sole ipotesi che appartengono ai
diritti patrimoniali dei lavoratori sia di origine contrattuale, sia di origine
legale. Presupposto per l’avvio del tentativo di conciliazione è l’esistenza di
elementi
per una soluzione conciliativa della controversia, pertanto,
parrebbero esclusi dall’ambito di operatività, tutte le questioni relative alla
qualifica del rapporto di lavoro, perché non rientrano nella libera disponibilità
delle parti. In merito all’effettiva volontà delle parti di conciliare sarebbe
opportuno prevedere una corretta informazione circa le implicazioni delle
diverse modalità di intervento, ispettivo o conciliativo. Le organizzazioni
sindacali hanno sin da subito alzato delle critiche riguardo la conciliazione
monocratica. Sostengono che il processo di conciliazione deve essere
espletato all’interno delle Commissioni già esistenti, che a tale scopo
andrebbero rafforzate, o all’interno delle commissioni previste dai ccnl;
non ammettono che venga portata avanti una conciliazione, magari conclusa
66
A. Guadagnino “ Gli effetti della conciliazione monocratica sul rapporto contributivo ”, 2005,
http://www.cnsd.it , p. 4.
73
anche con un verbale positivo, senza la presenza delle parti sociali 67.
Sul piano della gestione delle risorse, il personale ispettivo che svolge anche
la funzione di conciliatore, deve essere formato al riguardo e deve maturare la
specifica professionalità richiesta ad una funzione basata sulla valutazione
degli interessi espressi e soprattutto inespressi, l’apprendimento del
linguaggio delle parti sociali, la capacità di ascoltare il lavoratore e il datore e
di comprendere a fondo le rispettive richieste. Sarà indispensabile un raccordo
tra conciliazione e ispezione perché, in questa struttura, il medesimo
funzionario si troverà a rivestire nei confronti delle medesime parti
interessate, in un primo momento il ruolo di ispettore, e successivamente,
il ruolo di mediatore. Tale commistione di ruoli e l’alternativa tra fase
conciliativa e fase accertativa potrebbe pregiudicare la conciliazione, che deve
svolgersi tra le parti senza timore di incidere sull’eventuale e successiva
attività di vigilanza68. Per quanto riguarda l’istituto della diffida accertativa,
il decreto prevede che il datore di lavoro e il lavoratore possano stilare un
verbale di conciliazione il cui contenuto sarà probabilmente in contrasto con il
contenuto della diffida e che, oltre ad avere efficacia definitiva tra le parti,
priva di efficacia l’atto di diffida emesso in sede ispettiva. L’accordo delle
parti inciderà sull’ammontare del debito contributivo dell’azienda in
violazione del principio costituzionale di indisponibilità dei contributi,
eludendo gli obiettivi di tutela che dovrebbero essere la ratio del nuovo
istituto69.
67
http://www.rassegna.it
68
“ Diritto e pratica del lavoro ” , inserto n. 42/2004, Ipsoa, Torino, p. X ss.
69
“ Diritto e pratica del lavoro ” , n. 6, febbraio 2006, Ipsoa, Torino.
74
CAPITOLO 3
Effetti e futuro della conciliazione nel diritto del lavoro.
1. Analisi della Direzione Provinciale del lavoro.
Dal momento dell’entrata in vigore della nuova disciplina si è reso sempre
più difficile, nel settore del diritto del lavoro, individuare l’istanze introdotte
per l’esistenza di una reale volontà conciliativa e istanze introdotte
esclusivamente per ottemperare al comando legislativo. Se è vero che
introdurre come condizione di procedibilità della domanda l’esperimento di
un tentativo di conciliazione non viola le disposizioni costituzionali sul diritto
di azione, è dunque vero che tale scelta si è rivelata abbastanza inopportuna in
grado di falsare il vero spirito conciliativo. I Decreti Legislativi n. 80/1998 e
n. 387/1998, hanno attribuiti alla Direzione provinciale del lavoro delle nuove
competenza che l’ha portata a dover affrontare numerosi problemi in
conseguenza dell’eccezionale incremento delle vertenze individuali e plurime.
Di seguito sono allegate delle tavole che sintetizzano lo stato dell’attività
75
conciliativa svolta dalla Direzione provinciale del lavoro, le quali consentono
di
misurare
gli
effetti
prodotti
dagli
interventi
normativi.
Il numero delle vertenze instaurate nel 2004 è stato complessivamente
495.919, di cui 319.815 nel settore privato.
(1)
76
77
Dalla tabella n. 1 si può notare la differenza tra il 1997 e il 1998, anni in cui il
legislatore è intervenuto sulla struttura della conciliazione portandola ad
essere obbligatoria. Nel 1997 le domande pervenute furono 71.867, quelle
conciliate furono poco più della metà ( 38.986 ), quelle non trattate furono
una buona fetta e le vertenze non conciliate un esiguo numero.
Nel 1998 chiaramente le richieste di conciliazione furono, a seguito
dell’introduzione dell’obbligatorietà, 192.863 per il settore privato e 3.555 per
il settore pubblico, nella tabella si nota subito che furono molto di più quelle
non trattate ( 59.269 lavoro privato, 1.471 lavoro pubblico ), che quelle
conciliate. Da questa prima analisi si può trarre un dato importante :
le conciliazione terminate positivamente nel 1997 sono maggiori di quelle del
1998 perché sono state instaurate da soggetti effettivamente predisposti e
volenterosi di risolvere la lite pacificamente.
