Introduzione a Landsberg

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SAGGIO INTRODUTTIVO
SOMMARIO – 1 Biografia filosofica. Filosofia biografica – 2 La famiglia
Landsberg. L’adolescenza e la formazione della personalità – 3 Un inizio
folgorante. L’eterno e il tempo. Il medioevo come archetipo – 4 Gli anni
del dottorato a Colonia (1923-1924) – 5 Elementi caratterizzanti la fase
giovanile del pensiero di Landsberg – 6 La crisi – 7 La vocazione di
Pascal, ovvero la persona come vocazione – 8 L’insegnamento universitario a Bonn (1928-1933) – 9 Verso una filosofia antropologica
– 10 L’antropologia filosofica – 11 Landsberg e la “Scuola di
Francoforte” – 12 L’esperienza spagnola – 13 La presenza assente –
14 Persona e “engagement”: gli anni di “Esprit” – 15 Di fronte alla
guerra. Mito, verità e azione politica – 16 L’ultima tentazione.
1 Biografia filosofica. Filosofia biografica
Molto spesso, studiando la filosofia, ci si dimentica dei soggetti materiali di questa espressione dello spirito umano: le concrete e storiche esistenze, le miserie e le grandezze, i dolori e le
speranze degli uomini reali che chiamiamo filosofi. Come se
idee, dottrine, sistemi, metodi, intuizioni avessero un’esistenza e
una storia autonoma e indipendente, ipostatizzata. Ciò in parte è
vero, se si considera l’influsso che possono determinare anche
oltre l’esistenza biologica e storica dei singoli pensatori. Platone
è biologicamente morto da oltre 2300 anni, eppure nessuno può
negare che molto del suo pensiero, del suo linguaggio, della sua
concezione dell’uomo e del mondo sia ancora vivo e operante, e
continui a informare l’attuale modo di pensare e parlare comune
e filosofico, anche prescindendo dal giudizio di valore che se ne
può dare. Nella filosofia moderna i rappresentanti del razionalismo post-cartesiano, ma anche l’empirismo che si è fondato a
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MARCO BUCARELLI
partire da un’esplicita affermazione della volontà di riduzione
dell’esperienza, hanno quasi sempre tralasciato di studiare nel
loro essere sé stessi i filosofi appartenenti ad epoche anteriori o
a loro contemporanei. Normalmente hanno sostenuto o avversato delle dottrine, dei modi di vedere. Raramente si è posto a tema
del confronto il filosofo, o per meglio dire l’esistenza e la personalità filosofica che tali dottrine o tali Weltanschauungen hanno
prodotto ed espresso. Anche in epoche a noi più recenti le varie
correnti filosofiche, pur dando maggiore enfasi alla storia o ai
contesti sociali, economici, psicologici, linguistici su cui si sono
formate determinate filosofie, normalmente poco ci dicono della
genesi dell’atto filosofico in quanto tale. Beninteso, esistono
molte eccezioni a questa generalizzazione, che anch’io ora sto
facendo; come pure non possiamo trascurare il fatto che biografie filosofiche di grande interesse e profondità siano state scritte,
ma sicuramente non è il genere storiografico prevalente.
La storia della filosofia è per lo più la storia delle idee filosofiche, e non la storia dei filosofi che si esprimono attraverso
delle idee. Raramente ho trovato tentativi di comprensione di
una filosofia che fossero intimamente connessi con tentativi di
comprensione della singolare esperienza filosofica e umana
della persona concreta – vissuta in un determinato periodo storico, con esperienze comuni ad altri suoi contemporanei ma anche
irrepetibilmente individuali – da cui quella visione filosofica è
scaturita. Ciò che é normale nello studio di esistenze di poeti o
artisti, è assai più infrequente quando si tratta di esistenze di filosofi. Fattori come la salute o la malattia, l’innamorarsi o avere
dei figli, l’agiatezza economica o la povertà, le passioni politiche
e le amicizie, tutto ciò sembra assumere il carattere della mera
accidentalità di fronte alla potente astrazione del pensiero.
Astrazione che induce alla generalizzazione. Il confronto personale con un filosofo diviene così il confronto con il suo pensiero in sé e non anche con i moti della persona dai quali il pensiero ha preso forma, si è modificato, divenendo
dell’individuo/filosofo. Chiaramente l’astrazione e la generalizzazione sistematizzante sono pulsioni e momenti propri dell’espressione filosofica, e non se ne può prescindere, pena il cadere in un biografismo e in uno psicologismo che farebbero perdere d’interesse propriamente filosofico lo studio di autori o fasi
SAGGIO INTRODUTTIVO
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del pensiero. Ma anche il prescindere dalla biografia e dalla storia interiore e oggettiva di un filosofo può portare a riduzioni e
incomprensioni, può precludere una autentica comprensione del
momento generativo di un pensiero, senza della quale si rischia
di ridurlo a dogma e morta spoglia.
Quando leggiamo una poesia e ne siamo colpiti, ci sentiamo
irresistibilmente attratti dalla personalità del poeta e proviamo
come una spinta all’immedesimazione, alla comparazione della
sua esperienza con la nostra. Queste pulsioni immediate forse
possono essere giudicate ingenue o adolescenziali, ma sono pur
sempre reali. L’interesse sorgivo nasce dal paragone e dall’immedesimazione. Su questo interesse possono poi inserirsi riflessioni più propriamente scientifiche, che nel processo di astrazione e di specializzazione prenderanno la forma che le diverse
discipline e i diversi orientamenti all’interno delle discipline
possono conferire loro. Tutto questo vale, a mio avviso, anche
per la filosofia.
Simili riflessioni di carattere generale s’addicono ancora di
più a certe filosofie che, come quella di Paul Ludwig Landsberg,
sgorgano – quale forma di manifestazione più propria – dal
fondo dell’essere, come modalità espressiva di ciò che si è e che
si diviene nel tempo, quando rappresentano ripetizioni di avvenimenti interiori ed esteriori (biografici e storico-politici).
Avvenimenti che vengono trasformati in esperienze per l’intervento del pensiero, che come tale li forma e dà loro un ordine.
Come notava giustamente Jean Lacroix nella «Prefazione» a
Problèmes du personnalisme, Landsberg è stato un “pensatore
esistenziale”, non un esistenzialista.
«Egli abitava il proprio pensiero. Non amava affatto l’esistenzialismo, ma voleva cogliere quanto di esistenziale è presente in ogni
dottrina, in sant’Agostino come in Pascal, in Montaigne come in
Machiavelli, in Goethe come in Lutero, in Nietzsche come in
Malebranche e persino in san Tommaso. Per lui la filosofia non consisteva innanzitutto in un sistema, ma in una sorta di duplicazione
della vita nell’esistenza. In opposizione alla struttura, ristabiliva
come fonte originaria della riflessione l’avvenimento: quello interiore, di natura psicologica o morale, e quello esteriore, di natura
politica, economica o sociale. La sensibilità è la nostra presenza nel
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MARCO BUCARELLI
mondo, e in virtù di ciò è l’origine stessa del pensiero: prima dell’intelletto – che discernendo separa – la sensibilità e il sentimento
si riallacciano alla ragione»1.
Lo stesso Lacroix, in un altro luogo di quella breve ma densa
presentazione di Landsberg, osservava come all’epoca – era il
1952 – fosse ancora prematuro uno studio d’assieme sull’opera
del filosofo tedesco. L’osservazione era motivata dall’eccessiva
vicinanza temporale che ne rendeva ardua una valutazione storico-critica, e dalla lamentata assenza di una riunificazione degli
scritti di Landsberg relativi alle varie fasi della sua breve ma
intensa esistenza.
Oggi, ad oltre cent’anni dalla sua nascita e nel sessantesimo
anniversario della sua tragica morte nel 1944, riteniamo che il
tempo trascorso abbia definitivamente scongiurato il rischio della
mancanza del “giusto distacco” necessario per una più adeguata
prospettiva storica; come riteniamo che la presente edizione degli
scritti di Landsberg venga a colmare una lacuna da tante parti
deplorata, offrendo agli studiosi un copioso materiale di discussione e riflessione.
Da parte mia, nelle pagine di questo “saggio introduttivo”
intendo percorrere, attraverso un intreccio di motivi biografici,
storici e teoretici, l’itinerario spirituale e filosofico del pensatore.
Mi soffermerò di più sul primo periodo, forse meno conosciuto
nei paesi latini, e sugli inizi della sua produzione filosofica. Lo
scopo è di rendere immediatamente disponibili ai lettori informazioni non altrimenti reperibili, a meno di personali e difficoltose
ricerche. Di quasi tutti gli scritti riporto un’ampia esposizione, in
particolare di quelli che saranno pubblicati nel secondo volume di
questa edizione. Sono segnalati i principali nodi teoretici, e su
qualche punto mi soffermerò maggiormente; sono molti però
quelli che a mio avviso meriterebbero una trattazione più ampia
e una riflessione più attenta. Spero di poterli riprendere tra breve
tempo, quando il pensiero e la personalità di Landsberg saranno
meglio conosciuti e, mi auguro, più apprezzati.
1
J. Lacroix, «Prefazione» a P. L. Landsberg, Problèmes du personnalisme, Ed. du
Seuil, Paris 1952, 7-8.
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Qui una notazione autobiografica. L’interesse per la filosofia e
forse ancor di più per la personalità di questo filosofo sorse in me
e entro una piccola cerchia di amici e compagni di studi universitari sul finire degli anni ’70, frequentando “fuori Facoltà” le
lezioni di Filosofia della politica impartite da Augusto Del Noce2.
Ricordo come al termine di una lezione dedicata alle interpretazioni del fascismo e del nazismo, chiedemmo al prof. Del Noce
di offrirci qualche notizia in più su di un pensatore da lui sovente citato, ma a noi completamente sconosciuto. «Landsberg è un
filosofo cristiano del massimo interesse – cito ripescando dalla
memoria, ma credo di essere quasi letterale. – Se non avesse
avuto una vita così travagliata e breve, sarebbe stato uno dei massimi pensatori di questo secolo». Dopo essersi soffermato a informarci per sommi capi della vita e del pensiero di Landsberg, ci
congedò dicendo: «Credo di essere stato un po’ ingiusto con lui
tempo addietro, quando criticai la sua apertura di credito sul
piano politico al marxismo, in una congiuntura storica particolare. Mi ero ripromesso di tornare più estesamente su Landsberg,
che lo merita non solo per l’influenza decisiva che ha esercitato
sul pensiero antropologico e sul personalismo, ma per l’originale
ricchezza della sua esperienza filosofica. Sarebbe bello se qualcuno di voi cominciasse a leggerlo…».
2 La famiglia Landsberg.
L’adolescenza e la formazione della personalità
Paul Ludwig Landsberg nacque a Bonn il 3 dicembre 1901,
secondogenito di una famiglia di ebrei ormai da tempo stabilitasi
in Renania. Il padre, Ernst (1860-1927)3, era professore ordinario
2
Ero iscritto alla Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Roma La
Sapienza, mentre il prof. Del Noce, ormai agli ultimi anni della sua attività accademica, teneva corsi di filosofia della politica nella Facoltà di scienze politiche. In quel
periodo di liberalizzazione dei “piani di studio” era consentito seguire corsi e sostenere fino a cinque prove d’esame “fuori Facoltà”; possibilità che personalmente
sfruttai appieno.
3
Ernst Landsberg improntò profondamente, con i suoi oltre quarant’anni d’insegnamento, la vita dell’Università di Bonn. Fu per diversi anni decano della Facoltà di
diritto e nel 1914-1915 rettore. Può essere considerato uno dei più illustri storici tede-
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MARCO BUCARELLI
di diritto romano e diritto penale all’Università di Bonn; uomo di
cultura nel senso più ampio del termine (i suoi interessi spaziavano dal diritto alla storia, dalla filosofia alla letteratura), aperto
alla discussione di sempre nuovi problemi, dotato di spirito e
umorismo, e brillante conversatore, si autodefiniva «un libero
pensatore»4. La madre, Anna Silverberg Landsberg (1878-1938),
è ricordata come una donna di rara bellezza e col gusto del bello,
affascinante nella figura e nella parola, una vera signora sotto
tutti i profili; chi la conobbe non lesina gli elogi e ne rimarca la
partecipazione attiva nelle discussioni che abitualmente si tenevano nel salotto di casa Landsberg. Questa costituiva, a cavallo
degli anni Venti, un punto centrale della vita sociale e culturale di
Bonn. «Erano amici di famiglia, tra gli altri, Thomas Mann,
Friedrich Gundolf e la direttrice del teatro drammatico di
Düsseldorf, Luise Dumont; studiosi del calibro di Wilhelm
Worringer, Ernst Robert Curtius, Max Scheler e Romano
Guardini», testimonia Heinrich Lützeler, che a tali frequentazioni prese parte e per il quale casa Landsberg fu in quegli anni «un
luogo di incontri intellettuali e di colloqui lungimiranti», oltre che
un elemento caratterizzante l’Università in quegli anni5.
La famiglia Landsberg rappresentava il prototipo di una colta
famiglia liberal-borghese dell’epoca guglielmina. Tolleranza,
apertura di vedute, un clima sereno dove i rapporti tra i membri
sono sottratti al principio della prestazione, dello scambio degli
equivalenti, a quel principio che fonda l’eguaglianza e la giustizia borghese, ma allo stesso tempo determina l’isolamento sociale dovuto alla concorrenza e alla lotta di ognuno contro tutti per
l’autoaffermazione dell’individuo.
L’atmosfera che regnava nella grande casa della
Humboldtstraße a Bonn, dove vissero i Landsberg fino alla morte
di Ernst nel 1927, è stata delle più serene fino alla prematura
schi del diritto. Tra i suoi molti lavori basti menzionare Die Glosse des Accursius und
ihre Lehre vom Eigenthum: rechts- und dogmengeschichtliche Untersuchung (Bonn
1883) e il secondo volume della Storia della giurisprudenza tedesca, pubblicata tra
il 1884 e il 1910 e divenuta opera di riferimento nei decenni successivi. Liberale convinto, dopo la prima guerra mondiale appoggiò la DDP (Deutsche Democratische
Partei) che sosteneva la coalizione di Weimar.
4
Cfr. H. Lützeler, Bonn am Rhein, wie es war, Dorste-Verlag, Düsseldorf 1972.
5
Ibidem.
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scomparsa del figlio primogenito, Erich, dotato di grande talento,
al quale lo zio Paul Silverberg voleva chiamare a dirigere la propria industria mineraria di lignite. Il giovane si era arruolato come
volontario nella prima guerra mondiale, per sostituire un padre di
famiglia chiamato sul fronte francese. Proprio durante la prima
azione militare Erich Landsberg, a soli diciannove anni, cadde
sotto i colpi di un cecchino. Era il marzo 1916.
La Grande Guerra e la prematura morte di Erich segnarono
profondamente la famiglia. Ernst Landsberg, senza essere un
nazionalista, amava profondamente la sua terra, la Renania, tanto
che rifiutò di trasferirsi nelle prestigiose Università di Königsberg
e di Berlino dov’era stato chiamato. Pur nutrendo un forte, seppur nascosto, amore per la patria era nel contempo molto legato
alla cultura francese, che conosceva bene. Aveva dei parenti a
Parigi e parlava perfettamente il francese, lingua che spesso si
usata anche nelle conversazioni familiari. Anche quest’apertura
verso la Francia faceva allora parte della storia e delle abitudini
delle più illustri famiglie renane. In quegli anni movimentati,
dopo il 1918, in cui molti tedeschi venivano accusati davanti a tribunali militari francesi, Ernst Landsberg si mise volentieri a disposizione come difensore. Spesso patrocinava gratuitamente e si
guadagnò la stima dei giudici con la brillantezza della sua eloquenza e con la schiettezza e il rigore delle sue argomentazioni.
Essere ebrei, per i coniugi Landsberg, non rivestiva una particolare importanza: non erano praticanti e le loro amicizie e frequentazioni erano prevalentemente con intellettuali cristiani,
anche se personalmente il padre si professava “agnostico”.
Secondo la recente ricostruzione di Marietta Siebke, ricercatrice
del Deutsches Historisches Museum di Berlino, cedendo alle insistenze e alle argomentazioni di un amico di famiglia, pastore luterano, accettarono di far battezzare il loro secondogenito Paul
Ludwig tre giorni dopo la sua nascita (6 dicembre 1901). Le argomentazioni del pastore riprendevano, per certi versi, quelle del
famoso pari di Pascal: la circoncisione è un atto indelebile e per
voi che non ci credete sarebbe un mero rito privo di significato,
non avendo intenzione di educare vostro figlio al rispetto delle
prescrizioni della legge mosaica. Il battesimo cristiano, tutt’al più,
è un’innocua lavata di testa, ma potrebbe essere la possibilità della
sua salvezza eterna; inoltre la cultura di cui voi siete imbevuti è la
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MARCO BUCARELLI
grande cultura cristiana tedesca. Non lasciate dunque il vostro
bambino senza la possibilità di avere una casa spirituale più vicina al vostro ambiente culturale! Queste discutibili argomentazioni
fecero breccia nei genitori, e così, per questa singolare via, Paul
Ludwig Landsberg divenne cristiano. I genitori non potevano di
certo immaginare, allora, in che misura quella poca acqua avrebbe segnato la vita del loro figlioletto, facendo germinare un’autentica fede cristiana, anzi cattolica. Perché Landsberg protestante
non lo sarà mai, anche se la necessità e il gusto della preghiera lo
imparò ancora bambino dalla sua bambinaia protestante.
Un amico d’infanzia, Roland Marwitz, ha pubblicato delle
brevi memorie riguardo gli anni della giovinezza di Paul Ludwig
Landsberg. «Da bambini giocavamo con i soldatini di zinco
costruendo e “combattendo” la battaglia di Marengo, e dopo
poche parole di Paul, che guidava il gioco, credevamo di sentire
il racconto di un cobelligerante. Non si trattava più di un gioco da
ragazzi, ma di una vera battaglia che d’un tratto non era più storia, ma realtà rivissuta. Si tremava al pensiero che Desaix arrivasse in tempo per fermare la guardia e si credeva di vedere i dragoni di Kellermann cavalcare sul fianco austriaco…»6.
Anche il gioco, per Paul Ludwig, era un’attività estremamente seria; nulla era da lui preso alla leggera. Alla morte del fratello più grande – Paul Ludwig non aveva ancora quindici anni –
tutto l’affetto e l’attenzione della madre si riversarono su di lui.
Già allora era ammesso alle riunioni culturali che si tenevano nel
salotto di famiglia. Romano Guardini, assiduo frequentatore dei
Landsberg, colpito dalle doti del ragazzo – intelligenza vivace e
profonda, nobiltà d’animo e coraggio – prese a seguirlo e spesso
lo portava con sé in visita ai monaci benedettini dell’abbazia di
Maria-Laach7. Lì si trattenevano sovente per la recita della liturgia delle ore e del rosario. La scoperta della bellezza semplice
della liturgia cattolica – del canto gregoriano soprattutto – e della
R. Marwitz, «Der junge Landsberg», in Hochland XL, (2/1948) 164ss.
Cfr. H.-B. Gerl, Romano Guardini (1885-1968): Leben und Werk, MatthiasGrünewald-Verlag, Mainz 1985, 122, 130-131, 142 (tr. it. Romano Guardini. La vita
e l’opera, Morcelliana, Brescia 1988). Cfr. anche R. Guardini, Auf dem Wege, Mainz
1923, 45.
6
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vita monastica, costituirono un’esperienza decisiva per
Landsberg, che non a caso scriverà, poco prima della sua cattura
e dell’avvio al campo di sterminio, una delle sue ultime poesie,
«Monte Cassino»8, dedicata alla pace e semplice bellezza della
vita monastica e alla sua discreta ma reale incidenza nella storia.
Così come ti aveva fondata la più saggia delle paci,
imponente, libera anche in un mondo di schiavi,
eccoti ordinata in cima alla rocca:
dimora buona, comunità, campo romano santificato.
Nei miseri tempi di guerre e rovine,
sei rimasta il baluardo per le opere buone,
hai accolto come Cristo il forestiero perseguitato
dispensando vita all’anima e la regola e il senso.
Dalla tua aria fragile venne il rinnovamento.
Coloro che ti colpirono non poterono distruggerti.
La forma dalla materia in questo luogo nacque
e l’atto fu spirito che crea la vita nuova.
In questo clima la maturazione di Paul Ludwig, avviatosi agli
studi umanistici nel ginnasio cittadino, fu rapida. Ancora adolescente, aveva radunato attorno a sé un piccolo stuolo di amici che
partecipavano alla già animata atmosfera della casa. Vi si muovevano problematiche di vario genere: «Interrogativi sul nuovo ordine politico e sociale; il confronto col problema educativo della
scuola e dell’università; la prima appropriazione dei nuovi principi
filosofici apportati allora dalla fenomenologia in contrapposizione
a Kant e che sembravano in grado di condurre alla filosofia dell’esistenza; discussioni letterarie sul dramma classico tedesco [...]»9.
8
Pubblicata postuma e tradotta in francese (con testo tedesco a fronte) da Albert
Beguin: P. L. Landsberg, «Poèmes spirituels», in Esprit, janv. 1952, 48-57; tr. it. infra
750.
9
Ernst und Anna Landsberg-Stiftung, Gedächtnisschrift für Prof. Dr. Ernst
Landsberg, Frau Anna Landsberg geb. Silverberg, Dr. Paul Ludwig Landsberg, edito
dalla Rechts- und Staatswissenschaftliche Fakultät der Rheinischen Friedrich
Wilhelms-Universität in Bonn, J. F. Carthaus, Bonn 1953, 6-7.
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MARCO BUCARELLI
Il clima in cui si svolse l’adolescenza di Landsberg era quello
entusiastico della Jugendbewegung, un fenomeno di primaria rilevanza sociale e culturale nella Germania dei primi decenni del
Novecento. Si trattava di una costellazione molto varia di aggregazioni giovanili spontanee e autogestite, animate dall’affermazione di
valori da contrapporre al mondo degli adulti, che appariva irrigidito
in forme inautentiche e nemico di ogni espressione genuina di vita.
Tratti fondamentali della Jugendbewegung erano un forte spirito
cameratesco, il desiderio di autoformazione, ideali di unità e autenticità, che trovavano espressione soprattutto nella vita comune a contatto con la natura (escursioni e campeggi) e nel canto. Nel 1933 il
nazionalsocialismo sciolse o fece confluire forzatamente nella
Hitlerjugend le organizzazioni che ancora non lo avessero fatto spontaneamente.
Sempre negli anni dell’adolescenza, sui sedici/diciassette anni,
Landsberg fu per un certo periodo affascinato, come molti giovani
della sua generazione, da Stefan George10, il poeta tedesco che si riteneva la voce del suo tempo, la voce dell’ira divina. «Solo il vile
governa ancora, il nobile essendo perito. / La fede è dilavata, l’amore avvizzito!», così egli esclamava, maledicendo la città considerata
cumulo «di fumo, e polvere, e nebbia», e annunciando la nascita di
una nuova nobiltà apprezzata non per lo stemma, né per la corona,
bensì «per la luce che brilla nei suoi occhi»11. Proprio in quegli anni
in cui subiva l’influenza dell’estetismo aristocratico di George – l’ultimo periodo della prima guerra mondiale e l’immediato dopoguerra
– Landsberg si avvicinò al socialismo e credette nella promessa del
10
Stefan George (1868-1933), poeta e traduttore, raccolse attorno a sé una cerchia
di giovani letterati da cui si attendeva, specie a partire dal dopoguerra, la rigenerazione culturale della società tedesca – sempre più minacciata da massificazione e
meccanizzazione – soprattutto mediante un’educazione ed una critica estetica, e col
ritorno alla forma e allo spirito degli antichi. In George, come in molti intellettuali
del movimento espressionista del tempo, la sottovalutazione delle concrete condizioni e delle dinamiche materiali che agivano sulla società che intendeva rinnovare era
però evidente. – «Nella sua stanza nella casa paterna era appeso – acquistato ancora
nei giorni del ginnasio – il ritratto di George fatto da Karl Bauer. Landsberg comunque era cosciente della modestia artistica di quel quadro e tuttavia temporeggiava a
disfarsene. [….] Il quadro vi rimase fino al trasloco in un’altra casa dove andò ad abitare con la sua amata e adorata madre dal 1927 [dopo la morte del padre]» (R.
Marwitz, «Der junge Landsberg», cit.).
11
S. George, Der Stern des Bundes, Berlin 1909.
SAGGIO INTRODUTTIVO
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comunismo di realizzare una società più giusta e priva di classi sociali. Ciò può sembrare paradossale, ma per molti giovani tedeschi di
quell’epoca il percorso che portò ad una provvisoria o stabile adesione al socialismo (in dipendenza dall’evoluzione storica e intellettuale
di ciascuno) muoveva dalla critica estetica dell’aristocratico George,
dal pessimismo schopenhaueriano, da una ribellione morale davanti
agli orrori della guerra e a quelli della miseria delle classi operaie del
dopoguerra. Fu più o meno il medesimo percorso seguito da Max
Horkheimer, che Landsberg conobbe a Friburgo proprio in quegli
anni travagliati della Repubblica di Weimar, e col quale progressivamente accrebbe relazioni e amicizia12. A testimonianza di questa sensibilità verso i problemi della giustizia sociale e della fase di adesione giovanile al socialismo, Marwitz ricorda lo scandalo determinato
dal contenuto socialistico del tema di maturità di Landsberg, un commento al brano dell’Amleto: Die Zeit ist aus den Fugen: Schmach und
Gram, daß ich zur Welt, sie einzurichten kam13. Il biasimo dei professori fu grande. Il padre, pur di idee politiche divergenti in quanto liberale, prese vigorosamente le difese del figlio, per una questione di
principio, ritenendo con Voltaire che le opinioni non condivise devono avere piena possibilità di essere manifestate14.
Sempre Marwitz ci offre una testimonianza viva della personalità del suo giovane amico e di quegli anni. «Egli era, cosa insolita
nel suo ambiente intellettuale, un signore. [...] Il suo essere più interiore emanava lealtà, sicurezza, coraggio e la capacità di mettere
distanza tra sé e il mondo circostante». Preziose sono le informazioni sulla sua forma mentis: «Già negli anni della gioventù era
giunto, attraverso dubbi e analisi, a nuove sintesi. Aveva l’attitudine
alla più acuta critica e nello stesso tempo la consapevolezza che la critica lega al criticato, e perciò dev’essere solo una fase sulla strada
verso la libertà» Questo legame – individuato da Marwitz come carat12
A documentazione di questo percorso si veda, ad esempio, la raccolta di novelle e scritti autobiografici giovanili pubblicata dall’ormai anziano M. Horkheimer col
titolo Aus der Pubertät. Novellen und Tagebuchblätter, Kösel, München 1974.
13
The time is out the joint. O, cursèd spite, / That ever I was born to set it right!
/ Nay, come, let’s go together (W. Shakespeare, Hamlet, atto I, scena V, 188-190) [«Il
secolo è fuori di sesto. Sorte maledetta, / dover essere nato per rimetterlo a posto! /
Avanti, andiamo insieme», trad. A. Lombardi].
14
Cfr R. Marwitz, «Der junge Landsberg», cit.; e anche Ernst und Anna
Landsberg-Stiftung, Gedächtnisschrift..., cit.
30
MARCO BUCARELLI
teristico del procedere dialettico del pensare di Landsberg – tra la critica e il suo oggetto, questa contaminazione ineludibile se non ci si
vuole porre sul terreno della vuota e insignificante e allo stesso tempo
violenta astrazione del pensiero, sarà una costante del procedere landsberghiano. Dotato di ampia e profonda cultura ed erudizione, era tuttavia alieno da qualsiasi pedanteria. «Vedere per simboli, pensare e
parlare per parabole e immagini era un dono che possedeva in gran
misura». Per lui «la ragione da sola non aveva mai ragione. Riteneva
che, per esprimere l’essenziale, l’uomo avesse bisogno della visione
interiore, dell’intuizione e della fantasia. Landsberg possedeva queste
tre qualità come pochi, e così era in grado di rendere vivi avvenimenti
del passato, del presente e persino del futuro, a tal punto che si pensava li avesse vissuti. Li viveva realmente». Dotato di spirito profetico e di non comune capacità di comprendere gli avvenimenti prima
che accadessero (come quando commentò l’assassinio politico di
Rathenau15, lasciando attoniti gli amici, con le uniche parole: «Ora
dovranno morire venti milioni di tedeschi»), egli aveva sempre la
medesima sorprendente capacità di calarsi in ciò che interpretava.
Anche alle sollecitazioni del momento sapeva rispondere con presenza di spirito, come bene illustra un significativo episodio riportato da
Marwitz. Paul Ludwig era in viaggio da Bonn a Colonia con la sorella di Rathenau, quando si accorse che veniva diffusa a gran voce la
notizia, riportata sui giornali a caratteri cubitali, dell’assassinio del
ministro. Con decisione immediata riuscì di convincere con un pretesto la sua compagna di viaggio a visitare il duomo di Colonia; e fu
soltanto all’interno della chiesa che le partecipò il tragico fatto, evitandole di venirlo a sapere dagli strilloni di strada.
Di fronte ai fatti politici che appassionavano l’opinione pubblica
egli si poneva con «informata distanza», convinto che veramente
importanti fossero «le silenziose decisioni, che influivano realmente
sulle sorti del mondo e venivano purtroppo prese da circoli elitari».
Un professore di storia, che provocato dalla sua apparente indiffe15
Walter Rathenau (1867-1922), abile, colto e lungimirante diplomatico tedesco.
Firmatario, in qualità di ministro degli esteri, del trattato di Rapallo (1922: tra tedeschi e sovietici), aveva trovato la morte per assassinio due mesi dopo ad opera di
nazionalisti antisemiti, ai quali era inviso per la sua azione politica a favore della
Repubblica di Weimar e per le sue origini semitiche. L’evento suscitò grande scalpore e preoccupazione tra i sostenitori dell’ancor giovane ordinamento democratico
tedesco.
SAGGIO INTRODUTTIVO
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renza rispetto ad un accadimento politico d’attualità lo aveva apostrofato: «Che vuole? L’uomo vuole agire!», si sentì rispondere da
Landsberg: «Io non voglio agire, voglio essere salvato».
Non dobbiamo pensare però che l’atteggiamento prevalente del
carattere di Landsberg fosse quello di un quietismo rassegnato. È
vero che dedicava la maggior parte delle sue energie allo studio e alla
lettura, ma ciò che colpiva di più non era tanto la sua straordinaria
erudizione quanto la sua capacità di immedesimazione con la vita e
gli avvenimenti storico-politici o personali che interiorizzandoli riviveva, trasformandoli in esperienze personali. A tal riguardo il suo
amico Marwitz ricorda: «Nonostante l’immensa erudizione – quando
gli si domandava che cosa stesse facendo, usava semplicemente
rispondere stupito: “Che devo fare? Leggo” – non fu mai distante
dalla vita e dalla sua variopinta pienezza». Sempre secondo Marwitz,
raramente parlava con gli amici dei problemi filosofici che lo impegnavano, mentre sapeva intrattenersi «in modo incantevole» con persone semplici di ogni estrazione e occupazione. «Soltanto i sazi e i
tiepidi gli erano in ogni modo odiosi, i farisei e i piccolo-borghesi,
capaci solo di vegetare. Quando noi – diceva – saliamo la scala di
casa, viviamo più di quelle persone in un anno».
Landsberg riteneva la mancanza di fantasia una delle cose peggiori, causa di molti mali. Da parte sua ne aveva moltissima, che
unita ad un animo generoso si traduceva in trovate brillanti, di fronte alle quali la monotona e grossolana goliardia degli altri studenti
impallidiva. Marwitz lo ricorda ad esempio riempire, con tutto il
denaro che aveva con sé, le tasche di un barbone addormentato su
una panchina, per poi immaginarne lo stupore al risveglio; un’altra
volta, gettare in festoso scompiglio una scolaresca impegnata in
una noiosa lezione di canto con un bombardamento di caramelle
attraverso la finestra aperta dell’aula. Sotto questi tratti di elegante
spigliatezza e serenità affiorava tuttavia sovente una triste malinconia; come ad esempio, ricorda ancora l’amico, «quando viaggiando
con lui sulla sua piccola Fiat blu, attraverso la regione renana e passando davanti agli impianti industriali, mormorava che lì si preparava la prossima guerra». Oppure quando, a conclusione di un
dibattito semiserio sulla teoria evoluzionistica, concludeva:
«Viviamo un darwinismo alla rovescia, dall’uomo alla scimmia:
questa è l’evoluzione. Lo diceva ridendo; ma i suoi occhi blu profondo, quelli, non ridevano».
32
MARCO BUCARELLI
Una volta, in una tarda e quieta conversazione serale nella quale
si parlava dei tre desideri che ciascuno dei presenti – come in una
favola – avrebbe voluto esauditi, richiestone, con esitazione espresse i suoi: «Non vorrei morire prima dei miei genitori, poiché vi è
qualcosa d’innaturale nel fatto che i genitori sopravvivano ai figli;
non vorrei diventare vecchio; vorrei cadere in battaglia». Parlava
con tono pacato e serio, soggiungendo scherzosamente che quest’ultimo desiderio non doveva affatto costituire un motivo per provocare una guerra mondiale; ma forse quest’aggiunta faceta – così
almeno interpreta Marwitz – «doveva solo mascherare la serietà di
quell’ultimo desiderio, dal momento che gli fu esaudito assieme agli
altri. Egli cadde in guerra, una guerra da lui combattuta santamente
e sul più perduto di tutti i fronti».
A proposito del rapporto col fatto cristiano, Marwitz riporta una
frase che Landsberg ripeteva frequentemente e che lo colpì moltissimo: «O Cristo era il figlio di Dio oppure era un imbroglione! Il
più grande degli imbroglioni! Non esiste un’altra verità come per
esempio quella dell’uomo grande». Sul tema religioso un altro
commovente ricordo: «Una volta pensava con amore affettuoso ad
una vecchia bambinaia scomparsa alla quale doveva molto. “Mi ha
insegnato a pregare”, era il massimo che potesse dire sul suo conto,
perché per lui la preghiera era come una lingua che l’uomo deve
imparare molto presto per poterla capire veramente, e anche in
quella preghiera semplice e ripetitiva, vuota di grandi contenuti
vedeva un senso essenziale, perché “scorreva nel grande fiume
delle preghiere che porta a Dio”». Preghiera, ovvero domanda. Il
giovane Landsberg si domandava se «pronunciare una verità significasse già svelarla».
Non cercava valori nella religione, non ne cercava nella filosofia. Vedeva il senso della filosofia «nella quantità di domande che
come onde spumeggiano contro le rocce»16. Domandare per lui era
ciò che poteva fare, ciò che era più semplice e vero, più importante delle risposte che poteva darsi da solo con le osservazioni e la
riflessione. La risposta che precede e suscita le stesse domande la
16
Tutte le citazioni tra virgolette sono state riprese dallo scritto in memoria dell’amico Paul Ludwig, pubblicato da Roland Marwitz sulla più prestigiosa rivista cattolica tedesca, Hochland, nel 1948, al quale rimandiamo per ulteriori ricordi e aneddoti della giovinezza di Landsberg.
SAGGIO INTRODUTTIVO
33
troverà nel tempo della sua breve, ma intensa esistenza, rimanendo
fedele a questa istanza della sua giovinezza.
Conseguita nel 1919 la maturità liceale, Landsberg si rivolge
senza incertezze agli studi filosofici, seguendo dapprima a Friburgo
le lezioni di Husserl sulla logica trascendentale (1920-1921).
Heidegger, allora assistente di Husserl, teneva nel semestre invernale delle lezioni sulla «Phänomenologie des religiösen Lebens», dedicate al commento delle lettere di san Paolo ai Tessalonicesi. Oltre ad
Husserl e Heidegger Landsberg seguì inoltre, durante quel semestre,
lo storico della filosofia Kroner; Cohn (psicologia sperimentale);
Diehl (economia nazionale); Kantorowicz (sociologia e giurisprudenza)17. Poi, ritenendo «utili, ma noiosi» i corsi impartiti da Husserl,
nell’anno accademico 1921-1922 decise di trasferirsi a Colonia per
terminare la sua formazione universitaria di base. Lì seguì le lezioni di Max Scheler, che già conosceva bene per le sue presenze assidue nella casa paterna. Proprio Scheler, anch’egli di famiglia ebrea,
ma convertitosi al cattolicesimo e in quegli anni ancora in comunione con la Chiesa di Roma, reintrodusse Landsberg alla frequentazione dell’abbazia benedettina di Maria Laach, luogo che assume una
particolare importanza nella biografia di Landsberg. È significativa,
a questo proposito, una lettera inedita di Scheler al padre abate18, in
cui spiega al monaco che il ragazzo, se pur nominalmente protestante, è un cattolico de facto e caldeggia la sua introduzione nei gruppi
liturgici di laici che i monaci ospitavano nell’abbazia.
3 Un inizio folgorante. L’eterno e il tempo.
Il medioevo come archetipo
A soli venti anni, ancora studente, Landsberg irruppe nella
scena filosofica col suo primo libro, scritto di getto in poche settimane non tanto in vista della pubblicazione, quanto in risposta
17
Informazioni acquisite dalla consultazione dei «Promotionsakte der
Philosophischen Fakultät» dell’Università di Colonia.
18
La lettera del 8 agosto 1921 è conservata negli archivi della abbazia e sarà pubblicata integralmente nel prossimo secondo volume degli Scritti di Landsberg un
estratto é apparso in Erbe und Auftrag, 77 (2001), 59.
34
MARCO BUCARELLI
ad un forte impulso interiore: Il mondo del medioevo e noi19.
Questa prima opera fu anche quella che ebbe il maggior successo letterario, vivente l’autore, come dimostrano le numerosissime recensioni di cui fu oggetto.
Molti furono i consensi: «Entusiasta, eppure sorprendentemente maturo… getta luce su nuove strade»20; «rende consapevoli, vivificante»21. I critici ammiravano «la chiara visione e l’amore profondo. Negli ultimi anni si sono pubblicate poche
opere che vorrei paragonare a questo scritto»22; «la suprema
libertà dalla materialità, la sua profonda serietà, il suo veemente coraggio nel tentare di dominare l’infelicità dei nostri
tempi»23; «il suo cuore ardente cerca la strada verso una nuova
civiltà»24; «una filosofia della storia… che nessuno che sia onesto riguardo alla propria vita e alla verità può ignorare»25; uno
studio «pieno di un meravigliosamente casto fremito di riverenza per quanto vi è di sacro ed eterno nel medioevo»26; «un libro
estremamente bello, scritto con l’ingenuità dell’amore, che sarà
presto il vessillo di molti seguaci»27; e per finire: «il messaggio
del libro, lo confesso, è penetrato nel mio cuore come un gran19
Die Welt des Mittelalters und wir. Ein geschichtsphilosophischer Versuch über
den Sinn eines Zeitalters, F. Cohen, Bonn 1922, 1923, 1925. Quanto alle notizie sull’origine di questo scritto, cfr. J. M. Oesterreicher, Walls are crumbling. Seven Jewish
Philosophers discover Christ, The Devin Adair Company, New York 1952. (tr. fr.
Sept philosophes juifs devant le Christ, Paris 1955). Non è necessario condividere il
giudizio eccessivo di Oesterreicher, secondo cui quest’opera avrebbe «segnato una
data nella storia del pensiero». Il lavoro biografico di Oesterreicher, egli stesso ebreo
convertito al cattolicesimo, si inserisce in una ricerca che intende presentare gli analoghi itinerari spirituali di altri filosofi ebrei (tra questi Bergson, Husserl, Scheler) e
nei limiti di quest’ottica, d’interesse fortemente religioso (diciamo pure apologetico),
è estremamente documentato, disponendo egli di maggiori informazioni di prima
mano rispetto a quelle oggi in nostro possesso, e soprattutto del Diario di Landsberg,
di cui noi possediamo soltanto dei brani riportati per lo più da Oesterreicher.
20
A.v. Martin, in «Literaturblattder», Frankfurter Zeitung, 17 agosto 1923.
21
H. Monzel, in Das neue Ufer, suppl. letterario di Germania (Berlino), 8 agosto 1924.
22
R. Guardini, Auf dem Wege, cit., 45.
23
Sange, in Literarisches Zentralblatt für Deutschland, Leipzig, 6 gennaio 1923.
24
Sudhoff, in Mitteilungen zur Geschichte der Medizin und der
Naturwissenschaften, Bd. XXIII, Leipzig 1924.
25
K. Wick, in Luzerner Vaterland, 16 maggio 1924.
26
K. Fleischmann, in Neue Züricher Nachrichten, 13 luglio 1924.
27
H. Hesse, in Vivos voco III, luglio/agosto 1922.
SAGGIO INTRODUTTIVO
35
de miracolo»28. Per quanto eccessive possano sembrare, queste
espressioni erano sincere. Coloro che salutarono il libro di
Landsberg come un «faro luminoso», o come «l’araldo di una
nuova nascita», non sono scrittori di fascette editoriali prive di ogni
valore letterario; tra loro ci sono storici medievalisti del calibro di
Alfred von Martin, poeti come Hermann Hesse, filosofi come
Romano Guardini. Né i loro tributi esprimevano il pensiero di sparuti appassionati dei tempi medievali, bensì quello di migliaia di lettori (il libro ebbe tre ristampe).
Il gesuita Friedrich Muckermann scrisse: «Dovrebbe far arrossire gli esponenti della filosofia scolastica il fatto che un uomo, giovane e nemmeno cattolico, si sia arrischiato ad realizzare uno studio
sul medioevo che, per modo, originalità, grazia e sintesi, non ha
eguale nella letteratura cattolica»29. Da parte sua il padre J. M.
Oesterreicher commenta: «Questa rivalutazione dello spirito medievale era opera di un ebreo. Riguardo alle cose cattoliche, in particolare se relative al medioevo, ogni ebreo di oggi è gravato da un triplice fardello: i contrasti tra ebraismo, protestantesimo e neo-paganesimo, nessuno dei quali è facilmente riconoscibile per ciò che è, e
da nessuno dei quali è facile liberarsi. Più volte la sofferenza ha colpito i corpi e le anime degli ebrei medievali con la sua mano rovente, lasciando cicatrici e ferite mai rimarginate. Ferite che fanno ancora male, perché furono opera di uomini che avevano fatto della religione, dell’opera di Dio, la loro mimetizzazione. Per il protestantesimo è scomodo ammettere che, nel suo insieme, esso non fu un’autentica protesta contro»30.
È singolare, ma significativo, che proprio Max Scheler non
abbia giudicato con favore il libro e sconsigliato al diciannovenne
studente, che nel 1922 gli presentava il manoscritto, di farlo pubblicare, ritenendolo «troppo romantico e retrospettivo, nonostante
un suo proprio virtuosismo»31. Fu per l’incoraggiamento di
Guardini e della madre Anna, che Landsberg si decise a darlo alle
A. L. Mayer Pfannolz, in Hochland XX, giugno 1923.
F. Muckermann, in Der Gral, ottobre 1922, 29-31.
30
J. M. Oesterreicher, Walls are crumbling. Seven Jewish Philosophers discover
Christ, cit., 206.
31
H. Lützeler, Persönlichkeiten. Konrad Adenauer, Paul Clemens, Kardinal Frings,
Johannes XXIII, Erich Rothacker, Max Scheler, Herder, Freiburg 1978, 82, 114.
28
29
36
MARCO BUCARELLI
stampe.
Da quando gli uomini hanno cercato di collegare le cose trovandovi una misura, la questione di un ordine si è affermata e ha
determinato l’idea di razionalità. Nel suo etimo latino “ordine“
significa: schieramento di truppe, filare di alberi, compagine in
qualche modo regolata; e allo stesso tempo: comando dato da
qualcuno e a qualcun altro. Il più antico pensiero greco, smarcandosi dal pensiero mitico, ha creato le premesse e inaugurato quel
certo sapere che sarà la filosofia. Quel pensiero designa col termine arché anche duplice plesso di significati: “inizio”, “principio”,
ma anche “comando” e ordine delle e sulle cose e sugli uomini (si
pensi agli arconti in Atene). In entrambe le accezioni arché implica, per costituirsi, l’idea di unità. Perché sia pensabile un inizio, è
necessario aver stabilito una relazione tra le cose pensandole come
un tutto, e non è pensabile l’idea di tutto al di fuori di un ordine32.
Nel medioevo Landsberg leggeva, con tutto l’entusiasmo di
una scoperta giovanile, un cosmo ordinato in rapporto a Dio,
dotato di senso e accessibile all’intelligenza dell’uomo, che vi
trovava con sicurezza la sua giusta collocazione. Più che un’epoca del passato, Landsberg vi riconosceva un modello cui guardare nella sua esemplarità, espressione di una «possibilità essenziale umana permanente». Oggetto della sua indagine ed ammirazione era propriamente l’eterno nel medioevo, dalla cui prospettiva ingaggiava un appassionato confronto con la modernità, vista
da un lato come debitrice verso le solide realizzazioni dell’epoca
che l’aveva preceduta, dall’altro come sempre più avviata a
costruire nel vuoto di ogni riferimento all’ordine delle cose;
modernità costituita all’insegna del primato dell’etica: volontà e
prassi. Ravvisando il movimento fondamentale delle manifestazioni spirituali della vita umana in uno svolgimento triadico che
periodicamente porta «dalla consuetudine, attraverso l’anarchia,
all’ordine», Landsberg abbozzava interessanti linee per una filosofia della storia. L’auspicio, per la cultura dell’occidente europeo, era di una feconda ricongiunzione alla propria tradizione
classico-cristiana. Dava così una risposta in chiave religioso-filosofica alla Kulturkrise del tempo, risposta che per taluni aspetti si
32
Cfr. E. Severino, Storia della filosofia antica, vol. I, Rizzoli, Milano 1984, 25-28.
SAGGIO INTRODUTTIVO
37
collegava ad analoghe aspettative di rigenerazione che sostanziavano correnti quali la Rivoluzione conservatrice e la
Jugendbewegung. Dal punto di vista dell’impianto filosofico, l’opera presentava, in una cornice di tipo tomistico, un approccio
fenomenologico nelle questioni principali, già rivelativo dell’impostazione del filosofo.
