Logica e Matematica E’ impossibile dire quanto sia antica nell’essere umano l’intuizione originale del legame causa / effetto, la comprensione che il dopo posssa dipendere in qualche modo da quello che e’ venuto prima. E’ possibile però dire che questa è una delle proprietà fondamentali di quella che noi chiamiamo intelligenza, e la gestione del concetto piu’ generale di legame logico è probabilmente alla base del ragionamento umano. Implicitamente, dunque, la comparsa della logica risale agli albori della nostra stessa esistenza. Col tempo, quello che era uno strumento utilizzato per lo piu’ inconsapevolmente da parte di tutti ha cominciato a divenire oggetto centrale di studio, alla ricerca dei meccanismi ad esso sottostanti. A partire dai matematici e filosofi dell’antica Grecia, il ragionamento umano, in particolare quello matematico, è stato oggetto di una graduale formalizzazione; si è man mano indagato sull’esistenza di leggi che governano lo snodarsi dei nostri pensieri deduttivi, e si è tentato col tempo di fornire una definizione rigorosa delle regole del pensiero umano, estrapolandone il funzionamento fondamentale. Da questa ricerca è nata e si è evoluta la logica matematica, il cui scopo originale è quello di ragionare sul ragionamento, di investigare il concetto di conseguenza logica e di isolare dunque i legami logici ben formati da quelli “fasulli”. Dalla nascita delle “teorie assiomatiche” di Euclide, ai sillogismi di Aristotele, alle regole logiche degli Scolastici, si è così arrivati fino al boom dei formalismi logici di inizio Secolo scorso. La logica matematica moderna nasce proprio in quegli anni, sotto la spinta di una delle questioni scientifiche fondamentali dell’epoca, vale a dire la dimostrazione della consistenza della matematica. La geometria, prodotto dello spirito squisitamente teoretico dei Greci, aveva garantito per oltre due millenni il fondamento di tutto l’edificio delle matematiche. Le altre “branche” della matematica, debitrici del loro sviluppo a esigenze prevalentemente pratiche, devolvevano volentieri alla geometria l’ònere di dimostrare la razionalità dei metodi. Ed è proprio nella prima meta’ dell’800 che, mentre l’edificio della geometria euclidea va scricchiolando, nelle altre branche della matematica si va esprimendo un’esigenza di maggior rigore concettuale. Quello che si tentava di fare, cosa che fu proposta in modo “ufficiale” da piu’ parti e forse, espressa con maggiore rigore, da parte di un matematico del calibro di Hilbert nel suo famoso “secondo problema”, era di definire un sistema formale nell’ambito del quale non solo tutta la matematica trovasse posto, e che fosse anche in grado di dimostrare la propria coerenza, costituendo così un mondo chiuso, auto-contenuto, esente da “contraddizioni”. Oggi sappiamo che il sogno di Hilbert non e’ realizzabile; Godel, con il suo celeberrimo teorema di incompletezza, ne franse i sogni di gloria. Egli stabilì infatti che la chiusura dei sistemi formali e’ i impossibile: per giustificare tutto ciò che sta dentro, si ha sempre bisogno di qualcosa che sta fuori. Ma torneremo a discorrere di questo argomento piu’ avanti. Cerchiamo, per quel che è lecito, di fare maggiore chiarezza riguardo l’intera faccenda. Tra la fine dell’ 800 e gli inizi del ‘900, attività diverse convergono a portare in primo piano il problema dei fondamenti. Le basi della matematica sono vigorosamente scosse dalla scoperta di contraddizioni, dette eufemisticamente paradossi o antinomie, soprattutto nella teoria degli insiemi. Uno di questi paradossi fu enunciato da Kurt Grelling e si riferiva agli idiomi autoreferenti. Es. “la parola polisillabica” è polisillabica; la parola “monosillabica”, non è pero’, monosillabica. Un altro noto paradosso è espresso in forma popolare da Bertrand Russell nel 1918, noto