78
(2)
79
La tavola n. 2 analizza l’impatto che ha avuto l’istituto della conciliazione
nelle varie regioni italiane. Circa la distribuzione territoriale i dati disponibili
per il settore privato consentono di affermare che il fenomeno si concentra
soprattutto in quelle regioni in cui sono presenti grossi agglomerati urbani
( 86,37 % delle vertenze instaurate è localizzato nel Lazio, Lombardia,
Campania, Piemonte, Puglia, Sicilia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana );
inoltre il 24,40 % delle vertenze è localizzato nel Lazio. Anche per il settore
pubblico ( tabella n. 3 ) i tentativi di conciliazione sono fortemente
concentrati in Campania, Lazio, Puglia e Sicilia con oltre il 68,23 % delle
controversie instaurate.
(3)
80
81
Controversie individuali e plurime di lavoro nel settore privato.
La controversia instaurata nel settore privato costituisce l’unità di rilevazione,
con la differenza che la vertenza individuale è attivata dal singolo lavoratore e
la plurima avviene per iniziativa di due o più lavoratori. Lo studio sulle
controversie nel settore privato si basa sulle vertenze con oggetto la mancata
applicazione delle norme contrattuali e l’impugnazione al licenziamento.
(4)
82
(5)
Le controversie trattate, cioè conciliate e non conciliate, ammontano a
128.755 pari al 22,23 % del totale delle vertenze ( 578.976 ), mentre le
vertenze non trattate, che riguardano le conciliazioni con assenza di una delle
parti, abbandonate, in mancanza del numero legale dei membri di
commissione, conciliazioni demandate ad altri organi, sono 260.708 e
rappresentano il 45,02% del totale delle vertenze. In particolare la causa
primaria della mancata trattazione è l’assenza di una delle parti, anche se si
registra
un
notevole
incremento
delle
conciliazioni
abbandonate.
Dai grafici sopra riportati è subito visibile l’alto numero delle conciliazione
non trattate rispetto a quelle trattate. Nel corso del 2004 si conferma la
sensibile incidenza delle conciliazioni nell’industria ( 40,01 % ), ciò perché
83
spesso le imprese, in particolar modo le grosse attività industriali, tendono a
concludere qualsiasi controversia in sede conciliativa, per il motivo in cui
questa procedura permette loro di non rendere noti i problemi legali sorti
all’interno dell’impresa al fine di non compromettere il loro nome e il loro
prestigio. Le controversie instaurate in opposizione dei licenziamenti
individuali, ai sensi della legge n. 108/1990 costituiscono circa il 12,05 %
delle vertenze instaurate nel 2004 con maggiore frequenza per le aziende con
un numero da sei a quindici dipendenti. Le controversie conciliate sono state
9.127 pari al 52,7 % di quelle trattate, contro il 60,18 % del complesso.
La prevalenza delle conciliazioni è avvenuta con un risarcimento che ha
comportato un onere per le aziende di circa 48 milioni di Euro.
La riassunzione ha riguardato, invece, l’ 11,7 % delle controversie conciliate.
(6)
84
Controversi individuali di lavoro nel settore pubblico.
Con riferimento al settore pubblico, nel corso del 2004 la Direzione
provinciale del lavoro è stata coinvolta nella soluzione di numerosi problemi
legati alle caratteristiche del procedimento amministrativo che ha portato il
sorgere di 176.104 nuove istanze, cui si devono aggiungere altre 66.664
controversie in corso all’inizio dell’anno. I comparti maggiormente interessati
sono stati i Ministeri, gli Enti Locali, Enti Pubblici Non Economici e la Sanità
con una percentuale complessiva del 95,39 % la cui incidenza risulta di oltre
due punti superiore rispetto a quella registrata nel 2003.
85
(7)
(8)
86
Nel settore pubblico le controversie trattate ammontano a 35,734 pari al
14,71 % del totale ( 242.768 ), mentre le vertenze non trattate ( 94.439 )
rappresentano il 38,90 % del totale delle vertenze. In particolare la difficoltà
nella costituzione dei collegi di conciliazione risulta la causa più frequente
della mancata trattazione, anche se con una lieve diminuzione rispetto
all’anno precedente ( 79,47 % contro l’ 81,46 del 2003 ). Appare importante
rilevare che mentre nel settore privato le vertenze conciliate costituiscono
oltre il 60 % di quelle trattate, nel settore pubblico la percentuale supera il
14 % , con una flessione rispetto all’anno precedente.
87
Controversie collettive di lavoro.
Le controversie collettive instaurate presso la Direzione provinciale del lavoro
nel corso dell’anno 2004 sono state 2063, con un aumento superiore al 10 %
rispetto all’anno 2003. Secondo quanto riportato dalla tabella B, su un totale
di 2.174 vertenze, di cui 111 esistenti all’inizio dell’anno, quelle definite, cioè
conciliate, non conciliate e abbandonate, sono state 1.984 ed hanno riguardato
74752 lavoratori, mentre le conciliate sono state 822, interessando 54.628
lavoratori.