Il sottotitolo qualificava il libro come Ricerca storico-filosofica sul significato di un’epoca. Più precisamente, Landsberg
intendeva connotarlo come una parte di quella «filosofia speciale
della storia» che indaga concettualmente singole unità storiche in
quanto dotate di essenze proprie che le rendono riconoscibili
rispetto al tutto della storia, il cui senso complessivo è a sua volta
indagato dalla «filosofia universale della storia», i cui esempi più
imponenti ci sono offerti da Agostino, Hegel e Ranke33. Nel caso
specifico è dunque in questione quella particolare unità storica di
senso costituita dal medioevo, intesa come unità culturale di
un’immagine del mondo determinata dalla religione cristiana.
Ma tali caratterizzazioni circa il genere dell’opera non sono in
grado di rendere il pathos della scoperta quanto le parole con le
quali il giovane filosofo esordisce:
«Una nuova predilezione (Vorliebe) è la condizione di una nuova visione
(Schau). L’essenziale della cosa si dischiude solo all’occhio dell’amante.
La verità è stata sempre scoperta cum ira et studio. D’altro lato l’amore
ha bisogno della visione, poiché nel profondare nel valore del suo oggetto diviene forte e duraturo. Così è anche per il nuovo amore verso il
33
La concezione della filosofia della storia non come spiegazione genetico-causale del singolare, bensì come «indagine e designazione concettuale delle essenzialità intime delle configurazioni dinamiche storiche» in Die Welt des Mittelalters und
wir (cfr. 100), è già indicativa della vicinanza di Landsberg all’impostazione fenomenologica: si tratta in definitiva di una «visione d’essenza» volta al riconoscimento delle essenze incorporate nella forma dinamica unitaria della storia. Ancor più
significativo è il rilievo che «la metafisica della storia si fonda in primo luogo, come
ogni parte della metafisica, sulla pura conoscenza essenziale (Wesenserkenntnis), la
quale può produrre da se stessa i propri risultati solo come possibili, ma mai anche
come reali; in secondo luogo su dati empirici di scienze positive» (101). Landsberg
rimanda del resto esplicitamente al fondamento della metafisica ne in L’eterno nell’uomo di Scheler.
34
P. L. Landsberg, Die Welt des Mittelalters und wir, cit., 7.
38
MARCO BUCARELLI
medioevo, che attraversa come corrente impetuosa il nostro cuore…»34.
Landsberg ravvisa nel medioevo non tanto un determinato
periodo del passato, quanto piuttosto «una possibilità umana fondamentale ed essenziale»35. Essa si manifesta con particolare
forza ed evidenza in una precisa epoca storica, ma in realtà permane sempre e tuttavia mai pienamente realizzata. Il medioevo di
Landsberg è una misura, una forma, un modello che si è manifestato nel tempo della storia, ma con una validità atemporale, e
perciò in grado – a suo avviso – di parlare anche all’umanità contemporanea, perlomeno a quella parte di essa (il noi del titolo)
disponibile a recepirne il significato. Oggetto della sua esposizione è dunque «l’eterno nel medioevo con la sua relazione di senso
nei confronti delle condizioni spirituali del presente»36.
Landsberg non si propone di fare una “storia spirituale” del
medioevo e dell’epoca moderna37; gli aspetti del mondo del
medievale da lui considerati e raffrontati alla modernità sono
quelli essenziali ed esemplari, nel convincimento che «possiamo
imparare da un’altra epoca solo là dove essa è più che se stessa,
dove si eleva all’eterno»38. Tale criterio va costantemente tenuto
presente, se si vogliono evitare quei fraintendimenti che sono
possibili qualora si collochi l’opera su un piano che non è il suo.
L’autore stesso avverte di essere consapevole della non omogeneità del medioevo, aggiungendo che nulla lo vede più estraneo
della proposta di un nostalgico “ritorno” – impossibile e indesiderabile – al medioevo stesso39. «Nessun “ritorno al medioevo” ci
può giovare. [...] Ci può giovare solamente la riscoperta dell’eterno nel mondo, anche nel mondo della storia, anche nel medioevo storico. Solo l’eterno può essere un modello decisivo»40. Una
chiara indicazione su dove vada ricercata la componente sovrastorica del medioevo, Landsberg la darà nel suo saggio
sull’Accademia platonica, con la presa di distanza dal pregiudiziale apprezzamento romantico di un medioevo come modello
Ibidem.
Ibidem.
37
Ibidem, 11.
38
Ibidem, 12.
39
Ibidem.
40
Ibidem, 99.
35
36
SAGGIO INTRODUTTIVO
39
sociale. «Non ciò che in esso è comunità vitale, religione popolare o mito è l’eterno nel medioevo [...], bensì ciò che in esso è religione rivelata e realizzazione di questa nella comunità umana
personalistico-solidale»41.
La conoscenza delle cose essenziali, contrariamente al dogmatismo avalutativo (dominante in quel periodo in campo epistemologico) e ad ogni neostoicismo, si può raggiungere solo cum
ira et studio, e solo mediante una predilezione dell’oggetto di
conoscenza come condizione di possibilità della conoscenza stessa. L’amore – qui è evidente l’eco della riflessione scheleriana –
oltre a essere un presupposto gnoseologico del riconoscimento
dei movimenti spirituali storici, determinerebbe altresì – secondo
Landsberg – la loro costituzione, assieme al suo contrario, l’odio.
«Ogni movimento spirituale ha il proprio “via da” e il proprio
“verso chi/cosa”. La cose stanno però in modo tale, che uno dei
due ha il primato, che il movimento fisico avvenga per repulsione o attrazione, quello spirituale per amore oppure per odio»42.
Movimenti positivi e creativi possono originarsi esclusivamente
dal “sì” dell’amore, mentre l’odio può originare soltanto negazione e antiposizioni, dirette tutt’al più contro ciò che è cattivo.
Agli occhi di Landsberg, l’unica forza spirituale fornita di positività (nel senso che non aveva bisogno che dell’atto col quale si
poneva) era nel medioevo quella della Chiesa, con la sua visione
del mondo solida, unitaria ed universalmente riconosciuta, mentre le forze ad essa opponentesi si esaurivano nel loro essere
“antiposizioni” o “eresie”. L’età moderna inizierebbe appunto
«col trionfo di alcune eresie» (prima fra tutte il protestantesimo)
e starebbe in generale «sotto il segno della negatività»43.
Nella parte terminale dell’opera la riflessione storico-filosofica
di Landsberg tenta di saldare, in una lettura d’assieme, passato, presente e futuro. Ciò che, a suo avviso, da secoli ha preso il posto di
un ordine autentico, è un “disordine ordinato” (geordnete
Unordnung), una condizione stabile di sovvertimento dei valori,
rappresentato dalla civilizzazione cristiano-borghese dell’epoca
41
P. L. Landsberg, Wesen und Bedeutung der Platonischen Akademie («Schriften
zur Philosophie und Soziologie», Hg. M. Scheler), F. Cohen, Bonn 1923, 68.
42
Ibidem, 8.
43
Ibidem, 9.
40
MARCO BUCARELLI
moderna, la cui crisi irreversibile si è colta proprio nel suo momento di massimo fulgore, da metà Ottocento a tutta la belle époque. È
impressionante la quasi identità di termini e di significati dell’espressione landsberghiana “disordine ordinato”, con quello che sarà
per Mounier, molti anni dopo, il principale avversario: le désordre
établi (“il disordine stabilito”). Non abbiamo elementi per affermare che Mounier abbia mutuato la sua espressione da Landsberg. È
comunque evidente un comune sentire, dopo la catastrofe determinata dalla guerra: la necessità di combattere il filisteismo cristianoborghese quale principale responsabile della crisi epocale e refaire
la Renaissance, come scrive Mounier nell’editoriale del primo
numero di Esprit nel 1932; ovvero di tornare al significato eterno
del medioevo attraverso una “rivoluzione conservatrice”, come
scrive Landsberg nella sua prima opera.
A questo “disordine ordinato”, constata Landsberg, ormai si contrappone la volontà anarchica di quanti hanno in dispregio ogni
ordine stabilito. Ma l’epoca presente sembra matura per una «rivoluzione conservatrice, la rivoluzione dell’eterno», della quale
dovrebbe essere protagonista una nuova generazione di giovani,
quella a cui si riferisce il “noi” del titolo dell’opera. La rivoluzione
conservatrice di Landsberg non deve assolutamente far pensare a
quel movimento di pensiero sorto all’indomani della disfatta militare della Germania, e che per alcuni versi preparò il terreno alla mitologia nazista44. Bisogna avere ben chiaro che il concetto di ordine,
che Landsberg invita a recuperare e conservare, non ha nulla da
spartire con le contraffazioni di un qualsivoglia establishment. Al
contrario, esso «si pone come il più rivoluzionario», proprio in
44
Per un approfondimento dell’originale nozione di konservative Revolution, propria di Landsberg, si rimanda ai saggi di K. Albert e E. Zwierlein, indicati nella “nota
bibliografica” del presente volume.
45
P. L. Landsberg, Die Welt des Mittelalters und wir, cit, 113. Landsberg menziona in proposito due differenti ideali di realizzazione dell’ordine nella società
«mediante organizzazione»: quello socialista e quello prussiano, ambedue contrari
all’ordine medioevale, per il quale «il cosmo è ciò che è primario» e non il risultato
dell’azione umana su un caos originario. Anche in questo caso sarà utile distinguere
la konservative Revolution da ciò che comunemente s’intende con tale espressione.
Nella letteratura ci s’imbatte per lo più nei nomi e nelle opere di Arthur Moeller van
den Bruck (Das Dritte Reich, 1923), di Osvald Spengler (Der Untergang des
Abendlandes, 1918/1922), di Ernst Jünger (Der Kampf als inneres Erlebnis, 1922),
SAGGIO INTRODUTTIVO
41
quanto dissolutore di ordinamenti arbitrari e inautentici45.
La contrapposizione irriducibile tra “forma” e “vita” sarebbe
in realtà un errore moderno. «Per l’uomo medievale la forma è
anche il principio vitale. Senza forma niente vita, senza vita niente forma. L’informe è anche il privo di vita. Quanto più una cosa
è determinata e dotata di forma, tanto più è vitale. Tale inconscia
concezione fondamentale è la premessa del concetto aristotelicomedioevale di forma. Esso presuppone così l’unità di forma e vita
nell’ordine»46. Nell’idea moderna quest’associazione si è rotta, e
affermare una forma sembra equivalere a negare la vita, e viceversa. «Il motivo è che ormai l’ordine appare soltanto come consuetudine, e la vita soltanto come anarchia»47.
A Landsberg le possibilità umane realizzatesi nella storia dell’occidente sembrano aver dato luogo sinora ad una serie procedente dall’ordine alla consuetudine, dalla consuetudine all’anarchia,
dall’anarchia di nuovo all’ordine48. La periodizzazione storica da
lui proposta è approssimativa, ma appare evidente che gli interessa
il senso che talune configurazioni storiche paiono incarnare in
modo esemplare. «Vero ordine è là dove una parte dell’oggettivo
ordine universale divino è divenuto immagine ideale e forma di vita
nonché di Carl Schmitt. Si tratta in ogni caso di autori e opere che – sia pure sovente loro malgrado – hanno offerto un ampio repertorio ideologico alla propaganda del
venturo regime nazionalsocialista: da un lato con la critica violenta ed erosiva alla
Repubblica di Weimar, al sistema dei partiti ed alla democrazia in genere; dall’altro
con l’enfasi posta su idee guida quali Blut, Erde, Volk, Deutschtum, Reich,
Führertum, e altre del medesimoi tenore. Per tutti quegli intellettuali la rivoluzione
conservatrice consisteva nella ricerca dello “specifico destino” della nazione e del
popolo tedesco – specificità le cui origini erano spesso rintracciate in un passato più
mitico che storico –, ed era condita da una notevole dose di irrazionalismo e di vitalismo. Nello scritto di Landsberg l’aspetto politico-nazionale è inesistente: è
all’Europa cristiana che egli si rivolge, per riportarla alla sua propria tradizione spirituale e culturale.
46
Ibidem, 113-114.
47
Ibidem, 114.
48
Landsberg vede nell’antichità un’epoca di ordine, trapassato poi in consuetudine nella tarda antichità e infine in anarchia nel periodo precedente il medioevo.
Questo fu di nuovo un’età di ordine, trapassato poi nell’abitudine borghese e infine
in quell’anarchia che trova la sua più compiuta espressione nell’attuale
Jugendbewegung. Landsberg, in pieno ottimismo giovanile, non ha dubbi su come
debba ulteriormente svolgersi tale processo. «Il futuro è che da questa anarchia nasca
un nuovo ordine» (ibidem, 114).
42
MARCO BUCARELLI
dell’uomo; dove l’uomo obbedisce a Dio. C’è consuetudine là dove
spirito impaurito e angosciato e vita impaurita conservano arbitrariamente i resti di un precedente ordine, nei quali non c’è più senso;
dove l’uomo obbedisce alla propria paura. Anarchia è là dove un
movimento è privo dell’ordine come della consuetudine; dove l’uomo obbedisce al proprio desiderio in ricerca»49. Il medioevo fu un’epoca ordinata. La presente è invece un’epoca consuetudinaria, nella
quale sopravvive un ordine privo di senso, di rettitudine e di vita; un
ordine più simile ad un disordine, tranne che per il fatto di essere
consolidato. Esso risulta insopportabile alle personalità migliori e
più creative, che perciò premono verso la sua dissoluzione e il suo
superamento, attraverso un’anarchia che ha già in sé il presentimento di un nuovo ordine, questa volta positivo. Il pericolo da evitare è che ci si affretti verso un ordinamento nuovamente arbitrario.
Il monito è di sapore marcatamente scheleriano. «L’ordine si scopre, non si crea. Le leggi eterne possono essere riconosciute e realizzate dall’uomo, ma non essere poste»50. Sono conoscenze di tipo
religioso e filosofico quelle che possono preparare l’avvento di un
nuovo ordine. Compito d’una filosofia dell’evidente (Philosophie
des Selbstverständlichen) è quello di scoprire l’ordine basilare dell’essere e le leggi del mondo51.
La modernità si presenta a Landsberg sotto il segno del soggettivismo di Cartesio e di Kant, che avrebbero frantumato il precedente mondo unitario (Welt) in molti “mondi ambientali”
(Umwelte). «Solo e rinchiuso nel suo “mondo ambientale”, l’uomo moderno vive la sua triste vita senza un mondo e senza un
Dio. Tuttavia il superamento si approssima. Una nuova gioventù
percorre di nuovo la strada dalla consuetudine, attraverso l’aP. L. Landsberg, Die Welt des Mittelalters und wir, cit, 114-115.
Ibidem, 116.
51
È facile riconoscere in tale “filosofia dell’evidente” la fenomenologia, apparentata da Landsberg alla philosophia perennis come elemento di un’età d’ordine.
Tipiche di un’età abitudinaria sarebbero invece la “banalità”, il “kantismo” e le
“scienze”. Il momento di transizione anarchica vedrebbe invece le rispettive forme
del “paradosso”, della “filosofia panflettistica”, della Weltanschauungsphilosophie.
52
Von der Gewohnheit, durch die Anarchie zur Ordnung è la formula riassuntiva
– riproposta da Landsberg nella prima appendice al testo – per indicare il ritmo dei
«tre stati fondamentali della vita spirituale», che si realizza nei diversi ambiti della
fede, della concezione del mondo, della cultura, della Chiesa, della filosofia ecc.
49
50
SAGGIO INTRODUTTIVO
43
narchia, all’ordine52. Essa scorge già l’ordine; domani – è la profezia totalmente mancata e di cui si renderà personalmente e
drammaticamente conto più tardi – lo avrà realizzato, il suo
sguardo è di nuovo libero per l’eterno nel temporale, anche della
storia. Dalla lotta dell’epoca della svolta (Wendezeit) sorge una
nuova cultura, una nuova obbedienza a Dio»53.
Per finire, Landsberg precisa da dove lo spirito europeo dovrebbe trarre elemento per una sua rigenerazione. Non dall’europeismo
di marca protestante, caratterizzato da una prassi eroica assunta
come destino54; nemmeno alla «sirena del mondo orientale», che ha
giustamente avvertito il pericolo a cui può condurre una situazione
di costante disordine del cuore; ma rivolgendosi ad una religiosità e
ad una cultura che non possono essere abbracciate d’un tratto da chi
è loro estraneo, ma solamente riscoperte dove ancora vivono. «Non
ci serve l’attaccarci a culture estranee, bensì il riconnetterci alla
nostra propria tradizione culturale»55. Già due volte – con l’antichità greca e con il cristianesimo – l’Europa è stata illuminata
dall’Oriente. «Non ci serve una terza, nuova “luce dall’Est”. Ma
dobbiamo di nuovo vedere le due antiche luci, poiché – e qui ci dis53
Ibidem, 116. Affermazioni di questo tenore rischiano di rimanere incomprensibili senza un riferimento alla situazione sociale tedesca di quegli anni, e soprattutto a
quella sua notevole manifestazione rappresentata dalla Jugendbewegung, con l’idealità che l’animava. Fu un fenomeno di ampia portata, che vide il coinvolgimento attivo di decine di migliaia di giovani, «una delle poche forme comunitarie, nella
Germania tra le due guerre, capaci di forgiare un tipo» (A. Moeller, op. cit., 153).
Non deve perciò stupire se Landsberg, allora poco più che ventenne, le attribuì speranze di rigenerazione che oggi paiono esagerate. Del resto esse erano ampiamente
condivise, negli anni Venti, da personalità come Rathenau e Scheler, solo per citarne due con cui Landsberg era in intimità. Riguardo Scheler, Francesco Bosio scrive:
«In Il futuro del capitalismo guarda con entusiasmo ai movimenti giovanili dei
Wandervögel (“Uccelli migratori”) e della lega giovanile tedesca quali portatori di
rinnovati valori etici, civili e politici insofferenti del conformismo capitalistico borghese, interamente assoggettato alla ricerca senza fine della sicurezza e del benessere. Tanti segni dell’epoca lo inducono a prevedere, presentire e presagire l’imminente tramonto dello spirito del capitalismo ad opera della nascita di un nuovo tipo
d’uomo, più generoso, più sensibile e più attento agli autentici valori superiori della
vita. I fatti gli hanno però dato torto» (Invito al pensiero di Scheler, Mursia, Milano
1995, 23).
54
Gli esiti di un siffatto “nobile” europeismo sono da Landsberg ravvisati nelle
figure, pur sotto altri aspetti tra loro così differenti, di Max Weber e Gustav Wyneken.
55
P. L. Landsberg, Die Welt des Mittelalters und wir, cit., 117.
44
MARCO BUCARELLI
sociamo nettamente da ogni europeismo – ogni autentico ordine
delle forze dell’anima è di fatto sovvertito da quel primato europeo
del volere e della prassi, per il quale l’anima dell’Europa è sempre
più ferita»56. Il cristianesimo medievale conosceva tale ordine, che
vedeva innanzitutto il primato dell’amore, contemplativo o attivo
che fosse, su tutte le altre forze dell’anima, a cui faceva seguito un
primato valoriale del logos sull’ethos, ossia della contemplazione
(Kontemplation, Schau) amorosa sull’agire (Praxis, Tat) amorevole, o della conoscenza (Erkenntnis) sulla volontà (Wille)57. «La via
del primato del logos è tanto poco la via all’inerzia, da essere tanto
più insieme la via dall’attività all’azione»58. Se l’Oriente può insegnare qualcosa, è proprio ammonendoci a porre rimedio al disordine del cuore, pena la “americanizzazione” dell’Europa, la sua riduzione alla «parodia transatlantica di se stessa». L’antichità grecoromana e il cristianesimo – di cui il medioevo ha compiuto la
potente sintesi – rappresentano le radici culturali proprie
dell’Europa; esse rimangono a sua disposizione per una riscoperta
ed una riattualizzazione che conducano ad una nuova cultura e ad
un nuovo ordine.
4 Gli anni del dottorato a Colonia (1923-1924)
La grande impressione suscitata dall’opera Il medioevo e noi
non s’era ancora affievolita quando, il 17 febbraio 1923,
Landsberg discusse a Colonia la sua dissertazione di dottorato,
Ibidem, 117.
I medesimi concetti si trovano espressi nell’ultimo capitolo dello Spirito della
liturgia (1918) di R. Guardini, sicuramente conosciuto da Landsberg, il quale su un
punto si distacca dal teologo italo-tedesco: per questi il primato del logos/conoscenza sull’ethos/volontà non è un primato di valore o di dignità, ma solamente di ordine
e di guida nell’insieme della cultura e della vita umana; Landsberg, invece, sembra
voler configurare una vera e propria scala valoriale (cfr. nota seg.).
58
P. L. Landsberg, ibidem, 118. L’atto compenetrato d’amore è assiologicamente
superiore a quello che ne è privo; l’atto di conoscenza privo d’amore è assiologicamente superiore all’atto di volontà privo d’amore; l’atto di contemplazione amorosa
lo è rispetto all’atto di volontà amorosa. Al vertice starebbe l’atto di fede compenetrato d’amore, dove natura umana e sovranatura divina s’incontrano.
59
P. L. Landsberg, Wesen und Bedeutung der Platonischen Akademie, cit.
56
57
SAGGIO INTRODUTTIVO
45
Essenza e significato dell’Accademia platonica59, che alla fine del
medesimo anno avrebbe inaugurato la collana «Schriften zur
Philosophie und Soziologie» diretta da Max Scheler. Lo stesso
Scheler volle far precedere allo scritto di Landsberg una sua
«Prefazione»60. Illustrando il progetto complessivo della collana,
Scheler dichiarava la sua intenzione di superare, mediante una
«indagine precisa e metodicamente rigorosa dei contenuti e dell’essenza (Sach- und Wesensforschung)» di singoli problemi filosofici, da un lato il tradizionalismo scolastico e l’impostazione
storicista ancora dominanti in Germania, dall’altro ogni posizione puramente relativistica. Tale superamento dovrebbe da un lato
condurre ad una filosofia il più possibile fondata sul coglimento
in proprio (Autopsie, Eigeneinsicht) dei contenuti oggettivi da
parte di ogni singolo ricercatore, dall’altro consentire il conoscere-assieme (Zusammenerkennen) dei ricercatori stessi, secondo lo
spirito dell’insegnamento di Scheler a Colonia.
Quella di Landsberg era fondamentalmente una ricerca di sociologia della conoscenza, dal cui oggetto particolare (il modello
dell’Accademia platonica) prendeva spunto per muovere interrogativi sulle leggi generali dell’apprendimento e della comunicazione
del sapere, sulle condizioni generali d’esistenza della filosofia, sulle
modalità d’essere di esistenze filosofiche all’interno di contesti
socio-politici dati. L’Accademia platonica costituiva una comunità
di tipo nuovo, distinta dal tessuto complessivo della polis, un luogo
nel quale l’eros filosofico poteva concretamente dispiegarsi in un
rapporto tra maestro e discepolo tale da condurre il discente alla
visione delle Idee. La filosofia non nasce da un ripiegamento solipsistico, ma all’interno di una comunità vitale in cui si “con-conosce”
e si “con-filosofa”. Ciò non contraddice l’aspetto assolutamente personale dell’esperienza filosofica, la sua intimità ingeneralizzabile:
questo tipo d’esperienza interiore del pensare è dialetticamente connessa al suo aspetto comunitario e comunicante. L’erotica platonica
rappresentava un modello di questo tipo di esperienze filosofiche. In
esplicita contrapposizione con l’interpretazione neokantiana,
Landsberg metteva in risalto il riferimento imprescindibile della filosofia platonica all’interezza della vita umana (personale, sociale,
60
Ibidem, V-VII.
46
MARCO BUCARELLI
religiosa), da cui essa scaturiva. Ne rimarcava, in particolare, la forte
valenza salvifica – come “dottrina di liberazione” – rispetto a quella
strettamente teoretico-conoscitiva, impostazione che lo portava, tra
l’altro, a misurarsi con problematiche inerenti alla sociologia della
religione e più in particolare ad ampi confronti con i contenuti dottrinali e con le forme storiche del cristianesimo.
I criteri dell’opera sono da Landsberg specificati nell’introduzione. La sociologia della conoscenza ha come oggetto da un lato le
forme di cooperazione che conducono all’ampliamento della conoscenza, dall’altro le forme della sua comunicazione da uomo a
uomo. Nella sua parte “formale” essa considera «le forme fondamentali astoriche», mentre nella sua parte “speciale” considera queste forme nelle loro più o meno adeguate realizzazioni storiche.
Metodologicamente le due parti stanno tuttavia in un rapporto di
essenziale dipendenza reciproca, poiché da un lato «l’indagine sulle
forme delle leggi e delle essenze può darsi soltanto sul materiale storico», dall’altro «soltanto con intuizioni fondamentali e concetti
chiarificati ciò che è storico può essere fruttuosamente colto dal
punto di vista sociologico»61. Perciò la ricerca in questione, che
appartiene alla parte “speciale” della sociologia della conoscenza, è
condotta tra il polo dell’indagine sociologica delle leggi e delle
essenze universali e quello dei fenomeni storici particolari62.
La ragione fondamentale del lavoro Landsberg la individua nella
necessità di sviluppare una ricerca che: «nella crisi attuale», possa
dare un «piccolo contributo all’autoconsapevolezza critica della vita
dello spirito», mediante la chiarificazione di un modello che ha
segnato una svolta sociologica nella storia del pensiero; ulteriore
ragione é quella di contribuire al chiarimento dei contenuti della filosofia platonica stessa, dal momento che le forme del “con-conoscere” (Zusammenerkennen) o “con-filosofare” e della comunicazione
della conoscenza sono «sempre in stretta ed esibibile connessione
con i contenuti che vengono conosciuti o comunicati» (inversamente, i contenuti dell’insegnamento platonico illuminano le forme della
scuola platonica).
Sempre nel 1923, assieme alla dissertazione sulla Essenza e
61
62
Ibidem, 1.
Ibidem, 2.
SAGGIO INTRODUTTIVO
47
significato dell’Accademia platonica, trovarono pubblicazione una
raccolta antologica di Scritti religiosi del poeta Novalis (in collaborazione con H. Lützeler) e il significativo saggio «Chiesa e paganesimo», apparso sulla rivista cattolica Hochland.
In «Die Lehre des Novalis»63 Landsberg tocca problematiche
connesse all’idealismo cristiano del poeta, concernenti l’uomo, il
mondo e Dio. La visione del mondo del poeta/filosofo romantico,
per il quale esso è compenetrato di spirito e di vita, offre a Landsberg
interessanti spunti antropologici (in merito alla collocazione dell’uomo tra Welt e Überwelt), conoscitivo-teoretici (circa il rapporto
soggetto/oggetto nella conoscenza) ed etici (sulla libertà intesa come
compito). Landsberg riconosce a Novalis64 il merito di «una nuova
sensibilità per le realtà dell’anima e la loro formazione»65, da conseguirsi consapevolmente mediante l’esercizio e la disciplina.
L’indicazione di Novalis, secondo cui soltanto a partire da un ritrovato ordine interiore dell’uomo è possibile pensare ad una trasformazione del mondo e della società in senso organico-solidale, rimaneva per Landsberg quanto mai valida. «Quando io mi trasformo, il
mondo si trasforma», e ad ogni trasformazione personale corrisponde una trasformazione del mondo. La qualità di tale trasformazione
è data dalla libertà. Si tratta di una «libertà come compito, il compito di divenire sé stessi»66, risultato di ascesi e di esercizio dell’anima.
In tale risposta (in linea con la tradizione cristiana medioevale) starebbe – a parere di Landsberg – il vero valore attuale di Novalis
come indicatore all’uomo europeo della “via dell’anima”, di una
nuova attenzione dell’uomo nei confronti di se stesso.
Ma ciò che a Landsberg preme sottolineare è come qui il fine sia
63
P. L. Landsberg, «Die Lehre des Novalis», introd. a Novalis, Religiöse
Schriften, Köln 1923, 5-17.
64
Novalis, pseudon. di Friedrich von Hardenberg (1772-1802). Tra i suoi scritti
ricordiamo: I discepoli di Sais; Inni alla notte; Cristianità o Europa; Canti spirituali; Enrico di Ofterdingen; Frammenti filosofici. Quella della comprensione delle esistenze concrete di singoli pensatori, delle biografie interiori, resterà per Landsberg
una modalità privilegiata di approccio all’universale umano in generale. Vedremo
come in seguito le sue preferenze andranno prevalentemente a personalità inquiete,
la cui dimensione più propria è costituita dalla tensione interiore e dalla ricerca (in
primis Agostino, Pascal, Nietzsche, Unamuno, lo stesso Scheler).
65
P. L. Landsberg, «Die Lehre des Novalis», cit., 5.
66
Ibidem, 6.
48
MARCO BUCARELLI
un compito che necessita di un esercizio consapevole e volontario;
egli vi vede il pensiero più antico e più pratico dell’umanità, ripensato da un europeo moderno: ne risulta «l’idea di una téchne dell’anima come mezzo e ausilio di liberazione». Come nella più genuina
tradizione medioevale, libertà e ascesi sono strettamente connesse:
«Una prassi del tutto diversa dalla vita attiva e dalla tecnica europea
moderna si dà qui come esigenza: la consapevole, volontaria conquista del dominio, da parte del nostro spirito (Geist), sull’anima
(Seele), sul corpo (Leib) e sulla materia; gli esercizi della contemplazione e della riduzione acquistano qui il loro vero senso»67.
Morale contemplativa: esercizio di formazione della propria
anima, in opposizione all’anarchia dell’anima ormai dominante.
Non si tratta di un controllo dell’anima sul corpo, considerato
manicheisticamente e gnosticamente come male. Il male risiede
proprio nell’anima ferita dal peccato originale.
«Dovremmo tornare a essere consapevoli che l’automatismo dell’anima (Seele), in linea di principio, sta di contro alla persona, in
quanto resistenza da rimuovere, non diversamente dall’automatismo
del corpo (Leib). Ci siamo lasciati andare, poiché ci siamo identificati troppo con la nostra propria anima, e abbiamo dimenticato la
più alta dignità dell’essere personale e ragionevole»68.
In questo breve scritto si ritrovano delle interessanti anticipazioni di quelle riflessioni sulla persona che diverranno centrali
negli anni ’30, sviluppate e contestualizzate nella situazione storica che nel frattempo era maturata in senso assai diverso da
quello che, ottimisticamente, negli anni di questi primi scritti
(1922-1924) Landsberg immaginava.
Il saggio «Chiesa e paganesimo»69 prende le mosse dalla sfida
portata da un rinvigorito vitalismo pagano – rappresentato emblematicamente da Ludwig Klages (1872-1956), al quale l’articolo
Ibidem.
Ibidem, 7.
69
P. L. Landsberg, «Kirche und Heidentum», in Hochland XXI, 1 (1923) 53-63.
67
68
SAGGIO INTRODUTTIVO
49
vuol essere una risposta – contro lo spiritualismo cristiano, e
investe l’ampia problematica, allora animatamente dibattuta, del
rapporto Geist/Leben. Se il platonismo aveva scoperto nel mondo
delle idee un primo grado di trascendenza rispetto al mondo naturale, compiendo così una sorta di “seconda navigazione”, il cristianesimo, in forza della sua stessa natura, aveva portato ad
un’ulteriore trascendenza: quella spirituale del mondo personale.
«La storia del pensiero, considerata come la storia del sapere relativo alla salvezza, è nel complesso la storia dell’orientamento dell’uomo nei confronti del soprannaturale, della malattia e guarigione
degli occhi e delle orecchie della sua anima, per mezzo dei quali
può contemplare la realtà trascendente e ascoltare la parola di Dio.
Nel platonismo dell’antichità la cura progrediva finché era possibile, senza un medico soprannaturale. Nell’antico Patto Dio strappò
pezzo a pezzo l’involucro del peccato mostrandolo al suo popolo, in
particolare attraverso i profeti che gli inviava. Il vero guaritore del
cieco, tuttavia, il vero medico dell’umanità, non giunse finché Egli
non venne in Cristo»70.
Rispondendo a Klages, secondo il quale, sotto l’influenza del
cristianesimo, lo spirito ha profanato la vita, strangolando tutta la
sfera vitale, Landsberg sostiene che la vita dello spirito è certamente il fulcro dell’esistenza cristiana, che in esso la persona
umana, nella sua integralità – anima e corpo – si unisce alla persona. La grazia precede e compie la domanda esistenziale, quella
che cristianamente si chiama preghiera, che implora la salute dell’anima e del corpo. Perciò è al fulcro personale dell’uomo che si
rivolge il cristianesimo. Pur creato nella sua individualità, per la
caduta del peccato l’uomo ha dimenticato questa sua terra natìa,
e soltanto la rivelazione di Dio gli riapre gli occhi alla sua bellezza. Per il pagano, privo di fede e accecato dalle cose mondane,
il mondo personale è una landa poco nota, che egli odia, e vorrebbe che la vita inghiottisse lo spirito. Ciò, tuttavia, gli arrecherà dolore, perché egli non rende giustizia alla realtà di sè stesso e
per questo si distruggerà fino a morirne. Di fronte a questo dram-
70
Ibidem, 57.
50
MARCO BUCARELLI
ma del neopaganesimo, che porterà di lì a breve all’orrore del
mitologismo nazista, Landsberg rivolge un appello alla Chiesa e
ai neopagani con le parole di sant’Agostino: tota opera nostra,
fratres, in hac vita est sanare oculum cordis, per quem videtur
Deus («in questa vita, o fratelli, il nostro solo compito è sanare
l’occhio attraverso il quale il cuore vede Dio»)71.
Di diritto il cristianesimo non avrebbe dovuto comportare
una svalutazione della natura e della vita ad opera della dimensione dello spirito e delle sue manifestazioni, ma solo un ordine
valorizzante; di fatto, però, diverse espressioni del cristianesimo
storico, in particolare il protestantesimo, non furono esenti da
responsabilità in quel processo di desacralizzazione della vita e
di devitalizzazione del mondo che nel capitalismo moderno –
con la spersonalizzazione delle dinamiche di produzione – ha
raggiunto esiti devastanti la vita spirituale e materiale degli individui. Fermo restando il «primato dello spirito, che è vita», nelle
circostanze spirituali del presente un’ulteriore mortificazione
delle esigenze di espressione di slanci vitali può soltanto nuocere, poiché lascerebbe campo libero ad un razionalismo esangue,
esiziale per lo spirito stesso, o ad un irrazionalismo cieco e alla
fine portatore di distruzione per la stessa vita che vorrebbe esaltare. Nella Jugendbewegung cattolica Landsberg vedeva una
possibilità di positiva pienezza di vita che, lasciandosi condurre
e ordinare dallo spirito, avrebbe potuto giovare al reciproco
completamento delle due realtà.
Lo scritto chiude con un appello ai cristiani e alla Chiesa di
non essere sordi alle rimostranze dei neo-pagani, di tener conto
di quanto di giustificato si trova in esse, poiché nella loro ricerca c’è del buono.
«Non è forse stata sempre cura e competenza della Chiesa accogliere le verità parziali di un dato tempo e, accogliendole, asportarne la maledizione della distorta unilateralità, per dar loro un posto
tranquillo nel grande tutto della verità? Oggi, dinanzi al clamore
della vita, la Chiesa deve essere ciò che è sempre stata: l’erede del-
71
72
Ibidem, 58-59; Agostino, Serm. De Script. LXXXVIII, 5 (PL 38: 542).
P. L. Landsberg, ibidem, 63.
SAGGIO INTRODUTTIVO
51
l’eresia»72.
Quest’appellativo – erede dell’eresia – che Landsberg sorprendentemente assegna alla Chiesa è pregno di significato e merita ulteriori considerazioni che ci riserviamo di svolgere successivamente.
Nel 1924 appariva l’articolo «Sulla sociologia della conoscenza
della Scuola aristotelica»73, che completava lo studio
sull’Accademia platonica. Con Aristotele e la sua Scuola, secondo
Landsberg, ad un sapere volto alla liberazione dal mondo, come
quello platonico, si sostituiva un sapere consapevolmente rivolto al
mondo (nel quale le idee platoniche venivano ora de-astrattizzate)
e all’unificazione della multiforme conoscenza di esso in un ordinato regno di forme; processo dal quale la grande tradizione scientifica europea, medievale e moderna, trae le sue origini.
Un altro articolo a carattere sociologico, Problemi del culto74
del 1925 – nel quale è segnalata l’essenziale importanza della
liturgia comunitaria, e in particolare del canto liturgico, per una
piena espressione della realtà spirituale personale cristiana che
vive e si realizza solo all’interno di un mondo a cui appartiene –
completava la prima, tumultuosa fase della produzione di
Landsberg.
5 Elementi caratterizzanti la fase giovanile
del pensiero di Landsberg
Sorprende la precocità di questo giovane, che a soli ventitré anni
aveva già acquisito il proprio spazio e la propria considerazione nel
panorama filosofico pur così ricco del tempo. La fama di
Landsberg, già allora aveva varcato i confini della Germania: nel
73
P. L. Landsberg, «Zur Erkenntnissoziologie der aristotelischen Schule», in II:
Versuche zu einer Soziologie des Wissens, Hg. M. Scheler, München u. Leipzig 1924,
295-301.
74
P. L. Landsberg, «Probleme des Kultus», in Kölner Vierteljahrshefte für
Soziologie, 25 (1924) 154-173. Landsberg indaga le manifestazioni del culto nelle
loro implicazioni sociologiche e antropologiche; in particolare, «idea sociale di
Chiesa» (implicante la relazione dell’intera umanità con un unico Dio) ravvisa «la
più importante categoria fondamentale della sociologia della cultura».
52
MARCO BUCARELLI
1925 uscì in Spagna la prima traduzione del suo studio sul medioevo, a cui seguì, l’anno successivo, quello sull’Accademia platonica. Abbiamo già visto alcune delle reazioni suscitate dalla pubblicazione di Il medioevo e noi; anche il libro sull’Accademia platonica fu oggetto di notevole dibattito. Tra gli interventi più importanti vogliamo ricordare quello del filologo e storico della filosofia
antica Julius Stenzel75, che pur criticando – partendo dall’opposto
approccio neokantiano – l’impostazione generale del lavoro di
Landsberg, non poteva evitare di mettere in evidenza gli aspetti fortemente innovativi dell’opera del giovane filosofo. La precocità era
segno d’indubbio talento, su questo tutti concordavano.
Tentiamo di riassumere le caratteristiche di questa prima fase giovanile del pensiero di Landsberg, come sono colte in una sua breve
biografia: «Il suo interesse conoscitivo storico-filosofico, sociologico e psicologico si desta e si sviluppa attraverso le sfide storico-politiche del suo tempo, tuttavia alla base si afferma un’inclinazione
mistico-religiosa. Nell’esperienza critica dell’essere temporale e
nella ricerca religiosa di un essere sovratemporale si delinea una tensione di fondo della sua personalità e storia di vita»76.
Le esperienze e le sfide storico-politiche del tempo erano
essenzialmente legate alla crisi irreversibile dell’epoca moderna
e della civiltà cristiano-borghese che ne era l’espressione sociologica. Tale crisi, già denunciata nella seconda metà del XIX
secolo da un lato da Kierkegaard, Schopenhauer e Nietzsche, e
per altri versi dal materialismo storico e da altri filoni del pensiero anarchico e socialista, esplose in maniera drammaticamente
evidente nella Grande guerra, che pose fine all’ottimismo borghese sulle magnifiche sorti e progressive dell’intera umanità. Si
manifesta in pieno la crisi di un’idea borghese dell’universalismo
europeistico di stampo illuministico e la dissoluzione dell’individuo, il soggetto della concezione filosofica e sociologica del
mondo moderno. Crisi di cultura e ancor più crisi epocale di civiltà. La prima guerra mondiale aveva toccato personalmente
75
J. Stenzel, recensione a: «P. L. Landsberg, “Wesen und Bedeutung der
Platonischen Akademie», in Deutsche Literaturzeitung für Kritik der internationalen
Wissenschaft, 17. Hf. (1926) 800-802.
76
V. Lenzen, «Paul Ludwig Landsberg. Ein Name in Vergessenheit», in Exil
1933-1945 XI (1985) 9.
77
J. M. Oesterreicher, op. cit., 224.
SAGGIO INTRODUTTIVO
53
Landsberg, con la morte del fratello maggiore; l’esperienza del
primo dopoguerra in Germania, gli anni della fragile esperienza
della Repubblica di Weimar, sono anni febbrili e rappresentano
come una fucina di speranze e di movimenti contraddittori nel
pensiero e nella società, che pure partono da una comune esigenza e da una comune situazione. È presente un afflato rinnovatore
e per molti versi “rivoluzionario”, con accenti spesso utopistici,
da cui Landsberg in questa fase non fu esente. La crisi del capitalismo non porterà al suo crollo, come predicevano i socialdemocratici della Seconda internazionale, né in occidente si compirà una rivoluzione instauratrice di un nuovo umanesimo comunista; invece il sistema capitalista si trasformerà in senso monopolistico determinando in Europa il sorgere di Stati autoritari, dove
gli individui perderanno ancor di più significato divenendo elementi di masse anonime e vuote.
Già in tale periodo Landsberg avverte, e questa sarà una
costante del suo pensiero, una radicale avversione per quello che
Nietzsche definiva “filisteismo colto”, un filologismo incurante
delle esigenze reali della vita, una mancanza di apertura e simpateticità con i dolori, le speranze, le istanze più autentiche espresse dagli uomini di ogni condizione, qualunque forma queste assumessero. In particolare Landsberg rifiutava l’equazione tra spirito del cristianesimo e ideologia borghese.
La sua prima riflessione sull’eterno e sulla storia, espressa nel
libro sul medioevo del 1922, anticipa l’antitesi che poco dopo sarà
riproposta dall’Heidegger di Essere e Tempo (1927) e che trova
espressione, mutatis mutandi, nella coeva Storia e coscienza di
classe di Lukács (1922), e in ambito sociologico da Ideologia e
utopia di Mannheim (1929). Ovviamente le conclusioni sono del
tutto differenti. Il problema posto da Landsberg riguarda tanto la
filosofia della storia, quanto la stessa natura della verità. Esistono,
sono ancora proponibili, delle verità, dei modelli essenzialmente
eterni? Abbiamo visto le risposte di Landsberg e la sua entusiastica adesione all’archetipo medievale da lui ricostruito. E anche la
fallace speranza ottimistica in un prossimo rinnovamento sociale,
esito di una “rivoluzione conservativa”. Con gli anni rivedrà queste posizioni, sulla base degli avvenimenti della storia che falsificarono la sua previsione, e accentuerà il peso della storia e dei fattori socioeconomici che la muovono. Eppure l’idea originale
54
MARCO BUCARELLI
rimarrà: solo una prospettiva di eternità, quindi di verità che non
tradisce la promessa che la vita esprime, può dare un senso al
tempo e ai suoi accadimenti. Il percorso però, durante gli anni dell’esilio, sarà più drammaticamente personale; la sua guida principale non sarà più essenzialmente Scheler, ma sempre più
Agostino, la cui attualità diverrà per Landsberg assoluta.
Il metodo fenomenologico scheleriano, in quegli anni, sarà
una possibilità per sperimentare un nuovo modo d’indagare. Non
si dà una conoscenza vera, cioè adeguata e corrispondente al desiderio che esprime la domanda stessa di verità, senza un coinvolgimento integrale del soggetto con l’oggetto che si esamina. Una
verità che non commuove, che non mette in movimento il cuore,
pur nella quiete della contemplazione, non è interessante, non
entra nell’essere delle cose, non risponde alle domande che la
cercano. L’eros platonico – letto con gli occhi di Agostino, secondo la lezione di Scheler – riacquista in Landsberg un nuovo significato. Una verità astrattamente intellettualizzata – e quindi separata dal contesto vitale in cui è stata colta – o è insignificante,
oppure diviene presto o tardi strumento di violenza ideologica. La
verità di una scoperta è infinitamente più grande della verità di
una dimostrazione. Vedere con gli occhi del corpo, e quindi con
quelli del cuore, è la condizione principe della verità, che permette di vedere le essenze.
Quest’idea di verità, che Landsberg inizia a esprimere, pur
nella sua pretesa di eternità, non è data come un oggetto, ma
avviene attraverso il processo di personalizzazione, del “diventare persona”: il Werdesein (“essere-divenire”) e anche in dialettica
unità “divenire-essere”. Il motto di Agostino, Verum facere se
ipsum, diviene il compito a cui è chiamato il filosofo e ogni
uomo; anche la tradizionale definizione di verità come adaequatio sarà reinterpretata riprendendo l’originale spirito di san
Tommaso secondo l’afflato esistenziale agostiniano. La verità si
dà in un’esperienza intimamente personale e si coglie – come
sosteneva Tommaso – in actu exercito, nel suo operare, trasformandola nella persona. Tutto ciò si chiarirà sempre più negli
scritti della maturità, con una parziale presa di distanza da
Scheler. La persona, nel suo insondabile e costitutivo mistero che
impedisce una conoscenza piena della sua essenza, sarà colta in
un rapporto vitale con “la Persona”: Dio. Il Dio che si è voluto far
SAGGIO INTRODUTTIVO
55
vedere e toccare: Gesù Cristo.
In quest’ottica, contro ogni spiritualismo gnostico o cristiano
tentato dallo gnosticismo, Landsberg valorizza il significato
della corporeità. Non di un corpo astratto, ma di quello di carne
e sangue, da cui non possiamo prescindere, pena il cadere in un
angelismo idealizzante. Su questo punto si è incentrata la sua
fondamentale critica a Platone e ad ogni platonismo dualistico.
In rapporto ordinato con l’anima, di cui non è la prigione ma l’espressione sensibile, il corpo è essenziale alla realizzazione della
personalità.
La nozione di persona, che comincia ad assumere una sua
fisionomia già negli scritti giovanili, non ci viene presentata
monadicamente isolata. Essa vive e si può realizzare solo in un
ambiente vitale, in una comunità. L’accento sulla necessità di una
sociologia della conoscenza, di cui ci dà dei saggi negli scritti di
questo periodo, non è solo un debito nei confronti di analoghe
indagini di Scheler e di altri contemporanei, ma sgorga dall’essenza propria della persona stessa, dal suo ineludibile rapporto
con l’ambiente vitale in cui è generata. Conoscere, volendo prescindere da questo, per Landsberg, è ricadere in una vuota astrazione che preclude la possibilità di cogliere il significato autentico del proprio oggetto. La ricerca della verità, lo stesso interrogarsi, avviene contemporaneamente nell’intimo della propria
interiorità e all’interno di una comunità di cui si è parte, che mai
potrà coincidere con una generica nozione di umanità. Si è generati in un contesto specifico, così come nel caso delle conversioni. L’uomo non è soltanto un “animale politico”, come diceva
Aristotele, ma la persona nel suo concepirsi non può non sentirsi parte di una comunità di persone specificamente e concretamente individuate. Questo tema, lo vedremo, tornerà con maggior chiarezza e forza negli scritti politici dell’ultimo periodo di
Landsberg.