come “paradosso del barbiere”. Un barbiere di villaggio, vantandosi di non avere concorrenza, si fa pubblicità affermando che rade “solo e soltanto coloro che non si radono da sé”. Un giorno gli capita di chiedersi se dovrebbe radere sé stesso, scoprendo così di trovarsi in un bell’impiccio logico. D’altra parte Cantor gia’ rilevava in una lettera a Dedekind nel 1899 che non si poteva più parlare d’insieme di tutti gli insiemi senza cadere in contraddizioni di tal fattura. In effetti, questo è ciò che è chiamato in causa nel paradosso di Russell. La classe di tutti gli uomini non è un uomo. Tuttavia, la classe di tutte le idee è un’idea, così come la classe di tutte le biblioteche è una biblioteca. Pertanto, alcune classi non sono membri di sé stesse, altre sì. La causa di tali paradossi, come sottolineato da Russell e Whitehead, è che un oggetto è definito in termini di una classe di oggetti che contiene l’oggetto stesso. Non sorprende, adunque, che il primo “espediente” cui ricorsero i matematici sia stato l’assiomatizzazione della teoria degli insiemi, formulata da Cantor piuttosto liberamente, tanto da essere definita da alcuni, teoria “ingenua” degli Insiemi. Nel 1895, Cantor portò il seguente adagio del concetto insieme: “Un insieme è una collezione di oggetti distinti dalla nostra intuizione o dal nostro pensiero.” La definizione si rivelò ben presto “insufficiente” e Cantor stesso non era inconsapevole del fatto che il suo concetto di insieme creava problemi. Zermelo in quegli anni cercò di formalizzare le idee di Cantor ma non vi riuscì completamente. Von Neumann, successivamente, operò una distinzione fra classi ed insiemi. Le classi sono raggruppamenti così grandi da non poter essere contenute in altre classi, mentre gli insiemi sono classi più ristrette, e possono essere membri di una classe. Come lo stesso von Neumann evidenziava, non era ammettendo le classi che si giungeva a contraddizioni, ma trascurandole come membri di altre classi. La teoria formale avanzata da Zermelo e poi modificata da von Neumann e altri, è adeguata allo sviluppo della teoria degli insiemi ed evita i paradossi, almeno al giorno d’oggi nessuno è riuscito a provare l’inconsistenza di tale sistema. E, ovviamente, poiché siamo nel campo della Logica, la coerenza della teoria suddetta non è stata ancora dimostrata, ossia ancora non si è riusciti a dimostrare che gli assiomi posti a fondamenta di tale teoria non possano condurre a contraddizioni. ii A proposito della questione, ancora tutt’oggi aperta, della coerenza, Poincaré osservò: “Abbiamo posto un recinto intorno al gregge per proteggerlo dai lupi, ma non sappiamo se ci fossero già dei lupi all’interno del gregge stesso.” Le correnti che maggiormente emersero da questo turbinìo furono tre: logicisti, intuizionisti e la “scuola” formalista. La tesi logicista è già delineata nei Fondamenti dell’aritmetica (1884) e nei Principi dell’aritmetica (1893-1903) del tedesco Gottlob Frege. Nell’intraprendere il suo programma, Frege sgombra il campo dalle concezioni che pretendono di ricondurre la scienza dei numeri a fatti di natura empirica o intuitiva, e ne tenta una fondazione rigorosamente logica: riedificare la logica, e su di essa costruire l’intero impianto matematico. Il numero e’ per Frege struttualmente legato all’estensione dei concetti, quindi diremmo alle classi; ma se vogliamo garantire una fondazione logica, dobbiamo poterlo enunciare da concetti scevri da ogni riferimento empirico. Pertanto Frege definisce, in primo luogo, lo zero come il numero appartenente al concetto “diverso da sé stesso”, di estensione nulla; definisce quindi il numero uno come quello appartenente a quel concetto che ha sotto di sé solo lo zero e così via.. Erano di inciampo, pero’, talune antinomie, che affioravano con insistenza in relazione al problema