(9)
88
70
I dati appena riportati dimostrano subito l’inefficienza della conciliazione
obbligatoria e nonostante il giudizio negativo che si evince, il legislatore,
negli
70
interventi
successivi,
ha
mantenuto
sempre
la
linea
guida
Relazione Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Direzione Generale della Tutela delle Condizioni
di Lavoro, Divisione IV “ Attività conciliativa svolta dalla Direzione del Lavoro nel corso dell’anno 2004 ”,
http://www.lavoro.gov.it
89
dell’obbligatorietà, imponendo un data comportamento alle parti in lite con
una serie di interventi paternalistici.
2. I tentativi di riforma al tentativo di conciliazione.
L’espandersi della litigiosità non può trovare come unica causa quella della
grande facilità di accesso al giudice e della scarsa valorizzazione dell’istituto
della conciliazione, ma è sicuro indice di un malessere sorto dallo scorretto
funzionamento dell’attività amministrativa e da una copiosa produzione
legislativa. I tempi del processo si sono dilatati provocando dei grossi
problemi, tra i quali le severe censure mosse all’Italia dalla Corte europea dei
diritti dell’uomo per l’eccessiva durata dei processi. Problemi che investono
sia la parte che chiede tutela dei propri diritti, sia il datore di lavoro. Riguardo
al primo la tutela richiesta giungerà solo dopo lungo tempo e quando il
rapporto di lavoro avrà subito mutamenti, a fronte dei quali la sentenza, per
quanto favorevole, diventa inutile; riguardo al datore di lavoro, a fronte di una
decisione del giudice sfavorevole, dovrà sopportare un costo ingente che un
processo terminato in tempi normali avrebbe evitato71. Dopo gli ultimi
interventi normativi sulla conciliazione nelle controversie fra datore e
lavoratore, di particolare importanza è stato il Progetto Foglia del 2001,
i disegni di legge nn. 1047 e 1163 del 2006 presentati in Senato dalla
maggioranza e, rispettivamente, dall’opposizione e, da ultimo, il testo
deliberato l’8 maggio 2007 da una commissione ministeriale istituita con
D.M. 28 novembre 2006 e presieduta dal magistrato Raffaele Foglia.
71
M. Fezzi “ La proposta di riforma del processo del lavoro ”, 2006, http://www.di-elle.it
90
2.1.
Il Progetto Foglia ( Ottobre 2001 ).
Nell’ottobre del 2001 venne istituita la Commissione per lo studio e la
revisione della normativa processuale del lavoro presieduta dal Consigliere
della Corte Suprema di Cassazione – sezione lavoro – Raffaele Foglia.
La Commissione ha
preso in considerazione, oltre ad altri spetti da
revisionare nel processo del lavoro, gli istituti della conciliazione e
dell’arbitrato, quali diretti strumenti di deflazione del carico giudiziario.
I punti critici rilevati in sede di lavori sono stati in primo luogo il problema
delle Commissioni di conciliazione costituite presso le Direzioni provinciali
di lavoro le quali, specialmente in grandi centri, sono soffocate da un enorme
numero di pratiche, visto che tutto si risolve in una passiva decorrenza del
termine che apre la via per il ricorso al giudice. Nel settore pubblico, anche se
il tentativo di conciliazione appare meglio strutturato, permane il deficit di
potere decisionale dei rappresentanti della parte datoriale, nonostante
l’esenzione da responsabilità amministrativa in caso di adesione alla proposta
conciliativa. L’insuccesso del procedimento conciliativo è imputabile alla
scarsa impegnatività dello strumento, dell’assoluta assenza di incentivi
positivi e negativi anche per le parti in lite. Il Progetto Foglia, nel rimodellare
i sistemi stragiudiziali di risoluzione della lite, prevede che se le parti si
incontrano quando gia sono assistite dai propri difensori, quando i termini di
fatto e di diritto della controversia sono stati fissati nei rispettivi atti difensivi,
e quando incombe la prospettiva di una sentenza, la conciliazione diventa più
conveniente per tutti. Lo scopo potrebbe essere realizzato riservando al
giudice il compito di gestire il tentativo di conciliazione, così come era
previsto nella riforma del processo del lavoro operata nel 1973. Il problema
che si verificò in quegli anni però fu di degradazione della conciliazione ad un
mero passaggio sbrigativo e inconcludente, ecco perché il Progetto ha
91
sviluppato l’idea di realizzare un meccanismo che miri a fare della fase
conciliativa una fase precontenziosa, a giudizio formalmente già iniziato.