La landsberghiana teoria della conoscenza è, in questa fase,
prevalentemente di derivazione husserliano-scheleriana; riguardo alla sua gnoseologia si può parlare di intuizionismo oggettivo o di oggettivismo eidetico, “visione d’essenza” e “tipo ideale” Come per Scheler, per il quale il sapere era Seinsverhältnis,
anche per Landsberg il conoscere implica il “rapporto originario con l’essere” (con tutto l’essere). Conoscere come trasfor-
56
MARCO BUCARELLI
mazione del soggetto a contatto con l’oggetto. Si delinea subito
il primato dell’evidenza e dell’immediato “mostrare” (Aufweisen,
Aufzeigen) sull’astratto e concettuale “dimostrare” (Beweisen). Sulla
scorta di Scheler, il genos (concetto astratto di “genere”) viene nettamente distinto dall’eidos (immagine essenziale individuale). L’atto
del coglimento della verità è personale e non ha per presupposto un
riconoscimento universale, ma può essere l’intuizione di un solo
individuo in ogni determinata esperienza. Di derivazione scheleriana
è l’idea che sia l’amore (inteso come apertura e disponibilità al
mondo) a consentire la partecipazione conoscitiva nei confronti dell’essere (Wesen und Formen der Sympathie). Amore e odio, quindi,
come forze fondamentali orientanti. È singolare il tentativo di
Landsberg di riconnettersi alla scheleriana Daseinsrelativität, individuando già in questa fase condizionamenti antropologici, storici,
sociologici, religiosi del conoscere. In questa fase, però, la prospettiva è quella della Weltanschauung, non ancora della Selbstauffassung,
l’autoconcezione, idea che sarà sviluppata nella successiva e più
organica Introduzione all’antropologia filosofica (1934).
Già nella sua primissima fase l’antropologia landsberghiana
(ancora implicita) investe la polarità dialettica Geist/Leben.
L’uomo è collocato in posizione problematica tra i due poli idealtipici della pura animalità e della pura spiritualità, partecipando di
entrambe come «essere vivente spirituale» (geistige Lebewesen), o
meglio come «essere spirituale vivente» (lebendige Geistwesen), in
definitiva come «essere composito» (Mischwesen). Quella di
Landsberg è una concezione “dinamica” dell’uomo in direzione di
un progressivo “divenire se stesso” (Selbstwerdung); più tardi
diverrà centrale la categoria di “umanizzazione” (Menschwerdung,
Humanisation). L’unità dell’uomo è già una sua preoccupazione
costante. L’uomo si coglie, di volta in volta, come un’unità di io
psicofisico (corpo animato) e di io psicologico (oggetto dell’intuizione interna); persona spirituale che “ha” tutti gli oggetti (nell’atto del “raccoglimento”), ma che a sua volta non può mai essere
oggettivata. Se lo spirito personale ha il primato nella struttura globale dell’essere umano, esso sussiste tuttavia in stretta connessione
con le forze vitali di origine animale che parimenti lo costituiscono, e necessita della loro collaborazione: il corpo. L’anima (Seele),
in quanto libera e suscettibile di formazione, riveste un ruolo centrale come alleata o antagonista dello spirito. I problemi connessi
SAGGIO INTRODUTTIVO
57
alla dimensione corporeo-psichica dell’uomo saranno affrontati da
Landsberg in vari articoli del periodo francese. Negli scritti giovanili, a partire da spunti offerti dagli studi etnologici di Lévy-Bruhl,
di quelli sociologici di Tönnies e di Scheler, si delinea una categoria fondamentale della costituenda antropologia landsberghiana:
quella dell’individualizzazione del singolo rispetto alla specie e al
gruppo primitivo d’appartenenza.
Già nei suoi lavori giovanili Landsberg enuclea l’incidenza
storica e la valenza filosofica di due nozioni teologiche cristiane: quelle che egli definisce «potenze operanti nella storia»,
ovvero il peccato originale e la grazia. Esse partecipano del
medesimo mistero: libertà della personalità di Dio e libertà dell’uomo. Peccato, grazia e predilezione, costituiscono la polarità, per usare un’espressione di Romano Guardini, in cui si giocano i destini delle persone individuali e delle comunità.
Quanto al cristianesimo del Landsberg di questo periodo, alcune considerazioni provvisoriamente conclusive. Il suo afflato è evidentemente cattolico. Il protestantesimo è visto come il cedimento
al nominalismo, la causa della distruzione dell’ordo e della ragione oggettiva, ma anche, in definitiva, della perdita del valore conoscitivo, eidetico ed euristico della fede; conseguenza inevitabile del
cristianesimo riformato è l’individualismo che, per le ragioni appena dette, si contrappone al personalismo. Per l’individuo protestante l’etica ha un ruolo preminente, assolutamente funzionale alle
istanze della nascente società borghese e dell’economia capitalista.
Il primato assiologico dell’estetica, ancor prima che della metafisica, sull’etica, è invece per Landsberg caratteristica propria della
concezione cattolica. Così come quello dell’essere, pur in tutta la
sua tensione dialettica, sul dover essere. La bellezza della liturgia
cattolica, che nella sua semplicità esprime lo «stupore del vedere e
del sentire» Dio in Gesù Cristo negli atti sacramentali, è contrapposta all’austerità melanconica e commemorativa di quella protestante, dove il ruolo essenziale è attribuito al sermone. La Chiesa
cattolica è, per Landsberg, una comunità concreta e reale in un rapporto in re con Colui che la genera; la comunità protestante è un
universale in senso nominalistico. Due sono i rischi che Landsberg
intravede per il cattolicesimo: da un lato, inseguendo il mito di una
modernità peraltro ormai agonizzante, quello di cadere nella prote-
58
MARCO BUCARELLI
stantizzazione; dall’altro, all’estremo opposto, quello della giudaizzazione o del semipelagianesimo, con la conseguente ripetizione astrattamente dogmatica e legalistica di verità che oramai sono
al di fuori del contesto vitale in cui erano state scoperte e formulate. Non era più possibile, in quel dato momento storico, «tornare a
Tommaso» – slogan molto in voga all’epoca in ambito cattolico –
senza passare prima per Agostino, che di Tommaso fu riferimento
costante e guida spirituale. In questa prospettiva, seguendo un itinerario fondamentalmente agostiniano, diventa più comprensibile
il senso di quell’affermazione incontrata in precedenza: la Chiesa è
“erede dell’eresia”; e in parte anche quella, successiva di qualche
anno, secondo cui la Chiesa è “cattolica in essere-divenire”.
Il suo approccio al cattolicesimo, in questi anni giovanili, fu prevalentemente estetico e lucidamente intellettuale, mediato dalle
tante letture e dalla frequentazione di affascinanti pensatori come
Guardini, e soprattutto, nel periodo degli scritti che abbiamo finora esaminato, da Max Scheler. Così, ad esempio, Landsberg non
sentiva ancora l’urgenza di un’adesione formale alla Chiesa cattolica, né della partecipazione ai sacramenti, diversamente che nell’ultimo periodo della sua vita.
6 La crisi
Dopo una così copiosa produzione e la sua esplosiva apparizione sulla ribalta filosofica, Landsberg tacque durante quattro lunghi
anni. Non è facile dare una spiegazione di questo silenzio, che
appare clamoroso in considerazione dell’entusiasmo e della passione manifestata nei lavori che gli avevano dato notorietà, e non
solo in ambienti accademici. Sta di fatto che dal 1924 al 1929 non
scrisse nulla.
Dagli archivi accademici di Bonn sappiamo che frequentò a
Berlino i corsi di Werner Sombart per perfezionare le proprie conoscenze in sociologia economica e apprendere le metodologie della
ricerca sociologica; s’interessò anche di “Gestaltpsychologie”,
partecipando ai seminari tenuti da Max Wertheimer, capostipite
della scuola psicologica gestaltista. Sempre dalle medesime fonti
sappiamo di lunghi viaggi di studio in Italia, Francia e Austria (qui
incontrò Sigmund Freud). Ma tutto ciò non spiega adeguatamente
SAGGIO INTRODUTTIVO
59
l’improvviso silenzio.
L’unica ipotesi disponibile è quella avanzata da Oesterreicher,
che sostiene essersi trattato di una sorta di fuga dal compito che
Landsberg riteneva fosse la sua vocazione filosofica e personale.
Al primo periodo di fervore religioso e filosofico seguirono alcuni
anni di smarrimento intellettuale e religioso; non scrisse perché
non volle più scrivere. Nulla gli sembrava adeguato, ma tutto confuso. Sempre secondo il medesimo autore, Landsberg in quegli
anni si sarebbe gettato nel vitalismo più sfrenato, accumulando
esperienze nei bassifondi delle città tedesche o di Parigi. Immerso
in un mondo sensuale e primitivo, attratto da quella che più tardi
chiamerà «estasi nera», la vertigine «verso il basso», sperimentando il dramma del marchese de Sade, «questo Pascal abbandonato
da Dio», come lo definirà anni dopo. Scrive Oesterreicher: «Fu per
qualche tempo ai limiti dello scetticismo, vicino a cadervi. Una
conoscenza autentica gli pareva impossibile, la funzione della filosofia non gli sembrava più che quella d’illustrare la situazione dell’uomo che vive senza speranza in mezzo alle tenebre»77. Il biografo fa riferimento ad una «Memoria inedita del Dr. Rudolf
Sobotta, Bonn»78.
Negli scritti di Landsberg degli anni successivi troviamo solo
qualche indiretto riferimento a questa situazione, in particolare in
un suo intervento in una seduta della Société française de
Philosophie, il 4 dicembre 193779. Oesterreicher riporta qualche
brano del Diario di Landsberg, che lui ha potuto consultare, che
si può riferire a questo periodo oscuro.
«Credo di essere nato proprio per raggiungere importanti traguardi
intellettuali. Ciò che mi manca è la capacità di aderire a lungo ad una
medesima cosa. Il mio interesse è tirato ora da una parte ora da un’altra, così la mia energia è frammentata. Vincere ciò?!?!?!»80.
Ibidem, nota 67.
Contributo al XXXVII Congresso della “Société française de Philosophie” sul
tema: «Subjectivité et transcendance» (Exposé: J. Wahl. Discussion: Berdjaev, Berthélot,
Brunschvicg, Landsberg, Marcel, Marck. Correspondance: Aron, Bastide, Bespaloff,
Heidegger, Hersch, Jaspers, Lavelle, Lévinas, Löwith, Nadler), in Bulletin de la Société
française de Philosophie, Paris, oct.-déc. 1937, 188-191; tr. it. infra 477-480
80
J. M. Oesterreicher, op. cit., 223.
81
P. L. Landsberg, Problèmes du personnalisme, Ed. du Seuil, Paris 1952 [anto78
79
60
MARCO BUCARELLI
Quest’annotazione rivela i suoi molti sforzi e le sue molte
sconfitte, e tutto quello che dice qui sulla sua vita intellettuale
vale anche per la sua ricerca religiosa. Anche Jean Lacroix,
nella sua prefazione a Problèmes du personnalisme, fa riferimento a confidenze ricevute da Landsberg e che avvalorano l’ipotesi del padre gesuita81.
Pur non essendovi conferme dirette in tal senso, è difficile
non pensare che a questo periodo di smarrimento e di conseguente non-produttività siano estranei il definitivo abbandono
della Chiesa cattolica da parte di Scheler, maturatosi e compiutosi proprio in quegli anni, data la venerazione di Landsberg per
il suo maestro. Tenendo anche conto che, questa volta, l’allontanamento dalla Chiesa del filosofo monachese non avveniva
per questioni etiche, ma per problematiche propriamente dogmatiche e per la sua svolta in senso panteistico. L’abbandono
del cattolicesimo sarà reso definitivo con la morte improvvisa di
Scheler nel maggio del 1928.
Il 29 settembre del 1927 muore improvvisamente Ernst
Landsberg, poche settimane dopo essere andato in pensione. La
morte del padre e quella, di pochi mesi successiva, del maestro
furono probabilmente gli eventi che risvegliarono Paul Ludwig
dal suo stato di paralisi intellettuale, facendolo uscire dalla condizione di smarrimento. Trasferitosi con la madre in un piccolo
appartamento a Bonn, ricominciò a scrivere con lena. Ma, come
si vedrà, dal tenore e dalla forma dei suoi lavori emerge una personalità rinnovata rispetto a quella entusiasta dei primi scritti
giovanili.
Nel 1928 conseguì l’abilitazione all’insegnamento in filosofia e storia della filosofia presentando un ampio studio dal titolo Augustinus. Studien zur Geschichte seiner Philosophie82, nel
quale ripercorreva le tappe della storia interiore del grande
logia a cura di J. Lacroix, che raccoglie alcuni dei principali articoli pubblicati da
Landsberg su Esprit e altre riviste].
82
P. L. Landsberg, Augustinus. Studien zur Geschichte seiner Philosophie, Bonn 1928.
83
Vedi supra 11
SAGGIO INTRODUTTIVO
61
santo e filosofo cristiano. Come accennato nella «Avvertenza»
iniziale83, al momento non siamo in possesso dell’opera nella
sua integralità. Ne possediamo probabilmente soltanto degli
estratti, pubblicati da Landsberg in quegli anni nel contesto di
altre opere o in articoli a se stanti. Nel saggio «Problemi della
dottrina sulla grazia» (1930) l’intera sezione dedicata ad
Agostino è sicuramente una ripresa di motivi presenti nello
scritto di abilitazione; «La libertà e la grazia in sant’Agostino»
(1934) non è che una ripubblicazione in spagnolo, con qualche
piccola integrazione, della sezione dedicata ad Agostino nel
citato articolo sulla dottrina della grazia; «La conversione di
sant’Agostino» (1936) ci sembra ancora, per assonanza stilistica e contenutistica, una ripresa dei medesimi motivi della riflessione di fine anni ’20. Con l’articolo «La confessione di
sant’Agostino» (1939) si apre, a nostro avviso, una nuova fase
di ripensamento sulla figura e sul pensiero del vescovo di
Ippona; Landsberg avrebbe voluto scrivere un’opera tutta
nuova su Agostino, riprendendo i temi trattati nella
Habilitationsschrift, non più però con un taglio prevalentemente accademico, bensì alla luce della nuova situazione, dell’esperienza maturata negli anni dell’esilio, e muovendo dalla
riscoperta personale dell’assoluta attualità di Agostino84.
Non ci addentriamo qui in una disamina della lettura landsberghiana di Agostino, tanto del periodo dello scritto di abilitazione quanto del periodo terminale della sua vita. Questa sarà
oggetto, vista la sua importanza, di uno studio più approfondito che accompagnerà la pubblicazione del secondo volume
84
«Probleme der Gnadenlehre», in Deutsche Vierteljahrsschrift für
Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte VIII (1930) 373-401; «La libertad y la
gracia en san Augustín», in Cruz y Raya V, 13-15 (1934) 195-225; «La conversion de
saint Augustin», in La vie spirituelle XLVIII (1936), Supplément, 31-56; «La confession de saint Augustin», in La vie spirituelle LX (1939), Supplément, 1-22. Del
progetto di un nuovo libro su sant’Agostino abbiamo riferiscono più autori e in particolare Pierre Klossowski, che ha pubblicato due dei tre manoscritti in suo possesso:
«Les sens spirituels chez saint Augustin», in Dieu Vivant 11 (1948) 87-105; «Du concepte de verité chez saint Augustin», in Deucalion 3 (1950) 45-64. Per ulteriori elementi, riguardo a quest’opera incompiuta, si rimanda alla nostra «Avvertenza del
curatore», supra 11-12.
85
P. L. Landsberg, Pascals Berufung, F. Cohen, Bonn 1929.
62
MARCO BUCARELLI
degli Scritti di Landsberg, dove saranno riportati in una sezione specifica tutti i lavori del nostro autore su Agostino e dove
seguiremo una sorta di percorso da lui compiuto dentro l’opera
e l’esperienza interiore del grande santo. Ci basti qui rammentare quanto abbiamo sostenuto in precedenza: ovvero, la progressiva crescente influenza dell’esperienza e dell’itinerario
intellettuale e spirituale di Agostino su Landsberg, che assume
il dottore della Chiesa quale suo punto fondamentale di riferimento. Nell’analisi e nella meditazione dei testi agostiniani egli
trova costante ispirazione filosofica e religiosa, affina la sua
comprensione delle strutture e delle dinamiche dell’interiorità
ed elabora non poche delle sue principali categorie gnoseologiche ed antropologiche.
Nello studio La vocazione di Pascal85, pubblicato nel 1929 e
dedicato alla memoria del padre scomparso due anni prima,
Landsberg affronta soprattutto problematiche legate alla conoscenza religiosa. L’opera rappresenta un ampliamento della
prolusione universitaria, tenuta il 1° dicembre 1928
all’Università di Bonn, dal titolo: «Pascals religionsphilosophische Berufung». Le riflessioni sulla specificità della conoscenza religiosa hanno come principale riferimento l’esperienza
testimoniata dal celebre Memoriale. Il contenuto specifico
della conoscenza religiosa è considerato accessibile soltanto
nella peculiare esperienza interiore costitutiva dell’atto di fede,
il momento razionale-astratto potendo tutt’al più costituire un
momento preparatorio (come nel caso della “scommessa”
pascaliana).
7 La vocazione di Pascal, ovvero la persona come vocazione
Landsberg si accosta a Pascal col preciso intento di «interpretare, partendo dalla vivente e storica relazione ontologica»86
quanto di positivo permane del suo essere e della sua opera: fine
che egli ritiene di non poter conseguire attraverso il commento ai
86
87
Ibidem, 7.
Vergegenwärtigung (richiamare alla mente, alla coscienza; rendere presente,
SAGGIO INTRODUTTIVO
63
singoli pensieri dell’autore, ma «soltanto col rendere presente alla
mente (Vergegenwärtigung)87 la realtà spirituale che dà al suo
pensiero un senso vitale unitario per lui e per noi: col presentare la
sua speciale vocazione»88. Rendere presente la “realtà spirituale” di
Pascal e la sua “vocazione” significa toccare l’essenza unica della
sua personalità religiosa. «La conoscenza religiosa è conoscenza
della personalità mediante la sua essenziale unicità», da cui consegue che «l’interpretazione essenziale filosofica della realtà religiosa
non può mai rinunciare ad entrare nella profondità storico-biografica, nella singolare essenza spirituale delle personalità spirituali»89.
Solo il coglimento del “mondo d’esperienza” (Erfahrungswelt) e del
“genere d’esperienza” (Erfahrungsart) di tali personalità è in grado
di avviare alla comprensione del “mondo religioso” stesso. L’intento
è un’indagine non storica né teologica, bensì filosofico-religiosa
della realtà spirituale di Pascal, nella quale questi credeva di pensare e di agire partendo dalla sua unione con Dio.
Il confronto con Agostino, «il prototipo e la misura del filosofo cristiano»90, è costante in tutta l’opera, e non solo per ovvie
considerazioni di carattere storico e biografico (per il fatto, ad
esempio, che Pascal si collochi in una secolare tradizione cristiana di cui Agostino costituisce una delle radici, e che si trovi inoltre a confrontarsi approfonditamente con l’agostinismo a seguito
delle vicende legate al giansenismo e a Port-Royal). Accomunano
i due filosofi tanto l’ardente amore per Dio quanto la vastissima
cultura mondana e il rigore del pensiero, messi a servizio dell’annuncio religioso con l’ausilio di un’efficacissima espressione
linguistica. L’uno passando attraverso lo scetticismo antico, l’altro attraverso Montaigne, sono giunti, per via filosofica, a riconoscere i limiti della ragione prima ancora di approdare alla fede,
in seguito ad una speciale esperienza immediata di Dio e ad una
conversione radicale di tutta la persona. Come per Agostino fu
decisiva l’esperienza religiosa vissuta nel giardino di Milano, per
attualizzare), categoria scheleriana; cfr. Aufweis (mostrare, presentare, presentazione,
ostensione); Wiederholung (“ripetizione” rammemorante).
88
Ibidem, 7.
89
Ibidem.
90
Ibidem, 8.
92
Ibidem.
64
MARCO BUCARELLI
Pascal lo fu quella di cui è testimonianza il suo Memoriale. Per
entrambi si trattò dell’evento decisivo, quello che rende comprensibile il senso dello sviluppo delle loro rispettive personalità,
pur lasciando impregiudicata la domanda su di un effettivo intervento soprannaturale alla sua origine.
«Pascal dice che gli riesce di “concepire un uomo senza mani,
piedi, testa”, ma non “l’uomo senza pensiero”. Probabilmente è
esatto, ma non ne consegue che noi possiamo concepire noi stessi
come esistenti senza corpo. Quando Descartes respinge “tutte quelle parti e tutte quelle membra che costituiscono la macchina
umana”, credendo di potersi considerare unicamente come pensiero immateriale per essenza, si sbaglia di grosso. Quando dice: “È
stato necessario che mi considerassi senza braccia, senza gambe,
senza testa, in una parola senza corpo”, il sofisma risiede nel rapido passaggio segnalato da “in una parola”. Mutilando l’idea del
proprio corpo non si arriva a fare astrazione dalla corporeità
umana. Certo, non è proprio dell’essenza dell’uomo realizzarsi in
questa o quella forma fisica, e tutte le metamorfosi sono immaginabili purché l’essere umano conservi una reale presenza nel
mondo dei corpi. Ma questa presenza è proprio il fondo della nostra
corporeità. È mediante essa che l’uomo è una canna; “per ucciderlo può bastare del vapore, una goccia d’acqua”. Al di fuori di questa verità non è possibile alcuna idea dell’uomo. Il postulato di un
pensiero o di una coscienza in sé non ha altra base se non l’universalità della logica pura. Il nostro reale pensiero è essenzialmente
quello di una canna. Correggendo l’angelismo cartesiano con le
osservazioni di Montaigne, Pascal ritorna all’uomo (Pascal,
Pensieri 339, 347 [ed. Brunschvicg]; Descartes, Ricerca della verità alla luce naturale)»91.
E sempre nella medesima raccolta di pensieri:
«Il termine “vocazione” designa una categoria fondamentale della
vita personale. Avere una vocazione non è la qualità di una sostan-
91
P. L. Landsberg, «Pierres blanches», in Les Nouvelles Lettres, oct. 1938; tr. it.
infra 736.
SAGGIO INTRODUTTIVO
65
za che sarebbe la nostra persona. Non bisogna immaginare una
persona già esistente e che poi riceverebbe la propria vocazione.
La vocazione precede piuttosto il fatto personale e concorre alla
sua costituzione. Rispondere a tale appello e divenire una persona, sono aspetti dello stesso avvenimento. La vocazione non s’identifica con la coscienza che ne possiamo prendere. La sua presenza principale si produce sotto forma di un impulso subìto. Non
possiamo datare la scoperta, ma nemmeno l’origine della nostra
vocazione. Questa scoperta appartiene al momento in cui c’identifichiamo coscientemente con l’inquietudine della nostra adolescenza. Nello stesso istante interviene il primo grave pericolo di
tradimento».
«Secondo le apparenze, vi è un’attenzione ansiosa che precede la
vocazione, e una realizzazione coraggiosa che la segue. Ma vista
più da vicino quest’attenzione è già una maniera di sentire il suo
richiamo, e la sua realizzazione non può mai progredire se non in
quest’attenzione e in quest’angoscia. Se la cerchi, l’hai già trovata,
e se l’hai trovata non smetterai di cercarla. Possiamo fuggire la
nostra vocazione, ma non sopprimeremo mai più il potere della sua
inafferrabile presenza. Rinnegata, essa assume le sembianze di un
crudele cacciatore che non si stanca di perseguitarci. Siamo segnati dall’inguaribile ferita che ci ha inflitto. Possiamo vivere contro la
nostra vocazione, mai più però senza di essa. Siamo suoi per la vita
e forse è ancora essa che ci attende dall’altra parte della tomba»92.
8 L’insegnamento universitario a Bonn (1928-1933)
La prolusione inaugurale su Pascal riscosse notevole successo, così come la sua pubblicazione. A tal proposito è curiosa
un’inedita lettera manoscritta di Martin Heidegger, del 28 ottobre 1929, indirizzata all’editore Vittorio Klostermann di
Francoforte, con la quale, mentre gli preannuncia d’aver concluso la revisione della sua prolusione inaugurale Was ist
Metaphysik?, gli chiede se può essere pubblicata nella medesima veste editoriale della prolusione di Landsberg edita da
93
Il manoscritto è conservato allo Schiller-Nationalmuseum di Marbach, ma era
66
MARCO BUCARELLI
Friedrich Cohen a Bonn. Una buona veste editoriale – aggiunge
Heidegger – può giovare, come nel caso di Landsberg, al successo di un’opera e alla diffusione delle sue idee93.
Durante cinque anni, fino al 1933, Landsberg si dedicò con
passione all’insegnamento universitario a Bonn in qualità di
Privatdozent. Dal punto di vista scientifico si dedicò a sviluppare, rifacendosi a categorie del pensiero di Scheler e del pensiero
classico cristiano (Agostino e Tommaso), ma in maniera assolutamente originale e innovativa, ricerche a tutto campo in vista
dell’elaborazione di una nuova filosofia antropologica. A ciò
erano funzionali ricerche particolari in campo sociologico e l’approfondimento degli influssi della realtà economica e dell’organizzazione del lavoro sulla filosofia della conoscenza e dell’esistenza. Obiettivo dichiarato era lavorare alla preparazione di
un’antropologia consapevole del radicamento storico, socio-economico, vitale dell’uomo e del sapere che esso può di volta in
volta conseguire di se stesso; un’antropologia fondata in definitiva su un’autoconcezione globale dell’uomo a partire dal suo specifico modo d’essere e dalla propria situazione personale e storica.
Una lettera di E. Rothacker, allora presidente della Sezione di
filosofia dell’Università di Bonn, scritta agli inizi dell’ultimo
semestre d’insegnamento di Landsberg, costituisce un completo e
attendibile consuntivo della breve stagione universitaria del giovane docente.
«Il Dr. P. L. Landsberg [...] a partire dalla sua abilitazione del
14.11.1928 ha insegnato con ottimo esito presso la nostra Università,
costituendo attorno a sé una stretta cerchia molto qualificata di allievi. Durante questo tempo ha pubblicato, tra gli altri, una serie di
notevoli brevi lavori sulla storia di concetti filosofici, di sociologia
della conoscenza, di filosofia del linguaggio, e da fine anno ha ter-
riprodotto, passato allo scanner, nel sito www.dla-marbach.de/aktuelles/pm/pm332001.html.
94
La lettera integrale, del 9 febbraio 1933, è consultabile in «Personal-und
Wiedergutmachungsakte der Philosophischen Fakultät der Rheinischen FriedrichWilhelms-Universität», Bonn.
95
Si tratta della lettera, datata anche questa 9 febbraio 1933, con cui E. R. Curtius
SAGGIO INTRODUTTIVO
67
minato un’ampia opera d’introduzione all’antropologia filosofica,
che si trova in corso di stampa nella Sezione»94.
In un’altra lettera, del filologo e storico della letteratura
romanza Ernst R. Curtius, conservata nei «Personalakte» di
Landsberg all’Università di Bonn si legge:
«[…] da anni i suoi studi hanno riguardato prevalentemente la filosofia dell’ambito delle lingue latine. [...] A tali studi si è di recente
indirizzato con maggior vigore e ha utilizzato la sua vacanza di studio nel semestre invernale 1931/1932 in particolare per rinnovare la
sua conoscenza di pensatori francesi di primo piano. Un saggio su
Bergson si trova in stampa nei “Kantstudien”»95.
Spulciando gli archivi dell’università di Bonn si possono ritrovare gli argomenti dei corsi e seminari tenuti da Landsberg in
quegli anni96.
– Semestre estivo 1929: Freiheitslehre (“La dottrina della libertà”);
seminario: Freiheitslehren der Neuren Zei (“Dottrine contemporanee
della libertà”).
– Semestre invernale 1929-30: Nietzsche und Scheler (“Nietzsche e
Scheler”); seminario: Typen des Philosophiebegriffs (“Tipi di concetti della filosofia”).
– Semestre estivo 1930: Augustin (“Agostino”); seminario: Lektüre
der “Soliloquia” Augustins (“Lettura dei Soliloquia di Agostino”).
– Semestre invernale 1930-31: Philosophische Anthropologie
(“Antropologia filosofica”); seminario: Anthropologische Übungen
(“Esercitazioni antropologiche”).
– Semestre estivo 1931: Geschichte der neuren Philosophie – von
Baco bis Kant (“Storia della filosofia moderna. – Da Bacone a Kant”);
seminario: Soziologische Übungen (“Esercitazioni sociologiche”).
– Semestre invernale 1931-1932: vacanza del docente.
appoggiava la richiesta di un incarico d’insegnamento in “Filosofia dei popoli romanici” per Landsberg. Quanto al saggio su Bergson, di cui fa menzione, non è mai stato
reperito e al momento lo consideriamo disperso.
96
Fonte: «Vorlesungsverzeichnisse der Rheinischen Friedrich-WilhelmsUniversität zu Bonn», WS 1928/29 - SS 1933.
97
A. Lischewski, Person und Bildung. Überlegungen im Grenzgebiet von
68
MARCO BUCARELLI
– Semestre estivo 1932: Philosophie des Altertums (“Filosofia dell’antichità”); seminario: Übungen über Goethes Weltanschauung
(“Esercitazioni sulla Weltanschauung di Goethe”).
– Semestre invernale 1932-33: Seele und Schicksal (“Anima e destino”);
seminario: Anthropologische Übungen im Anschluss an die Vorlesungen
(“Esercitazioni antropologiche relative alle lezioni).
– Semestre estivo 1933: Ideengeschichte des Sozialismus (“Storia dell’idea di socialismo”); seminario: Bergson und Sorel (“Bergson e Sorel”).
[Quest’ultimo corso e il relativo seminario non furono mai tenuti da
Landsberg, all’epoca già espatriato].
Il lavoro didattico, il contatto diretto con gli studenti, coi quali
voleva creare una comunità di studio, non era soltanto un complemento alle ricerche filosofiche e sociologiche di quegli anni di attività accademica. Come ha ben segnalato Andreas Lischewski, nel suo
ampio e documentato studio Person und Bildung97 – una monografia
dedicata agli aspetti pedagogici dell’antropologia landsberghiana e
alla Bildung della persona che ne deriva –, l’attività speculativa del
Nostro era inscindibilmente connessa con la sua comunicazione
all’interno di un contesto vitale definito. Ci restano due testimonianze dirette, rivelatrici della personalità di Landsberg come uomo e
come docente.
Gustav R. Hocke, noto giornalista tedesco e critico d’arte, suo studente all’epoca della docenza privata all’Università di Bonn, ricorda
del suo professore il Drang nach unten, la predilezione per la gente
semplice. Racconta come nelle notti invernali egli uscisse con le
ampie tasche del cappotto colme di pezzi da tre marchi, che distribuiva a piene mani ai poveri e ai disoccupati incontrati per strada. Ne
ricorda la «grande forza d’attrazione spirituale», genuinamente socratica, che esercitava sui suoi studenti, e assieme il gusto di bere e di
ballare. Hocke conferma anche il suo «dono profetico», la sorprendente capacità di anticipare i tragici eventi del 1933, del 1939 e del
1945, certo non nel loro puntuale accadere, ma nella loro relativamente rapida successione. «Non dimenticherò mai una sua frase:
Philosophischer Anthropologie und Bildungstheorie im Anschluß an Paul Ludwig
Landsberg, Dettelbach Röll, Rodopi Amsterdam 1998, 2 Bd., 656.
98
Cfr. G. R. Hocke, «In Bonn 1930-1932. Erinnerungen an eine Universitätsstadt»,
in Süddeutsche Zeitung, 47, Febr. 1978, 106. Interessante è il rilievo di Hocke circa la
SAGGIO INTRODUTTIVO
69
“L’Europa di von Hofmannsthal, André Gide, Thomas Eliot, Ortega
y Gasset, già prima della metà del secolo non esisterà più»98. Una sua
studentessa, Vilma Sturm, in un articolo commemorativo ricorda la
sua signorilità, che «non riguardava solamente il suo aspetto fisico
– molto alto, elegante e gentile nei modi, con capelli scuri e begli
occhi d’un azzurro profondo – ma uno spirito libero e cavalleresco;
generoso e sicuro di sé era capace di mantenersi distaccato dall’ambiente accademico, pur essendovi completamente immerso»99.
In quel periodo conobbe una giovane studentessa cattolica,
Magdalena Hoffmann100, che frequentava i corsi di dottorato in
filosofia e letteratura moderna. La giovane s’innamorò perdutamente del brillante e avvenente professore, che non tardò a ricambiarne i sentimenti. Quando Landsberg decise di lasciare la
Germania, il 1° marzo 1933, Magdalena volle seguirlo in esilio. A
Zurigo, prima tappa del loro peregrinare, il 27 luglio di quell’anno
si sposarono.
Appartengono a questa fase della vita di Landsberg, che potremprecoce familiarità di Landsberg con la psicologia del profondo, da lui applicata alla
moderna società di massa, e con le scienze sociali, il tutto sulla base del pensiero cristiano-cattolico, soprattutto quello di Tommaso d’Aquino.
99
V. Sturm, «Paul Ludwig Landsberg. Zum Gedächtnis eines rheinischen
Philosophen», in Rheinische Merkur, 24.4.1948, Nr. 17, 5-6.
100
Magdalena Johanna Petronella Hoffmann, di cinque anni più giovane di
Landsberg, nacque da famiglia cattolica il 25 giugno 1906 a Mönchengladbach, e vi
risiedeva ancora al momento in cui si sposò, come risulta dal certificato di matrimonio consultato in Svizzera. Il rito del matrimonio fu esclusivamente civile.
101
P. L. Landsberg, «Philosophie und Kulturkrisis. Eine Rede», in Die
Schildgenossen (cur. R. Guardini) 10 (1930) 308-319.
102
P. L. Landsberg, «Zur Soziologie der Erkenntnistheorie», in Schmollers
Jahrbuch für Gesetzgebung 55 (1931) 1-40. È apparsa di recente un’accurata traduzione italiana di S. Oliverio con titolo Teoria sociologica della coscienza
(Ipermedium Libri, Napoli, 2003) ed un’ampia introduzione di A. Cavicchia
Scalamonti che sottolinea l’attualità di questo studio di Landsberg per le attuali ricerche di sociologia della conoscenza. Esso «getta una luce considerevole su di un processo basilare della società moderna: si tratta di un contributo molto originale su di
un fenomeno non ancora sufficientemente studiato come quello dell’individuazione»
(7). Cavicchia Scalamonti reputa altresì decisivo il contributo offerto da Landsberg a
proposito della definizione della genesi e della crisi della categoria sociologica e filosofica di “modernità”.
103
Contribuito nella discussione al “Congresso annuale della Société de
70
MARCO BUCARELLI
mo definire “accademica”, gli articoli: «Filosofia e crisi della cultura»101; «Sulla sociologia della teoria della conoscenza»102; «La menzogna e le sue antinomie»103 e «L’uomo e il linguaggio»104. Questi
lavori rappresentano degli studi preparatori, attraverso l’approfondimento di tematiche specifiche e il confronto col pensiero
filosofico e scientifico contemporaneo, di quella che sarà la sua
filosofia antropologica. La sintesi degli studi di quegli anni troverà la sua espressione più importante nella Introduzione all’antropologia filosofica105 portata a termine nel 1932; pubblicata solo
nel 1934 (senza peraltro poter essere diffusa in Germania se non
per qualche settimana), l’opera fu l’ultimo decisivo contributo
prodotto nel suo paese.
9 Verso una filosofia antropologica
In «Filosofia e crisi della cultura», saggio ospitato nella rivista
diretta da Romano Guardini, Landsberg affrontava la questione
dell’insegnamento della filosofia nella scuola, partendo da una
definizione della sua essenza e dei suoi compiti nella presente
crisi culturale. Da un lato, la filosofia è identificata con una “esistenza filosofica”, con la reale forma di vita e attività dell’uomo
particolare che filosofa; dall’altro, è riconosciuta come scaturente da fatti originari, da esperienze e domande fondamentali che
appartengono all’esistenza umana in quanto tale, ma che nel
momento presente si trova in una situazione di «minaccia di ciò
che è specificamente umano nell’uomo» ad opera di una
Zivilisation i cui valori e la cui razionalità sono interamente circoscritti alla vita empirica e al mondo cosale e strumentale.
La critica della ragione strumentale che in quel medesimo
Philosophie” (seduta del 12 marzo 1932) sul tema: «Le mensonge et ses antinomies»,
pubbl. in Bulletin de la Société française de Philosophie, juill.-sept. 1932, 116.
104
P. L. Landsberg, «L’homme et le langage» (trad. dal ted. di H. Jourdan), in
Revue Philosophique de la France et de l’Etranger (dir. L. Lévy-Bruhl), CXV (1933)
217-251. L’originale tedesco sarà pubblicato solo nel 1939: «Mensch und Sprache»,
in Zeitschrift für freie deutsche Forschung 2 (1939) 54-75.
105
P. L. Landsberg, Einführung in die philosophische Anthropologie, V.
Klostermann, Frankfurt a. M. 1934.
106
Lettera di Landsberg a Horkheimer del 26 marzo 1940, inedita (sarà integral-
SAGGIO INTRODUTTIVO
71
periodo era tematizzata da Horkheimer, caratterizzata da una
sostanziale inversione di mezzi e fini, sarà uno dei punti su cui
si determinerà l’incontro tra il pensiero di Landsberg e quello,
in via di elaborazione, nell’“Istituto per la ricerca sociale” di
Francoforte, di cui proprio in quegli anni Horkheimer assumeva la direzione. La filosofia, scrive Landsberg in «Filosofia e
crisi della cultura», deve mirare ad una nuova “donazione di
senso” alla vita umana, o per lo meno a mantenere desta l’inquietudine e la nostalgia/desiderio (Sehnsucht) dell’uomo nei
riguardi delle domande ultime dell’esistenza. Anche questo
tema della Sehnsucht costituirà, più o meno negli stessi termini, uno dei leit motiv della nascente “teoria critica della società” elaborata a Francoforte: ridestare la “nostalgia del totalmente Altro”, che insieme alla critica dell’esistente e di ogni
visione consolatoria e tranquillizzante della realtà sarà la
perenne funzione della filosofia anche per l’animatore della
Scuola di Francoforte. Un passo di una delle ultime lettere di
Landsberg a Horkheimer esprime questa sintonia di vedute che
rimarrà costante fino alla fine.
«Non riesco a liberarmi dall’impressione che il pensiero non valga
che per l’approssimazione all’impensabile che esso può permettere.
Ciò che vi è di giusto nella logica tradizionale mi sembra essere l’orientamento del pensiero verso qualcosa che lo supera, ciò che vi è
di falso, l’ingenuità ontologica che non può concepire questo trascendente del pensiero se non sotto forma di cosa»106.
Già nella fase “accademica”, ancor più negli anni dell’esilio,
s’intensificherà la collaborazione di Landsberg con i rappresentanti della Scuola francofortese, come vedremo più dettagliatamente più avanti.
Nell’ampio saggio «Sulla sociologia della teoria della conoscenza» Landsberg premette – cosa inusuale nei suoi scritti –
un’ampia nota metodologica nella quale dichiara esplicitamente
il suo debito nei confronti dei lavori filosofico-sociologici di
Max Scheler, Werner Sombart, Carl Schmitt; con l’impostaziomente pubblicata nel prossimo secondo volume degli Scritti di Landsberg).
107
P. L. Landsberg, «Zur Soziologie der Erkenntnistheorie», loc. cit.; tr. it. 43.
72
MARCO BUCARELLI
ne diltheyana del pensiero filosofico; con Gemeinschaft und
Gesellschaft di Tönnies; con la scuola sociologica durkheimiana, in special modo con Lévy-Bruhl107, affermando di voler rimanere in questa sua ricerca il più avalutativo possibile. Egli indica
il proprio metodo come “metodo antropologico”,
«perché aspira alla conoscenza che include tutte le manifestazioni storiche della vita e dello spirito dell’uomo, a partire dalla e nell’unità del
divenire della sua vita. Io non voglio alimentare il chiacchiericcio metodologico nel campo della sociologia, ma far vedere ciò che intendo in
una esposizione concreta: attraverso alcuni esempi tratti dalla storia delle
civiltà europee (quelle del Mediterraneo e del mare del Nord) e delle loro
teorie della conoscenza»108.
Poco più avanti definisce la teoria della conoscenza come
«l’esplicazione concettuale della comprensione che l’uomo, di
volta in volta, ha di se stesso come essere conoscente»109. La teoria della conoscenza, come esplicazione concettuale, nasce in
occidente con l’illuminismo delle póleis ioniche; nell’antichità
cristiana, utilizzando categorie filosofiche greche, cerca di chiarire i modi di conoscenza dell’esperienza cristiana; nella modernità assume nuovi impulsi e trasformazioni, ma anche queste teorie
della conoscenza sono destinate a finire, come ogni realtà storicamente prodotta. Tuttavia, secondo Landsberg, la teoria della
conoscenza «come critica della conoscenza svolta per mezzo
della conoscenza stessa, si trova in una condizione di essenziale
problematicità, ma non si può immaginare la nostra vita e il
nostro pensiero attuale privi di essa e perciò non deve essere
abbandonata»110. Domandandosi fino a che punto la storia delle
teorie della conoscenza possa essere compresa anche sociologicamente – ad esempio che cosa rappresenti la nozione di “borghesia capitalistica” per il mutamento formale della conoscenza,
attraverso un’analisi di quelle che definisce “tendenze individualistiche” e “tendenza democratica” – giunge alla conclusione che
Ibidem, 43.
Ibidem, 43-44.
110
Ibidem, 44.
111
Ibidem, 45.
108
109
SAGGIO INTRODUTTIVO
73
i contenuti di una teoria della conoscenza non sono, come tali, il
prodotto di circostanze e avvenimenti sociali, né loro conseguenze logiche. La verità di tali contenuti non può essere, secondo
Landsberg, né provata né confutata con la scoperta di possibili
connessioni sociologiche.
«Se noi volessimo cercare di provare o confutare una qualche opinione gnoseologica, dovremmo occuparci solo secondariamente del versante sociologico: ad rem dovrebbe essere il nostro principio. La decisione sulla verità e falsità dev’essere cercata nella cosa stessa, in questo caso nella considerazione d’essenza della conoscenza umana. Ciò
vale anche quando l’oggetto è un divenire storico. Ciò a cui possiamo
tendere in generale con una metodica sociologica è una comprensione degli aspetti storici di contesto – pur essenziali –, ma non di quelli logici e causali. Il misconoscimento dell’incondizionata autonomia
del problema della verità in quanto tale, accanto al corrispondente
diritto di ricerca storica e sociologica, è solo espressione di un segreto soggettivismo e naturalismo, di una certa metafisica travestita da
sociologia»111.
Precisati i limiti e la funzione di un approccio sociologico alla
teoria della conoscenza, Landsberg avvia la sua indagine storicosociologica cercando di mantenersi weberianamente avalutativo,
ma ben conscio che il significato della sua indagine, «per quanto
interessante e utile possa essere, non è secondo noi universale»112.
L’analisi di Landsberg parte dalla considerazione delle essenze
del concetto nelle differenti teorie della conoscenza.
«La teoria dominante, una teoria scontata nella modernità occidentale, è improntata ad un nominalismo estremo. […] Ci interessiamo
di quei fondamenti universali che ognuno di noi può trovare in sé,
come elemento essenziale di ciò che noi, uomini dell’età moderna,
diamo per scontato all’interno della nostra visione naturale del
mondo»113.
Ibidem, 46.
Ibidem, 47.
114
W. Stark, Die Wissenssoziologie. Ein Beitrag zum tieferen Verständnis des
112
113
74
MARCO BUCARELLI
Landsberg constata come nella filosofia e nella
Weltanschauung del mondo moderno e contemporaneo, e in
buona parte del pensiero epistemologico del suo tempo, il nominalismo rappresenti la caratterizzazione più propria. La visione
della realtà nominalistica ha impregnato anche il senso comune,
divenendo progressivamente – a partire da un certo momento
storico di crisi del mondo medievale – la visione del mondo
data per scontata, la visione ovvia della realtà.
Questo nominalismo contrassegna non solo la filosofia ma
anche il pensiero sociologico, l’idea che la modernità si fa della
società e della politica. Il parallelismo è evidente: come in filosofia, per la concezione nominalistica, un concetto generale si
forma collazionando singoli elementi che si ritengono gli unici
reali sotto un’unica espressione verbale (che dal suo canto non
possiede realtà propria), così una società (che all’interno di questa concezione nominalistica è un concetto privo di realtà propria) si viene formando dall’unione di un insieme di elementi
individuali (a loro volta gli unici reali) che si uniscono per un
fine comune. Landsberg ricongiunge così nominalismo logico
conoscitivo e individualismo, caratteristico della società borghese sin dal suo momento di nascita. Il mondo moderno, attraverso una teoria filosofica del concetto (nominalistica), si costituisce una teoria della società che prende le mosse da singoli
individui considerati come isolati. All’interno del quadro di
riferimento nominalistico solo i singoli sono reali, mentre le
società sono delle “non-entità” dal punto di vista logico delle
mere costruzioni. Proseguendo la sua analisi svolta in parallelo
sui versanti gnoseologico e sociologico, Landsberg evidenzia
l’analogia tra la teoria contrattualistica della società e quella
nominalistica dei concetti e del linguaggio, come se questi fossero sorti da una definizione originaria.
Werner Stark, commentando la ricerca di Landsberg, sostiene che
«questa teoria sociale non è in se stessa niente più che l’elaborazione intellettuale d’una appropriata esperienza sociale. Nella nostra
epoca l’uomo non nasce in una formazione sociale preesistente,
come all’epoca delle tribù o del feudalesimo; egli deve trovarsi la
strada nella sua vita, e si lega alla vita stessa soltanto entrando a contatto con altre persone. Egli s’inserisce in entità sociali già esistenti
SAGGIO INTRODUTTIVO
75
quando appare sulla scena, ma queste entità sono di natura semplicemente contrattuale. Una società per azioni, una società cooperativa, un sindacato, sono una creazione dei loro membri, semplici creature della volontà dei loro partecipanti. La società appare e deve
apparire, da questo punto di vista, come qualcosa di secondario,
qualcosa che è fatto, nel vero senso della parola, dagli individui indipendenti che vi entrano. Ora questo processo di costruzione della
società, così come si svolge nel mondo esterno, è chiaramente parallelo al processo di costruzione dei concetti quali si svolge nel mondo
interno dell’uomo, della mente umana: in entrambi i casi i molti sono
riuniti nel termine collettivo che, come ogni collettività, non rappresenta un’entità reale ma piuttosto una convenzione»114.