dell’estensione dei concetti o delle classi, punto cruciale tanto nella teoria di Cantor che in quella di Frege. E’ a tali antinomie, come gia’ accennato, che si fa risalire la crisi dei fondamenti, che si chiudera’ come vedremo nel 1931 con il teorema di Goedel. Si arriva così a dire, che esistono classi che non contengono sé stesse come elementi, e sono definite classi normali. E ci sono poi le classi, che contengono sé stesse; così la classe dei concetti astratti contiene sé stessa e sono chiamate classi non_normali. Ora, la classe delle classi normali si rivela antinomica; infatti, se è normale, deve contenere sé stessa e quindi è non normale; se è invece non normale, non deve contenere sé stessa e quindi è normale. Si tratta di una classe palesemente inconsistente. Per ovviare alle antinomie, Russell introdusse, la teoria dei tipi. Semplificandone i contenuti, possiamo dire, che in base ad essa, le classi, per essere consistenti, devono costituirsi di elementi omogenei, appartenenti cioè ad un medesimo livello logico. Al livello 0 si collocano pertanto gli individui; al livello 1 le classi costituite di individui; al livello 2 le classi di classi di individui ... e via dicendo. Ma tale espediente crea nella struttura alcuni vuoti, colmabili soltanto facendo ricorso a strumenti non riducibili a princìpi puramente logici. Gli intuizionisti percorsero un iter radicalmente differente e la scoperta dei paradossi rese quel terreno ancora più fertile di quanto già non era. Il primo vero intuizionista, fu Kronecker. Egli pensò che il lavoro di Cantor sui numeri transfiniti e la teoria degli insiemi non era matematica, ma misticismo. Kronecker era disposto ad accettare i numeri interi perché “sono chiari all’intuizione”. Aggiunse poi che “questi sono opera di Dio, tutto il resto è opera dell’uomo e perciò è sospetto.” Egli desiderava spazzar via la teoria dei numeri irrazionali e delle funzioni continue; il suo ideale era, che ogni teoria dovesse essere interpretata in termini di numeri naturali. Le definizioni, dovrebbero contenere i mezzi per calcolare gli oggetti definiti, in un numero finito di passi, e le dimostrazioni di esistenza dovrebbero permettere il calcolo fino ad ogni grado di precisione dalle grandezze di cui si sta mostrandone l’esistenza. iii Fu poi un matematico olandese, Jan Brouwer, a sistematizzare questo pensiero, ponendo l’intuizione a fondamento del numero e della matematica tutta. Secondo Brouwer infatti, gli enti matematici sussistono solo in quanto possiamo costruirli mediante un numero finito di operazioni a partire da questa originaria facoltà. Il linguaggio, cui volge l’attenzione il formalismo, e la logica, cui ricorre il logicismo, anziché costituire un fondamento, sono costruzioni successive rispetto alla matematica interiore e vengono elaborati sull’ordinamento di ciò che è stato precedentemente costruito con l’intuizione. E’ ovvio che linguaggio e logica, quando pretendano di assumere una funzione fondazionale, estendendo il loro dominio ad entità che di fatto non sono costruite, conducano ad antinomie. Il campo in cui si dimenava il logicismo e le obiezioni ad esso rivolte dagli intuizionisti, diedero spazio allo sviluppo del formalismo hilbertiano. La matematica, per Hilbert, non puo’ essere interamente risolta nella logica: lo dimostrano le antinomie, emerse nel tentativo logicista. Pertanto, essa dovra’ essere trattata contemporaneamente alla matematica. La proposta di Hilbert e’ quella di dunque di considerare l’infinito, male di tutti i mali, un oggetto linguistico da manipolare secondo certe regole, di carattere algebrico e logico.Strumenti erano quindi sì gli oggetti algebrici ma anche espressioni linguistiche complesse che coinvolgevano i quantificatori, i connettivi logici (negazione, congiunzione, disgiunzione..) che compongono