In base a tale prospettiva, la procedura conciliativa viene come segue
disegnata. Il giudice fissa con decreto, da emanarsi entro 15 giorni dal
deposito del ricorso, la data della conciliazione, che dovrà essere espletata
entro un termine non superiore a sessanta giorni, da tenersi davanti a sé,
oppure davanti ad un conciliatore. Si prevede l’istituzione di un albo dei
conciliatori, tenuto dal Presidente di ciascun tribunale, al quale possono
iscriversi docenti universitari di materie giuslavoristiche, avvocati e
commercialisti specializzati in diritto del lavoro, consulenti del lavoro,
sindacalisti, o funzionari delle Direzioni provinciali del lavoro. L’assenza
ingiustificata del ricorrente o di entrambe le parti all’udienza fissata per la
conciliazione comporta l’estinzione del processo, mentre l’assenza del
convenuto può dar luogo all’emanazione di un’ordinanza provvisoria di
pagamento totale o parziale delle somme domandate. Se la conciliazione non
riesce è prevista la redazione di un verbale con l’indicazione delle soluzioni
della controversia allo stato degli atti. Se viene raggiunta una conciliazione
parziale, il verbale può acquisire efficacia esecutiva con decreto del giudice.
In qualunque fase della conciliazione le parti possono decidere di affidare allo
stesso conciliatore la risoluzione della lite tramite l’arbitrato72.
2.2.
I disegni di legge n. 1047 del 28 settembre 2006 e n. 1163 del 14
novembre 2006.
72
Incontro di studio organizzato con la Corte Suprema di Cassazione – Sezione Lavoro “ Conciliazione e
arbitrato nelle controversie di lavoro individuale ”, intervento di R. Foglia, Bancaria Editrice, Roma, 2002,
p. 77 ss.
92
2.2.1. Il disegno di legge 1047.
Il d.d.l. 1047, denominato “ Riforma del processo del lavoro ”, dispone
diverse modifiche al processo del lavoro, con l’obiettivo di rendere più celere
il rito del lavoro e favorire la soluzione anticipata delle controversie tramite
gli istituti della conciliazione e dell’arbitrato. Il disegno di legge Salvi – Treu
si pone in linea di continuità con i risultati della Commissione Foglia del
2001, si pone nell’ottica di rafforzare la struttura processuale delle
controversie in campo lavoristico. Il capo terzo della proposta di legge tratta
del procedimento di conciliazione. Il meccanismo disegnato conserva
l’obbligatorietà del tentativo giacché esso tende a soddisfare l’interesse
generale sotto un duplice profilo : evitando, da un lato, che l’aumento delle
controversie attribuite al giudice ordinario del lavoro provochino un
sovraccarico dell’apparato giudiziario, ostacolandone il funzionamento;
dall’altro, favorendo la composizione preventiva delle liti e assicurando alle
parti un soddisfacimento più immediato rispetto a quello del processo 73.
Il nuovo tentativo obbligatorio di conciliazione, escluso per le controversie
previdenziali, per i provvedimenti sommari o urgenti e per i rapporti di
pubblico impiego, è esperito o sollecitato dal giudice dopo la proposizione del
processo in giudizio ( art. 13, secondo capoverso ). Se non viene esperito dal
giudice, il tentativo di conciliazione viene affidato ad un conciliatore
designato con decreto tra i soggetti iscritti in un apposito albo, tenuto dal
presidente della sezione lavoro del Tribunale. Il giudice nominerà il
conciliatore solo quando non sarà in grado di fissare la comparizione delle
parti o la trattazione entro il termine di trenta giorni dal deposito.
Questo tentativo deve svolgersi, ove possibile, negli uffici giudiziari. All’albo
possono iscriversi i docenti universitari, gli avvocati giuslavoristi, i funzionari
73
“ La sintesi del disegno di legge n. 1047 comunicato alla Presidenza il 28 settembre 2006 ”, Bollettino
ADAPT n. 62, 6 dicembre 2006, p. 10, http://www.fmb.unimore.it
93
della Direzione provinciale del lavoro e i Consulenti del lavoro. Prima del
giudizio, il tentativo di conciliazione può essere svolto presso le sedi previste
dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente
rappresentative e presso le Direzioni provinciali del lavoro. Il tentativo di
conciliazione promosso prima del giudizio, per rendere procedibile l’azione
giudiziaria, deve essere esperito da un conciliatore su richiesta di entrambe le
parti e deve essere effettuato sulla base di memorie scritte che illustrino le
rispettive ragioni di fatto e di diritto. La risoluzione della lite con la procedura
alternativa al processo si svolge sulla base di memorie che descrivono le
pretese e le posizioni delle rispettive parti. Il conciliatore può ricevere dai
soggetti, dopo il fallimento della procedura conciliativa, il mandato di
risolvere in via arbitrale la controversia nel rispetto delle norme inderogabili
di legge e del contratto collettivo, sulla base dei documenti in suo possesso e
acquisendo altri mezzi istruttori ( art. 16 )74. Qualora il ricorrente o entrambe
le parti non siano presenti al tentativo di conciliazione il processo viene
estinto, mentre se è assente solo la parte convenuta si può dar luogo
all’emanazione di un’ ordinanza provvisoria di pagamento parziale o totale
delle somme domandate ( art. 15 ). Nel caso in cui la conciliazione è
raggiunta, viene redatto un verbale che diviene subito esecutivo tramite
decreto del giudice ( art. 14, quarto capoverso ). Se la conciliazione non viene
raggiunta, il giudice o il conciliatore possono svolgere un ruolo attivo
all’interno della procedura tramite l’esercizio di una serie di poteri a loro
conferiti: la possibilità di fissare nel verbale di mancata conciliazione le
questioni non contestate o le possibili soluzioni prospettate anche se non
accettate dalle parti ( art. 15 ), hanno l’evidente scopo di forzare le parti a
raggiungere la conciliazione o, quanto meno, di rendere più agile il giudizio
successivo. Viene attribuito ampio potere al conciliatore anche nella
74
Audizione informale, Commissioni riunite Giustizia e Lavoro, Previdenza Sociale “ Sui disegni di legge n.