L’opposto di questa visione nominalistica del mondo moderno è
il realismo, che sociologicamente è stato caratteristico nelle società
pre-moderne. In questa visione della realtà delle cose, sul piano dei
concetti, la sfera delle essenze o forme (secondo la terminologia
medievale degli universali) è reale quanto e in alcuni casi più di
quanto lo siano le singole esistenze. Sul piano sociologico la societas (“comunità”) possiede una realtà oggettiva in alcuni casi assiologicamente e gnoseologicamente superiore rispetto alle singole
parti, cioè agli individui che la compongono. Il tipo ideale di questa
configurazione sociale e le caratteristiche psicologiche dei suoi
membri, particolarmente per quel che concerne la loro autocomprensione, sono per Landsberg descritti perfettamente da LévyBruhl nel suo celebre studio sull’anima primitiva. Per quest’autore il
noi del clan, della tribù, della stirpe, della gens, precede l’io e il tu;
in quel mondo il genere è colto prima dei suoi individui. L’uomo primitivo – secondo Lévy-Bruhl – si autopercepisce innanzitutto come
membro della comunità; per lui i nomi non sono designazioni di
individui, ma qualità permanenti dei membri della comunità a cui
appartengono. Solo la stirpe ha un destino; l’individuo lo possiede
solo all’interno di essa, che rappresenta il destino degli individui. La
Geistesleben, F. Enke Verlag, Stuttgart 1960, 29-38 (tr. it. Sociologia della conoscenza, Etas Kompas, Pisa 1967, 47-48).
115
L. Lévy-Bruhl, L’âme primitive, Paris 1927 (tr. it. L’anima primitiva, Bollati
Boringhieri, Torino 1990).
116
A. Cavicchia Scalamonti, «Saggio introduttivo» a P. L. Landsberg, Teoria
76
MARCO BUCARELLI
tradizione domina incontrastata115. Il singolo uomo è tale solo nella
misura in cui si colloca in un ordine generale. In una società di questo tipo la conoscenza tende alla ricerca dell’origine delle cose ed
è più portata a sviluppare una sorta di disposizione metafisica e
mistica.
Si viene così delineando una tipicizzazione dicotomica, in base
alla quale distinguere forme di società che si differenziano per la
prevalenza in esse «del realismo o del nominalismo». Come
osserva Cavicchia Scalamonti, si possono «porre questi modelli
su di un continuum in cui ad un estremo (secondo una tipologia
idealtipica) si colloca la società cosiddetta primitiva col suo realismo epistemologico, e all’altro estremo la società moderna col
suo diffuso tasso d’individualismo nominalistico. Tra i due poli,
una pletora di società distinguibili dalla distanza più o meno marcata dall’uno o dall’altro estremo»116.
Lo studio di Landsberg si svolge su quattro passaggi decisivi:
teoria della conoscenza all’epoca di Platone; ordo medievale e sua
rottura a partire da Abelardo fino a Ockham; teorie della conoscenza nell’epoca moderna e sviluppo del democraticismo gnoseologico; funzione attuale dell’illuminismo.
Riassumendo l’indagine storico-sociologica svolta da
Landsberg nella prima parte del suo fondamentale saggio, possiamo enucleare le seguenti acquisizioni.
a) Le autoconcezioni che nel corso della storia l’uomo ha di sé
come essere conoscente, nell’ambito delle teorie della conoscenza che formula, sono inscindibilmente legate, in unità strutturale,
con la più complessiva concezione di sé come uomo e con la
comprensione che di volta in volta si forma come di un essere
sociale.
b) Ad ogni concezione sociale appartiene una concezione della
conoscenza, non come conseguenza logico-causale, ma in virtù
dell’autocomprensione complessiva dell’uomo nella sua unità
totale di senso. È fuorviante e priva di senso la questione sul primato del fattore sociale o di quello conoscitivo: è come domandarsi se viene prima l’uovo o la gallina.
sociologica della conoscenza, cit., 14.
117
P.L. Landsberg, Teoria sociologica della conoscenza, cit., 70-71.
SAGGIO INTRODUTTIVO
77
c) La concezione complessiva che l’uomo ha di sé sta in intima relazione di senso con il suo essere storico, con i suoi rapporti con l’ambiente, con gli altri uomini, con se stesso. La storicità
va intesa come struttura unitaria che contiene e comprende l’uomo nel suo gruppo e rispetto agli altri suoi contemporanei.
«Ora va fatto notare con forza che non è l’essere sociale dell’uomo che
da solo determina la sua comprensione sociale-teorica, né il suo essere conoscente determina da solo la sua autocomprensione gnoseologica, ma, in maniera fondamentale, il suo essere complessivo determina
la sua autocomprensione complessiva. […] È l’unità di senso, di autocomprensione complessiva, che si trasforma nella sua interezza nella
storia, ed è solo per ragioni metodologiche ed espositive che si considera separata e fissata in forme tipico-ideali. [L’autocomprensione
complessiva dell’uomo] abbraccia l’essere della concezione che l’uomo di volta in volta ha di sé, preso però come actus e non come prodotto. La comprensione storica penetra tanto più a fondo, quanto più
vicino raggiunge questa unità di senso»117.
Da questa considerazione essenziale deriva il giudizio conclusivo
sulla sociologia.
«La sociologia, come indagine dei rapporti tra l’essere sociale dell’uomo in una determinata situazione e gli altri ambiti storici di
senso, svolge una parte dei compiti di una comprensione della storia antropologicamente fondata, che può renderci interiormente
accessibili i risultati della ricca ricerca storica specialistica e farcene appropriare»118.
Nella seconda parte del lungo saggio, Landsberg svolge la sua
analisi storico-sociologica, applicandosi a esaminare gli influssi
delle teorie della conoscenza, così storicamente determinate, sulle
tendenze sociopolitiche, considerando tre tendenze fondamentali:
– quella di una concezione aristocratica della conoscenza e la relativa concezione aristocratica in campo politico;
118
119
Ibidem.
P. L. Landsberg, «L’homme et le langage», cit. , 218.
78
MARCO BUCARELLI
– quella democratica, a suo avviso caratterizzante le derivazioni
nominalistiche delle teorie della conoscenza moderne, tanto quelle
empiristiche quanto quelle razionalistiche;
– infine la tendenza autoritaria, nelle sue varie forme, che considera il rischio immanente del democraticismo atomistico connesso con i suoi presupposti gnoseologici nominalistici.
A quest’interessante analisi ci dedicheremo più approfonditamente, esaminando più avanti la riflessione politica che
Landsberg maturerà all’interno della sua filosofia antropologica.
Sulla stessa lunghezza d’onda del saggio di sociologia della
conoscenza si pone l’altro fondamentale articolo di quel periodo:
«L’uomo e il linguaggio», in cui Landsberg sviluppa una riflessione su un ulteriore punto cardine della sua filosofia antropologica:
«Linguaggio non significa per noi, a differenza dei filologi,
un’unità articolata di senso, e nemmeno un fatto psicologico o
fisiologico, bensì un avvenimento nel quale viviamo costantemente quando parliamo, ascoltiamo o dialoghiamo»119. Landsberg –
riprendendo la sua critica al nominalismo e alla sua pretesa totalitaria – non considera il linguaggio prevalentemente come un sistema di segni convenzionalmente definiti e logicamente organizzati,
questo linguaggio formalizzato vive solo all’interno del mondo
costruito sulla base del pensiero scientifico moderno, che arbitrariamente talune concezioni vorrebbero rendere pervasivo di tutta la
ricchezza dell’esperienza umana. Esistono delle verità non scientifiche (nel senso definito che di questo termine ha dato il pensiero
moderno) che appartengono per essenza alla vita comune, alla fede
religiosa, ai rapporti interpersonali e affettivi, alle numerose esperienze umane indubitabilmente reali e date. «L’atto originale di un’
esperienza deve esprimersi nel linguaggio mediante una sorta di
reduplicazione. È questo che bisogna chiedere ai filosofi»120.
Sulla scia delle riflessioni di von Humboldt e di Herder, il linguaggio viene inteso come «organo della disponibilità dell’uomo
nei confronti dell’universo, sia interiore che esteriore»; e sviluppando la riflessione di Scheler viene considerato come un aspet120
P. L. Landsberg, «Pierres blanches», in Les Nouvelles Lettres, oct. 1938; tr. it.
infra 743.
121
P. L. Landsberg , «L’homme et le langage», cit. , 222.
SAGGIO INTRODUTTIVO
79
to costitutivo dell’essenza dell’uomo. L’uomo come
Sprachwesen. Le diverse forme di linguaggio esprimono il processo di umanizzazione dell’uomo, il suo divenire o il suo allontanarsi da se stesso. Come ogni fenomeno propriamente umano,
il linguaggio è storicamente condizionato. Ogni generazione
umana crea un linguaggio che corrisponde alle esigenze della
propria esistenza storica; crea quindi un universo linguistico che
corrisponde alla propria realtà. Il singolo individuo compie in
parte la medesima operazione nei confronti del patrimonio linguistico che ha ereditato dalla comunità in cui vive, creandosi un
universo personale espresso da un linguaggio personale.
«Ogni filosofia antropologica che disdegni il problema centrale del linguaggio ci sembra condannata alla sterilità»121. La trasmissione dei contenuti di verità di un’esperienza, di una conoscenza, di un periodo storico, è in effetti una delle maggiori difficoltà in cui s’imbatte il filosofo, stante il fatto che il bisogno di
essere comunicato concettualmente è essenzialmente proprio
della natura del discorso filosofico. Landsberg, sviluppando una
filosofia dell’esperienza integrale, di cui è fondamentale la
dimensione interiore, avverte in modo acutissimo l’esigenza di
confrontarsi con i problemi dell’espressione dell’Erlebnis (“esperienza/avvenimento”). In questa linea s’intende il suo sforzo di
ritradurre molte delle categorie tradizionali della filosofia classica e cristiana, ormai divenute incomprensibili per l’uomo moderno scristianizzato. Deriva da qui, ad esempio, la sua critica al
neotomismo: una riproposizione sic et simpliciter della terminologia di san Tommaso rischierebbe di ricadere, per dogmatismo,
nel medesimo errore che pure asseritamente vuole contrastare,
ossia il nominalismo astratto. Proprio volendo esserne epigoni,
ma in un contesto tanto profondamente mutato, si rischia di perdere la ricchezza, la verità e la perenne attualità del pensiero
dell’Aquinate. La critica di Landsberg si estende anche al suo
primo maestro Scheler, il quale non riteneva, ad esempio, che l’esperienza cristiana potesse esprimersi adeguatamente attraverso
un linguaggio ereditato dalla filosofia greco-romana. Landsberg,
invece, difende l’uso di un linguaggio filosofico preesistente da
122
Ibidem, 226.
80
MARCO BUCARELLI
parte del pensiero medievale per rappresentare una realtà nuova:
«parole e concetti antichi rigenerati, come i ruderi dei templi
pagani venivano utilizzati nel medioevo nella costruzione delle
chiese romaniche». L’uso di nuove parole può nascere solo da
un’esigenza insopprimibile della propria sensibilità e dell’intelligenza del proprio vissuto; così, ad esempio, possiamo benissimo
riutilizzare terminologie moderne per esprimere esperienze il cui
valore supera la modernità.
«Dobbiamo sempre conoscere seriamente ciò che è stato pensato
prima di noi. Non dobbiamo superare o criticare gli antichi se non,
per così dire, forzati dal contatto stesso con le cose, ed è indispensabile cercare di integrare nelle nostre nuove espressioni la verità antica. Tutto ciò non impedisce che il compito proprio del nostro lavoro,
la sua fecondità particolare, dipenda da categorie che il nostro pensiero coglie originariamente, e che fanno parte della nostra vita personale e della filosofia della nostra epoca»122.
Dopo aver chiarito il compito centrale della sua ricerca – ovvero
«mettere in evidenza la differenza ontologica fondamentale che sussiste tra il linguaggio e ogni altra esperienza di tipo vitale»123 –
Landsberg sviluppa una analitica del linguaggio con l’intento di
dimostrare il carattere essenzialmente umano del linguaggio, che
distingue l’uomo da ogni altra forma vitale animale. Quest’intento è
anche polemico nei confronti di chi, con indebita invasione di
campo, usa la teoria evoluzionistica darwiniana – la cui validità va
discussa nell’ambito delle scienze naturali – per giustificare o fondare una teoria evoluzionistica filosofica e politica, eliminando il
proprium umano dell’uomo e stabilendo un continuum contraddetto
dall’esperienza interiore. Il primo atto compiuto dall’uomo creato da
Dio, nella narrazione della Genesi, fu un atto creativo per analogia:
dare un nome alle cose, piante e animali. Dare un nome, non significa semplicemente designare, bensì, secondo la concezione ebraica,
in qualche modo possedere, attraverso un coglimento conoscitivo
che non è meramente intellettuale, ma essenzialmente partecipativo-
123
124
Ibidem, 227.
Ibidem, 233.
SAGGIO INTRODUTTIVO
81
unitivo, l’essenza vitale di ciò che si nomina e conosce.
Non possiamo seguire, in quest’introduzione, l’articolato svolgimento dell’analisi del linguaggio svolta da Landsberg. Ci limitiamo a evidenziare alcune sottolineature decisive sulla sua
essenza, rimandando ad altre occasioni un doveroso approfondimento.
– La distinzione dall’espressione di situazioni vitali mediante segni,
suoni o gesti, propria del mondo animale. L’espressività è presente,
in maggiore o minore quantità, nel linguaggio umano in proporzione
con il suo livello di formalizzazione. Lo stesso contagio emotivo di
massa, che anche l’uomo prova, si fonda su questa comprensione
puramente vitale dell’espressione.
– Per intendere la natura spirituale propriamente umana del linguaggio non si deve partire dalla parola né dalla frase come nesso immediato e semplice di parole, ma dal discorso; la proposizione precede
la parola, il linguaggio i suoi elementi. Il discorso, come ogni cosa
viva, è sempre veicolo di un’espressione vitale, più o meno rarefatta
a seconda del grado di formalizzazione.
– L’essenza del discorso è fondamentalmente rivelativa di uno stato
di cose, di un «mondo del discorso» afferente l’ambiente o l’interiorità che il discorso duplicando ricrea. Questa intenzionalità creatrice,
come molte intenzioni, può finire nel vuoto, nella vacuità del discorso. Comprendere un discorso significa «svelare il mondo del discorso». Riconoscerne la vacuità significa scoprire che la pretesa del discorso di manifestare una certa realtà, un mondo, non si è realizzata.
– Vanno distinti gli scopi di un discorso dalla sua essenza: ad esempio, in un discorso politico lo scopo del convincimento dal contenuto di mondo che vi è rivelato.
– La multiformità delle forme sintattiche e grammaticali deve essere
distinta dall’unitarietà della funzione rivelativa del linguaggio.
Anche una situazione dubitativa, interrogativa o imperativa, può
essere scoperta in quanto tale dal discorso che anzi la costituisce.
– La comprensione dell’espressione del discorso avviene per contagio
emotivo; la comprensione vera e propria del discorso per coglimento/rivelazione del mondo spirituale intenzionalmente manifestatovi.
– La comprensione del linguaggio in senso spirituale avviene procedendo, congiuntamente, dalla denominazione (Ansprache) alla determinazione (Bestimmung) verso il senso (Sinn). Il senso del discorso
82
MARCO BUCARELLI
come relazione creatrice con uno stato di cose appartenente ad un
mondo. Mondo anche interiore. La possibilità di manifestare se stessi
come mondo interiore, si determina nel rivelarsi per mezzo del discorso, nonostante la maggiore complessità che questo ha di ricreare il
mondo interiore rispetto a quello relazionale esteriore. «Quando l’anima parla, ahimè, non è già più l’anima che parla» (Schiller) / «Appena
si parla [della propria interiorità], si inizia a sbagliare» (Goethe).
– Ambivalenza del linguaggio per la vita interiore dell’uomo: «[Il
linguaggio] è allo stesso tempo il liberatore che dà forma e il falsario che deforma»124.
– Appartiene all’essenza del discorso di essere rivolto a qualcuno. Il
discorso (Rede) è costitutivamente un “rivolgersi a” (Anrede), è
potenzialmente dialogo. Questo tratto di intenzionalità è inseparabile dalla trans-soggettività generativa: dico “io” solo in riferimento ad
un “tu” e all’interno di un più o meno esplicito “noi”. Anche il monologo non è che un caso particolare, giacché il monologante si crea il
proprio mondo comune (Mitwelt). Monologo come monodialogo
(riprendendo la riflessione di Miguel de Unamuno).
– Critica radicale al nominalismo: se il linguaggio fosse solamente una
concatenazione di segni, sarebbe impossibile stabilire una differenza tra
l’uomo e gli animali che vivono in società. Lo stesso nominalismo con
la teoria della convenzionalità arbitraria dei segni deve presuppone
implicitamente ciò che vuole negare: la preesistenza del linguaggio. La
formalizzazione estrema del linguaggio è, suo malgrado, obbligata a far
uso di elementi estrapolati dal linguaggio preesistente. La perfezione di
un segno è la sua attribuzione univoca al designato: soltanto un uomo
assolutamente disumanizzato potrebbe vedere in ciò la perfezione del
linguaggio, che invece trova la sua forma più vitale nel discorso poetico.
Il nominalismo atomistico, che si esprime in un linguaggio
formalizzato, rappresenta la tendenza prevalente dei tempi. Se da
un lato ha contribuito allo sviluppo delle scienze e alle sue applicazioni tecniche che tanti benefici hanno prodotto per l’umanità,
quando però lo si assume come modello ideale universalmente
valido, come sta avvenendo sulla spinta della concezione del
mondo e dell’uomo che la società della produzione capitalistica
125
Ibidem, 248.
SAGGIO INTRODUTTIVO
83
produce, impoverisce radicalmente l’universo umano e linguistico: la lingua di Dante o di Goethe saranno soppresse da un “sistema scientifico” di segni linguistici. Questo processo di disumanizzazione è in corso, sostiene Landsberg: «È da questo punto di
vista che va dato un giudizio sullo spaventoso mutismo del
moderno mondo civilizzato, che è il corrispettivo del perfezionamento del suo sistema di segni»125.
L’essenzialità del linguaggio per l’uomo è tanto grande, che
nel definire l’uomo un essere linguistico
«vi è una conoscenza più profonda che nel dire, per esempio, homo
faber o anche homo sapiens. [….] Il grado d’autenticità del linguaggio indica il grado del vero e proprio divenire uomo dell’uomo. Il discorso è la creazione di una totalità in quanto tale, creazione dal nulla,
nella misura in cui il tutto è maggiore delle parti che lo compongono
e nelle quali prende forma. Nel linguaggio l’uomo ci si presenta come
un creatore, dalla forza creatrice senz’altro limitata, e in realtà soltanto come simbolo del perfetto creatore. Ma in questo simbolo si attesta come realmente presente una scintilla del Creator Spiritus»126.
La difesa di un’adeguata teoria del linguaggio, così come di
una rispettosa teoria della conoscenza, è uno dei compiti che
Landsberg assegna programmaticamente alla filosofia, che non
può che definire antropologica, perché ciò che è in gioco è proprio il suo destino storico e la sua essenza sempre più dilaniata in
rapporto alla verità.
Non a caso Landsberg, nel suo breve ma incisivo intervento al
congresso parigino della “Società francese di filosofia” sul tema:
«La menzogna e le sue antinomie», del marzo 1932, destando
scalpore sosteneva:
«Mentire è dire il contrario di ciò che si crede. Allora, per mentire
occorre credere in qualcosa. Non è così? Ma coloro che falsano l’opinione pubblica in ogni nazione non credono in nulla: non hanno
quindi bisogno di mentire. […] Penso che il più grande pericolo sia
126
127
Ibidem, 250.
P.L.Landsberg, «La mensonge et ses antinomies», pubbl. in Bulletin de la
84
MARCO BUCARELLI
la mancanza essenziale dell’idea di verità. L’idea stessa di verità è
perduta. È una situazione nuova: credo che se ciò che ha distrutto la
veracità è quest’assenza assoluta di verità, siamo in presenza di qualcosa di diabolico. Al contrario, la menzogna è umana, è cattiva in
molti casi, certamente! […]. Ci sono dei casi in cui è scusabile, esistono differenze di grado e di valore, come in tutte le cose umane.
Mentre quell’altra cosa, l’assenza assoluta dell’idea stessa di verità,
è un fenomeno totalmente inumano. […]
Quindi, che fare? Penso che se gli intellettuali sono coloro che ricercano la verità, sono stati anch’essi, allo stesso tempo, ad aver portato alla rovina la verità umana: è il tradimento dei chierici quello che
è stato compiuto. Sta a noi, i filosofi, riguadagnare un’idea netta,
chiara e forte, e non solamente teorica, della verità.
Se nessuno sa più cosa sia la verità, la menzogna e la verità sono
entrambe impossibili: questa è propriamente la situazione presente»127.
10 L’antropologia filosofica
Con l’Introduzione all’antropologia filosofica, nel 1932
Landsberg portava a termine quella che rimarrà la sua opera più
ampia e organica, che sarà pubblicata solo nel 1934, senza peraltro poter essere diffusa significativamente in Germania, né altrove, per un tempestivo intervento della censura nazista. Il destino
di questo libro ha delle impressionanti analogie con quello del
suo autore: unanimemente riconosciuto come una pietra miliare
dell’antropologia filosofica contemporanea, e allo stesso tempo
poco letto e discutibilmente interpretato di “seconda mano”. Lo
stesso Landsberg non entrò in possesso del testo stampato prima
del 1937; di conseguenza, ogni volta che lo cita nei suoi scritti
posteriori, sino a questa data, il riferimento è ad una “Einleitung”
in die philosophische Anthropologie, e non già al titolo finale del
libro, “Einführung” in die philosophische Anthropologie, eviSociété française de Philosophie, juill.-sept. 1932, 116.
128
Il titolo pensato in origine per l’opera doveva essere: Selbstauffassung. Eine
Einleitung in die philosophische Anthropologie, come risulta da un’indicazione contenuta nei «Personalakte» di Landsberg.
129
Cfr. M. Scheler, Zur Idee des Menschen, ora in Gesammelte Werke, IX,
SAGGIO INTRODUTTIVO
85
dentemente deciso dall’editore Vittorio Klostermann128.
Nel 1927 Scheler aveva tenuto la sua celebre conferenza «Die
Sonderstellung des Menschen»; un anno dopo la sua morte, nel
1928, questa conferenza fu pubblicata come dispensa col titolo
Die Stellung des Menschen im Kosmos; nel medesimo anno
apparve anche l’opera di Plessner, Die Stufen des Organischen
und der Mensch. Einleitung in die philosophische Anthropologie.
A tali scritti si fa comunemente risalire la nascita della moderna
antropologia filosofica. Scheler aveva dichiarato che il suo interesse alla questione dell’uomo prese origine fin dal principio
della sua riflessione e che la sua formulazione di un’antropologia
gli sembra il completamento dei temi da lui trattati in precedenza129. L’antropologia di Scheler viene esplicitata, dunque, quando
ha già consumato il suo definitivo distacco dalla Chiesa cattolica
e ha abbracciato una concezione panteistica.
Distinguendosi da Scheler, dal quale pure prende le mosse e al
quale è esplicitamente debitore per il suo lavoro, Landsberg si
oppone – come nota acutamente Karl Albert – «all’inserimento
dell’antropologia filosofica all’interno di una cosiddetta filosofia
sistematica come nuova disciplina accanto alla logica, la gnoseologia, la metafisica, l’etica ecc. L’antropologia filosofica non è
per Landsberg una disciplina filosofica al pari delle altre, bensì la
possibilità stessa di esprimere, nella sua situazione, un pensiero
filosofico tout court. Il termine “antropologia filosofica” non esprime un nuovo ambito della filosofia e nemmeno un’ontologia regionale, bensì il volto attuale della problematica filosofica fondamentale»130. Riallacciandosi ad una tradizione illuministica – è una
caratteristica di Landsberg valorizzare verità di movimenti di pensiero che pure gli sono fondamentalmente distanti e che per altri
versi sottopone a critica serrata – egli coglie delle analogie con la
tensione antropologica di Herder e Humboldt, ma anche con
Condillac e Rousseau, Feuerbach, Comte e Marx.
L’opera è suddivisa in quattro sezioni: a) nella prima viene defiBerna/Monaco 1975, 171-195.
130
K. Albert, «Die philosophische Anthropologie bei P. L. Landsberg. Zur 30.
Wiederkehr seines Todestages im April 1974», in Zeitschrift für philosophische
Forschung 27 (1973) 582-594; cit. 583-584.
131
P.L.Landsberg, Einführung in die philosophische Anthropologie, cit. , 16.
86
MARCO BUCARELLI
nito il concetto di antropologia filosofica, il metodo e i compiti, con
particolare considerazione del rapporto con le altre scienze; b) la
seconda indaga l’autoconcezione umana, i suoi vincoli emozionali e
storici, il motivo del suo originarsi nell’uomo (connesso al destarsi
della coscienza della necessità della morte) e la sua relazione con l’idea di umanità e di una sua destinazione in quanto tale; c) la terza
analizza quattro differenti forme dell’autoconcezione umana: la mitica, la poetica, la teologica e soprattutto quella dell’evoluzionismo
naturalistico; d) la quarta sezione è dedicata a due determinazioni
essenziali dell’esperienza interiore: l’interiorità e la destinatezza.
Se negli scritti giovanili di Landsberg la problematica antropologica non era ancora espressamente tematizzata, con
l’Introduzione all’antropologia filosofica (che riassume e integra
gli scritti del periodo accademico che abbiamo esaminato nel precedente capitolo) tale prospettiva è chiaramente raggiunta e fatta
centro di un approccio globale che si connota esplicitamente come
“filosofia antropologica”.
Landsberg definisce sinteticamente l’antropologia filosofica
come «lo sviluppo concettualmente chiarificatore di un’idea
dell’uomo a partire dalla sua autoconcezione in un determinato
stadio della sua umanità, e il tentativo di mostrargli l’ulteriore
via della sua destinazione»131. Suo compito urgente è innanzitutto quello di fornire una comprensione unitaria dell’uomo di
fronte alla frammentarietà del copioso sapere specialistico
messo a disposizione dalle diverse discipline che lo indagano.
Ritiene tuttavia errato il tentativo di ottenere un sapere globale
sull’uomo mediante la semplice somma dei loro risultati, data la
disunitarietà metodologica (riconducibile ad una disunitarietà
dei loro presupposti ontologici) che le caratterizza. L’adozione
pura e semplice di categorie e metodi tratti dall’esperienza esteriore può dare origine tutt’al più ad una “antropologia delle
caratteristiche” (Merkmalsanthropologie), che indaga l’uomo
come un essere vivente tra gli altri, rispetto ai quali stabilirà
delle differenze più o meno decisive, ma non una “antropologia
essenziale” (Wesensanthropologie), quale Landsberg ritiene si
debba realizzare, soprattutto nel momento in cui il riduzionismo
132
Cfr. P. L. Landsberg, Einführung in die philosophische Anthropologie, cit., 17-19.
SAGGIO INTRODUTTIVO
87
naturalistico mette in discussione il darsi di un’essenza stessa
dell’uomo. Al contrario delle scienze empiriche, un’antropologia essenziale non dovrà seguire la via dell’oggettivazione di
singoli aspetti dell’uomo, bensì la “via interiore”, quella dell’introspezione, nella quale soggetto conoscente e oggetto indagato sono tutt’uno. Nelle intenzioni di Landsberg il guadagno di
una comprensione unitaria dell’uomo ha anche un risvolto
etico-pratico, consistente nel porre rimedio alla frammentarietà
dell’agire, nella quale l’incertezza su di sé e sulla propria destinazione, che è l’esito della crisi iniziata paradossalmente da
un’istanza di liberazione e individuazione del pensiero moderno, lo ha gettato. La fine dell’epoca moderna rende ineludibile
questo compito filosofico.
Landsberg prende avvio dall’effettiva autoconcezione
(Selbstauffassung) dell’uomo. Questa ha un significato ontologico,
in quanto è sempre in rapporto strutturale con l’essere complessivo
dell’uomo, e prende forma in determinati contesti vitali. Scienze
come la storia, la sociologia, la psicologia, la linguistica, sono di
grande ausilio all’antropologia filosofica nel suo lavoro di riconduzione all’essere sul quale di volta in volta una data autoconcezione dell’uomo si fonda. I principali “motivi” di questa sono:
1) La vincolatezza emozionale, vale a dire la dipendenza dall’atteggiamento fondamentale di amore (filantropia) o di odio (misantropia) nei confronti dell’uomo, atteggiamento che conduce a differenze significativa nell’attribuzione di valore all’uomo stesso. Alle
radici affettive dell’autoconcezione va riconosciuto uno specifico
valore conoscitivo, una verità certamente “limitata”, ma non per questo del tutto relativa.
2) La vincolatezza storica. In quanto autoconcezione dell’uomo propria di un determinato grado dello sviluppo umano, nessuna antropologia filosofica può essere del tutto falsa; al contrario, ognuna deve
contenere una qualche verità – sia pure limitata e parziale – sull’uomo.
Concezioni dell’uomo che pretendono di essere astoriche sono fuori
strada. L’uomo reale – non l’idea astrattamente vera di uomo – muta,
e con esso mutano le sue autoconcezioni, della cui storicità ogni antropologia necessariamente partecipa, senza che ciò debba comportare
l’idea di un soggettivismo e di un relativismo assoluti. La storicità è
una componente dell’essenza eterna dell’uomo, che può e deve solo
88
MARCO BUCARELLI
ricercare nel suo divenire storico ciò che è eterno, ma che si ripresenta in forme storicamente determinate.
3) La sua origine nella coscienza della necessità della morte. È questo
il “motivo esistenziale fondamentale”. L’uomo inizia a interrogarsi
sulla propria essenza dal momento in cui diviene un essere individualizzato in grado di esperire (per lo più attraverso l’esperienza della
morte dell’altro, di un consimile amato) la minaccia inesorabile che la
morte – necessariamente correlata all’idea stessa di uomo – rappresenta per l’unicità del suo essere. Hanno origine di qui la domanda sul
senso dell’esistenza e la domanda circa una possibile sopravvivenza
nella partecipazione adun essere eterno, domande a cui la filosofia si
sforza di apportare una risposta razionale.
4) La sua relazione con l’idea di umanità (Humanitätsidee), vale a dire
col destino storico complessivo dell’umanità, al quale il singolo uomo
partecipa. Particolare importanza, in questo contesto, riveste il carattere integralmente diveniente dell’uomo, in quanto essere-divenire
(Werdesein). L’idea di umanità va intesa essa stessa non come un universale ante rem, eternamente vera e immutabile, né, nominalisticamente, come un universale metodologico post rem, categoria funzionale a raccogliere un insieme composto da una semplice somma di
individui e di nazioni, ma in re e allo stesso tempo ad rem come qualcosa di diveniente, come un’idea anch’essa storica nel suo sviluppo, a
cui i singoli e le nazioni partecipano.
L’antropologia filosofica è la forma concettuale di sviluppo dell’autoconcezione globale dell’uomo, ma non è l’unica. Ne esistono
altre, da cui questa può e deve imparare pur senza confondersi con
esse. Si tratta dell’antropologia mitica, dell’antropologia poetica,
dell’antropologia teologica e dell’antropologia delle scienze naturali. Landsberg le passa in rassegna dal punto di vista del loro rapporto con l’antropologia filosofica, rimarcando i punti di tangenza
e le differenze.
È soprattutto nei confronti dell’antropologia evoluzionistica che
Landsberg rivolge la sua critica, tesa a contrastare la riduzione ad
altro dell’unitaria essenza dell’uomo. La posta in gioco è l’affermazione o la negazione di un’essenza propria dell’uomo, che lo
distingua dai suoi predecessori pre-umani e da tutti gli altri esseri
viventi. La tendenza tipica del pensiero moderno è infatti quella di
ridurre la domanda sull’essenza a quella sull’origine, intesa in
SAGGIO INTRODUTTIVO
89
senso cronologico e non come arché (antropologia genetica).
L’uomo è derivato dall’animale, ergo non è altro che un animale, magari più complesso. A ben vedere, la totale continuità tra l’animale e l’uomo qui è già presupposta dall’impostazione metodica
dell’evoluzionismo. Si tratta di vedere con quale diritto Landsberg
esamina l’evoluzionismo nelle sue varianti meccanicistica e strutturale. Entrambe presuppongono l’identità essenziale dell’essere
che muta. Nella sua forma meccanicistica estrema, il naturalismo
evoluzionistico, applicato con un’invasione di campo nel sapere
filosofico e non contenuto nei limiti della disciplina delle scienze
biologiche, contraddice lo stesso postulato base della scienza
moderna formulato da Galileo, secondo cui per la scienza «è vano
tentare le essenze», e incorre in un “paradosso antropologico”
quando pretende che l’uomo sia derivato casualmente dall’animale e nello stesso tempo sia capace – nella persona dello scienziato
– di decifrare con la propria ragione l’enigma del mondo. Incorre
poi in un secondo paradosso in quanto spiegazione totale del
mondo. Spinto dalla ricerca dell’identità tipica del razionalismo
scientifico, che procede riportando fenomeni complessi ad altri più
semplici, è costretto a risalire a un “atomo primordiale” che lascia
inspiegata la molteplicità.
O l’uomo è più di un animale, o è uno dei tanti esseri: se si
dà credito a questa indebita metafisicizzazione di una teoria
scientifica, è contraddittorio attribuire un carattere valoriale di
preminenza dell’uomo. Se l’uomo è posto a confronto con una
formica o un ragno, la sua asserita superiorità si nullifica: infatti, mentre questi animali nascono già dotati del sapere e delle
abilità di cui avranno bisogno per la conservazione della loro
esistenza individuale e della specie, l’uomo deve accumulare la
sua esperienza lentamente e con fatica. Persino un protozoo, in
questa prospettiva, può guardare l’uomo dall’alto in basso; il più
semplice degli animali, l’ameba più minuscola, svolge con quell’unica cellula tutte quelle funzioni vitali per compiere le quali
all’uomo ne occorrono miliardi. Con gli animali l’uomo condivide moltissimi tratti, ma nella sua essenza se ne differenzia
essenzialmente. Dunque tutte le teorie evoluzionistiche si applicano all’uomo come essere vivente animale, mai all’uomo in
quanto uomo.
Landsberg vede la nascita dell’uomo illustrata in maniera subli-
90
MARCO BUCARELLI
me da Michelangelo nella sua “creazione di Adamo”, nell’istante
preciso in cui l’uomo animale riceve la sua umanità. L’Adamo di
Michelangelo non è solo creatura, ma anche immagine del Creator
Spiritus, poiché quel misterioso qualcosa che fluisce dal dito di Dio
al dito dell’uomo non è la vita che condivide con gli animali e con
le piante, ma lo Spirito che prescegliendolo lo inserisce in una relazione essenziale e personale con Dio. Un istante prima Adamo era
un animale, a suo modo perfetto, forte e bellissimo; ora che Dio
stende su di lui la sua mano, egli è uomo. Esteriormente non sembrerebbe essersi verificato alcun cambiamento, se non fosse per i
suoi occhi. In essi, la parte più umana di tutto il corpo, si è attivato
un nuovo principio che attribuisce alla sua intera esistenza un
nuovo significato: egli è stato scelto e separato.
Il nuovo principio che penetra nell’uomo e lo trasforma proviene da Dio, non sarebbe potuto venire da Adamo; è stato conferito,
giacché non sarebbe mai potuto evolversi dalla sua natura animale.
Ancora disteso a terra, solo in parte sollevato, egli è pieno di meraviglia e tuttavia ancora sospeso, come chi si è appena destato e non
è ancora del tutto sicuro d’essere sveglio. Ora che non dorme più,
tutte le cose acquistano una nuova presenza, in quanto il mondo e
l’io sono davvero lì per lui; prima, solamente la vita ed il sogno gli
si affollavano intorno, ora egli percepisce il chiaro mondo della
forma e l’enigma del proprio universo interiore. E mentre si meraviglia per tutto quanto gli è accaduto, i primi quesiti filosofici si
destano in lui: «Chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Egli scopre di essere unico: è una persona»132. Un’immagine artistica, analogamente mostrativa, Landsberg la ritrova nelle sculture della cattedrale di Chartres raffiguranti la creazione dell’uomo: la differenza con la Creazione michelangiolesca è che in quelle antiche sculture è ancora più presente la connotazione d’amore dell’atto creativo di Dio. L’uomo viene creato in un abbraccio. Landsberg non lo
cita, ma le sue riflessioni si riallacciano quasi direttamente a quelle di un padre della Chiesa:
«Se non fossi tuo, mio Cristo, mi sentirei creatura finita.
Sono nato e mi sento dissolvere.
133
Gregorio di Nazianzo, Discorsi 27,3.
SAGGIO INTRODUTTIVO
91
Mangio, dormo, riposo e cammino, mi ammalo e guarisco, mi assalgono senza numero brame e tormenti, godo del sole e di quanto la terra
fruttifica. Poi io muoio e la carne diventa terra come quella degli animali senza peccati.
Ma io che cosa ho più di loro? Nulla, se non Dio.
Se non fossi tuo, mio Cristo, mi sentirei creatura finita»133.
All’evoluzionismo strutturale, invece, limitatamente al concetto
empirico di specie, Landsberg è disposto a concedere una certa
plausibilità, limitatamente alla spiegazione del presupposto del
divenire-uomo. Il parallelismo tra lo sviluppo individuale e l’evoluzione dell’essere vivente in generale supporterebbero tale ipotesi.
«Se il divenire-uomo (Menschwerdung) individuale si lascia interpretare come evoluzione, questo varrà in modo analogo anche per il divenire-uomo in generale. Se, al contrario, il divenire-uomo individuale
è da interpretarsi solo ed unicamente come il dispiegamento di un
principio nuovo e la progressiva trasformazione di datità pre-umane
ad opera di tale principio, allora lo stesso deve valere per il divenireuomo in generale»134.
Non è decisivo il fatto che in tal modo il divenire-uomo dell’uomo venga posto successivamente rispetto alla sua nascita come essere vivente. Anche il luogo e il materiale di un’opera d’arte, in un
certo senso, preesistono ad essa. È il nostro intelletto che c’induce a
vedere sempre come preesistente qualcosa che in realtà appare solo
successivamente. Ed è appunto questo postulato che Landsberg
intende contestare come arbitrario, sempre con l’evidente preoccupazione di contrastare il riduzionismo “ad altro” dell’essenza dell’uomo. «Il dato di fatto è appunto che nell’esperienza non era già
prima presente ciò che successivamente si presenta ad essa. Solo
qualora tra il dato successivo ed il precedente non si desse alcuna
differenza essenziale, il concetto di “predisposizione” (Anlage)
acquisterebbe un reale ed esperibile contenuto nel riferirsi al dato
P.L.Landsberg, Einführung in die philosophische Anthropologie, cit. , 21.
Ibidem, 33.
136
Ibidem, 46.
134
135
92
MARCO BUCARELLI
precedente stesso. La concreta predisposizione è un concreto inizio
di un identico divenire. Ogni altro concetto di disposizione è ridicola razionalizzazione ex post e vana duplicazione dell’unica realtà
data, sullo schema della famigerata virtus dormitiva»135.
Landsberg ritiene, in conclusione, che si debba mostrare:
1) come tra l’umanità e la pre-umanità vi sia una differenza essenziale;
2) che non sussista alcuna identità tra le funzioni fondamentali
umane e qualsivoglia funzione vitale vegetale o animale. Ciò non
significa – beninteso – che non vi sia una complessa e strettissima
relazione tra tali funzioni e i loro presupposti (materiali, biologici, fisiologici ecc.), senza i quali le prime non potrebbero darsi.
«Nella misura in cui l’uomo e il pre-uomo stanno indubbiamente
in un particolare rapporto reciproco, può essere attribuito alla teoria evolutiva un grande significato per l’antropologia filosofica:
essa mostra che cosa il divenire-uomo ha trovato come reale presupposto, sotto quali condizioni esso si sia sviluppato, e a quali
funzioni preliminarmente date doveva dare una ridestinazione, a
partire dal tutto, nel nuovo modo d’esistenza»136.
La sezione finale dell’opera è dedicata alla «esibizione/mostrazione (Aufweis) dell’esperienza interiore», il genere
specifico dell’autoconcezione umana, che solo può dare accesso all’essenza dell’uomo e su cui pertanto l’antropologia filosofica deve fondarsi. A tal fine è necessario previamente allargare il concetto di esperienza, riscattandolo dalle strettoie dell’empirismo, che lo ha sempre più legato all’oggettivabilità e a
un certo tipo di universalità. Landsberg ritiene invece che vada
riconosciuta l’importanza della singolarità personale per l’accesso a determinate esperienze, tra cui quella della propria
umanità e umanizzazione in senso essenziale.
Se vi è una “differenza ontologica” tra l’uomo e la natura in
generale, bisogna che tale differenza si rispecchi anche nel
modo della loro apprensione. Si istituisce pertanto una distin-
137
Ibidem, 58.
SAGGIO INTRODUTTIVO
93
zione fondamentale tra le “modalità dell’esperienza” (che si
collocano allo stesso livello ontico, come ad esempio quelle
sensoriali) e i “generi fondamentali dell’esperienza” (che si
collocano a differenti livelli ontologici).
Dell’esperienza interiore non è possibile fornire una vera e
propria “dimostrazione”, ma è possibile tentare una “esibizione/mostrazione” (Aufweis) che possa destarne l’intuizione immediata. Landsberg ne dà le seguenti determinazioni fondamentali.
1) La prima è l’interiorità (ontologica e non semplicemente ontica)
di tale esperienza. Negativamente si definisce per il fatto che in essa
non ci vengono presentati oggetti del mondo esteriore (ragion per cui
ad essa è difficilmente applicabile, pena il cadere in molteplici equivoci, la categoria di sostanza, poiché in quanto categoria essa è tratta dal mondo esteriore e impiegabile propriamente solo per gli oggetti di tale mondo, mentre l’esperienza interiore non ha per oggetto
alcunché di oggettivabile che possa ricadere sotto tale categoria se
non per analogia). Positivamente, invece, l’esperienza interiore si
configura come “esperienza vissuta” (Erlebnis).
«L’interiorità dell’esperienza interiore consiste primariamente
nel fatto che la vita dello spirito, la quale è il concreto soggetto
di ogni esperienza, non si diparte qui da se stessa in direzione di
un oggetto, ma insiste su stessa e coglie se stessa mediante se
stessa». Nell’esperienza interiore il soggetto fa esperienza di se
stesso, del proprio divenire se stesso, della propria umanizzazione. Il compiersi dell’esperienza interiore è esso stesso «una parte
di quel divenire-se-stesso, nel quale il soggetto personale diviene
più autentico, più insostituibile e più autonomo, più “interiore” a
se stesso. Non rimane solo presso se stesso, ma percorre la via
misteriosa, preannunciata da Novalis, del divenire se stesso e dell’umanizzazione»137.
Alla possibile obiezione della pura soggettività dell’esperienza interiore Landsberg risponde che soggettivo non significa
meno reale e recupera l’argomento della “relatività esistentiva”,
138
Ibidem, 86.
94
MARCO BUCARELLI
secondo cui il mondo degli oggetti sarà sempre relativo al mondo
della soggettività, ma mai un soggetto potrà esserlo rispetto a se
stesso. La svalutazione dell’esse subjective rispetto all’esse
objective è semplicemente il risultato dell’affermarsi delle scienze empiriche, che hanno imposto la considerazione degli aspetti
quantitativi della realtà su quelli qualitativi.
2) La seconda determinazione dell’esperienza interiore messa in luce
da Landsberg è la destinatezza (Schicksalhaftigkeit), vale a dire il
carattere di realtà o effettività (Wirklichkeit) del mondo interiore e
dei suoi fenomeni. Il mondo interiore non è un mondo chimerico,
bensì un mondo reale, che “resiste” agli sforzi della volontà e che
richiede di essere plasmato con un’apposita opera interiore. Anche il
processo di umanizzazione rientra in quest’opera di formazione.
3) Quanto al tipo di conoscenza che in essa si offre, l’esperienza interiore si presenta come un sapere di e a motivo di (Wissen von und
um). Non si tratta di un sapere esteriore e distaccato (come quello che
registra le differenti caratteristiche di un oggetto), ma di un sapere
intimo e immediato concernente un essere-divenire unitario.
L’essere-divenire interiore può soltanto essere vissuto in un atto unitario di conoscenza immediata.
La particolare forma di attività conoscitiva corrispondente
all’esperienza interiore è il “comprendere” (Verstehen). Alla comprensione corrisponde poi «un particolare modo di generalizzazione antropologica, che non si regola sull’astratto universale
della specie, bensì sulla concreta presenza di un’essenza umana
universale in ogni singola persona umana, sull’uomo in ogni
uomo». L’essenza comune dell’uomo trova la sua espressione in
quella «categoria ultima della filosofia antropologica che è la
categoria dell’Ognuno (Jedermann)»138.
Tale categoria antropologica sarà sviluppata e sperimentata
anche nella sua funzione euristica nel successivo Saggio sull’esperienza della morte.
Una ulteriore categoria dell’esperienza interiore è appunto
quella di “umanizzazione”, in cui l’uomo può comprendersi nella
140
M. Horkheimer, «Bemerkungen zur philosophischen Anthropologie», in
SAGGIO INTRODUTTIVO
95
coerente unità del proprio essere-divenire, nel divenire progressivamente se stesso e autenticamente uomo. Divenire se stesso
come Werdesein, “essere-divenire” e allo stesso tempo “divenire
essere”. In questo senso Landsberg può affermare che «l’umanizzazione è il senso esistenziale della filosofia», in quanto essa,
contribuendo a dare forma all’autoconcezione globale dell’uomo,
ne promuove il progresso verso più alti gradi di umanità.
Autoconcezione e autoformazione si rivelano pertanto come due
aspetti di un unico processo139.