il calcolo logico, nodo centrale della dissertazione Hilbertiana. E’ coerente quindi, non attribuire a questi simboli significato alcuno e dichiarare che anche le formule del calcolo logico sono elementi ideali che, di per sé, non hanno alcun significato. Ma non e’ sufficiente, tuttavia, ridurre la matematica a linguaggio: era necessario formalizzare la logica che permetteva la manipolazione di tale linguaggio. Una particolare teoria era vista, come un insieme finito di espressioni linguistiche da aggiungere ad un insieme fissato di espressioni il tutto da manipolare tramite determinate regole (regole di inferenza) in modo da produrre altre espressioni (teoremi). In tal modo, qualunque teoria diviene oggetto finito e passabile, dunque, di essere esaminato nella sua interezza. In questo linguaggio formalizzato, si colgono agevolmente i tratti fondamentali che devono possedere gli assiomi: coerenza (o consistenza) e completezza, per i quali giova fornire una definizione. Un sistema di assiomi si dice coerente, quando, applicando le regole consentite di trasformazione, non sia possibile ottenere da esso una formula e la sua negazione; si dice completo, quando, per qualunque formula correttamente costruita, sia possibile sempre determinare la sua riducibilità o la sua irriducibilità agli assiomi, quando cioè in esso non si diano formule indecidibili. Hilbert dunque, dimostrando la coerenza di semplici sistemi formali, si credette di essere sul punto di raggiungere la meta: dimostrare la coerenza della matematica e della teoria degli insiemi. Ma poi entro’ in scena Goedel il quale dimostro’ che la coerenza della teoria dei numeri non puo’ essere stabilita dalla ristretta logica permessa dalla matematica. Questo risultato è un corollario del suo stupefacente teorema di incompletezza. Secondo il primo teorema infatti, se T è una teoria consistente “contenente la teoria dei numeri interi” allora esiste una formula λ indecidibile in T, cioè λ non può essere nè provata nè confutata da T. Quindi possiamo dedurne, che esiste una asserzione dell’aritmetica che pur essendo vera non puo’ essere dimostrata; in altre parole T non è abbastanza potente da permettere di provare tutte le proposizioni vere dell’aritmetica. iv Con il secondo teorema, Goedel finisce di demolire l’impianto formalista: per provare la consistenza di T, dobbiamo necessariamente utilizzare strumenti più potenti di T stesso. Tale teorema mostra che non è possibile, come sperava invece Hilbert, provare la consistenza di teorie che coinvolgono l’infinito attuale tramite metodi finitisti. Ora come ora, sappiamo che il teorema di Goedel indica l’esistenza di verita’ indecidibili. Quindi tante cose in matematica sono vere, però poi non si riescono a dimostrare, con i mezzi propri della matematica. E come ricorda Giorello, noto filosofo contemporaneo, l’autoriferimento “è una esperienza che facciamo molto spesso: studiamo il cosmo, ma siamo una parte di questo cosmo che studiamo; studiamo i viventi, ma siamo noi stessi esseri viventi; ci assumiamo l’onere di studiare l’intelligenza e siamo noi stessi soggetti intelligenti. L’autoriferimento attraversa non poche imprese umane e si impara a far i conti con esso dai tempi di Epimenide, il cretese, il quale affermò: “Tutti i Cretesi mentono”. Il problema che ci riferiamo necessariamente a noi stessi, mentre cerchiamo di proiettarci sul mondo. Forse, veramente la sfida più ardua è il “conosci te stesso” dell’oracolo di Delfi. Nonostante l’Odissea traversata dai matematici e dallo stesso impianto matematico all’ inizio del XX secolo, l’esplorazione dei sistemi deduttivi logici che è stata compiuta costituisce, ancor oggi, la base di tutti i risultati importanti della Logica Matematica contemporanea, non ultimi tra i quali quelli riguardanti l’Intelligenza Artificiale. v