1047 e n. 1163 di riforma del processo del lavoro ”, Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del
Lavoro, 15 marzo 2007, http://www.fmb.unimore.it
94
redazione del verbale di mancata conciliazione, il quale può introdurre tutto
ciò che ritiene utile comunicare al giudice per il proseguo della controversia75.
2.2.2. Il disegno di legge n. 1163.
A pochi mesi di distanza, il 14 novembre 2006 venne presentato un nuovo
disegno di legge, denominato anch’esso “ Riforma del processo del lavoro ”.
Il nuovo disegno di legge n. 1163 presenta modifiche all’attuale sistema del
processo del lavoro tendenti soprattutto a regolare i rapporti di lavoro e
favorire la soluzione delle controversie con procedure alternative a quelle
giudiziarie. Gli artt. 5 e 6 del d.d.l. definiscono un nuovo modello di
conciliazione novellando l’art. 410 c.p.c.. Un passo innovativo è quello di
eliminare l’obbligatorietà del tentativo, inoltre le parti dovranno, in sede
conciliativa, esporre in modo analitico le ragioni poste a fondamento della
domanda e della difesa; il d.d.l. 1163, introducendo gli elementi della
domanda tipici del lavoro pubblico anche per il lavoro privato, vuole prima di
tutto omogeneizzare il tentativo di conciliazione per entrambi i rapporti di
lavoro. Il ritorno del tentativo facoltativo di conciliazione prevede incentivi
per la scelta, libera, dell’ADR; sarà volontà delle parti seguire tale
procedura76. Si ritiene che sulla scorta delle ragioni espresse dalle parti sia
maggiormente ipotizzabile la possibilità di prevenire ad una mediazione, e in
tal caso l’organo conciliativo può utilmente indicare alle parti la via per una
bonaria definizione della lite. In caso di mancato accordo tra le parti, la
commissione formula una proposta per la bonaria definizione della
controversia, la quale, se non accolta, viene riportata nel verbale con
75
M. Crippa “ Note al disegno di legge n. 1047 di modifica del processo del lavoro ”, 15 novembre 2006,
Monza, http://www.personaedanno.it
76
“ La sintesi del disegno di legge n. 1163 comunicato alla Presidenza il 14 novembre 2006 ”, Bollettino
ADAPT n. 62, 6 dicembre 2006, p. 11 ss. , http://www.fmb.unimore.it
95
indicazione delle valutazioni espresse dalle parti. Tali considerazioni verranno
poi prese in considerazione dal giudice ai fini del regolamento delle spese.
Questa circostanza di mancato esperimento non porta niente di nuovo sul
panorama
del
tentativo
di
conciliazione,
considerandolo
come
un
fondamentale incentivo al raggiungimento di un accordo conciliativo.
In qualunque fase del tentativo le parti possono accordarsi per la risoluzione
consensuale della lite, affidando alla commissione di conciliazione il mandato
a risolvere in via arbitrale la controversia , indicando il termine per
l’emanazione del lodo e le norme che la commissione dovrà applicare al
merito, compresa la decisione secondo equità, nel rispetto dei principi
generali del diritto ( art. 7 )77.
L’art. 8 prende in considerazione altre modalità di conciliazione previste
dalla contrattazione collettiva, la così detta conciliazione sindacale.
La procedura viene disciplinata dai contratti collettivi sottoscritti dalle
associazioni sindacali maggiormente
rappresentative. Il tentativo di
conciliazione viene effettuato dietro una richiesta congiunta delle parti
interessate con la presentazione di memorie scritte da entrambi i soggetti che
illustrino le relative posizioni. Una seconda possibile sede di conciliazione è
rappresentata dal collegio di conciliazione e arbitrato composto da un
rappresentante di ciascuna delle parti e un terzo membro, il Presidente,
designato tra i professori universitari di materie giuridiche o tra gli avvocati
patrocinati in Cassazione78. La procedura seguita per la risoluzione della lite
sarà quella dell’arbitrato irrituale. L’art. 5 propone una sostanziale modifica
all’art. 410 c.p.c., cioè ripropone la conciliazione facoltativa. Il meccanismo
del tentativo obbligatorio non è mai stato, fin dalla riforma del 1973, efficace,
perché, anziché alleggerire il carico di lavoro dei magistrati addetti alla
77
M. Biagi, continuato da M. Tiraboschi “ Istituzione di diritto del lavoro ”, Giuffrè, Milano, 2004,
http://www.fmb.unimore.it
78
Commissioni riunite Giustizia e Lavoro, Previdenza Sociale su Riforma del Processo del Lavoro, 15 marzo
2007, p. 7-9, http://www.consulentidellavoro.it
96
trattazione delle controversie di lavoro e offrire strumenti efficaci e veloci alla
risoluzione delle controversie, il meccanismo dell’obbligatorietà di cui
all’art. 410 c.p.c. si è tradotto in una inutile fase precontenziosa, con
conseguente aggravio di tempi. Il disegno di legge n. 1163, traendo spunti
dalle riforme riguardanti il lavoro pubblico, il quale ha ottenuto un
complessivo giudizio favorevole, vuole introdurre un meccanismo che miri ad
anticipare le esposizioni delle ragioni a fondamento della domanda, in modo
da introdurre degli incentivi per le parti in lite e per il ceto tecnico-forense e
rendere più impegnativo lo strumento conciliativo.