In maniera pressoché unanime, nel secondo dopoguerra,
L’introduzione all’antropologia filosofica, è stata a buon titolo
collocata – assieme a La posizione dell’uomo nel cosmo di
Scheler e I gradi dell’organico e l’uomo di Plessner (entrambe
del 1928) – all’origine degli studi di antropologia filosofica.
Nonostante l’esplicita dichiarazione del debito nei confronti di
Scheler, il procedere di Landsberg rimane assolutamente originale. La sintesi che egli giunge ad elaborare, e in diversi punti a
modificare, dei motivi e dei metodi del suo primo maestro è assolutamente autonoma e personale, come pure originalissima è l’interpretazione in senso antropologico dell’analitica esistenziale
heideggeriana, che con essa si combina. A proposito di Heidegger
è da sottolineare come negli scritti successivi, già a partire dalla
prima stesura spagnola del Saggio sull’esperienza della morte
(1934), l’intento landsberghiano di valorizzare aspetti del suo
pensiero verrà meno. Heidegger diverrà, al contrario, oggetto di
una critica sempre più radicale. Su questo cambio d’atteggiamento hanno certamente influito le situazioni storico-politiche del
tempo, ma anche, e in maniera autonoma, l’approfondimento dell’analitica esistenziale sviluppata in Essere e tempo, che
Landsberg, correggendo la propria valutazione precedente, riterrà incompatibile con la sua filosofia antropologica.
Esistono dei filosofi la cui attività consiste nel riscrivere sempre il medesimo libro. Non nel senso della ripetitività ossessiva o,
peggio, della mancanza di cose da dire. Si tratta invece dell’esi-
139
Ibidem, 115.
96
MARCO BUCARELLI
genza sempre nuova di approfondire e confrontare il proprio pensiero dominante con i mutamenti del tempo, gli avvenimenti interiori e storico-politici, le nuove scoperte, i nuovi incontri.
Landsberg appartiene a questo genere di pensatori: riscrive sempre il medesimo libro, ma pronto a cambiare, attento alle critiche e
aperto a modificare conclusioni precedentemente date per assodate, senza per questo dover rinnegare nulla.
Abbiamo già detto delle vicissitudini editoriali della
Introduzione all’antropologia filosofica. L’autore ritenne il suo
lavoro un punto di partenza e non d’arrivo. Quando il libro uscì, lo
considerò già in parte superato. Non corrispondeva più pienamente al suo pensiero e alla sua nuova situazione di vita storico-oggettiva e personale. Il mondo era in tumultuoso divenire, egli stesso
non era più un riconosciuto cattedratico tedesco, ma un esule gettato suo malgrado nell’agone della storia: gli accadimenti e i nuovi
incontri umani e intellettuali lo stavano arricchendo e maturando
all’interno di una situazione di difficoltà e sofferenza. Questo spiega, forse, perché non si decise mai a tradurre il libro in francese o
in spagnolo, e neanche a presentarlo in lezioni o conferenze. Le
scarse volte che nei suoi lavori successivi fa riferimento a quest’opera, è attraverso rinvii generici, senza mai citarne brani o passaggi specifici. Probabilmente la critica costruttiva del suo amico
Horkheimer influenzò questo suo atteggiamento140.
Piuttosto che riproporre il suo ultimo lavoro del periodo accademico, Landsberg immaginò e progettò di riscriverlo. Ne sono
Zeitschrift für Sozialforschung IV (1935) 1-25.
141
P. L. Landsberg, «Marx et le problème de l’homme», in La vie intellectuelle LI
(1937) 72-93. Landsberg riconosce a Marx il merito di aver posto il problema del
«carattere storico dell’uomo», della sua realtà corporea con i relativi bisogni. Il limite della concezione marxiana dell’uomo starebbe invece nel concepirlo come integralmente storico e materiale, negandone il polo spirituale. Se l’umanesimo di Marx
ha opportunamente completato quello di certo idealismo altrettanto unilaterale;
entrambi andrebbero superati da un umanesimo integrale, nel quale il primato dello
spirituale non significhi negazione del corporeo nell’uomo. Tale dovrebbe essere il
compito di un’antropologia cristiana, che per l’autore potrebbe servire da base per
una filosofia personalista della società.
142
P. L. Landsberg, «Maine de Biran et l’anthropologie philosophique», in Revista
de Psicología i Pedagogía 4 (1936) 342-368. Attraverso lo studio del pensatore francese, Landsberg mette a fuoco il problema dell’innegabile composizione dell’uomo
SAGGIO INTRODUTTIVO
97
prova una serie di lavori preparatori di carattere antropologico usciti a partire dal Saggio sull’esperienza della morte, quali in particolare «Marx e il problema dell’uomo» (1936)141; «Maine de Biran e
l’antropologia filosofica» (1937)142; soprattutto «Osservazioni sulla
teoria della conoscenza del mondo interiore» (1939)143. Mounier
conferma esplicitamente tale ipotesi sostenendo, nel “necrologio”
che pubblicò su Esprit nel 1946, che Landsberg stava lavorando
alacremente ad un ampio trattato su L’unità dell’uomo, lamentando come purtroppo i manoscritti, che lui aveva visto, fossero andati perduti durante la guerra.
11 Landsberg e la scuola di Francoforte
Abbiamo già detto dell’amicizia che legava, sin dal tempo
degli studi, Landsberg e Horkheimer, e di un percorso formativo
che per alcuni versi accomunò i due pensatori. Nonostante le loro
strade si fossero divise, i due rimasero sempre in stretto contatto
fino agli anni della seconda guerra mondiale. Nell’imminenza del
conflitto Horkheimer, assieme a molti altri esponenti della Scuola
di Francoforte, si trasferì negli Stati Uniti. Landsberg volle invece rimanere in Francia. Rendendosi conto del pericolo che il suo
amico correva, Horkheimer creò le condizioni affinché fosse
assegnata anche a lui una cattedra universitaria in America. Come
vedremo in seguito, Landsberg non poté accettare l’affettuosa
offerta dell’amico.
e dell’esigenza dell’antropologia di ricondurlo ad un’unità che non ne mortifichi la
totalità degli aspetti. L’esperienza interiore è la via privilegiata, mediante la quale
l’uomo può risalire all’esperienza esterna di se stesso, mentre l’inverso non si dà.
Ogni autocomprensione dell’uomo è tuttavia destinata ad essere sempre limitata,
frammentaria e “in farsi”, come limitato, frammentario e “in farsi” è l’uomo stesso.
143
P. L. Landsberg, «Bemerkungen zur Erkenntnistheorie der Innerwelt», in
Tijdschrift voor Philosophie 1 (1939) 363-376. Landsberg vi riprende le riflessioni
sull’analisi della vita interiore contenute nell’ultima sezione dell’Introduzione all’antropologia filosofica, sviluppando inoltre le tematiche della correlazione tra autoconoscenza e conoscenza altrui ed il loro comune riferimento alla conoscenza dell’uomo in quanto tale, alla concreta unità dell’essenza umana, contenuta in quell’ “ognuno” (Jedermann) nel quale ravvisava «la categoria antropologica ultima».
144
P. L. Landsberg, «Zur Soziologie der Erkenntnistheorie», cit., 97-98.
98
MARCO BUCARELLI
Poco dopo aver assunto la guida dell’Istituto per la ricerca
sociale di Francoforte e la direzione della Zeitschrift für
Sozialforschung, nel 1931, Horkheimer invitò L’amico a collaborare ai progetti di ricerche filosofiche e sociologiche che l’Istituto
stava promovendo. Come abbiamo già visto, proprio in quegli
anni Landsberg si dedicava a studi di sociologia e psicologia della
conoscenza e sul linguaggio, tematiche di primario interesse
anche per Horkheimer e la cerchia dei suoi. Nelle pagine terminali della sua «Sociologia della teoria della conoscenza»
Landsberg, analizzando i movimenti presenti che si opponevano
al nominalismo monopolizzante, individuava tra questi un certo
sviluppo del pensiero illuministico. Il riferimento al pensiero di
Horkheimer, pur non esplicitato, sembra evidente.
«A mio modo di vedere il monomorfismo della conoscenza è superato soprattutto attraverso una chiarificazione della storia dell’uomo.
L’illuminismo, ad un certo livello della sua costante radicalizzazione, può ottenere un vantaggio su altre forme culturali, rispetto allo
scopo della conoscenza. La sua aspirazione chiarificatrice può estendersi tanto che esso può insegnare a se stesso l’esigenza della comparazione e i suoi propri limiti. In tale saggezza da vegliardo, in tale
autoconoscenza critica, nel crescente superamento della giovanile
sopravalutazione di sé, l’illuminismo applica a se stesso la sua legge,
quella di spiegare le cose come sono e dar loro il giusto posto nel
tutto. Esso lascia cadere l’idea metafisica di progresso che tenderebbe come ad una meta ultima all’illuminismo stesso; impara ad amare
e apprezzare il valore proprio di altre epoche e quindi le loro forme
di conoscenza, e comincia a intuire le immani dimensioni della
mutevolezza dell’uomo nel corso della sua storia. Adesso taluni giovani pensatori, che definisco illuministi, proprio partendo dai presupposti propri dell’illuminismo cominciano ad apprezzare forme
più antiche di conoscenza, laddove ancora si conservano o prorompono di nuovo dalle profondità della natura umana. Questi illuministi iniziano a raggiungere una moderata comprensione della religione e della visione metafisica, del sapere mitico e naturale, di tutto
quanto è mistero e del sapere ineffabilmente mistico. […] Si tratta di
un processo di maturazione all’interno dell’illuminismo stesso, non
di un regresso al Romanticismo, della sua liberazione dal narcisismo
infantile e dall’autismo del quale era schiavo. Da questo movimento
SAGGIO INTRODUTTIVO
99
ricevono quindi forza le scienze storiche che scoprono valori di umanità che in quanto tali erano loro estranei. Nel loro impegno, opponentesi al nominalismo, alla ragione strumentale, alle tendenze politiche autoritarie implicite nella formalizzazione e nel depauperamento umano e sociale, sono sostenute dall’ethos di chiarificazione
proprio dell’illuminismo. Anche il richiamo a Marx in ciò può essere utile. Tutto questo è ancora attuale. Non sappiamo ancora dove
condurrà tale strada, tanto dal punto di vista gnoseologico quanto da
quello sociologico. Al momento ci sentiamo alleati»144.
Su queste basi Landsberg inizia un’esplicita collaborazione
alle ricerche dell’Istituto francofortese; il lungo saggio sul fenomeno del razzismo ne è una testimonianza significativa145. Si
tratta di una serrata critica alla pseudo-scienza della razza che
con l’avvento del nazionalsocialismo si stava affermando in
Germania. Come caratteristiche di quella “ideologia della razza”
Landsberg individuava: I) «la tendenza al monopolio valoriale di
una razza»; II) «un disprezzo della mutabilità endogena delle
razze»; III) «una serie di supposizioni circa l’entità e il valore
delle “razze pure”; IV) «la tendenza all’identificazione della
razza biologica [...] con una nazione o un popolo»; V) «la tendenza alla meccanicizzazione dell’idea dell’allevamento e dell’igiene delle razze»; VI) la definizione antropologico-filosofica
dell’uomo come Rassewesen, come «prodotto della sua discendenza fisica».
L’articolo, insieme a varie recensioni e altri interventi di
Landsberg sulla Zeitschrift für Sozialforschung sul medesimo
tema, costituì un punto di riferimento nella definizione degli
studi di Horkheimer sullo Stato e sulla personalità autoritaria.
Landsberg, ritenendo così di contribuire a formare un consenso
per una comune resistenza contro la minaccia incombente in
tutta Europa, chiese e ottenne la pubblicazione del suo contributo in traduzione spagnola sulla Revista de Occidente146.
145
P. L. Landsberg, «Rassenideologie und Rassenwissenschaft. Zur neuesten
Literatur über das Rassenproblem», in Zeitschrift für Sozialforschung II, 3, 1933.
146
P. L. Landsberg, «Ideología racista y ciencia de las razas», in Revista de
Occidente XII (1934) 52-71, 154-175.
147
P. L. Landsberg, «Una Revista sociológica», in Revista de Occidente XII
100
MARCO BUCARELLI
Poco dopo il volontario esilio di Landsberg, anche Horkheimer
e vari suoi stretti collaboratori fecero la medesima scelta. Dal 1934
la Zeitschrift für Sozialforschung riprese le sue pubblicazioni a
Parigi con l’editore Alcan. Commentando quest’evento, con una
breve nota pubblicata in Spagna147, Landsberg sottolinea come lo
spostamento di sede della rivista e la sua apertura a nuovi collaboratori, non più quasi esclusivamente tedeschi, avrebbe favorito una
più efficace opposizione allo Stato totalitario nelle sue differenti
manifestazioni. Conservandone il carattere scientifico, l’idea del
suo direttore era di «convertirla in un organo unitario di opposizione di valore internazionale». L’articolo continua con un’analisi di
uno degli ultimi lavori fondativi della “teoria critica della società”
di Max Horkheimer, Zum Rationalismusstreit in der gegenwärtigen Philosophie (1935). Landsberg sottolinea che «l’autore cerca
di comprendere la relazione tra concetto e realtà come una corrispondenza di carattere dialettico. La chiarezza del concetto è insostituibile per un’apprensione della realtà che non si dissolva nel
nulla. Tanto il razionalismo quanto l’irrazionalismo – l’idolatria del
concetto e la sua avversione – sono strade che conducono da nessuna parte. Il mondo del concetto non dà forma ad un mondo di
idee sussistente di per sé, ma neanche è un mondo superfluo; e neppure è un mondo di fantasmi ostili alla realtà, bensì un mondo intermedio che si costituisce nel movimento stesso di approssimazione
alla realtà. Vale sicuramente la pena di andare fino in fondo allo
studio comparato di questa singolare interpretazione del pensiero
dialettico, avendo anche come riferimento la dottrina della ragione
vitale di Ortega y Gasset»148.
Come ha giustamente osservato Martin Jay, nella sua ormai
classica ricostruzione storica delle vicende della Scuola di
Francoforte, The dialectical imagination (1973), Horkheimer
riponeva molte speranze, per lo sviluppo dei lavori dell’Istituto,
(1934) 228-229.
148
Ibidem.
149
M. Jay, The dialectical imagination. A History of the Frankfurt School and the
Institute of Social Research (1923-1950), Boston/Toronto 1973. – Tr. it.
L’immaginazione dialettica. Storia della Scuola di Francoforte e dell’Istituto per le
ricerche sociali (1923-1950), Einaudi, Torino 1979, 49-50 e 457.
150
J. Semprun, Adieu vive clarté…, Gallimard, Paris 1998, 269. L’intero libro
SAGGIO INTRODUTTIVO
101
proprio in Landsberg, potendovi questi apportare, in maniera convergente, la profondità di una riflessione filosofica derivante da
un diverso approccio e da una diversa strumentazione teoretica
rispetto alla formazione della maggior parte dei francofortesi149.
Le relazioni di Landsberg, durante i dieci anni dell’esilio, con
vari esponenti della Scuola di Francoforte, furono intense. Con
Horkheimer e Pollock, finché essi rimasero in Europa, ma anche
successivamente per via epistolare; con la sede parigina
dell’Istituto, il cui responsabile allora era Raymond Aron, col
quale le frequentazioni erano quasi quotidiane, come ci testimonia nel suo libro di memorie Jorge Semprun, che rammenta
anche le animate discussioni tra Landsberg e Benjamin150. Pur
essendoci sorprendenti affinità e interessi (basti considerare le
analogie tra il saggio sul linguaggio di Landsberg e gli scritti di
Benjamin, o i motivi comuni nell’interpretazione di Kafka), i
due caratterialmente non si comprendevano. In una lettera
Benjamin, un po’ ingenerosamente, accusando Landsberg di
rimanere sempre e solo un filosofo, gli contestava il fatto di aver
separato la causa della libertà in Spagna dal ruolo del proletariato e sottovalutato il peso dei fattori economici nell’intervento
straniero nella guerra civile a vantaggio della “volontà di potenza”151. Horkheimer chiese la collaborazione di Landsberg agli
Studi sull’autorità e la famiglia avviati allora dall’Istituto; nonostante la disponibilità di Landsberg, che in una lettera a
Horkheimer ne abbozzava le linee fondamentali, per ragioni che
non sono riuscito a ricostruire il suo contributo non fu scritto o
quantomeno inviato. Va anche detto che tra i principali promotori dell’Istituto i pareri su Landsberg, e soprattutto sull’opportunità della sua collaborazione organica alla Zeitschrift, erano
controversi. Horkheimer, pur riconoscendo la diversità dei principi che li separava, riconosceva in Landsberg «uno dei pochis-
dello scrittore e uomo politico ispano-francese è pieno di immagini e ricordi riferiti a
Landsberg negli anni1936-1940. Pur nel suo tenore letterario, è un’interessantissima
fonte per ricostruire il carattere, le abitudini, gli interessi di Landsberg nel suo periodo “francese”.
151
W. Benjamin, «Lettera ad Alfred Cohn del 26 gennaio 1936», in Gesammelte
Schriften, Bd. 15: Briefwechsel 1934-1936, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1966.
152
Cfr. O. Mongin, «Paul-Louis Landsberg, un lien entre “Esprit” et l’Ecole de
102
MARCO BUCARELLI
simi ancora in grado di destare rispetto di fronte alla filosofia».
Lo stesso Horkheimer disse a Raymond Aron, in un colloquio,
che essi «avevano approfondito il loro pensiero secondo una
logica comune: lui, Horkheimer, approfondendo il suo marxismo
nel quadro di una teoria della conoscenza; Landsberg approfondendo il suo cristianesimo nel quadro di un pensiero esistenziale e di una riflessione sull’engagement»152.
Landsberg fu peraltro tra i primi a occuparsi seriamente delle
idee del “giovane Marx”153 nel loro significato antropologico ed
esistenziale, il che indubbiamente interessava Horkheimer. Da
parte sua, Raymond Aron recensì in termini più che positivi il
Saggio sull’esperienza della morte154, e anche dopo la sua rottura con i francofortesi mantenne un’altissima considerazione per
le intuizioni politiche di Landsberg, come risulta dalle sue
Memoires.
Di parere fortemente negativo fu invece Adorno (all’epoca non
ancora tra le personalità di maggior spicco dell’Istituto), il quale
in un’indignata lettera a Horkheimer qualificò l’articolo di
Landsberg sulla razza come «uno scandalo di prim’ordine», menzionando inoltre il filosofo al primo posto in una lista di collaboratori “da cacciare”. In seguito, mitigando il suo fondamentalismo
marxista, Adorno arrivò addirittura, nella sua «Premessa» alla
Dialettica Negativa del 1966, a salutare con plauso e come segno
della necessità dei tempi ricerche tese a sviluppare un’antropologia filosofica in un senso non dogmatico, ma che cogliesse per via
critica e di negazione l’ineffabile nell’uomo, il suo essere in divenire: un’espressione landsberghiana155.
Anche Horkheimer negli anni ’30 criticava la possibilità di
fondare positivamente un’antropologia filosofica. La posizione
nei confronti di Scheler, così come verso Husserl, era ambivaFrancfort?», in Esprit, mai 1978, 58-61.
153
Cfr. P. L. Landsberg, «Marx et le problème de l’homme», cit.
154
Recensione di A. Aron a: «P. L. Landsberg, “Essai sur l’expérience de la
mort”», in Zeitschrift für Sozialforschung V (1936) 420-421.
155
Cfr. Th. W. Adorno, «Lettera a Horkheimer del 24 novembre 1934», in M.
Horkheimer, Gesammelte Schriften, Bd. 15, Briefwechsel 1913-1936, S. Fischer
Verlag, Frankfurt a.M. 1988; cfr. Anche Th. W. Adorno, Negative Dialektik, Frankfurt
am Main, 1966, in particolare la Premessa (Vorwort).
156
M. Horkheimer, «Bemerkungen zur philosophischen Anthropologie», in
SAGGIO INTRODUTTIVO
103
lente. Accanto ad una critica radicale dell’«essenzialismo
antropologico e intenzionalmente definitorio di Scheler»,
apprezzava tuttavia il tentativo filosofico scheleriano, in quanto avrebbe aperto la strada ad «un modo di procedere più aperto» e attirato l’attenzione dei filosofi su tutta una serie di fenomeni psichici riguardanti la formazione del carattere, fino allora troppo trascurati.
«L’opinione che ogni epoca esprime un lato della natura umana,
o addirittura che sia la storia come totalità a esprimerla, risulta da
un modo eccessivamente armonico di vedere le cose»156. Il compito assegnato da Scheler all’antropologia è impossibile in quanto,
secondo Horkheimer, «contraddice il carattere dialettico dell’accadere, e nel migliore dei casi può condurre all’elaborazione di
modelli nel senso dei sistemi delle scienze naturali»157. Secondo il
suo caratteristico procedere dialettico, Horkheimer – pur deciso nel
considerare inesistente «una formula capace di definire una volta
per tutte il rapporto individuo/società/natura» – considera però
come altrettanto ingenuo l’atteggiamento contrario, ovvero «la formula fatalistica per cui una necessità indipendente dagli uomini
governa il corso delle cose»158. L’esigenza espressa dall’antropologia filosofica attuale, sorta dopo la grande crisi della civiltà cristiano-borghese, rappresenta «il medesimo bisogno che la filosofia
idealistica dell’epoca d’oro della borghesia si sforzava di soddisfare: dopo il crollo dell’ordine medievale, soprattutto della tradizione come autorità, stabilire nuovi principî assoluti dai quali l’agire
tragga la sua giustificazione»159.
Pur ritenendo infondata la pretesa di fornire una risposta ultimamente metafisica, Horkheimer condivide la ragione che muove l’antropologia filosofica: l’inquietudine per la finitezza degli individui e
lo sbandamento esistenziale. Nella “teoria critica della società” queste si trasformano in un agire cosciente e pratico, nella lotta per una
reale sicurezza contro la miseria e la morte. Tuttavia, se si è intelZeitschrift für Sozialforschung IV (1935) 1-25 (tr. it. «Considerazioni sull’antropologia filosofica», in Id., Teoria critica; vol. I, Einaudi, Torino 1974, cit. 197).
157
Ibidem, 199.
158
Ibidem, 200.
159
Ibidem, 199-200.
160
Ibidem, 202.
104
MARCO BUCARELLI
lettualmente onesti, permane «la mestizia di fronte all’esistente». La
moderna antropologia filosofica, secondo il filosofo di Stoccarda,
rientra nei tentativi tardi di «trovare una norma capace di dare un
senso alla vita dell’individuo nel mondo com’è ora. […]
L’antropologia si distingue dall’utopia come una profonda interpretazione del presente si distingue da una chiara volontà di un futuro
più felice, certa del punto d’arrivo anche se non della strada da percorrere. Ciò a cui mira questa filosofia è la “sicurezza”, seppure una
sicurezza che rende possibile il rischio e induce a osare»160. Il riferimento qui si sposta dall’antropologia filosofica in generale alla formulazione – che Horkheimer ritiene la più evoluta e per diversi
aspetti la più consonante con le istanze della teoria critica – espressa da Landsberg nella sua “rappresentativa” Introduzione all’antropologia filosofica.
«Proprio l’assoluta insicurezza paralizza l’uomo [...], ma la paralisi
stessa è una conseguenza del fatto che quest’uomo non è più in condizione di concepir se stesso in modo tale che ne risulti un senso unitario, globale e una destinazione complessiva per la quale si possa e si
debba osare»161.
Secondo Horkheimer,
«con queste parole Landsberg caratterizza effettivamente l’impulso
cosciente dell’attuale intero movimento filosofico, dal quale sono risultati l’antropologia moderna e la filosofia esistenziale. Il desiderio di
fondare l’agire su salde visioni d’essenza, ha motivato la fenomenologia fin dalle sue origini»162.
Per la teoria critica, che confidando in se stessa non si fa illusioni sulla possibilità di raggiungere quello che l’antropologia
promette, si può parlare solo negativamente di destinazione
umana, mantenendo in vita la nostalgia di un ordine giusto, e mettere in luce la contraddizione tra le condizioni date dell’esserci e
P. L. Landsberg, Einführung in die philosophische Anthropologie, cit., 29.
M. Horkheimer, «Bemerkungen zur Philosophischen Anthropologie» (trad. it.
cit. 206).
163
Ibidem.
161
162
SAGGIO INTRODUTTIVO
105
tutto ciò che la più autentica filosofia ha proclamato come destinazione dell’uomo. Lo crisi di umanizzazione, su cui coincide
con l’antropologia, è un motivo che risale all’Umanesimo e al
Rinascimento.
«La volontà comune di realizzare una forma sociale migliore trova
non pochi stimoli nei rapporti sociali attuali. La domanda se essa sia
o no conforme ad una presunta destinazione dell’uomo, se sia in
senso assoluto migliore o peggiore della sua antitesi, questa domanda è rilevante soltanto se presuppone Dio»163.
L’antropologia landsberghiana, secondo Horkheimer, per
molti versi «ha in comune con il pensiero dialettico il rifiuto di
una presunta neutralità; la teoria di Landsberg, secondo cui la
conoscenza ha dei presupposti vitali e morali, suona come una
conclusione tratta dall’attuale situazione mondiale». Anche la
coscienza della propria storicità costituisce in Landsberg un tema
centrale dell’antropologia: «Il condizionamento storico di ogni
antropologia, anche della nostra, […] è insopprimibile in linea di
principio e non è affatto da valutare negativamente»164. La richiesta che ne discende, di rendere di volta in volta cosciente nei dettagli il nesso determinato «in perenne trasformazione tra teoria e
pratica, va nel senso dell’integrazione dell’antropologia in una
teoria dialettica della storia»165.
Mentre Landsberg, che è essenzialmente cattolico e quindi la
sua fede in un Dio personale – che anzi s’è fatto uomo – gli permette una coerenza interna nel suo pur discutibile tentativo di accostare il problema dell’uomo in chiave antropologica, in Scheler –
secondo Horkheimer – si determina una situazione paradossale.
Qui l’antropologia «si trova esposta al rischio di mirare a troppo e
a troppo poco: ricercare una determinazione d’essenza dell’uomo
che copra tutto, dalla notte della preistoria fino alla fine dell’umanità, e sottrarsi al problema eminentemente antropologico di come
si possa superare una realtà che si configura oggi come disumana,
P. L. Landsberg, Einführung in die philosophische Anthropologie, cit., 41.
M. Horkheimer, «Bemerkungen zur philosophischen Anthropologie» (tr. it. cit.
205-206).
166
Ibidem, 206.
167
Ibidem, 207. Cfr. M. Scheler, «Die Sonderstellung des Menschen», in
164
165
106
MARCO BUCARELLI
perché tutte le capacità umane che in essa amiamo in essa deperiscono e soffocano»166. Tutto ciò poi nel momento in cui Scheler,
fondando la moderna antropologia e abbandonando verso la fine
della sua vita la fede cattolica, incominciò a negare il suo «presupposto teistico, un Dio personale e spirituale, onnipotente nella sua
spiritualità»167; così egli dovette dichiarare impossibile l’Essere
Assoluto come mezzo per «sorreggere l’uomo»168. In tal modo
Scheler respinge il maggior impulso alla metafisica. «Questo passo
conduce in direzione di una teoria materialistica [a-dialettica, nel
senso del materialismo “volgare”]. Essa non nega l’essere oggettivo, nega però un senso assoluto, che nonostante gli sforzi del suo
panteismo è sempre inseparabile da quel «presupposto teistico personalista»169. Concludendo la sua articolata riflessione sulla tendenza antropologica della filosofia contemporanea, e il dialogo a
distanza col suo amico Landsberg, Horkheimer afferma:
«Il tentativo di comprendere gli uomini come unità stabile o in divenire è vano. […] È ora che l’argomento fatto valere da sempre contro le
trasformazioni storiche necessarie, che cioè ad esse si oppone la natura dell’uomo, ammutolisca. Sebbene i più liberi tra gli antropologi filosofici – come Landsberg – si guardino bene dal fare quest’obiezione
corrente, e sostengano espressamente che è impossibile prevedere cosa
l’uomo possa ancora divenire, il loro metodo adialettico ha potuto
peraltro contribuire a far sì che anche il richiamo all’essenza e alla
destinazione divenisse “volgare” e trasfigurasse l’esistente»170.
Questa critica all’antropologia filosofica, e in parte a Landsberg,
non è affatto senza appello, anzi riconosce dialetticamente un
significato e un valore a questo tipo di ricerche filosofiche:
«La stessa negazione della natura umana unitaria va intesa tanto poco
in termini assoluti, che perfino la credenza in una natura umana uni-
Menschen und Erde, Darmstadt 1927, 251.
168
Ibidem, 254.
169
M. Horkheimer, «Bemerkungen zur philosophischen Anthropologie» (tr. it. cit. 203).
170
Ibidem, 222-223.
171
Ibidem, 223.
172
Cfr lettera inedita del 18 agosto del 1933, consultabile presso il «Friedrich
SAGGIO INTRODUTTIVO
107
versale si presenta talvolta come un errore minore, cioè quando si tratta di comprendere che la felicità e la miseria sono sempre presenti
nella storia, che gli uomini, così come sono, hanno i loro limiti e meritano rispetto, e che il trascurare questi limiti è pagato a caro prezzo»171.
In estrema sintesi, l’invito è quello di misurarsi di più, di giocare di più la sua nobile e profonda visione antropologica nel
reale movimento storico, nella reale lotta storica/economica/politica contro una barbarie disumanizzante che avanzava; di unire
gli sforzi teorico-pratici per contrastarla; di storicizzare e dialetticizzare di più il suo pensare e agire filosofico. Di sporcarsi le
mani con la melma impura dell’esistenza storica. Queste osservazioni, pur non completamente condivise, furono raccolte da
Landsberg, che le sviluppò secondo una sua propria ottica negli
anni intensi e drammatici che seguirono.
12 L’esperienza spagnola
Al termine del semestre invernale d’insegnamento a Bonn, il
1° di marzo 1933, dopo aver inoltrato all’Università una formale
richiesta di vacanza di studio, Paul Ludwig lascia la Germania
per non farvi più ritorno, se non come internato nel lager dove
concluderà la sua vita nel 1944. La decisione del volontario esilio nasce in lui dalla premonizione quanto stava per accadere con
l’ormai inarrestabile ascesa di Hitler al potere.
Il 27 luglio 1933 sposa a Zurigo, con rito civile, Magdalena
Hoffmann, dottoranda in filosofia. La sosta di alcuni mesi in
Svizzera serve a Landsberg per risolvere certe questioni finanziarie (lo zio materno, che da diversi anni viveva a Lucerna, vi aveva
istallato una solida attività economica). In Svizzera Paul Ludwig
si riunisce con altri che come lui avevano deciso di lasciare
volontariamente la Germania per ragioni politiche o razziali. Tra
questi Horkheimer e Friedrich Pollock, i quali avevano chiuso la
sede francofortese del loro Istituto per le ricerche sociali, riattivandola a Ginevra. A Pollock, che oltre a essere economista di
Pollock Archiv» dell’Università di Francoforte.
173
Fonte: testimonianza diretta raccolta da J.-M. Soutou.
108
MARCO BUCARELLI
primo piano si occupava della gestione logistica e amministrativa
dell’Istituto, si deve la concessione di un fondo di ricerca a
Landsberg, il quale in una lettera ringrazia lui e Horkheimer per
la generosità del gesto172.
Il 12 settembre 1933, in forza base delle disposizioni razziali,
viene notificata a Landsberg la revoca della licenza d’insegnamento da parte del Ministero della scienza, dell’arte e dell’istruzione popolare. Insieme alla giovane e affascinante moglie si reca
a Parigi, dove entra in contatto con la succursale parigina
dell’Institut für Sozialforschung diretta da Raymond Aron, e
ritrova Benjamin che aveva scelto la capitale francese come sede
del suo esilio. Mediante Benjamin entra in contatto con Pierre
Klossowski e Georges Bataille, i quali a loro volta gli presentano
Emmanuel Mounier e Jaques Maritain173. Sempre verso la fine del
1933 Landsberg riprende i contatti con la Revue philosophique de
la France et de l’Etranger diretta da Lévy-Bruhl, sulla quale esce
la traduzione francese del suo manoscritto redatto a Bonn, dal
titolo L’uomo e il linguaggio. Sempre in quel periodo, ricco d’incontri e di nuove esperienze, ristabilisce i contatti con Jean Wahl
che aveva conosciuto l’anno precedente in occasione del periodo
di studio in Francia. Durante un viaggio in Spagna conosce
Joaquín Xirau174, all’epoca preside della Facoltà di lettere e filosofia e rettore facente funzione dell’Università di Barcellona.
Xirau propone a Landsberg un contratto biennale per l’insegnamento di Storia della filosofia, nel quadro del corso di laurea in
pedagogia.
Dal maggio 1934 si reca per lunghi periodi in Spagna, pur mantenendo la propria residenza in Francia. Tiene lezioni, seminari e
conferenze sia nell’Università di Barcellona, sia in quella di
Santander in Cantabria fino al 1936, quando il precipitare degli
eventi politici spagnoli lo obbliga ad abbandonare definitivamente
quel paese che aveva cominciato ad amare profondamente.
Abbiamo diverse testimonianze sul periodo “spagnolo” di
Landsberg, oltre a non pochi riferimenti autobiografici nei suoi
scritti. Una delle “matricole” che iniziò a frequentare nel 1934 i
174
175
Joaquín Xirau i Palau (Figueres 1895 - Ciudad de México 1946).
Quest’informazione ci arriva anche, sul versante francese, da J. Lacroix e M.
SAGGIO INTRODUTTIVO
109
suoi corsi e seminari, Miguel Siguán, ricorda: «(egli) lasciò, in
quel breve periodo, un ricordo incancellabile in tutti noi che
avemmo la fortuna d’incontrarlo e di condividere con lui quegli
anni. […] Durante le sue lezioni rimarcava di non aver l’ambizione e la tendenza sistematizzante del pensiero del suo maestro
Scheler, ma che la sua meditazione s’incentrava sul senso personale e trascendente dell’esistenza umana. Durante le sue lezioni
si richiamava spesso a sant’Agostino, Pascal e Nietzsche, e da
quando conobbe la sua opera, anche a Unamuno. L’unica definizione che accettava, come meno lontana, per indicare il proprio
pensiero filosofico era quella di esistenzialismo cristiano. Ma un
esistenzialismo profondamente ancorato alle responsabilità storiche del tempo. Si confessava apertamente cattolico, pur essendo ebreo di nascita. Qui a Barcellona godette, insieme alla
moglie, un periodo di relativa tranquillità nella quale poté maturare il suo pensiero. Ho accennato alla profonda impressione che
le sue lezioni producevano negli ascoltatori. Anche Landsberg
restò molto impressionato dalla Spagna: scoprì Unamuno, s’immerse nella lettura dei mistici spagnoli, rimase impressionato e
affascinato dai tori e dalle corride, come si deduce dal suo saggio sull’esperienza della morte. Questa preoccupazione per la
morte, che superficialmente potrebbe apparire come un’attrazione per il lato oscura della Spagna, era però motivata da una profonda ragione personale. Il professor Landsberg, che incrociavamo nel cortile della nostra facoltà come un apollo nordico sprizzante vitalità, portava con sé, da quando venne via dalla
Germania, una dose di veleno, disposto a ingerirlo se un giorno
Mounier. Lacroix ospitò Landsberg nella sua casa a Lione nel momento più drammatico della sua vita. Fuggito dal campo di prigionia francese in Bretagna, era in
attesa di avere notizie della moglie, anche lei internata. Fu in quei momenti che l’idea di ricorrere al veleno per porre fine alla propria vita si fece sentire più forte.
Come risposta a questa tentazione, Landsberg volle confrontarsi, nel suo ultimo
scritto, proprio col problema del suicidio. Va tenuto presente che era un costume
abbastanza diffuso tra gli esuli tedeschi, in quel periodo, portare con sé del veleno
per farne uso in casi estremi. Così fu per Walter Benjamin. La stessa la madre di
Landsberg, impedita di ricongiungersi in Francia col figlio o in Svizzera col fratello, si suicidò il 4 maggio 1938.
176
M. Siguán, «Noticia sobre Pablo Luis Landsberg», in Convivium 23 (1967) 7982.
110
MARCO BUCARELLI
fosse stato catturato175. Molti anni dopo, quando coloro che
erano stati suoi amici – come Maragall e Bergamín – conobbero questo segreto gelosamente custodito, il loro ricordo del giovane filosofo acquisì un profilo tragico»176.
In una nota apparsa su una rivista dell’Università di
Barcellona sono riportati i seminari e le conferenze tenute da
Landsberg nell’anno accademico 1934-1935177. Tale fonte è preziosa per ricostruire gli interessi e la genesi di alcuni scritti di
quell’epoca, apparsi talora in anni successivi e in altre lingue.
In primo luogo una serie di conferenze, lezioni e seminari sul
confronto tra le personalità filosofiche di Nietzsche e Scheler;
inoltre un’introduzione filosofica allo studio delle Confessioni
di sant’Agostino; infine una conferenza dal titolo «Riflessioni
sullo stato attuale della filosofia». Dai resoconti delle lezioni e
delle sessioni dei seminari su Nietzsche e Scheler possiamo
ricostruire la genesi e il periodo della redazione (1934-1935) di
scritti che furono pubblicati nell’arco temporale 1934-1937: si
tratta del «Saggio sull’interpretazione della malattia mentale di
Nietzsche»178, apparso in francese sulla rivista di Lévy-Bruhl
alla fine del 1934; della conferenza introduttiva al ciclo di seminari su Nietzsche e Scheler, pubblicata in catalano ad opera di
uno dei nuovi allievi spagnoli più promettenti di Landsberg,
Jordi Maragall179; di una lettura filosofica dell’itinerario poetico
e spirituale di Nietzsche180; de «L’atto filosofico di Max Scheler»
che, se pur redatto a Barcellona, sarà pubblicato solo nel 1937 in
177
«Noticies. Treballs de seminari sobre “Nietzsche i Scheler” dirigits pel prof. P.
L. Landsberg», in Revista de Psicología i Pedagogía 3 (1935) 162-178.
178
P. L. Landsberg, «Essai d’interprétation de la maladie mentale de Nietzsche»,
in Revue Philosophique de la France et de l’Etranger, sept.-oct. 1934, 210-231.
179
P. L. Landsberg, «Nietzsche i Scheler», in Revista de Psicología i Pedagogía
3 (1935) 97-116. Qui la filosofia è ricondotta all’attività propria del filosofo, ovvero
«un uomo che per amore della verità trasforma la propria vita in una serie di esperienze e si consacra, mediante il pensiero, alla ricerca del senso e dell’unità delle proprie esperienze».
180
P. L. Landsberg, «Los poemas de Nietzsche», in Revista de Occidente XLVIII
(1935) 255-277.
181
P. L. Landsberg, «L’acte philosophique de Max Scheler», in Recherches philosophiques 6 (1936-1937) 299-312. L’atto filosofico è definito come «atto della ricerca della verità che trasforma gli avvenimenti della vita in esperienze con l’aiuto del
pensiero».
SAGGIO INTRODUTTIVO
111
francese181. Questi scritti, i cui richiami interni sono spesso espliciti, dovevano costituire – come emerge dai resoconti dei seminari – degli studi preliminari per un lavoro più ampio dedicato a
questi due filosofi dalle personalità così diverse, ma che rappresentavano, secondo Landsberg, due possibilità idealtipiche di esistenza filosofica.
Nel successivo anno accademico 1935-1936, argomenti delle
sue lezioni furono «Sant’Agostino e il problema del tempo» e
«La filosofia della storia in Goethe e Hegel». Un corso progettato su «L’antropologia filosofica e l’unità dell’uomo»
all’Università di Santander non fu mai tenuto, perché alla fine di
luglio 1936 Landsberg è costretto a lasciare la Spagna definitivamente per non correre il rischio di essere catturato dalle milizie
falangiste sostenute dai nazisti tedeschi e dai fascisti italiani.
La Spagna fu il paese che, dopo la sua patria, Landsberg amò
maggiormente; vi strinse ampie e durature relazioni, tra gli altri
con Pablo Picasso, José Bergamín e Ortega y Gasset. Durante i
tre anni di docenza in Spagna accrebbe i suoi contatti con la
Zeitschrift für Sozialforschung, di cui divenne il corrispondente
da quella nazione182, e con i nuovi amici francesi, in particolare
182
Dalla Spagna inviò ad Horkheimer un interessante articolo su Eric Voegelin,
suo compagno di studi a Colonia. Secondo Voegelin, l’esistenza dell’uomo nella
società politica è storica, e una teoria politica che voglia affrontare questioni di principio deve essere allo stesso tempo una filosofia della storia. Ciò che Landsberg
apprezza nel tentativo di Voegelin è il programma di ricostruzione della storia che,
rovesciando l’interpretazione positivistica e muovendo da una critica immanente alla
sociologia di Max Weber, disegni una curva ascendente dell’umanità che ha il suo
culmine nella venuta di Cristo. Nel mondo moderno, secondo Voegelin, si manifestano germi regressivi, a causa del prevalere di tendenze totalitarie e fondamentalistiche di derivazione gnostica; ad essi egli contrappone la necessità di recuperare il
senso della tradizione antica e cristiana, non come astratta riproposizione di valori da
restaurare, ma attraverso una valorizzazione della tradizione in chiave esistenziale e
nel confronto aperto e valorizzante tendenze e bisogni contemporanei (cfr. P. L.
Landsberg, «Recensione a: E. Voegelin, “Die Rassenideen der Geistesgeschichte von
Rey bis Carus”», in Zeitschrift für Sozialforschung V (1936) 153). Ulteriore contributo “spagnolo” alla rivista dell’Istituto francofortese è l’attualizzazione del precedente e più ampio studio sulla scienza e sull’ideologia della razza: «Sammelrezension
zur Rassenlehre», in Zeitschrift für Sozialforschung IV (1935) 144-148.
183
«Quelques réflexions sur l’idée chrétienne de la personne», in Esprit, déc.
1934. Landsberg si chiede che cosa, al di là dei fattori ereditari e ambientali, spieghi
l’unicità della persona. «La persona non viene ad aggiungersi, come un elemento
112
MARCO BUCARELLI
Jean Wahl e Emmanuel Mounier. Con la rivista Esprit, fondata
da Mounier nel 1932, iniziò a collaborare dal 1934 inviando un
primo articolo intitolato «Alcune riflessioni sull’idea cristiana
della persona»183.
Tra le tante esperienze e amicizie coltivate da Landsberg in
Spagna, due meritano di essere particolarmente sottolineate:
quella con José Maria de Semprun y Gurrea e quella con José
Bergamín. Semprun era all’epoca il corrispondente spagnolo di
Esprit e fu lui a orientare la rivista, con i suoi resoconti drammatici e incisivi, da un certo neutralismo verso il sostegno della
causa repubblicana. Subito strinse legami d’amicizia con
Landsberg e lo convinse dell’utilità di fornire il suo contributo
rigorosamente filosofico a Mounier e ai suoi, paradossalmente
per liberarli dal loro astrattismo intellettualistico. Quando anche
Semprun fu costretto a lasciare la Spagna insieme a Jorge, il figlio
ancora adolescente, mantenne a Parigi rapporti frequentissimi
con Landsberg. Il giovane Jorge Semprun – che nel secondo
dopoguerra si sarebbe affermato come uno dei più talentuosi
scrittori e critici letterari francesi, divenendo poi, dopo la fine del
franchismo, ministro della cultura in Spagna – fu preso a ben
volere da Landsberg, che lo portava spesso con sé nei suoi incontri parigini dell’anteguerra. Egli stesso ce ne parla in un recente
libro di memorie, ricchissimo di particolari, dettagli, sentimenti
che forniscono un quadro vivido dell’ambiente parigino dei resistenti di quegli anni184.
José Bergamín (1897-1983), scrittore e saggista, apparteneva
a quella generazione di intellettuali – la “generazione del ’98”
esteriore, a quanto può esserci d’impersonale nell’uomo, ma lo penetra da principio.
La persona è un’attività che produce perpetuamente senso, in cooperazione e in lotta
costante con il destino interiore che proviene dalle profondità dell’ereditarietà, e con
la pressione dell’ambiente: ma in modo tale che unicamente nel loro incontro il destino diviene destino, l’ambiente diviene ambiente. Non è per nulla facile sottrarsi allo
schema aristotelico, che crede di cogliere l’uomo nella somma di una serie di principi, il più elevato dei quali deve stabilire la sua differenza specifica rispetto all’animale e alla pianta. La particolarità dell’uomo risiede nel tutto, e la sua materialità, la
sua vegetatività o la sua animalità esistono allo stato puro esclusivamente nella nostra
astrazione. L’uomo dunque non si lascia comporre, alla maniera cartesiana mediante,
dalla congiunzione fortuita di due sostanze: materia e pensiero» (infra 389-400).
184
J. de Semprun, Adieu, vive clarté…, Gallimard, Paris 1998.
SAGGIO INTRODUTTIVO
113
formatasi dopo la definitiva sconfitta della Spagna nella guerra
ispano-americana che sancì la sua fine come potenza coloniale –
che esprimeva un grande fermento rinnovatore dello spirito “spagnolo”: la ricerca, all’interno della tradizione, ma senza più i lacci
di un polveroso conservatorismo, di una nuova apertura ai fermenti del mondo contemporaneo. Bergamín fondò e diresse la
rivista Cruz y Raya (1933-1936) d’indirizzo cattolico-progressista, dalle cui pagine si fecero conoscere non pochi poeti della
generazione succitata. Fu discepolo di Unamuno, i cui scritti
portò a conoscenza di Landsberg, il quale rimase colpito dalla sua
originalità e dalla sua personalità esasperata, dal suo paradossale
“cristianesimo ateo” e dal suo “ateismo cristiano”. Nel 1936
anche Bergamín – come Jesús Ussía, un altro amico di Landsberg
– fu costretto all’esilio; scelse il Messico, dove fondò la rivista
España Peregrina, assicurandosi la collaborazione del professor
Xirau, anch’egli obbligato ad espatriare.
Alla personalità filosofica di Unamuno, Landsberg dedico un
ampio saggio pubblicato da Bergamín su Cruz y Raya185.
Percorrendo l’opera dello scrittore, Landsberg cerca di esplicitare i contenuti della sua filosofía española, una filosofia della vita
o dell’esistenza umana che si confronta con i problemi ontologici fondamentali: morte, speranza, fede in Dio. Sempre su Cruz y
Raya nel 1934 usce la prima edizione dello scritto – se non il più
importante, sicuramente il più celebre di Landsberg – Saggio sull’esperienza della morte186. Questo studio – che verrà poi riscritto in francese nel 1936 con l’aiuto dell’amico Pierre Klossowski
– trae origine dal confronto delle riflessioni svolte nel secondo
capitolo della Introduzione all’antropologia filosofica con le
nuove esperienze e i nuovi incontri della breve ma intensa stagione spagnola.
Quando fu costretto a lasciare la Spagna, sorpreso dalla violenza e dall’andamento della guerra civile (considerato il suo collocamento politico contrario alle milizie falangiste), si trovò fortemente segnato dalla pur breve permanenza in quella nazione,
185
P. L. Landsberg, «Reflexiones sobre Unamuno», in Cruz y Raya XI (1935) 753; saggio scritto in tedesco a Tossa (Costa Brava) nell’inverno del 1935 e tradotto
in spagnolo da E. Imaz; tr. it. infra 351-376.
186
P. L. Landsberg, «Experiencia de la muerte», in Cruz y Raya IX (1934) 187-224.
114
MARCO BUCARELLI
che lo aveva messo di fronte ai problemi legati all’agire storico in
un modo assai più concreto di quanto non gli fu (e gli sarebbe
stato) possibile nell’ambiente accademico tedesco. Ne è conferma ciò che Landsberg scrive a José Bergamín in una lettera datata 2 gennaio 1939. Riferendosi al periodo immediatamente precedente la guerra civile, egli dice:
«…non eravamo che dei ragazzini [...] rispetto a ciò che siamo
ora. Allo stesso modo che la mia vita è cambiata non solo nella sua
forma ma anche nel suo significato, quando i nazionalsocialisti
s’impadronirono della mia patria, essa cambiò di nuovo quando si
scatenarono contro il popolo spagnolo le stesse forze distruttrici
della ribellione e dell’invasione, strettamente associate sin dal
primo momento. Quelle giornate del 1936 che passai a Santander,
come sapete, rappresentano nella mia vita la fine di un’epoca di
relativa incoscienza e irrequietezza giovanile, e allo stesso tempo
un nuovo punto di partenza. Maturare non avrebbe per noi affatto
senso, se non apprendessimo a conoscere la potenza del male sulla
terra e su noi stessi e se, allo stesso tempo, con più ragione ancora, non rinforzassimo il nostro spirito e noi stessi per la lotta
necessaria»187.
In un articolo estremamente significativo della concezione politica di Landsberg, sempre del 1939, leggiamo:
«Resta la domanda sull’origine, sulle cause e sui motivi della
guerra. Sono le ideologie e i loro antagonismi a giocare un ruolo
fondamentale? Noi pensiamo, al contrario, che Marx abbia perfettamente ragione quando sostiene che l’essere, la realtà, precede
fondamentalmente la coscienza. I marxisti hanno invece torto
quando identificano la realtà umana esclusivamente con la realtà
sociale, e quando spiegano quest’ultima attraverso gli interessi
economici. Questi interessi costituiscono uno degli elementi
essenziali del movimento storico, un fattore che può giocare un
ruolo principale unicamente in certe condizioni storiche e in certi
187
P. L. Landsberg, «A propósito de Unamuno» (lettera a José Bergamín, 11 genn.
1939), pubblicata in España peregrina 3 (1940) 105-106; ripubbl. postuma come
«Lettre à José Bergamín», in Esprit 24 (9/1956) 460-463; tr. it. infra 377-380.
SAGGIO INTRODUTTIVO
115
momenti molto particolari e complessi.
Il motivo essenziale della guerra imperialista è la volontà di potenza degli Stati moderni. Nella formazione di questa volontà, e nel
suo generarsi come decisione, s’inserisce con regolarità un interesse economico fondante. Tuttavia questa volontà costituisce essa
stessa un fatto irriducibile e specifico caratterizzante la qualità
propria del mondo politico. Non sono dei ragionamenti, né esclusivamente delle necessità economiche che generano la guerra.
Queste necessità diventano piuttosto delle motivazioni immediate,
così come le ideologie sono delle razionalizzazioni ex post. L’idea
di voler temperare un imperialismo aggressivo mediante concessioni economiche, deriva dal disconoscimento della natura di tale
imperialismo. L’aggressività è una possibilità fondamentale dell’esistenza umana e la guerra imperialista costituisce la sua manifestazione più monumentale. Il suo fine immanente è l’accrescimento del potere di uno Stato. La sua forza agente vuole soggiogare, dominare i popoli di altri Stati. Lo Stato imperialista è una
concentrazione minacciosa di forze aggressive per essenza.
Lo Stato “totalitario”, che ha integrato in sé il potere spirituale,
rappresenta la forza più compiuta di una tale concentrazione. È la
negazione concreta dell’universale attraverso il culto del particolare, divenuto a sua volta assoluto. Certi imperialismi, allo stesso
tempo meno concentrati e più saturi di potere, preferiscono una
certa stabilità del mondo politico; essi praticano, in diversa misura, il “non-intervento” nelle “guerre di ideologie”. Altri imperialismi nella fase più virulenta hanno una tendenza ineluttabile alla
guerra e al dominio universale. Gli Stati di questo tipo agiscono
non per un’ideologia, bensì, come ogni essere al mondo, per realizzare la loro essenza, ovvero la tendenza violenta verso un sempre maggior potere.
La vera origine della guerra non sta dunque nella sfera delle idee,
né in quella degli interessi, ma nel fatto che l’uomo ha allo stesso
tempo qualcosa dell’animale predatore e del semidio tentato dall’infinito. In tale essere l’aggressività animale può divenire demoniaca, superando ogni limite utilitaristico e biologico. Il moderno
188
P. L. Landsberg, «Guerres d’idéologies?», in Nouveaux Cahiers, 1938, 15-19;
tr. it. infra 637-646, cit. 639-640.
116
MARCO BUCARELLI
Stato occidentale è l’opera di una simile mentalità, e la guerra
imperialistica è il suo frutto maturo. Non è questa o quella ideologia che porta alla caduta dell’uomo, ma è l’uomo decaduto a produrre le sue stesse catastrofi e le sue nefaste ideologie»188.
Sempre nel medesimo articolo Landsberg sente di dover dare
testimonianza sofferta di quell’esperienza che egli definisce “di
popolo” e che ha segnato la sua stagione spagnola.
«I numerosi gruppi di cattolici che erano socialmente legati al semifeudalesimo artificialmente sopravissuto in Spagna, sono divenuti
partigiani di “Franco”. I cattolici solidali dei gruppi politici opposti
hanno fatto una scelta contraria, pur senza adottare l’ideologia marxista. Laddove si fabbrica un’ideologia politica partendo dal cattolicesimo, quest’ideologia – che non è più cattolicesimo – si comporta
come tutte le ideologie, esprimendo alcune tendenze della società
esistente. Maritain ha detto che cosa bisogna pensare di un simile
assorbimento dell’assoluto da parte del temporale e della politica189.
Il punto decisivo, e più complicato, di quest’esposizione sta nel far
sentire le realtà sociali che sono implicate nella guerra spagnola, e
nel dare alle loro definizioni tutta la chiarezza possibile.
Dalla parte dei ribelli troviamo gli aristocratici e i grandi borghesi,
dal duca d’Alba fino al dottor Marañón, aiutati dalla classe contadina ancora feudalizzata di talune province e da una frazione della piccola borghesia. Questa è ancora una constatazione semplice e quasi
statistica. Ma chi sta dall’altra parte? Per quale realtà si battono questi repubblicani spagnoli? I loro rappresentanti hanno la chiara
coscienza di non lottare per un’ideologia: si tratti del liberalismo o
dell’ideologia democratica, del marxismo o dello stalinismo, o di
qualsivoglia corrente della grande famiglia degli “ismi”190. Che cosa
vogliono dire quando affermano di battersi per il “popolo spagnolo”?
È più agevole indicare ciò che non vogliono dire. Il “popolo”, in questo senso, non s’identifica con la classe operaia o proletaria, né con
alcun’altra classe in senso economico. Non è neanche l’insieme
empirico dei proletari, dei contadini e degli intellettuali. Neppure si
189
Nella sua introduzione ad A. Mendizabal, Aux origines d’une tragedie [menzione di Landsberg].
190
Si veda, ad esempio, il discorso del presidente Azaña il 21 gennaio 1937 [nota
di Landsberg].
SAGGIO INTRODUTTIVO
117
lascia identificare con la maggioranza degli elettori, o con qualche
altra figura giuridica. Non coincide con la nazione, se non forse nel
senso originale e rivoluzionario di questo termine. Il popolo costituisce il contrario di quella massa instabile che i definisce come “il
pubblico”. Non è una “folla” nel senso psicologico o sociologico. Per
fare un esempio positivo, in Francia Charles Péguy esprimeva una
simile realtà popolare. Quanto alla Spagna, si tratta di una realtà sperimentata in maniera indimenticabile da tutti coloro che vi hanno vissuto di recente e che hanno amatogli uomini di questo paese. Noi ci
sentiamo in dovere di dare una testimonianza diretta del contenuto di
una tale esperienza come di un fatto morale, e non di dover predicare
una “mistica”: termine ignobilmente secolarizzato dai cronisti per fare
d’ogni erba un fascio»191.
13 La presenza assente
Il Saggio sull’esperienza della morte è l’opera più conosciuta e
tradotta di Landsberg. Costantemente ripubblicato e considerato
un “classico” su questo tema, esso trae origine dal confronto delle
riflessioni svolte nel secondo capitolo della precedente
Introduzione all’antropologia filosofica con le nuove esperienze e
i nuovi incontri della breve ma intensa stagione spagnola. E proprio in Spagna il Saggio fu pubblicato per la prima volta dalla rivista Cruz y Raya di José Bergamín, sulla base di un dattiloscritto
redatto da Landsberg in tedesco e tradotto in castigliano da
Eugenio Imaz, come c’informa Jorge Semprun192.
Nel 1936 Landsberg, sollecitato da Jean Wahl193, decise di
ripubblicare il Saggio in francese; ma con un procedere tipico della
sua personalità non volle semplicemente tradurre un proprio lavoro, bensì ripensarlo e riscriverlo, riviverlo all’interno della nuova
situazione – l’esilio in Francia – in cui la sua storia personale lo
aveva condotto. Per questa ragione volle confrontarsi direttamente
con la lingua francese senza ulteriori mediazioni. Di questa volonP. L. Landsberg, «Guerree d’ideologies?», cit. infra 642-643.
Cfr. J. Semprun, Adieu vive clarté…, cit., 212-213.
193
Cfr. Corrispondenza inedita Wahl/Landsberg, conservata all’IMEC (Institut de
Mémoires Contemporaine) di Parigi, presentata infra 790-797.
191
192
118
MARCO BUCARELLI
tà d’immergersi integralmente nel nuovo universo vitale e linguistico né dà conferma lo stesso Landsberg in una brevissima nota
premessa al libro pubblicato dall’editrice Desclée de Brouwer
nella collana “Questions Disputées”. Egli ci tiene a rimarcare che
«il testo del presente libretto è stato scritto in francese…» e ringrazia l’amico Pierre Klossowski per l’aiuto fornitogli nell’impresa. Landsberg parlava fin dall’infanzia fluentemente il francese,
che era la seconda lingua della sua famiglia; eppure, per quella sua
tipica precisione tedesca che talvolta rasentava il perfezionismo,
sentiva la necessità di entrare più profondamente nello spirito della
lingua, la quale – come abbiamo visto nel saggio L’uomo e il linguaggio – esprime l’essenza dell’uomo e della comunità storica a
cui si appartiene.
Lacroix ci informa che Landsberg scrisse il Saggio «pensando
alla morte di suo padre e a quella di Scheler»194; va però anche ricordata la morte, nella prima guerra mondiale, del fratello maggiore
Erich, offertosi volontario al posto di un padre di famiglia. Se queste possono essere state alcune delle motivazioni fattuali del Saggio,
ne possiamo trovare altre più propriamente filosofiche. In primo
luogo la necessità di un confronto serrato con Heidegger, proponendo un’alternativa allo Sein zum Tode di Essere e Tempo. Senza sottovalutare il peso degli Existentialien rilevati da Heidegger (la cura,
l’angoscia, la noia), Landsberg intende evidenziarne altri a suo avviso ancor più essenziali al Dasein umano, in particolare l’amore e la
speranza. Siamo di fronte ad uno snodo decisivo nel suo itinerario
filosofico: fare i conti col proprio passato, una definitiva autonomia
da Scheler e la ricerca del punto d’intersezione tra l’antropologia,
l’ontologia e la sua personale esperienza di fede cristiana. La
domanda iniziale racchiude l’essenza del problema:
«Cosa significa la morte per la persona umana? La questione è inesauribile: si tratta del mistero stesso dell’uomo, considerato sotto un
certo aspetto. Ogni vero problema filosofico contiene tutti gli altri nell’unità del mistero.
Occorre perciò imporsi dei limiti e cercare un fondamento empirico
194
195
Nella «Prefazione» alla riedizione del libro presso le Ed. du Seuil (Parigi 1951).
P. L. Landsberg, Saggio sull’esperienza della morte, cit. infra 225.
SAGGIO INTRODUTTIVO
119
per delle possibili risposte; e si è sempre costretti a tralasciare problemi veramente importanti. La nostra ricerca ci sembra inevitabile allo
stato attuale della filosofia. Siamo molto lontani da un’autentica metafisica della morte come pure della vita»195.
Paradossalmente, in tempi moderni, è stato il più famoso
degli illuministi a porre la morte come rivelativa di una specificità essenziale dell’uomo.
«“Soltanto la specie umana sa di dover morire, e lo sa solamente
tramite l’esperienza”. Con questa constatazione Voltaire, spesso
molto più inquieto di quanto si creda, pone, fin dall’inizio del suo
trattato sull’uomo, il problema nella sua vera luce»196.
Non è la morte come concetto o idea a essere tematizzata da
Landsberg, bensì il suo darsi come esperienza personale e
interpersonale, esteriore e interiore. Certamente non l’esperienza intesa nel senso riduttivo, accumulativo/quantitativo, dell’empirismo, bensì un’esperienza intesa in senso integrale e
ripercorsa attraverso l’analisi fenomenologica. Il problema
della morte si manifesta nella storia dell’umanità, così come
nella biografia dell’individuo, di pari passo col processo storico dell’individualizzazione.
«Questa individualizzazione non consiste essenzialmente nell’acquisizione di una coscienza più netta e più differenziata della propria singolarità, ma consiste innanzi tutto nel fatto che la singolarità dell’uomo aumenta realmente. Il cambiamento della coscienza
presuppone un cambiamento dell’essere. Perciò, non è tanto la
coscienza della morte individuale ad intensificarsi, quanto piuttosto la minaccia stessa di questa morte. L’individuo attualizza un
contenuto che è solamente suo e, di conseguenza, supera inevitabilmente i limiti del clan, della rigenerazione del clan e della rinascita nel clan. Solo a partire da questo momento si forma un elemento suscettibile d’essere minacciato da un vero annientamento,
vale a dire, dalla morte individuale»197.
196
La citazione di Voltaire è presa da: Voltaire, Dictionnaire philosophique, in
Œuvres complètes, Garnier Frères, Paris 1879, t. III, 376.
197
P. L. Landsberg, Saggio…, cit. infra 230.
120
MARCO BUCARELLI
La morte si presenta all’esperienza in forma dialettica, come
una presenza assente, come possibilità e minaccia costantemente presente alla vita dell’uomo, come uno sfondo che dà
profondità e permea lo scenario della vita. L’analisi dell’esperienza della morte dà quindi un accesso alla persona storicamente determinata. L’approccio fenomenologico è quello privilegiato se si vuol cogliere la ricchezza qualitativa dell’esperienza della morte, come in generale dell’esperienza propriamente umana, evidenziando come tale esperienza non sia la
semplice coesistenza di dati isolati, ma contenga invece strutture e relazioni necessarie. Scheler aveva cercato, nel suo ultimo periodo, di applicare l’analisi fenomenologica alla morte,
ricercandone l’essenza, ma – secondo Landsberg – in forma
astratta e biologistica. È lo Scheler panteista di Tod und
Fortleben198.
«Ma la risposta che ha dato al nostro problema non può soddisfarci. […] La morte non è forse, nell’esperienza umana, completamente diversa dall’idea di un limite estremo dell’evoluzione individuale? A questo punto incontriamo per la prima volta i problemi
posti dalla possibile dualità della nostra esperienza della morte.
Possiamo conoscerla come il futuro immanente della nostra vita,
oppure come la morte dell’altro alla quale assistiamo199, o della
quale prendiamo coscienza in maniera indiretta. Soprattutto attraverso questa seconda modalità veniamo a sapere che la morte non è
affatto legata al processo dell’invecchiamento. […] L’esperienza che
l’uomo ha della necessità della propria morte non ha niente in comune con l’ipotesi di una morte naturale dell’organismo. Io possiedo
non solo l’evidenza che bisogna morire una volta, ovvero una volta
raggiunto il punto limite della morte naturale, ma anche l’evidenza
che sono immediatamente davanti alla possibilità reale della morte,
in ogni istante della mia vita, oggi e sempre. La morte mi è vicina.
L’incertezza umana di fronte alla morte non corrisponde sempliceM. Scheler, Tod und Fortleben, in Schriften aus dem Nachlass, t. I, Berlino 1935.
Nell’ed. ted. «come la morte del consimile (Mitmenschen)». Landsberg preferisce il termine Mitmenschen al più asettico “altro”, che poi nella stesura francese, nel
prosieguo dell’analisi, sarà indicato anche col termine cristiano di “prossimo”.
198
199
SAGGIO INTRODUTTIVO
121
mente ad una lacuna della scienza biologica, ma anche all’ignoranza
del mio destino, e questa “ignoranza” è un atto nel quale si costituisce una presenza della morte nel modo di un’assenza: «Mors certa,
hora incerta». La morte ha una sua intima dialettica. Essa è la presenza assente. L’esperienza umana della necessità della morte supera dunque la biologia, così come supera i dati forniti dalla sensazione d’invecchiare»200.
Per Landsberg la visione di Scheler può essere ricondotta
all’interno di quell’atteggiamento filosofico di fronte alla morte
che in senso “idealtipico” egli definisce stoicismo. Ciò peraltro è
conseguente con la visione panteistica da lui abbracciata a partire dal 1923. La partecipazione alla morte dell’altro come prossimo è invece, a suo avviso, la chiave d’accesso più adeguata per
sviluppare una fenomenologia di quest’esperienza.
«Ammettiamo dunque che l’esperienza decisiva della morte sia legata a un certo grado di singolarità personale dell’uomo, e che il processo d’individualizzazione e di avvicinamento alla morte vadano di
pari passo. Per comprendere a fondo questa tesi, partiamo dall’esperienza della morte dell’altro, la quale ha evidentemente un valore
insostituibile per noi vivi.
Non pretendiamo che questo punto di partenza sia l’unico possibile.
[…] Alcuni santi hanno previsto il momento della loro morte con la
meditazione, alcuni medici con la scienza, alcuni eroi con la decisione. Ma in ciascuna di queste esperienze resta inevitabilmente
nascosta la differenza essenziale tra il morire e la morte, tra il subire come atto e ciò che si subisce. Se ci si attiene a tali esperienze,
non si riesce a superare la fisiologia e la psicologia del morire in
direzione di una metafisica della morte stessa. Noi scegliamo di partire dall’esperienza della morte dell’altro, poiché in questo modo
speriamo di incontrare la persona come tale e la sua specifica relazione con la morte»201.
Soprattutto l’esperienza della morte del nostro prossimo –
200
201
P. L. Landsberg, Saggio..., cit. infra 229.
Ibidem, cit. infra 232.
122
MARCO BUCARELLI
quella che, a detta di Landsberg, in Essere e tempo Heidegger
liquida con una superficialità imbarazzata, «oltrepassandola
quasi di colpo» – è fatta oggetto d’analisi approfondita e svolta
con grande finezza in un’ampia parte del Saggio. Mediante essa, in
virtù dell’amore personale che ci lega al morente, entriamo nella
costituzione di un “noi” comune e in una certa misura siamo condotti alla conoscenza vissuta del nostro dover morire, di cui si
mostra ad un tempo la singolarità e l’universalità. Qui, per
Landsberg, la persona è «un’esistenza che costituisce se stessa in
atti, [è] l’autocostituirsi di natura attuale di un essere-divenire
(Werdesein), che dà al complesso dell’esistenza umana individuale il
suo senso e la sua unità»202. In un certo senso, attraverso l’esperienza della morte dell’altro, l’uomo sperimenta la morte nella propria
esistenza.
Andando oltre un’analisi fenomenologica dell’esperienza della
morte, Landsberg tenta di mostrare il fondamento ontologico della
persona, dell’esserci, attraverso un processo dialettico per contrasto.
In questo svolge una serrata critica a Heidegger e a tutte le necrofile metafisiche della morte. La morte, già come si presenta nella
morte dell’altro, della persona cara, si caratterizza come una tragica
infedeltà. È il tradimento di una promessa che la vita esprime.
«I teologi e i mistici ci dicono che solo Dio è fedele, perché solo Dio
non muore, e che la morte stessa è il frutto di un’infedeltà volontaria [il
peccato d’Adamo] che pone il mondo intero nello stato d’infedeltà ontologica in cui consiste la sua mortalità. Tutte queste verità, che essi ricevono dalla Rivelazione, corrispondono all’esperienza descritta, ovviamente senza esserne deducibili»203.
La morte della persona umana è quindi, per Landsberg, l’estranea, e non già, come per Scheler, la conclusione immanente di un
processo vitale giunto a compimento oppure, come per Heidegger,
la possibilità immanente al Dasein: «La morte è la possibilità più
propria dell’Esserci. L’essere per essa apre all’Esserci il poter-esseIbidem, cit. infra 241-n.31.
Ibidem, cit. infra 237.
204
M. Heidegger, Sein und Zeit, Halle 1927 (tr. it. Essere e tempo, cur. P. Chiodi,
Longanesi, Milano 1970, cit. 320).
202
203
SAGGIO INTRODUTTIVO
123
re più proprio, nel quale ne va pienamente l’essere dell’Esserci […]
che anzi si costituisce autenticamente come essere-per-la-morte. La
possibilità più propria e incondizionata è insuperabile»204. Per
Heidegger l’esserci è richiamato all’assunzione del proprio destino
di nullificazione a cui l’uomo è votato con la morte, che ne costituisce l’essenza intima. Nell’angoscia il mondo si dissolve completamente perdendo ogni significato.
Per Landsberg, invece, la morte rivela una natura dialettica: da
un lato è una presenza incombente e potente sull’uomo tale da
apparire come la vera sua essenza; dall’altro, lo Sein zum Tode non
ne costituisce che l’esteriorità ontica. La morte non appartiene alla
verità dell’uomo. Egli non è stato concepito per la morte, né riesce
ad acquietarsi di fronte ad essa, ma incessantemente, indipendentemente dalla coscienza che ne ha, aspira a superarla, a liberarsi dalla
schiavitù che con essa si è incuneata nella sua vita. L’esperienza
della morte, nella molteplicità delle sue forme, determina l’accadere delle domande esistenziali fondamentali, del problema esistenziale stesso nel cuore della persona. L’esperienza dell’angoscia che
l’uomo prova di fronte alla morte evidenzia la struttura originaria
dell’essere umano; ovvero, la sua limitatezza ontica, ma contemporaneamente la sua infinita esigenza costitutiva di essere e di libertà.
«L’angoscia provocata dalla morte, e non soltanto dalle sofferenze del
morire, sarebbe incomprensibile se la struttura fondamentale del
nostro essere non contenesse il postulato esistenziale di un “aldilà”. Se
non fosse così, la morte sarebbe semplicemente un evento futuro, forse
abbastanza doloroso, ma senza alcun peso eccezionale e senza alcuna
minaccia di ordine metafisico. L’angoscia stessa ci rivela che la morte
e il nulla si oppongono alla tendenza più profonda e inevitabile del
205
P. L. Landsberg, Saggio…, cit. infra 243. A questo periodo Ladsberg fa seguire una nota che riportiamo nella versione ampliata (dall’ed. ted. del 1937), nell’intento di marcare ancor più la differenza da Heidegger: «La voluttà dell’angoscia è, in
certi pensatori, una voluttà nichilista. In alcuni pensatori, tuttavia, la voluttà dell’angoscia sembra essere una reale voluttà del Nulla. Così interpreta l’angoscia, origine
del peccato, anche Kierkegaard. Si veda per esempio la recente traduzione francese,
Il concetto di angoscia (Paris 1936), e l’illuminante introduzione di Jean Wahl.
Mescolare discorsi sul Nulla con i significati di un discorso sul totalmente-Altro, che
per i mistici è proprio l’essere-simpliciter anche quando figurativamente si mostra
come Nulla, è assolutamente da evitare per la chiarezza della filosofia».
124
MARCO BUCARELLI
nostro essere. […] In fondo all’essere c’è un atto: l’affermazione di se
stessi. Nella persona che si sa unica troviamo l’affermazione di questo
elemento unico che si deve realizzare, affermazione che implica la
tensione a oltrepassare il tempo»205.
La morte considerata come definitiva, la morte fisica come negazione universale dell’ umana esistenza non è quindi, per Landsberg,
che una negazione della realtà personale dell’uomo stesso.
«Se la natura umana ha bisogno della sopravvivenza, non è né per
egoismo, né per mania, né per un atavismo storico qualunque.
Questo bisogno attesta l’esistenza di una struttura ontologica fondamentale: la coscienza imita l’essere profondo. Se nessuna possibilità reale corrispondesse a questa tendenza, tutt’intera l’esistenza
umana sprofonderebbe nel nulla»206.
In tal caso avrebbe ragione Heidegger, ma l’analitica esistenziale svolta rigorosamente da Landsberg mostra l’esistenza
di altre possibilità. Egli non intende certamente dare una dimostrazione dell’immortalità della persona umana, ciò sarebbe
estraneo allo stesso metodo che ha intrapreso. Vuole invece evidenziare che l’esperienza della morte rivela all’uomo, contemporaneamente alla possibilità del suo annichilimento, la sua
struttura più profonda, e che questa appare come una tensione
infinita verso l’essere e la libertà. Tale tensione, definita sinteticamente come speranza esistenziale, nell’analisi fenomenologica di Landsberg è almeno tanto presente quanto l’esperienza
dell’essere-per-la-morte. Contro Heidegger e le autocompiacenti metafisiche della morte egli afferma:
«Una filosofia dell’esistenza che negasse i fondamenti ontologici
delle tre virtù dell’uomo [si riferisce alle virtù teologali] sarebbe
una filosofia ostile all’esistenza»207.
La persona umana risulta essere costituita così profondamente da questa speranza esistenziale da non riuscire in nessun
206
207
Ibidem, cit. infra 243.
Ibidem, cit. infra 244.
SAGGIO INTRODUTTIVO
125
caso a sradicarla completamente da sé, pena la totale nullificazione della persona stessa, nullificazione che contraddice l’esperienza. La disperazione totale non è concepibile se non metafisicamente come “inferno”. Anche il gesto apparentemente più
disperato, il suicidio, viene in fondo compiuto in forza di questa speranza.
Per evitare confusioni terminologiche occorre chiarire che
Landsberg, riprendendo Gabriel Marcel, col termine “speranza”
(espérance) non intende le varie “speranze” (espoirs) che si presentano come quei sentimenti di aspirazione a qualcosa di determinato e in qualche modo d’intercambiabile; neanche quel sentimento di generica apertura verso il futuro, privo in fondo di contenuti intenzionali; la speranza esistenziale non coincide nemmeno con la “seconda virtù teologale” (espérance), pur essendo allo
stesso tempo l’impronta e il presupposto naturale su cui tale virtù
s’inserisce. La speranza non è un sentimento, una passio, ma la
stessa tensione all’essere propria dell’uomo, l’impulso originario
e costitutivo della persona, la sua consistenza creaturale. Non può
neanche essere confusa con l’impulso a durare inerente alla vita
in generale, con la “volontà di vita” di Schopenhauer. La speranza è quell’impulso della persona umana a realizzarsi proprio in
quanto persona, nella sua sostanzialità individuale, nel suo essere
rationalis naturae individua substantia, secondo la classica definizione di Boezio208. Tale speranza è inoltre fondamento di ogni atto,
in quanto in ogni atto l’uomo, anche al di là della consapevolezza
che possiede, tende a realizzare se stesso. La stessa filosofia nasce
e si alimenta da questa speranza.
Il mito platonico di Eros ci aiuta ulteriormente a comprendere
la natura della speranza di cui parla Landsberg. Anche per lui –
come per Platone e contrariamente a Heidegger – la metafisica,
nella sua accezione più ampia, «non ha come origine il nulla rivelato dall’angoscia, ma l’essere al quale l’eros filosofico partecipa
per sua natura»209.
Il ritrovamento nell’analisi fenomenologica dell’esperienza della
morte di questa struttura fondamentale della persona che è la spe-
208
209
Severino Boezio, De duabus naturis et una persona Christi, 3, P.L., 64 col. 1345
Ibidem, cit. infra 242.
126
MARCO BUCARELLI
ranza, permette al Landsberg di verificare la corrispondenza di quest’analisi con l’asserto fondamentale dell’antropologia cristiana, per
cui l’uomo è stato creato a «immagine e somiglianza di Dio», così
come l’esperienza dell’essere-per-la-morte corrispondeva all’altro
caposaldo di tale antropologia, espresso dalla nozione di “peccato
originale”. Tale nozione, come abbiamo già visto, fornisce inoltre
una motivazione a quel carattere di esteriorità che la morte manifesta nell’esperienza.
Volendo sintetizzare i risultati di questa prima parte del Saggio,
riguardo soprattutto alle implicanze ontologiche ed esistenziali di
tale esperienza, si potrebbe dire che la morte appare come la condizione dell’umano essere e agire, mentre appartiene alla natura dell’uomo la speranza che trascende la morte. Il trascendimento della
morte richiede però un contenuto che compia la speranza esistenziale, e compiendola realizzi quindi la natura stessa dell’uomo, trasfigurandone la condizione. Senza di questo, il contrasto tra natura e
condizione sembra in ogni caso volgere storicamente a favore della
condizione. Qual è il contenuto adeguato a questa speranza esistenziale? La risposta esula dalla filosofia, che può giungere al massimo
a cogliere la realtà di questa situazione, ma non può produrre attraverso la riflessione una risposta adeguata. Ciò emergerà dal confronto effettuato nella seconda parte del Saggio fra tre atteggiamenti filosofici idealtipici e l’esperienza dei santi cristiani.
Come osserva giustamente Ricoeur, per Landsberg «la filosofia,
lasciata a se stessa, non perviene ad una speranza viva: così Platone
fonda l’immortalità sull’autonomia di atti spirituali in rapporto ai
processi vitali; ma l’atto filosofico che si distacca così dalla vita del
corpo, e dalla sua morte, resta tributario di un mondo di idee al quale
partecipa. Il mondo che la filosofia antica ci mostra non è un mondo
del prossimo, un mondo costituito attraverso la caritas; è un mondo
di cose, di cose viste; da ciò deriva che la speranza attestata dal filosofo è l’irradiazione partecipativa della virtù teologale, piuttosto che
l’esperienza cristiana della speranza»210.
La risposta platonica alla morte, così com’è tematizzata ad esempio nel Fedone, arriva a cogliere la speranza rappresentata dal modo
210
P. Ricoeur, «Recensione a: P. L. Landsberg, “Essai sur l’expérience de la
mort”», in Esprit, juillet-août 1951, 264.
SAGGIO INTRODUTTIVO
127
di morire di Socrate. Questa speranza non può compiersi se l’uomo
non incontra una realtà la cui esistenza è più potente della morte,
quindi immortale. È nota la risposta di Platone: la morte è vinta attraverso la contemplazione e la partecipazione al mondo delle idee.
«Ogni partecipazione è una trasformazione di colui che partecipa.
Filosofare è morire, è abbandonare questo mondo d’immagini, questa
caverna d’ombre, per un altro mondo che esiste veramente, in quanto è
eternamente presente»211.
Non solo la posizione platonica è impossibile se non si accetta
l’ontologia delle idee, ma in più da quest’atteggiamento sorge
un’ulteriore problema, poiché partecipando al mondo delle idee la
persona stessa rischia di trasformarsi in un’idea.
«Ci troviamo in presenza di un’antinomia, poiché la sopravvivenza dell’uomo dev’essere personale, per essere la sopravvivenza che la sua speranza lo spinge a cercare, la sola sopravvivenza degna di questo
nome»212.
Il secondo atteggiamento esaminato da Landsberg è quello
epicureo, che col sofisma dell’inesistenza della morte cerca di
negare e nascondere in modo verbale qualcosa di cui l’uomo in
realtà non può sbarazzarsi: l’angoscia e il potere reale che la
morte ha sulla nostra persona. Questa posizione, antitetica a quella platonica, è presente nelle correnti più rozze dell’orientamento
materialistico e rappresenta una fuga che impedisce di confrontarsi lealmente con l’esperienza della morte, la quale impone l’accadere di domande fondamentali per l’esistenza umana e il suo
destino. La negazione del valore ontologico della morte è una sua
liquidazione meramente verbale. Dal punto di vista pragmatico,
gli epicurei antichi e moderni trasformano il problema della
morte in problema tecnico: come sfuggire a questa superflua
preoccupazione mediante il divertissement, o come rendere più
confortevole il morire proprio o altrui. Lo riducono ad un problema di eutanasia.
211
212
P. L. Landsberg, Saggio…, cit. infra 254.
Ibidem, cit. infra 255.
128
MARCO BUCARELLI
Il terzo atteggiamento è quello stoico, dove la morte appare
come un accadimento che appartiene alla totalità del Cosmo.
Attraverso la morte, scrive Seneca a Lucilio, «si è ricondotti alla
propria origine». Per gli stoici la morte non è una fine assoluta;
tutto rientra nella legge eterna del Cosmo che si realizza attraverso la morte degli individui. Nulla perisce nel mondo. Inoltre la
morte è equa, in quanto inevitabile per tutti213. L’ordine platonicoaristotelico viene solo parzialmente sostituito dall’idea panteista
del Tutto, del Cosmo. Lo stoicismo, in questa lettura di
Landsberg, appare come «una dottrina della libertà, e questa
libertà è fondata sulla possibilità di una morte libera». Ma la soluzione proposta da quest’atteggiamento del pensiero gli appare
paradossale e in ultima analisi non rispondente alla ricerca del
compimento della speranza ontologica della persona. È allo stesso tempo la posizione dell’accontentarsi mesto e dell’eroismo
titanico. Prosegue Seneca:
«“È una sventura vivere in stato di necessità; ma vivere in stato di
necessità non è affatto necessario”. Perché mai non necessario? Da
ogni parte sono aperte molte, brevi e facili vie verso la libertà.
Ringraziamo dio che nessuno può essere trattenuto in vita contro la
sua volontà»214.
Ne consegue la necessità di apprendere a dover morire,
apprendere la virtus moriendi, una tecnica spirituale per essere
avviati a decidersi per la morte. Osserva Landsberg: «Se il sofisma di Epicuro è uno stratagemma, pari a quelli di Ulisse, per
sfuggire se non alla morte, per lo meno all’idea e all’ossessione
della morte, quest’altra dottrina […] è invece caratterizzata da
un’eccessiva volontà di coraggio». L’esperienza stoica è un andare incontro alla morte guardandola in faccia, non una fuga come
quella epicurea, ma un attacco disperato.
Nessuna di queste tre tendenze – riferibili non soltanto al
mondo classico, ma possibilità sempre immanenti al pensiero e
all’esistenza – soddisfano l’esigenza di quell’elemento fondante
213
214
Seneca, Lettere a Lucilio, cap. IV.
Ibidem, cap. XII.
SAGGIO INTRODUTTIVO
129
la persona, che Landsberg ritiene d’aver individuato nell’analisi
fenomenologia dell’esperienza della morte: la speranza. Solo
uscendo dal campo della filosofia e addentrandosi nel confronto
dell’esperienza cristiana della morte, e in particolare in quella dei
santi, troverà la risposta adeguata.
Il santo cristiano è innanzitutto un uomo. Non un “oltreuomo”, ma un uomo vero, che per grazia realizza appieno la
potenzialità della sua persona. Il santo è un uomo vero perché,
seguendo la sua vocazione, aderisce a Dio e quindi all’ideale per
cui è stato fatto il suo cuore e di cui è costituito il suo destino. La
prospettiva eterna, anticipata dall’esperienza della inchoatio vitae
aeternae di cui parla san Tommaso – ovvero l’anticipo e il cominciamento del paradiso già in questo mondo, sperimentabile nell’esperienza per grazia –, dà al santo d’abbracciare la morte come
gesto della vita, pur dentro il suo lancinante dolore e pur dentro
la paura e l’angoscia. Quale differenza tra l’eroe, di un’eticità
ultimamente astratta e violenta verso se stesso e gli altri, e il santo
cristiano!
Proprio nello stesso anno in cui usciva la versione in francese
del Saggio sull’esperienza della morte, Bernanos pubblicava il
Diario di un curato di campagna, dove al protagonista faceva
esclamare: «Io, davanti alla morte, non cercherò certo di fare né
l’eroe né lo stoico. E se avrò paura, dirò: ho paura! Ma a Gesù
Cristo».
In questo cammino alla scoperta dell’esperienza cristiana della
morte, Landsberg si fa guidare soprattutto da sant’Agostino e da
santa Teresa di Gesù, la grande mistica spagnola. Lasciamo al lettore la scoperta delle pagine coinvolgenti e bellissime dell’appassionato commento-confronto con le Confessioni di Agostino e la
Vida di Teresa d’Ávila. Segnaliamo solo due passi molto significativi dal punto di vista propriamente filosofico.
Nella giovanile esperienza della morte dell’amico di Tagaste,
che Agostino descrive nel IV libro delle Confessioni, Landsberg
riscontra il momento stesso della nascita dell’autentica filosofia
esistenziale.
«Dopo aver raccontato quest’evento, Agostino confessa a Dio la tristezza e l’infelicità in cui era allora sprofondato. Egli non può confessare quest’infelicità senza analizzarla, e non può intraprendere
130
MARCO BUCARELLI
quest’analisi senza trascendere immediatamente l’elemento psicologico e senza arrivare a qualcosa di più profondo e di più generale a
un tempo. Confessandosi e analizzando i diversi stati non tanto della
propria anima quanto della propria vita, Agostino s’innalza sempre
all’intuizione del metafisico, del simbolico, dell’esistenziale. Egli
diventa, per se stesso, l’Ognuno, l’uomo per essenza, e narra proprio
la storia di quest’Ognuno»215.
L’Ognuno (Jedermann) si contrappone radicalmente, nella
concezione di Landsberg, al Man di Heidegger, è il comune personale, il protagonista dell’umanità pur nel ruolo personale che
egli gioca, e non lo spersonalizzato e anonimo uomo derivante da
una concezione ultimamente atomistico-nominalistica che
Heidegger porta alle estreme conseguenze. La categoria dello
Jedermann, riscoperta attraverso Agostino, rappresenta per
Landsberg un’evoluzione importante della sua antropologia, sulla
215
P. L. Landsberg, Saggio…, cit. infra 247. Alla categoria dell’Ognuno, dello
Jedermann di Landsberg corrisponde in Agostino la categoria del nos. Ad esempio,
nell’ultimo capitolo delle Confessioni, XIII, 35,50-38,53: Et nos alio tempore moti
sumus ad bene faciendum, posteaquam concepit de spiritu tuo cor nostrum; priore
autem tempore ad male faciendum movebamur deserentes te: tu vero, Deus une bone,
numquam cessasti bene facere. Et sunt quaedam bona opera nostra ex munere quidem
tuo, sed non sempiterna: post illa nos requieturos in tua grandi sanctificatione speramus. Tu autem bonum nullo indigens bono semper quietus es, quoniam tua quies tu
ipse es. Et hoc intellegere quis hominum dabit homini? Quis angelus angelo? / Quis
angelus homini? A te petatur, in te quaeratur, ad te pulsetur: sic, sic accipietur, sic
invenietur, sic aperietur. [«Noi ora siamo mossi a fare il bene, dopo che il nostro cuore
è stato rigenerato dal tuo spirito, mentre prima eravamo spinti a fare il male abbandonandoti; ma tu, o Signore, unico veramente buono, mai cessasti di fare il bene. Alcune
nostre opere possono essere buone per i tuoi doni, ma non sono per sempre. Eppure
dopo di esse speriamo di riposare nella tua immensa santità. Tu Bontà di nessun bene
mancante, riposi eternamente, poiché tu stesso sei il riposo. Quale uomo potrà far
comprendere tutto questo ad un altro uomo? Quale angelo e ad un angelo? Quale angelo ad un uomo? A te chiediamo,in te cerchiamo, a te bussiamo: così, così otterremo,
così troveremo, così ci sarà aperto]. Tutto questo capitolo, particolarmente importante, è animato da tale categoria, che si costituisce per Agostino nell’incontro e nel contrasto tra Dio e l’uomo. – Mandonnet (in Dante teologo, Paris 1935, 207) interpreta in
modo analogo la prima riga della Divina Commedia: «“Nel mezzo del cammin di
nostra vita” e non della mia vita, per far intender sin dal primo istante di essere, dal
punto di vista morale – giacché si tratta del suo smarrimento–, il protagonista dell’umanità pur nel ruolo personale che egli gioca».
SAGGIO INTRODUTTIVO
131
base della quale svilupperà successivamente il suo personalismo
e la teoria dell’engagement.
Come già detto, nel ricordo e nella descrizione che Agostino
fa della morte del giovane amico, Landsberg colloca la data di
nascita di ogni autentica filosofia esistenziale.
«L’angoscia ottenebrò il mio cuore! Dovunque volgevo lo sguardo, non
vedevo che morte. La mia città era divenuta un luogo di supplizio, la
casa paterna di un’infelicità senza confini; le conversazioni avute con
lui, ora ch’egli non era più, a ricordarle mi si convertivano in uno strazio immane. I miei occhi lo cercavano ansiosamente ovunque, e non lo
incontravano; e odiavo tutte le cose, perché non c’era lui, e non potevano dirmi: “Ecco viene”, come quando, vivo, era assente. Per me stesso
ero divenuto un grande interrogativo, e domandavo all’anima mia perché fosse triste e mi conturbasse tanto: ma non sapeva rispondermi
nulla. E se le dicevo: “Spera in Dio!”, giustamente non mi dava ascolto, poiché più reale e più buono era quell’uomo dilettissimo che aveva
perduto, di quel fantasma in cui la invitavo a sperare. Solo il pianto
m’era dolce, prese il posto del mio amico, per il conforto della mia
anima»216.
Ed ecco il suo commento.
«In questo brano possiamo ritrovare gli elementi essenziali di quell’esperienza della morte dell’altro di cui ho parlato. In esso vediamo all’opera la morte come assenza presente, che trasforma il mondo intero in
morte: Quidquid aspiciebam, mors erat. Cogliamo la differenza radicale che c’è tra l’assenza spaziale e relativa e l’assenza definitiva provata
nella morte dell’altro: Expetebant eum undique oculi mei et non dabatur mihi; et oderam omnia, quod non haberent eum, nec mihi jam dicere poterant: “Ecce veniet”, sicut cum viveret, quando absens erat. E
subito dopo assistiamo – non esagero utilizzando questo termine – alla
nascita stessa della filosofia esistenziale: Factus eram ipse mihi magna
quaestio»217.
A questa magna quaestio Landsberg, come Agostino, non ritiene
216
217
Agostino, Conf. IV, 4.
P. L. Landsberg, Saggio…, cit. infra 249.
132
MARCO BUCARELLI
si possa trovare una soluzione filosofica. La risposta può essere soltanto storica: la grazia dell’incontro personale con Cristo, l’esperienza, personale della sua tenerezza e compagnia, che permette in
maniera non consolatoria di vincere la morte. I grandi mistici cristiani lo hanno testimoniato, da san Francesco a santa Teresa d’Ávila, la quale non stoicamente né nichilisticamente potrà cantare:
¿Muero, porque no muero? Quest’avvenimento storico ed esistenziale dischiude le porte anche per una risposta di tipo metafisico
all’angoscia e alla morte.
La fortuna del Saggio sull’esperienza della morte al momento
della sua pubblicazione fu assai modesta. Se si esclude una significativa recensione di Raymond Aron, pochi altri lo notarono218.
L’opera cominciò invece a essere apprezzata nel secondo dopoguerra, tanto da divenire col tempo un classico sul tema. Costantemente
presa come riferimento anche per studi di diverso taglio, il Saggio ha
influenzato esplicitamente nelle loro riflessioni, tra gli altri, Morin,
Jankélévitch, Ariès, Vovelle, Pieper, Thomas, Lévinas e ultimamente, anche se in maniera più sotterranea, Jaques Derrida219.
14 Persona e “engagement”: gli anni di “Esprit”
Più che una rivista, Esprit fu un catalizzatore di energie spirituali e di intelligenze, un movimento di pensiero con l’ambizione
d’incidere sulla formazione delle coscienze e di svolgere un ruolo
pedagogico e insieme politico. In ogni caso anticonformista, e
“cattolica”, secondo l’etimo greco e non secondo le classificazio218
R. Aron, «Recensione a: P. L. Landsberg, “Essai sur l’expérience de la mort”»,
in Zeitschrift für Sozialforschung V (1936) 420-422.
219
A proposito di J. Derrida si veda Donner la mort (Paris 1999), di cui è uscita
recentemente la traduzione italiana: Donare la morte (con «Prefazione» di S.
Petrosino e «Postfazione» di G. Dalmasso), Jaca Book, Milano 2002. Gli echi della
riflessione di Landsberg, mai esplicitamente citato, mi sembrano inequivocabili laddove Derrida identifica l’unicità, la singolarità insostituibile dell’io con la responsabilità e l’esperienza della morte, che «definisce le condizioni della possibilità e dell’impossibilità della responsabilità» (62ss).
220
O. Mongin e altri, «Esprit. Une revue dans l’histoire – 1932-2002», Esprit,
Paris 2002.
SAGGIO INTRODUTTIVO
133
ni ecclesiastiche, sociologiche e politiche, peraltro sempre puntigliosamente respinte.
Una rivista “nella storia”, come ha voluto definirla l’attuale
direttore Olivier Mongin in occasione del 70° anno di fondazione220. Ma non solo una rivista nella storia, bensì incidente sulla
storia, come ha documentato ampiamente nei suoi studi Michel
Winock221. Secondo Winock, negli anni ’30 Esprit ha rappresentato «un movimento vivo, un’amicizia internazionale, un progetto di rivoluzione spirituale personalista. L’avventura di intellettuali di fronte ai grandi drammi e avvenimenti del secolo: il fascismo, il Fronte Popolare, la guerra di Spagna, la crisi di Monaco,
la seconda guerra mondiale, Vichy, la resistenza, l’illusione lirica
della liberazione, lo stalinismo, la guerra fredda, la decolonizzazione»222.