2.2.3. Commenti ai disegni di legge nn. 1047 e 1163.
La prima proposta di modifica del tentativo di conciliazione mantiene ferma
l’idea del principio di obbligatorietà, ciò è al quanto criticabile, visto che
numerosi studi e la stessa relazione della Direzione provinciale del lavoro ha
dimostrato il grande fallimento del tentativo di deflazionare il contenzioso.
Il disegno di legge n. 1047 permette di esperire il procedimento mediatico dal
giudice e, solo in ultima battuta, quest’ultimo può chiamare in causa un
conciliatore designato con decreto tra i soggetti iscritti ad un apposito albo,
tenuto dal Presidente del Tribunale sezione lavoro. Così facendo si rende il
tentativo di conciliazione da un lato un noioso passaggio burocratico e,
dall’altro lato, mettere la lite nelle mani di un soggetto certamente non
appropriato, quale il giudice, che è posto nelle condizioni di risolvere la lite,
eludendo l’utilizzo dei classici e propri strumenti giuridico – processuali,
trovandosi nelle condizioni di utilizzare dei mezzi che non gli appartengono
cercando di mettersi nei panni, troppo stretti per lui, del conciliatore. Il nuovo
tentativo di conciliazione appare abbastanza macchinoso, perché vengono
97
creati intralci, nuova burocrazia, impedimenti al normale processo del lavoro,
per non parlare delle maggiori spese, quali i compensi aggiuntivi del
conciliatore. Si tratta di un tentativo di deflazionare il processo del lavoro, già
inutilmente esperito con precedenti interventi legislativi79. Elemento
favorevole consiste nella figura del conciliatore iscritto ad un apposito albo,
ciò è da considerare di particolare importanza perché permette alle parti in lite
di rivolgersi ad un soggetto competente e qualificato professionalmente in
materia conciliativa e in diritto del lavoro, ma il Progetto non prevede il
supporto di risorse umane o strumenti necessari. Il conciliatore, prima del
tentativo, avrà a disposizione l’intero iter argomentativo delle parti. Il disegno
di legge tramuta la conciliazione da una fase esterna al processo ad una vera
fase processuale. Tale struttura, nella pratica può produrre degli ulteriori
aggravi al processo del lavoro, perché la conciliazione viene inserita in un
momento in cui le parti, trovandosi nel pieno di un processo, sono altamente
litigiose e poco inclini ad adottare uno spirito conciliativo80. Il resto della
procedura conciliativa non è cambiata in modo significativo, per tanto tale
sistema non permetterebbe di risolvere il grosso problema dell’integrazione
della procedura conciliativa e di alleggerire il carico di cause pendenti davanti
al giudice del lavoro. Il disegno di legge ridimensiona l’attività di mediazione
e di conciliazione espletata dalle parti sociali, questa modalità di espletamento
del tentativo ha sempre trovato la sua massima espressione nei verbali di
conciliazione redatti in sede sindacale, depositati presso la Direzione
provinciale del lavoro, che ne attesta l’autenticità e ne cura il deposito presso
il tribunale competente ai fini della dichiarazione di esecutività.
Con riferimento al disegno di legge n. 1163 del 14 novembre 2006, modifica
rilevante è l’eliminazione dell’obbligatorietà. Si è voluti ritornare al vecchio
79
Avv. M. Lavizzari “ Commento al ddl n. 1047. Il punto di vista dell’avvocato ”, Bollettino ADAPT n. 62,
6 dicembre 2006, p. 9 ss. , http://www.fmb.unimore.it .
80
F. Dondolato, “ Prime note al testo della Commissione Foglia, sulla revisione della normativa
processuale del lavoro ”, 25 agosto 2007, http://www.personaedanno.it
98
sistema della riforma del processo del lavoro del 1973, con l’intento di far
comprendere il vero spirito conciliativo in modo da raggiungere delle
conciliazioni concluse con la “ vera ” volontà delle parti, realmente
predisposte ad una risoluzione pacifica della lite. Questa proposta cerca di
creare una disciplina conciliativa uguale sia per il lavoro pubblico, sia per il
lavoro privato. Amalgamando entrambe le procedure si è prefissato
l’obiettivo di eliminare i punti deboli a vantaggio degli elementi positivi e di
evitare
eventuali
incomprensioni,
dovute
dalle
differenti
procedure
conciliative, tra gli operatori. L’art. 8, che prospetta ulteriori possibilità di
risoluzione della controversia, prevede la costituzione di collegi composti da
arbitri in alternativa agli organi presenti presso le sedi della commissioni di
certificazione ( art. 82 d.lgs. 276/2003 ), alle commissioni istituite presso le
Direzioni provinciali del lavoro ed a quelle individuate dai contratti collettivi.
Il disegno di legge n. 1163 cerca di incentivare la classica conciliazione
sindacale e di incrementare le forme in tal senso di risoluzione stragiudiziale
della lite 81.
2.3.
Il Progetto Foglia ( Novembre 2006 ).
L’ultimo intervento in materia è rappresentato dal testo deliberato l’ 8 maggio
2007 da una commissione ministeriale istituita con D. M. 28 novembre 2006
e presieduta dal magistrato Raffaele Foglia. Nella premessa della relazione
generale, si dice appunto della crisi del processo del lavoro come uno degli
aspetti più allarmanti della crisi della giustizia civile. Vengono richiamate le
81
Commento al Disegno di legge n. 1163 del 14 novembre 2006, in “ La riforma del processo del lavoro ”,
http://www.fmb.unimore.it
99
diverse situazioni esistenti negli altri paesi dell’Unione europea e le censure
mosse all’Italia dalla Corte Europea dei diritti dell’ uomo per l’eccessiva
durata dei processi, si sottolinea la violazione di quel principio della
ragionevole
durata
del
processo
che
è
stato
costituzionalizzato
dall’art. 111 Cost. . Nel Progetto è stato lasciato il tentativo obbligatorio di
conciliazione, che secondo il d.d.l. 1163/2006 lo si doveva ridimensionare a
facoltativo. Il grande problema dell’obbligatorietà è ormai sempre presente in
qualsiasi intervento venga fatto sulla conciliazione, per tanto, non si potrebbe
seguire sempre una linea guida costante, altrimenti verrebbero meno i
dibattiti, dei quali si sentirebbe la nostalgia. Si è optato per una procedura
uguale sia per il lavoro privato sia per quello pubblico e si è compreso che la
composizione conciliativa necessiti, per dare buoni frutti, di organi
conciliativi motivati e culturalmente ben attrezzati. Il disegno delineato dal
Progetto è destinato ad operare su tutte le controversie di lavoro, ad eccezione
di quelle per cui siano stabiliti procedimenti sommari o d’urgenza e di quelle
previdenziali. Il conciliatore deve essere in grado di comprendere
giuridicamente le singole vicende, deve essere motivato a far bene e avere e
dimostrare un certo grado di autorevolezza. La consapevolezza di ciò, ha
portato il Progetto a prevedere che i conciliatori devono essere scelti tra quelli
compresi in un albo cui hanno accesso solo soggetti esperti in materie
lavoristiche. La conciliazione viene ravvisata come una fase precontenziosa
endogiudiziale, perché si innesca in un momento in cui il giudice, ricevuto il
ricorso, fissa per la comparizione delle parti avanti a sé, entro sessanta giorni,
l’udienza per condurre il tentativo obbligatorio di conciliazione, che con
decreto può affidare ad un conciliatore esterno nominato tra quelli iscritti
all’albo. Il decreto di fissazione dell’udienza, insieme al ricorso, deve essere
notificato e il convenuto deve costituirsi almeno dieci giorni prima della data
fissata per il tentativo di conciliazione, entro lo stesso termine va depositata la
memoria
costitutiva.
Viene
prevista
l’estinzione
del
processo
per
100
ingiustificata assenza del ricorrente o di entrambe le parti a tale udienza e la
possibilità di emissione di ordinanza di pagamento delle somme richieste.
Il giudice o il conciliatore devono rivestire un ruolo attivo nella fase
conciliativa, la quale deve svolgersi in un' unica seduta, che può essere
rinviata una sola volta entro un termine non superiore a trenta giorni dalla
data iniziale. La disciplina si completa con regole tese a disciplinare lo
svolgimento della seduta ed il ruolo del conciliatore, in caso di avvenuta
conciliazione il verbale diviene subito esecutivo, in caso contrario si procede
davanti al giudice in fase contenziosa. Nel caso in cui il tentativo sia svolto da
conciliatore appositamente nominato, il verbale di mancata conciliazione
viene trasmesso entro cinque giorni al giudice, che fissa con decreto l’udienza
avanti a sé entro i quindici giorni successivi, attribuendo a una o ad entrambe
le parti il pagamento dovuto al conciliatore. Se la parte vittoriosa ha
irragionevolmente rifiutato una proposta mediatica, il giudice può porre a suo
carico le spese82. Due elementi procedurali della soluzione prospettata
possono generare gravi inconvenienti : il primo è che si prevede la
competenza ab initio dell’impegno e dell’intervento dei difensori delle parti.
La presenza dell’avvocato di parte produce, inevitabilmente per l’assistito,
il pagamento di un costo aggiuntivo per il lavoro effettuato dal difensore, ciò
abbatte uno dei tanti vantaggi della conciliazione che è appunto definita una
procedura poco dispendiosa per la parte in lite, proprio perché può presentarsi
in sede mediatica senza l’assistenza di un difensore; per tanto, tale figura che
affianca la parte in causa, ha un peso tale che fa diminuire il tasso di
probabilità della riuscita del tentativo, per il motivo in cui è ancorato ad una
mentalità tutt’ altro che incline allo spirito conciliativo. Il secondo
inconveniente
è
che
anche
in
caso
di
affidamento
all’esterno
dell’espletamento del tentativo, l’ufficio giudiziario è comunque impegnato in
ricezione di atti, registrazioni e adempimenti vari che vanno avanti e indietro.