La fondazione di Esprit è stata il frutto d’una scelta collettiva,
ma la sua anima era legata alla straordinaria personalità di
Emmanuel Mounier, al suo desiderio di riprendere il discorso
lasciato interrotto da Péguy. Questo poeta prematuramente scomparso nella prima guerra mondiale aveva rappresentato l’ispirazione originaria e sempre costante dell’infaticabile attività di
Mounier: «Péguy come poeta dell’incarnazione, l’opposto delle
tendenze letterarie e filosofiche dominanti. L’anti-Benda [(18671956) letterato e filosofo, critico del bergsonismo e dell’irrazionalismo, autore di Il tradimento dei chierici (1927)], il rifiuto del pensiero puro, della ragion pura, la negazione dello spirito puro.
Distratta, sognante, retorica, atemporale, la letteratura dominante
degli anni ’20 sembrava tutta sulla stessa nota di Benda.
Totalmente disincarnata. L’adesione a Péguy è rivelatrice di una
tendenza: rifiuto di una certa comodità intellettuale e politica, delle
soluzioni preconfezionate»223. Nel suo studio sul pensiero del poeta,
221
M. Winock, Histoire politique de la revue “Esprit”. (1930-1950), Ed. du Seuil,
Paris 1975; ripubblicato e ampliato nel 1996 col titolo: “Esprit”. Des intellectuels
dans la cité; si veda anche, del medesimo autore (professore di Storia contemporanea
all’Università di Parigi, Institut d’études politiques), Le siècle des intellectuels, Ed.
du Seuil, Paris 1997.
222
M. Winock, Histoire…, cit., 14.
223
Ibidem, 22.
224
E. Mounier, La pensée de Charles Péguy (in collab. con Marcel Péguy e
Georges Izard), Plon, Paris 1931, 16.
134
MARCO BUCARELLI
Mounier scrive: «Nell’opera di Péguy c’è da scontentare tutti, tutti
i militanti di ogni partito. […] Péguy è colui che non si può annettere»224.
Il gruppo di Esprit, allora composto da poche persone, le più
importanti delle quali – oltre a Emmanuel Mounier – sono
Georges Izard, André Deléage e Louis-Émile Galey, riunisce un
gruppetto di giovani che cercano d’emanciparsi dagli schemi e dai
codici dominanti del loro tempo. Essi percepivano la Francia borghese e invecchiata della III Repubblica come polverosa e opprimente; per questo appartengono pienamente alla costellazione di
coloro che saranno battezzati i “non-conformisti degli anni ’30”
(Jean-Louis Loubet del Bayle). La loro preoccupazione è duplice:
da una parte, protestare contro un mondo moderno che vede l’affermazione dominante di un materialismo individualista (da ciò la
scelta del titolo Esprit); dall’altra, questa protesta s’inscrive nella
prospettiva di una rivoluzione, un modo per riunire il politico e al
contempo lo spirituale. La parola d’ordine è: «dividere lo spirituale dal reazionario».
Un primo avvenimento storico ci orienta ad una comprensione
dell’epoca: il crac del 1929 mostra la fragilità del capitalismo e
della sua visione, liberale, dell’individuo. Il liberalismo è dunque
considerato un sistema in crisi. Più esplicitamente, le fratture della
concezione utilitarista e borghese del mondo chiariscono la “crisi
della civiltà” che si profila. La dottrina che Mounier cerca in questo momento, a cui egli non dà ancora il nome di “personalismo”
(ciò avverrà solo più tardi, a partire dal 1934), ha l’ambizione di
rispondervi: tra l’individuo liberale da una parte e le masse arruolate al comunismo e al fascismo dall’altra, la “persona” difende una
“antropologia”, una concezione dell’uomo meno riduttiva che permetterà di rompere con il “disordine stabilito”. Desiderando essere
fedele a Péguy, Mounier rifiuta l’evasione idealista del pensiero,
quella che egli vede all’opera nei circoli dei giovani esteti federati
dalla Nouvelle Revue Française. Ma, prendendo così atto della rottura laica, egli scarta la via di una “politica cristiana” e non cesserà, successivamente, di litigare con i rappresentanti della
Democrazia cristiana francese. Infine, non accetta assolutamente le
scelte autoritarie dei movimenti comunisti e fascisti che criticano,
come lui, i regimi liberali borghesi. La cristianità – come in maniera unica aveva colto Péguy – è stata distrutta. Quale realtà sociale
SAGGIO INTRODUTTIVO
135
e culturale non esiste più, se non come frammenti in via di estinzione. Una politica cristiana come mera riproposizione di valori, in
sé veri, ma non più incidenti nella dinamica reale del mondo e
rimasti solo come copertura etica di una società nell’essenza anticristiana, rischia inevitabilmente di divenire puramente strumentale al conservatorismo borghese. La verità della tradizione dev’essere riscoperta nel presente. Occorre ricominciare dall’inizio, dall’essenza dell’evento cristiano, prendendo atto di questa modificazione sociale per cercare nuove vie, aperti a ciò che di naturaliter
cristiano si manifesta in tendenze e movimenti del presente. Da qui
i tentativi, forse utopici ed ingenui, della ricerca di una terza via.
Oggi si può giudicare questa posizione incerta, se non addirittura contestabile: il fatto è che non avrà la fecondità che i suoi autori speravano. Ma almeno essa non altera il giudizio: in questo
periodo, gli impegni di Esprit sono chiari, e la sua vigilanza nei
confronti dei fascismi e dello stalinismo non verrà mai venuta
meno, come testimonia la ferma condanna della “vile soddisfazione” per gli accordi di Monaco, nel momento in cui i democratici
capitolano davanti a Hitler. La stessa pubblicazione su Esprit del
primissimo lavoro di Emmanuel Lévinas, «Qualche riflessione
sulla filosofia dell’hitlerismo» (1934), attesta una preoccupazione
che non era ancora particolarmente condivisa all’epoca.
Come numerosi altri gruppi, Esprit si colloca nella prospettiva
di una “terza forza”, né capitalista né comunista. Ma subito occorreva allontanare da questa terza forza l’ipoteca incombente del
fascismo; ciò che non fanno, col medesimo vigore di Esprit, alcuni gruppi come “Ordine nuovo” (Denis de Rougement, Alexandre
Marc), con i quali nel 1934 avverrà la rottura. Per distinguersi,
Mounier parlerà allora di “personalismo comunitario”, mentre per
Esprit la terza forza sarà una lotta su più fronti, allo stesso tempo
politica e spirituale, ma né liberale né totalitaria. A tale scopo, la
nozione di “impegno” (engagement), forgiata da Paul Ludwig
Landsberg, diverrà una nozione chiave, nella misura in cui metterà
a disposizione di Mounier e di Esprit la definizione del loro giusto
rapporto con la politica e nel contempo una teoria della persona
fondata su una rigorosa applicazione del metodo fenomenologico.
La rivista di Mounier dovrà però combattere anche su un altro
fronte: la “domanda cattolica”. Non pochi, infatti, vorrebbero farne
una rivista “cattolica”, ovvero l’espressione organica di un pensie-
136
MARCO BUCARELLI
ro, di una corrente all’interno della società francese. Significativo
al riguardo il dibattito tra Emmanuel Mounier e Jaques Maritain.
Quest’ultimo, che aveva apportato autorevolezza al giovane gruppo della rivista, desiderava farne l’organo del rinnovamento cattolico, chiamandone a raccolta le voci. Da parte sua Mounier, pur non
rinnegando o nascondendo nulla della sua personale appartenenza
alla Chiesa cattolica, non è affatto dell’idea che la rivista si istituzionalizzi. Le intuizioni di Feu la chrétienté (che appariranno
nel 1950) sono già in lui presentite. Così, mentre aderisce al
suggerimento di Maritain di far pubblicare la rivista da Desclée
de Brouwer, rivendica per essa una stretta indipendenza. Sarà
proprio questa una delle ragioni di successo dell’impresa editoriale di Mounier e dei suoi amici225.
Mediante la riscoperta del valore centrale e irriducibile della
persona, Esprit e il suo gruppo dirigente volevano liberare l’uomo dall’abbraccio avvolgente delle ideologie; allo stesso tempo
denunciavano «il tradimento e l’assenza» dei cristiani del
tempo. E le parole non furono dette a mezza voce. Nella riflessione dei primi anni, però, anche quando venivano affrontati
temi di carattere storico e politico, ad essere più sottolineato era
l’aspetto teorico: prevaleva la preoccupazione per la purezza dei
valori e del metodo della loro realizzazione, più che quella per
la loro incidenza reale nella vita della società. Gli avvenimenti
del tempo rischiavano di rendere già uno schierarsi di fatto, al
di là delle intenzioni, il limitarsi a una critica meramente teorica. Passare dal periodo “dottrinario”, come lo definisce
Mounier in una conferenza verso la fine del 1944, alla stagione
dell’affrontement, dell’impegno diretto, sarebbe stato impossibile senza l’incontro con Landsberg. In quella medesima confe225
Tra i collaboratori assidui di Esprit, dalla sua prima uscita nel 1932 sino agli
anni della guerra, si ritrovano alcuni dei più importanti intellettuali del XX secolo, di
sensibilità e d’indirizzo anche molto differenti, ma che cercavano – ciascuno a suo
modo – un’uscita a quella crisi di civiltà (la fine dell’epoca moderna) da tutti loro percepita. Limitandoci solo ai più noti ed elencandoli in ordine alfabetico: Raymond
Aron, Karl Barth, Georges Bataille, Albert Béguin, Nikolaj Berdjaev, José Bergamín,
Georges Bernanos, Henri Chenu, Jean Daniélou, Étienne Gilson, Jean Guitton, Jean
Hyppolite, Pierre Klossowski, Jean Lacroix, Emmanuel Lévinas, Claude LéviStrauss, Henri de Lubac, Gabriel Marcel, Jaques Maritain, Henri Marrou, Edgar
Morin, Paul Ricoeur, Geoge Santayana, Henri Thomas, Elio Vittorini, Jean Wahl.
SAGGIO INTRODUTTIVO
137
renza Mounier affermava:
«Landsberg è venuto a Esprit in questo momento. Egli ha avuto su
di noi un’influenza enorme. Ci ha salvati dal pericolo del purismo.
Alcuni di voi ricorderanno il suo saggio sull’impegno personale
apparso su Esprit, che ha segnato questa svolta. Quel saggio evidenziava magnificamente come, nelle circostanze storiche concrete nelle quali siamo sempre immersi, che lo vogliamo o no, noi
abbiamo un certo numero di doveri che sono doveri di decisione e
impegno, e che porre i problemi al di fuori di queste situazioni storiche, in virtù di una sorta di purezza ideale, significa alla fine pretendere di evadere dalla propria condizione umana. Ogni impegno
è impuro. Le cose storiche sono sempre mescolate. Non troveremo
mai da nessuna parte la posizione ideale che noi vorremmo per
agire come ci piacerebbe. Dobbiamo agire con avvenimenti che
non vengono da noi, che vengono dall’esterno. L’essenziale è la
decisione con la quale noi vi entriamo per misurarci con l’efficacia
storica»226.
Non si trattò di un giudizio di circostanza; Mounier lo aveva
già formulato negli anni precedenti e lo ripeterà, approfondendolo, fino al suo ultimo scritto.
«Egli fu e resta tutt’ora, per ciò che ci ha dato, una delle pietre
d’angolo di Esprit. Nessuno ha contribuito più di lui, attorno al
1935, a infonderci, prima che il termine fosse di moda, quanto
occorreva di esistenzialismo per allontanarci dalle chiacchiere
astratte. La sue Riflessioni sull’impegno personale e Il senso dell’azione segnano delle date cruciali nella nostra storia. Quante frasi
che percorrono oggi le strade, non saranno mai, al di fuori di quest’omaggio, collegate al suo nome. Non possiamo ancora misurare
il vuoto che lascia tra noi. Lui e Gosset, proprio quelli su cui con-
E. Mounier, «Les cinq étapes d’Esprit», in Dieu Vivant 16 (1948).
E. Mounier, «Paul Ludwig Landsberg», in Esprit, XVI, 118 (ju. 1946) 156; cfr.
anche l’inedito di Mounier: «Sur l’engagement», databile tra la fine del 1945 e gli
inizzi del 1946, recentemente ritrovato e pubblicato da Esprit, octobre 2002.
228
E. Mounier, Le personnalisme, P.U.F., Paris 1949 (tr. it. Il personalismo,
A.V.E., Roma 1964, in particolare 108-112 e 130-134).
226
227
138
MARCO BUCARELLI
tavamo di più...»227.
Ancora Mounier, nel suo ultimo libro dell’autunno 1949, Le
personnalisme – una sorta di testamento spirituale imprevisto
(la morte per infarto lo coglierà a soli quarantacinque anni) –,
non solo riprenderà questo giudizio, ma farà sue intere pagine di
Landsberg al fine di presentare il proprio pensiero228.
Nel 1951 Paul Ricoeur scriverà:
«Landsberg ha un ruolo nella storia interiore e nel pensiero del movimento Esprit pari a quello di Emmanuel Mounier. [….] La sua riflessione s’inseriva nel punto sorgivo delle nozioni fondanti la filosofia
della persona: engagement storico dell’uomo, atto personale, scoperta
dei valori come direzione della nostra vita storica, trans-soggettività
dei valori nel cuore stesso dei nostri impegni concreti. Vale a dire che
egli s’inseriva nei punti critici più complessi della filosofia della persona, nel punto dove valore storico, esistenza personale e trascendenza coincidono. La sua lotta contro il nazismo lo teneva in allerta sul
versante politico, e il carattere totale della sua presa di posizione gli
assicurava che la critica nei confronti dello Stato è una forma privilegiata di engagement, nonostante sia sempre più che politica»229.
Anche questo giudizio non fu una commossa “reazione a
caldo”, a seguito della notizia che l’amico era morto in un campo
di concentramento. Sarà ripreso e approfondito da Ricoeur oltre
trent’anni dopo in «Meurt le personnalisme, revient la personne»230; qui, facendo un bilancio storico del personalismo, individua in Landsberg il pensatore più rigoroso, «l’unico vero filosofo del personalismo». Sempre al dire di Ricoeur, questa era anche
l’opinione di Mounier, il quale nel 1947 gli confidava che, scomparso Landsberg, occorreva un vero filosofo all’interno del movimento, non ritenendosi egli stesso sufficientemente in grado di
esprimere concettualmente la ricchezza delle proprie intuizioni e
di competere adeguatamente con i vari “ismi” concorrenti; perciò
proponeva allo stesso Ricoeur di rilevare il testimone lasciato tra229
P. Ricoeur, «Recensione a: P. L. Landsberg, “Essai sur l’expérience de la
mort”, in Esprit, juillet-août 1951.
230
P. Ricoeur, «Meurt le personnalisme, revient la personne», in Esprit, janv. 1983.
SAGGIO INTRODUTTIVO
139
gicamente cadere da Landsberg. Il debito nei confronti di
Landsberg è individuato da Ricoeur soprattutto nella nozione di
“crisi”, ovvero in quella situazione d’intollerabilità che sta alla
base della necessità di far filosofia, e nelle nozioni intimamente
connesse di engagement e storicità. Engagement inteso non come
una sorta di attributo spinoziano della sostanza/persona, bensì
come suo criterio: non posso discernere un ordine di valori in
grado di interpellarmi – una gerarchia di valori – senza identificarmi in una causa che mi trascenda. Ricoeur, riprendendo direttamente e quasi letteralmente Landsberg, scopre un rapporto dialettico che hegelianamente si può chiamare convinzione.
«Nella convinzione m’arrischio e mi sottometto. Io scelgo, ma dico:
non posso altrimenti, pena la perdita dell’autentico me stesso. Prendo
posizione, prendo partito e così riconosco quello che – più grande e
più duraturo e degno di me – mi costituisce come debitore insolvente. Il mio posto mi è assegnato, posso vivere contro la mia vocazione, ma non eluderla. La gerarchia dei valori che scopro in questa
situazione intollerabile mi trasforma – da vile o spettatore disinteressato– in uomo convinto che scoprendo crea e creando scopre»231.
Il debito verso Landsberg emerge in molti scritti di Paul
Ricoeur, talora esplicitamente dichiarato, talaltra in maniera
inconscia, sino a fargli ripetere quasi letteralmente interi brani del
filosofo tedesco, forse appresi a memoria232. Ma quelle di
Mounier e di Ricoeur non sono voci isolate; analoghi giudizi
appartengono, come abbiamo già visto, a Jean Lacroix e a JeanMarie Domenach, secondo il quale Landsberg «apportò al persoIbidem.
Cfr. in particolare P. Ricoeur, Temps et récit, 3. Le temps raconté, Ed. du Seuil,
Paris 1985, 423ss; Id., La critique et la convinction. Entretien avec F. Azouvi et M.
de Launay, Calmann-Lévy, Paris 1995, 41-42 (tr. it. La critica e la convinzione, cur.
D. Iannotta, Jaca Book, Milano 1997, 48-49). E più implicitamente, Id., Soi-même
comme un autre, Ed. du Seuil, Paris 1990 (tr. it. Sé come un altro, Jaca Book, Milano
1993, 137-156, 345-355).
233
J.-M. Domenach, Emmanuel Mounier, Ed. du Seuil, Paris 1972, 105-106.
234
Non potendo citare tutti i numerosissimi lavori che ribadiscono la tesi della
centralità del pensiero di Landsberg nella genesi del personalismo, rimandiamo alla
nostra ampia «nota bibliografica» (infra 201-219).
231
232
140
MARCO BUCARELLI
nalismo ciò di cui mancava ai suoi inizi: la nozione del soggetto
storico e dei suoi limiti»233. Sulla medesima linea si collocano, più
o meno marcatamente, tutti gli studi sul personalismo, tanto francesi quanto italiani e tedeschi234.
Rifugiatosi a Parigi, sospinto dagli avvenimenti spagnoli,
Landsberg trova nel gruppo di Mounier e di Esprit un ambito stimolante in cui approfondire il proprio pensiero nella sua originalità. Pur stringendo rapporti di vera amicizia e impegnandosi
seriamente col nuovo gruppo, non si arruola nel movimento e
declina l’invito a entrare nel comitato stabile di redazione. Olivier
Mongin fa osservare la differenza di linguaggio tra Landsberg e
la gente di Esprit.
«Se il ruolo e l’influenza di Landsberg sono immediatamente evidenti
a Esprit, è significativo che egli invece non si riferisca quasi mai alle
persone del movimento e della rivista: pochissime citazioni, pochi
confronti… Dà l’impressione di voler riflettere in maniera autonoma».
Le differenze, secondo Mongin, sono più di tono e sensibilità,
anche se poi specifica:
«Il personalismo di Landsberg si situa in effetti tra un’evocazione frequente e quasi ossessiva della fragilità umana, della vulnerabilità, della
corporeità della persona, e una meditazione sulla trans-soggettività.
Mentre Esprit mette piuttosto l’accento sulla strutturazione della persona e si orienta più verso un pensiero della comunità che non dell’interpersonalità, per usare una parola di Landsberg»235.
È in tale contesto che una quota importante della riflessione filosofica di Landsberg gravita attorno alle problematiche dell’agire
umano nel mondo e nella storia, e in particolare, come abbiamo
visto, attorno alla nozione di engagement, che costituì uno sviluppo importante nell’evoluzione del suo itinerario speculativo. In
tutto questo devono indubbiamente aver giocato un ruolo non
235
O. Mongin, «Paul-Louis Landsberg: personnalisme et mistyque», in Esprit,
jan. 1983.
SAGGIO INTRODUTTIVO
141
secondario le vicende biografiche, dal momento che nel giro di
pochi anni Landsberg aveva prima assistito all’ascesa del nazionalsocialismo in Germania, quindi allo scoppio della guerra civile
in Spagna. Due eventi che segnarono profondamente la sua vita e
che, unitamente ai molteplici contatti con importanti esponenti dell’emigrazione di entrambi i paesi durante il soggiorno parigino,
contribuirono a maturare in lui un forte senso storico e una coscienza politica, nonché un’originale soluzione alla dialettica teoriaprassi.
Tuttavia, se non si può prescindere dal contesto storico-biografico a partire dal quale la problematica dell’engagement prende
l’avvio, altrettanto importante è considerare che essa coinvolge
problematiche filosofiche fondamentali (antropologiche, etiche,
conoscitive), che Landsberg svolge in relazione con l’impostazio236
Sull’etimologia e sulla storia filosofica del termine engagement, cfr. P. Kemp,
Théorie de l’engagement, vol. 1. Pathétique de l’engagement, Ed du Seuil, Paris
1972, 65: «Il termine engager significa propriamente “dare in pegno (gage)”.
Indicava originariamente (sec. XII), nella lingua francese, il mettere qualcosa nelle
mani di qualcuno a garanzia della parola data, pertanto aveva un senso giuridico. Il
fatto che designasse un’azione mediante la quale qualcuno legava se stesso, spiega
perché in seguito abbia assunto un senso etico generale: anche con la sola parola
s’impegna il proprio onore e la propria fede; s’engager diviene sinonimo di obbligarsi, di legare se stessi per l’avvenire, quindi mettersi in gioco (da cui gager, “scommettere”)». Kemp osserva come il termine abbia poi assunto un senso esistenziale in
Pascal (che usa il verbo engager nel noto contesto della scommessa), per essere poi
variamente impiegato da Blondel, Laberthonnière, Marcel, Mounier, Sartre,
Nédoncelle. Ciascuno di questi pensatori ha impiegato il termine con sfumature peculiari. Particolarmente significativa – a nostro avviso – è la differente accentuazione
che ad esso dà Landsberg, basata prevalentemente ora sul fatto oggettivo e passivo di
“essere impegnati” (être engagés), ora sull’atto di “impegnarsi” (s’engager); oppure
– detto altrimenti – ora più sull’essere posti in una situazione, ora più sul porre se
stessi di fronte ad una situazione per determinarla in qualche modo. Il primo aspetto
è quello efficacemente contenuto nell’espressione pascaliana vous êtes embarqués
(“siete imbarcati”), non a caso ripresa da Mounier, il quale cita quasi alla lettera
Landsberg: «Si parla continuamente di impegnarsi, come se ciò dipendesse da noi;
ma noi siamo impegnati, imbarcati, pre-occupati. Perciò l’astensione è un’illusione»
(Le personnalisme, cit. [p. 132 della tr.it.]). Per un approccio di tipo teoretico al concetto di engagement in Landsberg, cfr. N. Zaza, Etude sur la notion d’engagement
chez Emmanuel Mounier, Droz, Genève 1955; P. Kemp, Théorie de l’engagement,
cit.; E. Zwierlein, «Konservative Revolution und Engagement. Paul Ludwig
Landsbergs Weg vom Ideal der konservativen Revolution zur Wirklichkeit des engagierten Humanismus», in Zeitschrift für Politik, Jg. 36, Hf. 1 (1989) 88-95.
142
MARCO BUCARELLI
ne della sua precedente riflessione filosofica. L’elaborazione articolata della nozione di engagement, e più in generale quella dell’agire storico, s’innestano infatti su un impianto speculativo già
delineato, costituendone per così dire il prolungamento coerente
sotto la spinta degli eventi storici. Lo stesso termine engagement
compare in modo improvviso nel linguaggio di Landsberg236. Non
ve n’è infatti traccia nella produzione precedente dell’autore, se si
eccettua forse una pagina del saggio sulla razza pubblicato nella
rivista della Scuola di Francoforte (1933). In un passaggio di quest’articolo, la conoscenza intima dello sviluppo dell’essenza futura di una collettività nazionale da parte del singolo è da
Landsberg legata ad una sua partecipazione attiva alla preparazione di tale sviluppo. Propendo a credere che non sia casuale il
fatto che proprio in questo contesto Landsberg faccia uso del termine einsetzen (il corrispettivo tedesco di engager), riferendolo a
uomini che, come lo scrittore russo Gor’kij, conobbero in profondità il carattere della propria nazione proprio perché appartenevano ad esso e «impegnarono nella sua trasformazione la propria forza creatrice»237.
L’Introduzione all’antropologia filosofica – come abbiamo
visto – conteneva in nuce gli elementi speculativi necessari per
sviluppare un filosofia dell’impegno storico, anche se le osservazioni critiche di Horkheimer lo avevano spinto Landsberg ad
approfondire di più l’aspetto non solo storico in senso astratto,
ma anche le dinamiche reali del movimento della storia, «che non
è innanzitutto storia di idee e destinazioni», bensì di uomini reali
che si trovano a doversi situare all’interno della condizione reale
in cui sono stai destinati a vivere la loro esistenza. Uomini, quindi, sono obbligati a decidersi, anche quando ritengono illusoriamente di potersi sottrarre a questa ineluttabilità.
A proposito della relazione tra il pensiero di Horkheimer e
quello di Landsberg, O. Mongin si domanda se questo ultimo
possa essere considerato un anello di congiunzione tra Esprit e la
Scuola di Francoforte. La risposta è dubitativa.
«Landsberg si situava effettivamente alla giunzione della Scuola ed
237
P. L. Landsberg, «Rassenideologie und Rassenwissenschaft», cit., 401.
SAGGIO INTRODUTTIVO
143
Esprit. Tuttavia non bisognerebbe sovrastimare i legami ipotetici che
si sarebbero potuti intrecciare tra le due correnti intellettuali. Sembra
piuttosto che il rigore, la forza e la coerenza del pensiero di
Landsberg gli abbiano permesso di lavorare in più direzioni, senza
che lo si possa perciò ridurre alla funzione di mediatore tra questi
diversi ambienti; del resto la sua stessa biografia spiega questo
nomadismo intellettuale, che peraltro non lo portava verso posizioni
eclettiche, e che le circostanze gli hanno imposto. Il pensiero di
Landsberg era così originale e personale che ben poteva confrontarsi con gli altri ed influenzarli»238.
Secondo Zwierlein, si determinerebbe in Landsberg il brusco
passaggio da un punto di vista astorico-metafisico ad uno storico,
una sorta di cesura tra il periodo tedesco – caratterizzato dal primato della «morale contemplativa», dal primato del «pensiero
metafisico sul pensiero storico», dell’«essere sul divenire» –, e
quello francese, in cui prevale un personalismo della prassi votato all’impegno storico e politico239. Ritengo che il giudizio di
Zwierlein sia troppo schematico. Sicuramente vi è un’evoluzione
del pensiero di Landsberg, ma non un radicale cambiamento di
posizione. Landsberg non ha mai opposto intellettualisticamente
teoria e prassi, la visione delle essenze e la storia. Tutto si può
dire del pensiero di Landsberg fuorché sia dualistico. È vero e
innegabile che vi sia un mutamento di prospettiva, ma ciò è intimamente connesso con la situazione esistenziale dell’uomo
Landsberg. Un conto è fare lo studioso all’interno di un sistema
accademico comunque rassicurante, un conto trovarsi esule in
una sorta di nomadismo vitale e filosofico. Un conto è nutrire
ancora speranze in una ideale “rivoluzione conservatrice”,
(espressione che pur avendola forgiata, abbandonerà per l’uso
fattone successivamente da movimenti che politicamente si
schierarono in sostegno del nazismo), un conto è vedere e speri238
O. Mongin, «Paul-Louis Landsberg. Un lien entre “Esprit” et l’Ecole de
Francofort?», in Esprit II (5/1978) 58-61.
239
E. Zwierlein, Die Idee einer philosophischen Anthropologie bei Paul Ludwig
Landsberg. Zur Frage nach dem Wesen des Menschen zwischen Selbstauffassung und
Selbstgestaltung, Königshausen & Neumann, Würzburg 1989. Dello stesso autore
cfr. il cit. art. «Konservative Revolution und Engagement…»).
144
MARCO BUCARELLI
mentare dolorosamente il dramma storico e politico che la postmodernità viveva: fascismi e razzismi, l’industrializzazione della
guerra, il quietismo borghese oggettivamente complice della barbarie montante. Certo non riterrà più che il “mondo del medioevo” sia un modello immediatamente comprensibile a cui l’uomo
contemporaneo possa ispirarsi per ridare senso e ordine ad un
mondo in cui regna il “disordine stabilito”. Sicuramente, però,
non viene meno quel riferimento interiore all’ordo valoriale e al
senso ultimativo della vita, di cui il medioevo cristiano costituiva
un’espressione paradigmatica. Inoltre non si deve confondere,
come erroneamente fa Zwierlein, la concezione agostiniana del
tempo e della storia, sostenuta ad esempio in Il mondo del
medioevo e noi (1922), con una metafisica della storia avulsa dal
reale accadere degli eventi, che prima Agostino e poi Landsberg
non hanno mai sostenuto. Infine va notato come Landsberg, da
un’adesione entusiastica alla fenomenologia scheleriana dei
primi anni, passi ad una critica applicazione del metodo fenomenologico. Abbiamo già visto in precedenza come lo sviluppo dell’antropologia landsberghiana, in termini più dialettico-storici –
come suggeriva Horkheimer – e più esistenziali (e in questo la
riscoperta spagnola dell’attualità di Agostino fu decisiva) porti
Landsberg a criticare direttamente alcune posizioni del suo maestro, soprattutto dello Scheler dell’ultimo periodo.
Landsberg aveva iniziato a collaborare con Esprit già durante il periodo del suo insegnamento in Spagna, con un articolo del
1934 dedicato all’idea cristiana di persona. Ma è soltanto nel
novembre del 1937, con le «Riflessioni sull’impegno personale», che il suo pensiero e la sua figura fanno irruzione nel circolo di Esprit e del movimento personalista francese, condizionandone lo sviluppo. Seguiamo lo svolgimento di questo saggio,
dove la nozione di engagement entra prepotentemente nel dibattito filosofico.
I titoli dei cinque paragrafi in cui è suddiviso l’articolo ne
costituiscono il miglior compendio:
I. Il carattere storico della nostra vita esige l’impegno come condizione dell’umanizzazione – Fondamento antropologico dell’impegno.
II. L’impegno è un atto totale e libero che non va confuso né con
SAGGIO INTRODUTTIVO
145
un’operazione puramente intellettuale, né con l’arruolamento cieco –
Apologia dell’impegno.
III. Lungi dall’essere un ostacolo nella ricerca della verità, solo l’impegno ci fa conoscere intimamente la direzione della nostra vita storica – Critica dell’intelligenza astratta.
IV. Occorre sostituire la teoria intellettualista con una teoria personalista della conoscenza – Primo abbozzo di tale teoria.
V. I valori hanno un carattere di trans-soggettività, che costituisce la
serietà dell’impegno umano – Chiarimento di alcuni punti della filosofia dei valori.
Qui ci limitiamo a sottolineare alcuni dei passaggi fondamentali dell’importante saggio di Landsberg, lasciando al lettore l’approfondimento e la comprensione della sottile trama. Innanzitutto
l’incipit, autobiografico e insieme rappresentativo di una situazione universale.
«Gettato in un mondo pieno di contraddizioni, ognuno di noi prova
spesso il bisogno di ritirarsi dal gioco e di mettersi da parte, se non
“al di sopra” degli avvenimenti, come spettatore distaccato. Il motivo di una simile fuga dal mondo non è banale egoismo, ma piuttosto
il desiderio di poter costituire almeno una vita piena di senso nella
sua sfera individuale, privata, ripiegata su se stessa. Così, almeno,
crediamo di poter dominare il destino e di realizzare le nostre autentiche intenzioni. Ma ben presto ci accorgiamo che una tale attitudine
non corrisponde alla nostra vera situazione. Al contrario, la nostra
esistenza umana è talmente implicata in un destino collettivo, che la
nostra propria vita non può assumere il suo senso se non partecipando alla storia delle collettività alle quali apparteniamo. Nella misura
in cui viviamo con piena coscienza questa partecipazione, realizziamo la presenza storica, la storicità connessa all’umanizzazione dell’uomo. E questo perché siamo situati nel tempo in maniera diversa
dall’animale, o piuttosto perché siamo i soli a essere situati nel
tempo in una maniera che trascende il fatto di dipendere dalla successione degli istanti»240.
240
P. L. Landsberg, «Réflexions sur l’engagement personnel», in Esprit, nov.
1937, cit. infra 459.
146
MARCO BUCARELLI
Immediatamente dopo Landsberg, più che definire, descrive la
sua accezione di engagement, che noi traduciamo in italiano – in
maniera insoddisfacente – con “impegno”. Parola che nell’accezione corrente non esprime il senso che Landsberg dà a questo
termine, essendo per noi fortemente influenzato dalla visione esistenzialistica di Jean-Paul Sartre e dalle correnti marxistiche in
gran voga sul finire degli anni ’60 e per tutti quelli ’70. Sono
assolutamente estranei alla concezione dell’impegno di
Landsberg l’attivismo e il volontarismo, mentre nel sentire italiano tali atteggiamenti sono strettamente connessi con questa parola. Per Landsberg, “impegno” ha a che fare più che altro con il
“gioco”: giocare, mettersi in gioco, rischiare di vincere o di perdere. Inoltre, nel linguaggio italiano corrente l’impegno è strettamente connesso con la nozione di “intellettuale”; ma per
Landsberg l’impegno non è in primo luogo un’attività intellettuale o da intellettuali. Il gioco, il rischio, coinvolge invece la totalità degli esseri umani e ogni uomo, e non soltanto quella classe di
uomini che si definiscono intellettuali; esso appartiene all’essenza del fenomeno della realizzazione di se stesso, di ogni uomo, in
un dato momento storico dato. Con queste precisazioni, ho
comunque ritenuto fosse meno equivoco accettare il modo corrente di tradurre engagement senza azzardare soluzioni innovative ma forse stravaganti.
Lasciamo di nuovo la parola direttamente al filosofo.
«Noi chiamiamo impegno l’assunzione concreta della responsabilità di
un’opera da realizzare in futuro, di una direzione definita di uno sforzo che vada verso la formazione dell’avvenire umano. L’impegno,
quindi, realizza la storicità umana e volerlo eludere significa normalmente distruggere il progresso stesso della nostra qualità umana. Noi
tutti conosciamo il desiderio di sbarazzarci di questo peso della storicità responsabile, ma sappiamo anche che questa elusione è impossibile. […] Empiricamente, l’indissolubile unione dell’avvenire individuale con quello collettivo appare dal fatto che non siamo padroni di
rompere la solidarietà con l’avvenire collettivo. L’avvenire possibile
per l’individuo in un momento dato, è determinato in gran parte dalle
forze collettive che si mostrano efficaci nella formazione e nella trasformazione della collettività contemporanea. Siamo dunque incapaci
SAGGIO INTRODUTTIVO
147
di impegnarci realmente, se non partecipando a questo gioco contraddittorio delle forze che ci sembrava prima tanto strano e spaventoso.
[..] Rimane il fatto che non siamo liberi di produrre un ideale arbitrario dal fondo della nostra individualità, né di rifiutare in nome di questa perfezione sognata ogni identificazione e ogni attività concretamente storica. Non esiste una simile attività senza una certa decisione
per una causa imperfetta, perché non dobbiamo scegliere tra principi
e ideologie astratte, ma tra forze e movimenti reali che, dal passato e
dal presente, conducono alla regione delle possibilità dell’avvenire. È
molto difficile decidersi per una causa imperfetta, cioè per una qualunque causa umana; ma il valore di un impegno consiste in gran parte
nella coesistenza e nella tensione produttiva tra l’imperfezione della
causa e il carattere definitivo dell’impegno. In seguito a tale coscienza
dell’imperfezione, la fedeltà ad una causa si troverà preservata da ogni
fanatismo, cioè dalla convinzione di vivere possedendo una verità
assoluta e integrale»241.
Da questo brano emerge con chiarezza esemplare tutto il realismo cristiano di Landsberg. Sulla scia di Agostino del De civitate
Dei e di Machiavelli , egli non riconosce a nessuna causa politica
o storica un carattere di purezza ideale assoluta. Tutte le cause
umane sono imperfette. Le decisioni storiche sono sempre impure.
È il male minore che nei movimenti storici si può ricercare e per il
quale ci si impegna. Il perfetto regno dei fini di kantiana memoria
non è di questo mondo storico. La verità dei giudizi e delle azioni
storiche è sempre contingente e valida nel tempo specifico, e non
una verità idealmente immutabile. Questo non determina un pessimismo che blocca l’azione; al contrario stimola l’agire, un impegno storico che, se vissuto dentro questo realismo, non perde d’efficacia e nello stesso tempo non genera l’ottuso fanatismo ideologico. D’altra parte, lo stesso giudizio sull’imperfezione delle cause
politiche, del loro non essere mai date in forma pura, è possibile
formularlo solo all’interno di un paragone con un’esperienza personale e comunitaria che coglie l’esistenza, o almeno la nostalgia,
di un ordine e di una verità che compiono perfettamente e puramente le istanze dell’uomo storico. La dialettica esistenziale della
241
Ibidem, cit. infra 460-461.
148
MARCO BUCARELLI
persona e delle comunità si gioca proprio entro questo ambito.
Esistono, per Landsberg, due avversari pericolosi che si oppongono all’impegno personale, così come lo sta descrivendo: il neutralismo intellettuale e l’arruolamento massificato e irrazionale.
«È soprattutto necessario difendere l’atto dell’impegno contro il giudizio sedicente neutro che attiene ad una falsa nobiltà intellettuale, e
distinguere contemporaneamente quest’atto da un arruolamento privo
di spirito e di coscienza. La qualità particolare dell’atto che vogliamo
caratterizzare ne fa insieme un atto totale e un atto libero. Atto totale,
perché non si tratta di un’attività dell’intelligenza che opera isolatamente, non più dell’attività della sola volontà, ma perché l’impegno è
opera dell’uomo integrale, in cui intelligenza e volontà si confondono.
Atto libero, non perché partecipi ad una libertà formale dell’arbitrio,
ma perché traduce una decisione della persona che prende coscienza
della sua propria responsabilità e realizza la sua formazione positiva
in quanto persona. […] L’impegno non è un’abdicazione della persona. Lasciarsi vincere da un movimento potente, lasciarsi trasportare da
questo movimento come una goccia dal fiume, una tale diserzione
dalla responsabilità personale può entusiasmare degli ex individualisti… […] Se la libertà significasse disponibilità indefinita e semplice
indifferenza, questo implicherebbe un’evidente contraddizione. Ma
questa nozione negativa di libertà non ha alcun rapporto con la vita
personale che sperimentiamo continuamente. Per la persona umana
che noi siamo, essere liberi significa poter vivere nella direzione della
propria formazione…»242.
Libertà come adesione coinvolgente l’integralità della persona, nell’accettazione di una destinazione che compie ed è costitutiva dell’essere personale: «vivere nella direzione della propria
formazione», del proprio “essere-divenire” (Werdesein), come
scriveva nell’Introduzione all’antropologia filosofica alcuni anni
prima. O come chiarirà meglio nelle pagine finali: libertà come
vivere seguendo la propria vocazione.
Risulta evidente, a questo punto, come Landsberg senta la
necessità di sviluppare una teoria personalistica della conoscenza, aperta ad accogliere i contributi delle varie teorie della cono-
242
Ibidem, cit. infra 461-462.
SAGGIO INTRODUTTIVO
149
scenza esistenti (scientifica, fenomenologica, materialista-dialettica ecc.), ma in chiara antitesi con le loro pretese di unilateralità.
Tale progetto viene soltanto abbozzato.
«In una tale teoria personalista della conoscenza, il postulato che
vuole che la conoscenza cominci senza essere determinata da alcun
pregiudizio, verrà sostituito, almeno per il caso della comprensione
storica, dal postulato di una partecipazione, la più autentica e universale possibile, alla struttura di valori del momento storico. […]
La critica definitiva, fornitaci da Husserl, di ogni soggettivismo e
psicologismo in logica (Logische Untersuchungen, tomo I) e l’etica
dei contenuti dei valori di Scheler (Der Formalismus in der Ethik
und die materiale Wertethik) hanno inaugurato un movimento che
non solo rende possibile la confutazione per via di negazione del
soggettivismo, ma anche la sua Aufhebung in senso autentico, l’integrazione della parte di verità che contiene, in un pensiero più vasto e
più vero. Quanto alla dottrina di Scheler, la interpretiamo in maniera profondamente diversa da quella corrente, cioè escludendo ogni
idealismo platonizzante della teoria dei valori»243.
La teoria della conoscenza che Landsberg inizia a delineare, si
presenta immediatamente dialettica, vi si coglie un’evoluzione
rispetto a precedenti ricerche gnoseologiche244. Una riconsiderazione del pensiero di Hegel, reinterpretato secondo la lezione di
Horkheimer, si avverte sensibilmente, senza che per questo ci sia
la rinuncia ad un’elaborazione assolutamente originale. Ciò appare più chiaro quando delinea la relazione essenzialmente dialettica tra valori e persona.
«La trans-soggettività dei valori non significa che essi esistano in un
“regno dei valori puri”. Non sono concepibili senza l’esistenza personale che è in rapporto con essi. La persona e i valori sono separabili solo operando un’astrazione. In un mondo dove non vi fossero
persone, non vi sarebbero nemmeno valori, e viceversa. I valori
appartengono dunque al regno della storicità, benché non costitui-
243
244
Ibidem, cit. infra 469.
Vedi supra 70-78.
150
MARCO BUCARELLI
scano certamente dei “fatti storici” in senso ordinario. Non basta dire
che i valori devono incarnarsi, esistono soltanto incarnati… Tutte
queste considerazioni non comportano il minimo soggettivismo.
Perché il rapporto costitutivo tra la persona e il valore non significa
affatto che i valori dipendono dall’arbitrio degli individui. Al contrario, la persona si realizza solo realizzando dei valori che, a seconda
del loro contenuto, gli sono dati come indipendenti da essa, pur
necessitando del suo intervento per poter esistere. I valori sono
transpersonali, nel senso che la loro esistenza forma una dimensione di trascendenza che appartiene alla persona»245.
Appare così chiaramente che tra la persona e i valori c’è una
relazione ontologica tale che l’esistenza dell’una suppone necessariamente l’esistenza degli altri e viceversa. La verità filosofica
risiede nel tutto. Il soggettivismo, al contrario, afferma la dipendenza ontica e unilaterale dei valori dall’individuo empirico.
Occorre sbarazzarsi dello schema troppo semplice secondo cui
noi ci decidiamo seguendo un ragionamento, cioè applicando al
caso particolare alcuni principi di valori e le norme fondate su di
essi. Per Landsberg, soggettivismo e oggettivismo alterano parimenti la verità delle relazioni.
«Non dobbiamo scegliere tra il “chierico“ di Benda, che applica
idee “eterne” al cambiamento della realtà, lo spettatore “intelligente” per il quale tutti i valori sono soltanto illusioni, e il partigiano
fanatico che aspira alla vittoria dei suoi valori più o meno fanaticamente a seconda che abbia più o meno coscienza di averli posti arbitrariamente. L’uomo dell’impegno personale non deve somigliare a
nessuna di queste caricature»246.
L’impegno personale è, quindi, un avvenimento che costituisce un tutt’uno col fenomeno fondante, con un “trascendentale”,
della persona: coincide con la vocazione.
245
P. L. Landsberg, «Réflexions sur l’engagement personnel», in Esprit, nov.
1937, cit. infra 469-470
246
Ibidem, cit. infra 471.
247
Ibidem, cit. infra 474.
SAGGIO INTRODUTTIVO
151
«Il mio compito è seguire il cammino prescritto dalla mia vocazione»247.
Nella parte finale dell’articolo è accennato il problema più
propriamente politico del rapporto tra la persona e lo Stato. Le
due varianti storiche che all’epoca si presentavano sembrano
essere assolutamente inadeguate ad un giusto rapporto con le
persone e i mondi di valori che rappresentano. Tale analisi è solo
accennata e sarà sviluppata in modo più approfondito negli scritti immediatamente successivi. Scrive Landsberg:
«Si dovrebbe dimostrare perché ci rifiutiamo di scegliere tra uno
Stato totalitario, che decide tutte le questioni della vita umana senza
rispettare né la vita personale né la gerarchia delle competenze, e
uno Stato sedicente liberale che non s’impegna nemmeno per i propri principi di libertà e giustizia. Lo Stato che si occupa di tutto, che
m’impone i miei sentimenti religiosi e m’impedisce di scegliere
liberamente mia moglie e i miei amici, è un mostro ipertrofico. Lo
Stato che accetta tranquillamente che io cospiri contro i suoi principi di vita e che io prepari la sua caduta sotto la protezione delle sue
stesse leggi, è un mostro di debolezza. Lo Stato può e deve essere
neutrale su molte questioni, ma non su ciò che riguarda la sua propria vocazione nella storia dell’umanità, cioè nel fondare la pace
nella giustizia e nella vera libertà di tutti i cittadini. Qui vogliamo
semplicemente sottolineare un triplice parallelismo:
– Stato totalitario = decisione cieca (reclutamento dell’individuo);
– Stato neutrale = assenza di decisione (intellettualismo speculativo
dell’individuo);
– Stato giusto = decisione cosciente per i valori specifici che costituiscono la ragion d’essere dello Stato (impegno di ciascuno per la
partecipazione alla realizzazione di questi valori)»248.
Ibidem, cit. infra 475 n.9.
Il contributo di Landsberg alla seduta del 4 dicembre 1937 sul tema:
«Soggettività e trascendenza», è contenuto nel Bulletin de la Société française de
Philosophie, oct.-déc. 1937, 188-191. Nel suo intervento colloca l’io (moi) tra due
possibili e opposte direzioni di trascendenza, in direzione di una “estasi nera” (il dionisiaco nietzschiano) o di un’estasi superiore: «L’io può provare dei fremiti d’ango248
249
152
MARCO BUCARELLI
È sottinteso – precisa Landsberg – che le categorie “Stato” e
“Stato giusto” non sono stabili ed eterne, ma s’inseriscono nella
vita storica al medesimo titolo delle categorie “vocazione” e
“impegno”.
Sempre nel 1937, un anno estremamente intenso per
Landsberg, su invito di Léon Brunschvicg partecipò a sedute e
seminari della “Société française de philosophie”249, e tenne alla
Sorbona un corso sulla filosofia dell’esistenza basata sulla lettura di Kafka. Da questo corso prese origine un articolo su La metamorfosi, in cui è presentata un’originalissima interpretazione in
chiave esistenziale-personalistica e politica del racconto del grande scrittore praghese250.