82
M. Fezzi “ Le proposte di riforma del processo del lavoro ”, http://www.di-elle.it
101
Il giudice, investito sin dall’inizio del procedimento conciliativo, se deve
evitare di far diventare il tentativo un semplice orpello burocratico, deve
impegnare del tempo sull’atto introduttivo della lite per decidere se trattare o
meno il procedimento precontenziosa.
L’attuale meccanismo appare in un certo senso preferibile, anche se andrebbe
perfezionato con alcuni interventi. Una prima modifica, indicata nel Progetto,
dovrebbe essere apportata sul punto della duplicità dei meccanismi,
tra controversie alle dipendenze di privati e di pubbliche amministrazioni,
cercando di favorire il modello del lavoro pubblico, il quale appare più
completo rispetto al settore privato. Un secondo intervento, di fondamentale
importanza, è di investire sulla formazione dei conciliatori, dai quali dipende
in buona parte la riuscita del tentativo, per tanto, il mediatore ben formato
deve essere in possesso di autorità perché riuscirebbe a dare maggiore
spessore alla procedura conciliativa83.
CONCLUSIONI
All’esito di quanto fin ora illustrato risulta evidente che l’idea di conciliazione
ripugna al concetto di coazione, nel senso che essa nasce dal comune interesse
dei litiganti a porre fine a una contesa e che l’imposizione dell’obbligo di
raggiungere un accordo rappresenta una contraddizione nei termini.
Le conciliazione non aumentano se si impone l’incontro tra le parti, ma solo
se si verificano le condizioni favorevoli per raggiungere un’intesa.
83
L. De Angelis “ Rilievi critici al Progetto Foglia di riforma del processo del lavoro ”, Centro Studi di
Diritto del Lavoro Europeo Massimo D’Antona, p. 14 ss. , http://www.lex.unicz.it
102
In entrambi i settori lavorativi, la scarsa efficienza organizzativa degli
apparati di conciliazione e la poca speditezza nella gestione delle pratiche
hanno reso la conciliazione obbligatoria una mera formalità che innesca, di
fatto, un meccanismo dilatorio del processo che si aggiunge ai tanti ritardi
della nostra giustizia. Per quanto riguarda il settore del lavoro privato è
evidente lo scetticismo delle parti verso l’efficacia di tale strumento
mediatico, ciò dato dalla causa della fattuale impossibilità che i sessanta
giorni di tempo dalla richiesta di conciliazione prima che la domanda diventi
improcedibile, siano sufficienti a raggiungere l’accordo
84
. Nel settore del
lavoro privato, si rileva da parte della pubbliche amministrazioni un tenace
rifiuto a raggiungere l’accordo con una conciliazione totale o anche parziale,
la classe dirigenziale preferisce non assumere le necessarie responsabilità, ma
demanda la composizione della lite alla autorità giudiziaria. Le organizzazioni
sindacali devono svolgere un ruolo attivo in sede conciliativa in modo da
superare le tradizionali posizioni contrastanti lavoratore – datore di lavoro e
creare un buon punto di partenza per il raggiungimento di un accordo teso ad
abbattere le rigide posizioni85.
La conciliazione e più in generale i mezzi alternativi di risoluzione delle
controversie non devono essere considerati un ripiego a fronte di una
situazione drammatica a livello giurisdizionale, non devono essere neppure
considerati uno strumento deflativo. Soltanto dopo aver risanato lo stato della
giustizia e create le condizioni minime affinché le parti possono avere
interesse a risolvere una controversia al di fuori del giudizio, vanno potenziate
le procedure conciliative. Per fare dei passi in avanti in materia di
conciliazione bisogna ritornare al passato e abbandonare la pretesa di
84
R Tiscini
“ Il tentativo obbligatorio di conciliazione ”, in “ Processo del lavoro e rapporto alle
dipendenze delle amministrazioni pubbliche. Il d.lgs. 80/98 ”, a cura di Perrone e Sassani, Cedam, Padova,
1999, p. 49 ss.
85
G. Alvino “ Il ruolo del sindacato nell’attività di conciliazione : uno strumento di amministrazione del
CCNL ”, in “ La testimonianza del giurista nell’impresa ”, a cura di C. Cordaus, R. Romei, G. Sapelli,
Cacucci, Bari, 2001, p. 222.
103
obbligare le parti a tentare di conciliare, come d’altronde prevede il disegno di
legge n. 1163/2006. Il conciliatore, ormai declassificato allo svolgimento di
un’attività notarile, deve essere reso protagonista da parte del legislatore,
il quale deve restituire alla conciliazione e ai suoi operatori gli elementi
caratterizzanti che hanno reso quest’istituto importante sia perché mantiene
aperto il dialogo tra le parti in lite, sia perché permette di instaurare dei
rapporti pacifici smantellando le cause della litigiosità.
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