15 Mito, verità e azione politica
Le «Riflessioni sull’impegno personale» non destarono solo
una nuova prospettiva teorica in cui collocare il rapporto tra
concezione personalistica e concezione politica, ma si tradussero in concrete prese di posizione di Esprit, che divenne anche
politicamente attiva e incidente. La prima decisiva presa di posizione della rivista fu, non a caso, a favore del legittimo governo
repubblicano in Spagna contro i franchisti251. Seguirono quella
contro lo stalinismo, che stava mostrando il suo vero volto, e
quella contro Hitler, espressa nella critica all’accondiscendenza
del governo francese di fronte alle sue incalzanti pretese (la rivi-
scia, dei sentimenti analoghi alla vicinanza di queste due forze, quella verso il basso
e quella verso l’alto, per fare uso dell’immagine, dove si tratta in ogni caso di una
forza essenzialmente spirituale e di una forza essenzialmente vitale».
250
P. L. Landsberg, «Kafka et la “métamorfose”», in Esprit, sept. 1938; tr. it.
infra 555-567.
251
La posizione assunta da Esprit sulla guerra civile spagnola fu assai combattuta all’interno della redazione. Tra le voci dei cattolici fu quasi isolata, se si esclude
Georges Bernanos, che ebbe la sorte di vivere in Spagna in quegli anni e di sperimentare direttamente i drammatici accadimenti. Maritain non prese partito e spingeva Mounier ad assumere una posizione neutrale. Le corrispondenze dalla Spagna di
José Maria Semprun, e le testimonianze dirette di Landsberg, oltre che le sue riflessioni sull’impegno personale, fecero pendere l’ago della bilancia.
SAGGIO INTRODUTTIVO
153
sta non si unì al coro di entusiastica approvazione per gli accordi di Monaco). Il tutto cercando di vedere le situazioni nella loro
reale complessità, senza semplificarle, il che comportava anche
un dialogo a più voci che non ignorasse le ragioni della parte
avversa.
L’accelerazione drammatica degli eventi storici portano
Landsberg ad una attività quasi frenetica nel corso del 1938, sia
a livello di elaborazione teorica, sia di attivo impegno politico.
Abbiamo già visto come ogni autentico impegno si realizzi in
un’identificazione partecipativa della persona col mondo
reale/storico. Ora, ciò esige un preliminare sforzo di liberazione
(anch’esso implicante atti d’impegno) da ogni immagine deformante e falsificante del mondo stesso. È proprio per l’intima correlazione sussistente tra impegno e ricerca della verità, che
Landsberg ritiene di dover completare le sue riflessioni sull’impegno personale con una critica del mito252.
Il pericolo specifico del proprio tempo è individuato
nell’«oblio dell’idea stessa di verità» e nella sua sostituzione
programmatica con miti ideologici, confezionati ad hoc per fini
politici. Nella sua diagnosi non si tratta tanto del fatto che si
occulti la verità con la menzogna (cosa in fondo sempre accaduta nella storia umana, soprattutto in politica), il che presuppone
che si abbia per lo meno l’idea di una verità da contraffare; quanto piuttosto della perdita totale e generalizzata dell’idea stessa di
verità, perdita che rende di principio impossibile tanto la verità
quanto la menzogna253. Il risultato è che larga parte dell’umanità
si comporta ormai come se la verità, teorica o pratica, non esistesse o fosse irrilevante.
A partire dalla dissoluzione del sistema di Hegel, «che manteneva l’idea classica di verità temporale e immutabile, ma che allo
stesso tempo introduceva la storia tra le condizioni necessarie alla
conoscenza del vero: in maniera talmente radicale, che la verità
252
P. L. Landsberg, «Introduction à une critique du mythe», in Esprit, janv. 1938,
49-68; tr. it. infra 525-542.
253
Il medesimo rilievo, lo si ricorderà, era stato fatto da Landsberg in alla seduta
della Société française de Philosophie sul tema «Le mensonge et ses antinomies» del
marzo 1932; pubblic. in Bulletin de la Société française de Philosophie 3 (1932) 116.
254
P. L. Landsberg, «Introduction à une critique du mythe», cit. infra 527.
154
MARCO BUCARELLI
non può essere conoscibile se non alla fine della storia»254,
Landsberg vede il XIX secolo caratterizzato da una «crisi profonda e universale dell’idea di verità», la quale apre un vuoto che
si è variamente tentato di colmare. Uno di questi tentativi è il
pragmatismo ottimista americano di William James: un pragmatismo che sostituisce l’idea dell’invenzione della verità a quella
della scoperta. All’interesse per la verità nel senso puramente teorico si sostituisce qui un’idea del tutto nuova: vero è ciò che è efficace. Un pragmatismo di fondo, non più ottimista e civilizzatore
– nel senso della civiltà della tecnica – come quello americano,
ma tragico e disperato, domina anche il pensiero dell’ultimo
Nietzsche. Qui la verità, giudicata introvabile, è sostituita da una
creazione metafisica di valori condensati attorno alla “volontà di
potenza” a servizio dell’intensificazione della vita. In quanto
creazione della verità, il mito di Nietzsche è già il mito nel senso
moderno. In Nietzsche, però, questa posizione ha un accento tragico: «[in lui] c’è un cercatore di verità che nasconde, anche se
molto male, la sua tragica e nobile disfatta. Egli vive consciamente la crisi dell’ethos protestante, di quella verità soggettiva
che, in lui, distrugge l’idea stessa di verità»255.
Nei suoi pseudo-discepoli, i moderni fabbricatori dei miti di
massa, la tesi nietzschiana, separata dall’esperienza tragica, si
banalizza nell’esatta misura in cui si fa politica; all’eroe tragico
si sostituisce, portata al potenziamento massimo, la figura del
demagogo. Soppresso l’elemento pessimistico, l’idea della
volontà di potenza diventa puro culto della forza, e il criterio del
mito è cercato in una sorta d’armonia prestabilita con l’anima
della propria nazione. Qui s’intersecano, attraverso il nazionalismo, mitologismo moderno e spirito reazionario: la ricerca dell’armonia con l’anima della nazione esclude che il mito possa
presentarsi come assolutamente nuovo, una specie di creazione ex
nihilo. Si dovrà parlare, nel caso di Mussolini, di una rinascita e
di una riscoperta del mito romano; nel caso di Hitler, della razza
nordica.
Il mito della razza, che in Gobineau è ancora un romantico
rimpianto della purezza perduta, diviene in Chamberlain mito
255
Ibidem, cit. infra 529.
SAGGIO INTRODUTTIVO
155
politico, ideale da realizzare nel futuro. In Rosenberg, il maggiore teorico del mitologismo razzista tedesco e autore dello
scritto programmatico Il mito del XX secolo, diviene del tutto
indifferente che il mito sia sostenuto o meno da elementi storicamente veritieri: in effetti le assurdità condensate nel suo scritto non si contano. Qui la degenerazione del mito sembra toccare
il fondo: lo sforzo di avvicinamento alla verità è sostituito da
un’affermazione fanatica e da un’adesione talmente convinta da
far pensare ad una mistica secolarizzata. Il fatto che si parli
ormai di “mistica” razzista, comunista, ecc., riflette solo l’esito
di un processo degenerativo che ha condotto alla confusione più
grave tra l’esperienza mistica cristiana, frutto della grazia, e la
carica emozionale di certe dottrine nebulose, fabbricate ormai su
richiesta256.
Come nota Augusto Del Noce, «Landsberg individua come
Sorel e Gobineau si situano in un rapporto simmetrico, rispettivamente, nei rapporti del fascismo e del nazismo, che non hanno
certo previsto, né anticipato: approfondire l’esame di questa simmetria potrebbe portare a risultati storici di molto rilievo»257.
Tratteggiando un’«analisi psicologica del mitologismo moderno
– Landsberg per primo, riconosce ancora Del Noce – sviluppa
un’interpretazione psicanalitica dei fascismi e della loro base
mitologica. Egli riconosce lo specifico di questa forma d’attività dello spirito umano rispetto ad altre, nella sua origine dalla
sfera del subconscio, soprattutto dalla vita degli impulsi e dei
desideri»258. Questo mondo dei desideri ha il potere di tradursi in
immagini, o meglio in «sequenze drammatiche d’immagini»,
secondo un’esperienza che ognuno può verificare anche in se
stesso.
«L’uomo del mito – scrive Landsberg –ha il centro della sua
vita produttiva in quest’evento trasformativo dei desideri in
immagini»259. Qualora tale uomo incontri il subconscio interioCfr. infra 530.
A. Del Noce, «Una riflessione sull’unità antifascista: l’errore di Landsberg», in
L’Europa, V, n..3, 15/2/197; ripubbl. in Id., Rivoluzione, Risorgimento, Tradizione,
Giuffrè, Milano 1993, 283-294.
258
Ibidem, 289.
259
P. L. Landsberg, «Introduction à une critique du mythe», cit. infra 533.
256
257
156
MARCO BUCARELLI
re della massa e se ne faccia interprete, dando forma ai sogni di
questa e favorendo la liberazione dei suoi desideri rimossi,
avvalendosi di immagini appropriate e magari anche dell’azione, ecco sorgere una forza politica d’incredibile potenza. Essa è
data dall’incontro tra un tipo d’uomo dal subconscio scarsamente individualizzato e una massa anch’essa assai uniforme
nei suoi bisogni e desideri, sulla quale egli è in grado di esercitare la propria seduzione. Ovviamente, il mito politico non si
presenterà mai come un delirio onirico allo stato puro, ma gli
verrà conferita una veste pseudorazionale, fornita da elementi
tratti dall’osservazione, anche scientifica. Ma il suo centro è pur
sempre nella vita desiderativa. La certezza cieca ispirata dal
mito resiste ad ogni critica razionale proprio perché appartiene
ad una sfera estranea a quella dell’intelligenza, e non si rivolge
ad essa, rispondendo piuttosto ad un vero e proprio “bisogno
subconscio” d’interpretare il mondo in un dato modo anziché in
un altro.
Diviene pertanto comprensibile il carattere di distanza dalla
verità che è proprio dell’uomo del mito: tra questi e il mondo
reale si trova frapposta la cortina fumosa dell’immaginario onirico dei suoi desideri, a misura dei quali è ridisegnato il mondo
nel quale egli abita. L’uomo del mito condivide con il mitomane
propriamente detto una sorta di «malattia del senso della realtà»,
che fa di lui un solipsista o un egocentrico, anche se può condividere il proprio delirio con intere masse. Vivere nel mondo
reale significa invece proprio dissolvere tale cortina.
La ricerca della verità è soprattutto un’attività della coscienza,
è l’attività che ci rende coscienti dell’universo e di noi stessi.
L’uomo orientato verso la verità
«ha il dovere di rimanere o piuttosto di divenire fedele alla verità, di
sottomettersi alla conoscenza della realtà e di disciplinare i propri
desideri subconsci. Egli tende ad un ordine del cuore, dove però il
cuore sia conforme all’ordine del mondo e non il mondo conformato ad un capriccio del cuore. Poiché il cristiano considera la verità
260
261
Ibidem, cit. infra 537.
Ibidem, cit. infra 537.
SAGGIO INTRODUTTIVO
157
come un aspetto di Dio stesso, non esiste per lui la possibilità di
scelta tra il mito e la ricerca della verità»260.
Landsberg ritiene che – adeguatamente interpretata – la formula classica medievale, di derivazione platonico-aristotelica:
veritas est adaequatio intellectus et rei, costituisca «ancor oggi
la base necessaria di ogni chiarimento del problema della verità»261. Importante è interpretarla non secondo la teoria delle
immagini, come se si trattasse di un’impressione meccanica sul
nostro spirito, ma, secondo l’intenzione dei suoi autori, come
«una trasformazione di questo stesso spirito ad opera e secondo
l’essenza dell’oggetto della conoscenza»262. In questa trasformazione, nel nostro spirito qualcosa «passa dalla potenza all’atto
mediante la partecipazione all’oggetto»263. Questo qualcosa –
spiega Landsberg – «è l’analogia essenziale dell’oggetto che la
nostra anima contiene in potenza»264. L’uomo è un microcosmo
che si realizza tramite la partecipazione conoscitiva al macrocosmo, a cui è potenzialmente aperto. Il senso letterale del sostantivo greco homoíosis (di cui non è che una traduzione) indica
«un adeguamento che si fa», ossia un processo; l’intellectus è
comprensivo anche dell’intelligenza immediata, che secondo
Platone e Aristotele è contenuta già nella conoscenza sensoriale
stessa e che costituisce «l’organo primordiale della realizzazione
della nostra parentela e analogia con tutti gli esseri»; et rei indica in generale l’oggetto della conoscenza.
«La verità in senso primario si costituisce nell’atto stesso della conoscenza immediata, e la verità possibile del giudizio è soltanto fondata su
di essa. Il contrario di questa verità in senso primario è la non-esistenza
di un atto di conoscenza nel senso proprio della parola, e il giudizio falso
è soltanto il contrario della verità in senso secondario»265.
La lezione tuttora valida della filosofia antica sta proprio nella
Ibidem, cit. infra 537.
Ibidem, cit. infra 537.
264
Ibidem, cit. infra 537.
265
Ibidem, cit. infra 538.
266
Cfr. infra 538-539.
262
263
158
MARCO BUCARELLI
concezione della conoscenza come sottomissione dello spirito
all’oggetto266.
«Il filosofo greco si sente talmente vicino alle cose, circondato dagli esseri e partecipe dell’essere in maniera immediata, che la relazione tra lo spirito e il suo oggetto non gli presenta problemi dolorosi. Tuttavia, in questo sentimento dell’immediatezza ontologica, si può scoprire una caratteristica di un valore universale. L’uomo della verità deve vivere il più vicino possibile ad esseri differenti da lui. Attraverso l’eros filosofico l’uomo
deve superarsi e trascendere anche questo prolungamento di sé, questo
mondo specchio dell’io che è l’universo dei suoi desideri e delle sue
immagini. È l’uomo che si dà e si ritrova, facendo astrazione da se stesso. Spesso il mondo moderno dimentica che la conoscenza dipende da
una disciplina dell’uomo nella sua interezza»267.
L’«uomo orientato verso la verità» si contrappone all’«uomo del
mito». L’idea di verità non implica un possesso certo e immutabile,
bensì un esercizio costante di sottomissione alla realtà, che va salvaguardata dalle deformazioni provenienti dalla sfera dei desideri
mediante una continua autocritica. Il fatto che la realtà storica e sociale non sia sistematizzabile una volta per tutte, come ritiene certo
razionalismo, non giustifica la sua manipolazione da parte dell’ideologia e del mito. In ciò Landsberg ha soprattutto di mira quella conoscenza storica che consente di progettare l’avvenire secondo le possibilità della ragione umana, impedendo che si consegni al dominio di
forze irrazionali, come quelle che sono all’origine dei mitologismi.
Nella costruzione del futuro la volontà deve seguire un “piano” razionale, come risultato della cooperazione degli spiriti più degni di questo nome e fondato sulla conoscenza della realtà presente, della storia
passata e delle possibilità del futuro.
Proprio nella ricerca di cooperazione, nella lotta dell’uomo orientato verso la verità contro l’uomo del mito, Del Noce, agli inizi degli anni
’70 individua i presupposti di quello che definisce l’errore di
Landsberg. Il filosofo italiano, a cui va il merito di essere stato forse
l’unico che si sia confrontato con Landsberg in termini non solo commemorativi, ma giustamente critici, cogliendo l’attualità e l’originalità
267
Ibidem, cit. infra 539.
SAGGIO INTRODUTTIVO
159
del suo pensiero, ha dato una lettura dello scritto di Landsberg su mito
e verità, avendolo riconosciuto come una «tra le poche interpretazioni
filosofiche di quel momento storico, scritte dalla generazione allora
giovane, che conservi una sua attualità e leggibilità». Una ricerca –
dice Del Noce – che cercava di mantenere un nesso tra la riflessione
morale e quella politica, ma oggi – «rotto nel modo più pauroso».
«Anche se il nome [di Landsberg] è scarsamente noto al lettore comune, l’importanza della sua opera nel periodo relativamente breve della
sua attività fu estremamente notevole. Fu il primo a usare, nel 1937, un
termine che poi divenne di moda, quello di engagement, come condizione dell’umanizzazione. La sua influenza fu decisiva per l’orientamento della rivista Esprit. Col suo intervento si delineò l’idea di un’unità franco-tedesca, in qualche modo parallela a quella che circa un
secolo prima (Annali franco-tedeschi, 1843-1844) era stata proposta da
Marx. La forma era rovesciata; non si trattava più del pensiero rivoluzionario francese che si muovesse verso il pensiero classico tedesco,
liquidando il professore di filosofia per il rivoluzionario; e per altro
verso ne ricevesse un vigore tale da permettere il suo adempimento nell’acquisizione del carattere di rivoluzione totale. Qui invece si trattava
di un movimento, attraverso Scheler, del pensiero tedesco verso il personalismo e la filosofia della libertà francesi; che, attraverso la storicità si sarebbero separati dall’interiorismo che li aveva caratterizzati fino
allora, per dare luogo ad una posizione politica che oltrepassasse il marxismo, pur conservandone il nocciolo positivo. A quella rivoluzione
personalista e comunitaria, alla cui idea si formarono anche in Italia,
dopo il ’50, gran parte delle giovani leve cattoliche»268.
Seguendo il filo del ragionamento di Landsberg, Del Noce
riconosce l’interesse e il carattere anticipatore del suo pensiero,
condividendone quasi sempre l’analisi: «sul rapporto con
Nietzsche e sul carattere post nietzschiano dei fascismi – punto
che li fa differire in toto dai movimenti tradizionalisti o reazionari classici – non c’è, in fondo, che da riprendere le sue idee»269.
Dove la tesi di Landsberg pare a Del Noce del tutto inadeguata è
268
A. Del Noce, «Una riflessione sull’unità antifascista: l’errore di Landsberg»,
cit., 285-286.
269
Ibidem, 289.
160
MARCO BUCARELLI
nella valutazione del marxismo, che:
«viene isolato dalla crisi dell’idea di verità, e dal pragmatismo stesso e visto soprattutto come denuncia delle mistificazioni, denuncia a
cui portava il nuovo ideologismo. Si tratta di una veduta storica totalmente errata e per di più sconcertante e contraddittoria, in rapporto a
quel che Landsberg ha precedentemente scritto sulle origini hegeliane di detta crisi. È infatti estremamente chiaro che l’antitesi precisa
a quella filosofia platonico-aristotelica, nella cui ripresa, attraverso
un maggior approfondimento, Landsberg vedrebbe l’uscita dalla
crisi, è rappresentata in primo luogo dalla filosofia di Marx»270.
Questo asserito errore di Landsberg viene spiegato da Del
Noce col momento storico in cui lo scritto viene composto.
«Il 1937, l’anno della grande offensiva dei fascismi. Il comunismo
appare un alleato possibile; e nei riguardi del marxismo si pensa alla
sua funzione demistificante, dunque restituente alla verità. [..] Lo
sguardo si trova concentrato sull’avversario prossimo: e l’opposizione tra l’uomo orientato verso la verità e l’uomo del mito ricomprende nel primo anche il comunista. Ad una considerazione storico-filosofica se ne sovrappone perciò, in considerazione dell’urgenza dei
tempi, un’altra che si dovrebbe dire politico-mitica: in una confusione tra la pratica e la teoria viene elevata a teoria un’ideologia che al
momento aveva la sua giustificazione contro l’avversario incombente. È qui l’origine del carattere irrazionale della tesi del carattere
ideale, e duraturo, dell’unità antifascista»271.
L’errore, come si evince da queste ultime frasi di Del Noce, non
sarebbe tanto di Landsberg, quanto di coloro che dell’unità antifascista comprendente i marxisti – sostenuta e teorizzata da
Landsberg come movimento storico di quel momento in difesa
della verità dell’uomo contro la montante barbarie del mitologismo
nazifascista – hanno fatto un modello irrazionale, perché duraturo,
di difesa della verità dell’uomo contro il male rappresentato meta-
270
271
Ibidem, 289-290.
Ibidem, 291.
SAGGIO INTRODUTTIVO
161
fisicamente e manicheisticamente dai fascismi. Non dimentichiamo che l’articolo di Del Noce è dell’inizio degli anni ’70 – moti
studenteschi, stragismo, terrorismo – e le categorie di “unità antifascista” o “arco costituzionale” divengono all’epoca (a trent’anni
dalla fine vittoriosa della Resistenza) centrali come categorie mitico-politiche per un’interpretazione manicheistica e astorica della
storia e della politica. Va aggiunto che all’epoca del suo articolo
Del Noce aveva una conoscenza di Landsberg mediata dall’antologia di scritti curata da Lacroix nel 1952, ispirata dall’intento di
presentare Landsberg come filosofo dell’engagement, trascurando
altri aspetti parimenti rilevanti del complesso della sua produzione, non pubblicando, per esempio, gli scritti in cui il pensiero di
Marx viene sottoposto a critica serrata, ne quelli in cui polemizza
con il partito comunista ed equipara Stalin ad Hitler.
In Landsberg, il giudizio negativo sul riduzionismo unilaterale
operato dall’antropologia marxista è assolutamente netto. Così
com’è netto il giudizio sullo stalinismo e su una visione mitica del
comunismo. Ciò non toglie che egli considerasse fondamentale in
quel momento, per un’euristica corretta nel mondo del capitalismo
monopolistico, la scoperta marxiana di dinamiche economiche a
fondamento delle relazioni tra gli uomini e della loro comprensione; così come considerasse uomini orientati verso la verità quei
comunisti o socialisti che, come ad esempio Horkheimer, pur non
essendo cristiani o “platonici”, applicando criteri e metodi della
dialettica marxiana in termini critici, senza sognare di realizzare in
terra «il regno della perfetta e consumata giustizia», si battevano
per smascherare teoricamente e combattere praticamente, nella
storia concreta, le deformazioni della ragione e l’inumanità di
sistemi politici che si basavano sull’oblio stesso dell’idea di verità, sostituta da idolatrie mitiche.
Il giudizio storico e politico è contingente per sua natura. È
impossibile pronunciare un giudizio storico al di fuori della storia
in cui si è coinvolti, di cui si è parte; in cui si prende parte, attraverso il “mettersi in gioco” dell’impegno personale storico per
delle cause che, per non cadere nell’ideologia, occorre riconoscere sempre come imperfette e impure. Se la res è la storia nel suo
divenire, la verità, proprio per essere adeguata, deve seguire il
divenire. Come diceva san Tommaso, la verità per interessare
deve essere colta come adaequatio, ma in actu exercito, e non
162
MARCO BUCARELLI
come corrispondenza astratta a dei valori. L’intellectus, la persona costituita da quelle evidenze e da quei bisogni originari che la
costituiscono e che in parte sono sovrastorici, pure deve effettuare il paragone che l’atto della verità impone, all’interno dei condizionamenti storici che la determinano, mentre determinano il
mondo in cui essa vive.
Per il cristiano Landsberg, Dio solo è Verità; la partecipazione
a questa Verità, il suo riflesso creaturale che si esprime come desiderio/tendenza costituisce il nucleo profondo della persona, e si
manifesta come orientamento verso la verità attraverso la vocazione
personale di ciascuno, la cui realizzazione costituisce l’impegno personale esistenziale fondamentale, impegno che si realizza nei termini esaminati nell’articolo Riflessioni sull’impegno personale.
Esistono poi le verità quotidiane, scientifiche, storiche, politiche ed
economiche, che sono contingenti, ma non per questo secondarie,
costituendo la materia in cui la verità della persona è immersa e “si
gioca” attraverso il suo confronto/impegno con la realtà: è l’ambito
dell’adaequatio. Le verità logico-matematiche, verità a priori, sono
verità soltanto pensate e possono essere metodi da applicare a particolari campi dell’esperienza; così come la dialettica, eliminata la sua
pretesa di onnicomprensività, può essere un modello per altri campi
di esperienza, come anche la storia, ma sempre per realizzare l’esperienza dell’adaequatio: quella corrispondenza di quanto viene
proposto (si tratti di un evento o di un’affermazione) con la propria
vita, con la coscienza di sé in quanto implica esigenze ed evidenze
originarie. Da ciò deriva la priorità del fatto, di cui la persona umana
è costituita, rispetto ad ogni a priori teorico elaborato dal pensiero.
Il vero a priori, da cui partire per valutare se stessi e il mondo circostante, è il fatto della propria essenza personale colta come esistente in azione, in actu exercito. La verità come adaequatio implica un passaggio, per usare una terminologia aristotelico-tomistica,
dalla potenza all’atto. L’atto della verità trasforma sia l’oggetto che
la persona soggetto di quest’atto. Non ha nulla di meramente astratto e avulso dalla vita, anche quando concerne le realtà apparentemente più eteree.
272
Lettera inedita del 2 dicembre 1937, manoscritto custodito presso l’IMEC di
Parigi; cit. infra 776.
SAGGIO INTRODUTTIVO
163
Come scriveva Landsberg a Mounier, a proposito del titolo da
attribuire su Esprit al suo articolo su verità e mito (in realtà una trascrizione non rivista dall’autore di una conferenza tenuta a Bruxelles
nel novembre del 1937):
«…decidete come preferite, nel rispetto e non dimenticando l’idea principale del mio lavoro: analizzare l’idea moderna di mito e di verità,
opponendogli l’immagine della verità come presenza, come presenza
che agisce realmente. La verità è se opera»272.
Su mito e verità Landsberg ritornerà in un dialogo con Jean
Lacroix. Replicando a Lacroix, che gli faceva notare che «non si
tratta di escludere il mito, ma di situarlo»273, Landsberg precisa il
proprio pensiero in merito alle diverse forme del conoscere.
Innanzi tutto distingue un “mitologismo”, invasore della ricerca
della verità, dal mito in generale: «Si tratta unicamente di impedire che l’arbitrario mitologico venga a sostituirsi definitivamente e
tirannicamente alla ricerca della verità»274. Tale ricerca, peraltro, si
presenta per Landsberg in forme diverse e variegate, non riducibili a quella propria del razionalismo scientifico.
«Non crediamo che al di fuori del mitologismo esista praticamente
quasi soltanto un matematismo puro: c’è la vita integrale della persona, di cui la ricerca della verità è una delle forme principali».
Una semplificazione da evitare è quella di dividere la conoscenza in scientifica e non-scientifica, come se non si desse nient’altro.
«Prima di tutto, il contenuto delle scienze non è la forma unica né il
modello universale di ogni verità. Vi sono delle verità non scientifiche
che non sono prescientifiche e che appartengono per essenza alla fede
religiosa, all’esistenza filosofica, alle numerose forze cognitive o
semicognitive, difficilmente definibili ma certamente reali, che ci sono
date. Dall’esperienza mistica al “buon senso” e dall’intuizione amoro273
J. Lacroix e P. L. Landsberg, «Dialogue sur le mythe», in Esprit, févr. 1938;
cit. infra 546.
274
Ibidem, cit. infra 549.
275
Ibidem, cit. infra 552-553.
164
MARCO BUCARELLI
sa al “senso politico”, l’uomo può e deve realizzare le possibilità più
diverse per conoscere le forme più diverse dell’essere. Lo scientismo
tende a negare in blocco il valore di tutte queste forme più o meno pure
della conoscenza vissuta. [...] Il vero compito consiste nel trovare delle
forme adeguate per la trasmissione d’ogni genere di verità»275.
Il 4 maggio 1938 Anna Silverberg, la madre di Paul Ludwig,
vessata in Germania dall’acuirsi delle persecuzioni razziali e
vistasi negare il permesso di espatrio per raggiungere il figlio e la
nuora – in un atto di disperata protesta contro il Terzo Reich che
aveva disconosciuto il nome e il ricordo del suo defunto marito e
le aveva negato la possibilità di ricongiungersi con gli unici cari
rimasti – si suicida. Lo stesso Landsberg, fin dai primi tempi dell’esilio, portava costantemente con sé del veleno, deciso a farne
uso qualora fosse caduto nelle mani della Gestapo. Segnato profondamente dalla drammatica morte della madre, visse questa
grande sofferenza da solo in se stesso, con il pudore e la riservatezza che lo caratterizzavano. Nulla traspare di questo fondamentale evento della sua vita negli scritti del tempo. Il tormento del
suo cuore verrà alla luce soltanto alcuni anni dopo nell’ultimo
scritto, Il problema morale del suicidio, che in parte vuol essere
un’apologia della mamma.
Landsberg percepisce la sua vocazione del momento come
quella di un combattente impegnato contro quel nemico storico
che più volte aveva fatto irruzione violentemente nella sua vita e
in quella dei suoi cari, e che ora minacciava l’intero mondo.
Combattimento che si svolge su un duplice fronte: da un lato, cercando con i suoi scritti e l’attività di filosofo di mettere in guardia dai pericoli di una sottovalutazione di Hitler e dell’ideologia
fascista, richiamando tutti alla responsabilità di assumere decisioni coraggiose e di un impegno politico ineludibile per far fronte comune contro il pericolo incombente di cui non si avvertiva la
portata (come gli accordi di Monaco dimostrarono); dall’altro,
intessendo una fitta rete di relazioni e collegamenti con i fuoriusciti tedeschi, sia per creare strutture di solidarietà in aiuto ai casi
più bisognosi, sia per raccogliere informazioni sui piani di Hitler
e dei suoi uomini, onde prevedere le sue mosse e offrire materiale utile ai governanti occidentali per le loro decisioni. Infine, cer-
SAGGIO INTRODUTTIVO
165
cando forme d’integrazione franco-tedesca che potessero servire
da anticipazione per un’Europa diversa. La guerra che si preparava, Landsberg non la concepì mai come una guerra della
Germania contro altre nazioni, ma come una guerra di Hitler e di
Mussolini contro i loro stessi popoli (tedesco e italiano) e contro
quel residuo di memoria cristiana che costituiva un elemento
comune a tutti i popoli europei.
Nel luglio 1938 si tenne il secondo “Congresso di Esprit” di
Jouy-en-Josas, nel quale «il movimento Esprit aveva trattato a
fondo dei suoi rapporti con l’azione politica, affermando definitivamente la sua rottura con il suo antipoliticismo originario e la sua
adesione ad un impegno più diretto nei conflitti in corso»276. La
relazione introduttiva fu tenuta da Landsberg il 26 luglio. Si trattò
di una ripresa delle tematiche svolte nell’articolo sull’Impegno
personale, con un maggiore approfondimento delle implicazioni
politiche. La relazione, rivista dall’autore, fu pubblicata su Esprit
nel febbraio 1939, con titolo «Il senso dell’azione»277.
Punto di partenza per la comprensione del senso dell’azione è
la persona umana, essenzialmente corporeizzata e situata.
«Il compito principale di un filosofo personalista è di contribuire a
fornire alla persona umana un’adeguata coscienza di se stessa. Tale
coscienza implica una conoscenza generale dell’azione personale.
Non si tratta più di conoscere la misura del dovere di agire, ma di
caratterizzare attraverso i tratti più universali l’essenza dell’azione.
Non si tratta più del problema di essere e fare, che per la persona attiva si sostituisce al problema dell’essere e dell’avere; si tratta di una
descrizione della struttura generale del fare. Il nostro personalismo,
ispirato da una concezione cristiana dell’uomo, elaborato dapprima
da intellettuali di formazione più o meno cartesiana, rischia di divenire – malgrado il richiamo a Péguy – una nuova forma di spiritualismo dualista. Dobbiamo ben guardarci dal sostituire una qualunque
nozione ristretta della persona spirituale alla realtà dell’uomo integra-
M. Winock, Histoire politique de la revue “Esprit” (1930-1950), Paris 1996, 173.
P. L. Landsberg, «Le sens de l’action», in Esprit, févr. 1938; tr. it. infra 615-636.
278
Ibidem, cit. infra 623.
276
277
166
MARCO BUCARELLI
le. Mi piacerebbe che in tutti i “gruppi Esprit”, prima di discutere
sulla persona si riflettesse a lungo sulle parole di Maine de Biran:
“L’io non è la sostanza astratta che ha per attributo il pensiero, ma
l’individuo completo di cui il corpo è una parte costituente essenziale»278.
La necessità dell’azione è imposta all’essere corporeo che,
proprio per la sua corporeità, si trova a essere situato.
«Nota Gabriel Marcel nei suoi Aperçus phenomenologiques sur l’être en situation: “Abbiamo il diritto di sostenere che dal momento in
cui si è nell’ordine del vivente, essere situato vuol dire essere esposto a…”. […]. Noi, in realtà, siamo esposti a dei pericoli. L’impegno
e l’azione avvengono in uno stato di pericolo che appartiene alla condizione umana. Le azioni intense corrispondono alle minacce più
urgenti. La “categoria del minacciato”, di cui parla ancora Marcel, è
una categoria universale della vita umana, e il “vivere pericolosamente” di cui parla Nietzsche è una constatazione, prima ancora che
un’esortazione alla vita eroica»279.
La persona, l’io che compie un’azione, non è mai isolata tale
io è normalmente compreso in un noi. Questo fatto dischiude la
sfera dell’agire in rapporto alla comunità vivente di appartenenza: la politica.
«La persona umana nel suo hic et nunc partecipa dell’hic et nunc di
un mondo corporale, e coesiste in questo mondo con i suoi contemporanei, con i suoi vicini, con gli estranei, con gli avversari, ecc... La
coscienza politica è una coscienza del noi, del qui e dell’adesso a cui
apparteniamo. Nell’azione politica si tratta sempre della difesa di
una comunità concreta e della realizzazione delle possibilità dei
valori che essa contiene. Non esiste politica che sia il risultato di una
deduzione pura. [...] Colui che non si difende perisce, e con lui tutto
ciò che prometteva di realizzare»280.
279
280
Ibidem, cit. infra 623-624.
Ibidem, cit. infra 631.
SAGGIO INTRODUTTIVO
167
Politica, quindi, non solo come ricerca del bene comune. Tale
nozione rischia di cadere nell’astrattismo se non è accompagnata
dalla difesa pratica di una comunità concreta a cui si appartiene,
e dalla possibilità di permettere a questa comunità di esprimere
liberamente i valori che contiene. Politica come necessità di difesa della comunità di cui si è parte. Il bene comune non si può
cogliere se non muovendo dalla parte in cui si è inseriti.
Passando dalla considerazione della necessità dell’azione per
l’individuo, alla definizione di politica, Landsberg non può esimersi dal concludere il suo intervento calandolo nella situazione
a lui contemporanea; dal formulare giudizi storico-politici sull’attualità, evidenziando il carattere assolutamente non deduttivo
della politica che mai si potrà configurare come scienza nel senso
delle scienze naturali. Il politico accorto deve saper coniugare
osservazioni ed esperienze con l’analisi razionale della situazione: il fattore tempo è però decisivo; l’istinto e l’intuizione possono essere più importanti di un corretto ragionamento. L’esito dell’azione politica, essendo questa orientata ad un fine concreto e
reale, non è indifferente alla sua verità. Il problema, in politica,
non riguarda la bontà o meno delle intenzioni, ma l’efficacia
degli atti ordinati ad un fine.
«Se, ad esempio, la politica del non-intervento non ha avuto il risultato che i suoi promotori si ripromettevano, l’errore di previsione
deriva forse da un errore di valutazione sul conto degli avversari e
degli alleati con i quali si aveva a che fare. In particolare, chi credeva che dei governi fascisti potessero essere vincolati da trattati non
garantiti da una forza difensiva, ma allo stesso tempo risoluta e vigilante, dovrà dire: mai più! Ora egli conoscerà una realtà grazie all’esperienza di un’azione, all’esperienza di un fallimento che gli è
costato e forse gli costerà ancor più caro. Come dice Goethe: “I saggi
(Weisen) sono coloro che grazie all’errore si avvicinano alla verità. /
Gli sciocchi (Dummen) sono coloro che perseverano nell’errore”.
Questo è particolarmente vero nel campo dell’azione, soprattutto
dell’azione politica. In nessun altro ambito si pagano tanto cari i propri errori, in nessun’altra parte la perseveranza nell’errore ci porta
con altrettanta certezza alla sconfitta.
Condizione indispensabile dell’azione politica è una conoscenza dell’avversario che consenta di prevedere sufficientemente le sue rea-
168
MARCO BUCARELLI
zioni. Si comprende facilmente che un comportamento troppo logico diviene facilmente prevedibile. Al contrario, la forza pericolosa di
coloro che agiscono in politica seguendo gli impulsi del momento,
risiede in parte nell’impossibilità di calcolare in anticipo le loro
mosse. Per prevedere le loro azioni, è necessaria una particolare
intuizione che manca regolarmente alle loro vittime “ragionevoli”. È
spesso difficile non fidarsi dei propri ragionamenti, ed è sempre pericoloso dover giocare con dei pasticcioni. Talvolta la follia conosce le
debolezze della ragione meglio di quanto la ragione non conosca le
forze della follia. La ragione, al servizio dell’azione, non avrà mai il
tempo di prendere tutte le precauzioni che un metodo scientifico esigerebbe. Non saprebbe fare a meno dell’intuizione psicologica istantanea e del presentimento istintivo»281.
Nel luglio 1939, due mesi prima che Hitler invadesse la Polonia,
Landsberg approfondì ulteriormente, in occasione del terzo
“Congresso di Esprit”, le sue riflessioni di filosofia della politica,
esortando tutti a prendere iniziative per contrastare quel pericolo che
i governanti francesi non riuscivano ancora a cogliere nella sua reale
portata282. Prendendo le distanze tanto dall’«individualismo utilitarista» (pacifista a tutti i costi, ma per viltà e opportunismo) quanto dal
«collettivismo bellicista» (nemico dell’individuo), proponeva un
ideale di «pace positiva», in grado di garantire l’esplicazione della
vocazione di ciascuna persona in seno alla comunità, e implicante in
caso di minaccia il «diritto e dovere di resistenza». Il caso di minaccia era reale e concretissimo, quindi l’invito al dovere della responsabilità di dare inizio ad una guerra giusta e preventiva, non contro
la Germania, ma contro il suo oppressore. Il governo inglese, che
spinse la Francia ad accettare gli accordi di Monaco, fu considerato
da Landsberg oggettivamente complice di Hitler.
L’intervento si concludeva con un accorato appello a far presto e,
in particolare ai cristiani, ad abbandonare un quietismo falsamente
pacifista.
Ibidem, cit. infra 632-633.
L’intervento di Landsberg sarà pubblicato di lì a poco sulla rivista del movimento: «Réflexions pour une philosophie de la guerre et de la paix», in Esprit, oct.nov.-déc., 1939; tr. it. infra 647-672.
281
282
SAGGIO INTRODUTTIVO
169
«Le decisioni politiche più gravi dipendono da una situazione data, e
da un momento preciso. Dover agire significa sempre dover agire in
tempo. Qualche volta il ritardare, anche per poco, una decisione
necessaria, comporta la morte di una comunità. L’unanimità di un’opinione pubblica, per desiderabile che sia, non può essere la condizione preliminare di un’azione che salvi l’esistenza nazionale impegnandola nel rischio supremo in un momento definito di una lotta concreta. Non può esistere alcuno Stato se i cittadini non accettano in linea
di principio i diritti del governo responsabile di decidere della pace e
della guerra, e di esigere da ciascuno la partecipazione ad una guerra
divenuta inevitabile.[…]
Dal punto di vista cristiano si è generalmente pervenuti ad una dottrina analoga. Nessuno desidera la pace quanto il cristiano. Ma, in
primo luogo, si tratta per lui della pace positiva promessa agli uomini di buona volontà; in secondo luogo, la religione della pace fa comprendere allo stesso tempo il carattere tragico della storia. Siamo
impegnati in un dramma che ci supera. Non possiamo saltarne fuori.
Un certo pacifismo religioso è, in realtà, una sorta d’individualismo
moralista che si ribella contro le manifestazioni concrete della
Provvidenza e si spazientisce per la lentezza di questo mondo. Le
illusioni a-storiche nascondono la tragedia. Quest’atteggiamento non
è conforme alla verità. Dal punto di vista teologico, negare la storia
che comporta delle guerre necessarie equivale, mi pare, a negare il
peccato originale e le sue conseguenze»283.
Privato dal 1937 della cittadinanza tedesca, a seguito delle
leggi razziali e sugli oppositori politici, nel marzo 1939, insieme
alla moglie Magdalena, Landsberg ottenne quella francese. Dalla
fine del 1938 iniziò a frequentare anche la “Union FrancoAllemande” di Willi Münzenberg, e nel 1939 a collaborare alla
rivista Die Zukunft con articoli a carattere prevalentemente politico, il cui contenuto si riassumeva nella non-rassegnazione di
fronte al prevalere delle dittature e nella chiarificazione dei motivi di una mobilitazione attiva per la salvaguardia della democrazia. Nel gruppo dei collaboratori di Die Zukunft vedeva, al di là
dell’eterogenea provenienza politica, un denominatore comune:
283
Ibidem, cit. infra 670-671.
170
MARCO BUCARELLI
l’impegno per i valori della persona umana, per i suoi inalienabili diritti e per l’assoluta importanza della sua libertà ordinata
secondo diritto.
Motivo ricorrente dei suoi interventi sarà quello contro la
tirannia. Il tiranno, in quanto negatore dei principi di ogni convivenza umana, è il vero nemico di ogni popolo – a partire dal proprio, di cui si serve per i suoi fini – e in definitiva dell’umanità
intera. Non importa in nome di che cosa egli si giustifichi.
Sorprende come Landsberg, con un’onestà intellettuale straordinaria, non esiti ad accomunare la “tirannia” hitleriana con quella
staliniana, quando non erano note ai più le efferatezze del dittatore georgiano. E questo proprio quando la chiamata a raccolta
contro il pericolo più prossimo, il nazismo, avrebbe potuto far
stendere una cortina di provvisorio silenzio. Per di più questi
interventi apparvero su una rivista cui collaboravano molti
“comunisti”. Scrive Landsberg:
«La volontà russa di potenza può nascondersi dietro la classe
operaia di ogni paese altrettanto poco che la volontà di potenza
del nazionalsocialismo dietro la nazione tedesca»284.
E in un altro articolo, riferendo il pensiero di Nikolaj Berdjaev:
«Bisogna far vedere che una costruzione sociale secondo i principi dello stalinismo e del nazionalsocialismo è contraria alla libertà dell’uomo. I suoi metodi sono la violenza e il terrore. Tutti i
mezzi di cui si serve una tale costruzione, che esclude lo spirito,
sono in egual misura contrapposti alla morale cristiana e a quella
284
P. L. Landsberg, «Unter falscher Flagge», in Die Zukunft, 49 (8.12.1939) 4-5;
tr.it. «Sotto falsa bandiera», infra 715-716, cit. 716.
285
P. L. Landsberg, «Die Stimme eines freien Denkers», in Die Zukunft, 5
(2.2.1940) 5; tr. it.«La voce di un pensatore libero» infra 728.
286
Il programma prendeva in considerazione le figure più rappresentative della
filosofia di lingua tedesca dalla mistica tardomedievale alla dissoluzione dell’idealismo: Meister Eckhart, Wolff, Leibniz, Kant, Fichte, Schelling, Hegel, Schopenhauer,
Feuerbach, Marx, Nietzsche. Significativa è la presentazione del corso fornita da
Landsberg: avrebbe sviscerato in particolare il «problema della libertà dello spirito in
rapporto a Dio, al mondo e alla società» (cfr. Zeitschrift für freie deutsche Forschung
II [1/1939] 140).
287
Segnaliamo in particolare: «Husserl et l’idée de la philosophie», in Revue
SAGGIO INTRODUTTIVO
171
umanistica. Per tal motivo, tali vie non condurranno mai ad una
vita veramente nuova, che sia al servizio dell’uomo e di ciò che lo
rende tale»285.
16 L’ultima tentazione
L’impegno militante contro il pericolo nazista non esaurì l’attività di Landsberg nell’anteguerra. Nel primo semestre del 1939
tenne un corso alla “Freie deutsche Hochschule” di Parigi sul
tema: «Introduzione storica alla filosofia tedesca»286.
A questo periodo d’intensissima attività si devono alcuni scritti287 che prefigurano i programmi di ricerche e pubblicazioni a cui
avrebbe voluto dedicarsi organicamente, se lo scoppio della guerra e le conseguenti traversie personali non gliel’avessero impedito. In particolare, la volontà di riscrivere un’antropologia filosofica e un nuovo studio su sant’Agostino.
È anche un tempo nel quale Landsberg vive con profonda
angoscia interiore il dramma che già si manifestato (pensiamo
alla perdita della madre, a cui era profondamente legato) e ancor
più quello che stava preparandosi e della cui ineluttabilità era
razionalmente certo. Della sua angoscia per la guerra, come per
la propria condizione d’esiliato, abbiamo toccanti testimonianze
nel Diario da lui tenuto a partire dal momento dell’esilio fino ai
primi mesi del 1940. Vi traspare però, in maniera commovente,
anche la sua speranza di uomo e di cristiano; speranza che, seppur
fortemente provata, per un particolare dono, non gli venne mai
International de Philosophie 1 (1939) 317-325 (tr. it. infra 583-592); «Notes pour
une philosophie du mariage», in Esprit, avr. 1939 (tr. it. infra 573-582);
«Bemerkungen zur Erkenntnistheorie der Innerwelt», in Tijdschrift voor Philosophie
1 (1939) 363-376 (tr. it. infra 593-606 ); «La confession de saint Augustin», in La vie
spirituelle LX (1939), Supplément, 1-22 (la trad. italiana apparirà nel II vol. di questa edizione degli scritti di Landsberg).
288
Ampi stralci del Diario sono stati pubblicati da padre John Maria
Oesterreicher, in Walls are crumbling. Seven Jewish Philosophers discover Christ,
cit. Sfortunatamente non ci è ancora riuscito di reperire i manoscritti originali integrali, per cui siamo costretti a citare nelle pagine seguenti da questa traduzione inglese (229-237, 250-259).
289
J. Semprun, Adieu vive clarté…, cit., 268-269.
172
MARCO BUCARELLI
meno288. Ne riportiamo qui alcuni brani.
Sul suo stato di esule.
«La condizione di profugo è quella di un uomo che deve costantemente supplicare per avere qualcosa, talché il suo orgoglio ne è lentamente piegato. In questo caso non bisogna ricorrere all’autoinganno,
bensì attraversare questa prova senza perdere il rispetto di sé.
Trascorrere molte ore nei corridoi e negli uffici non è certo una gioia,
ma per una persona alla quale finora ogni cosa è stata offerta su di un
vassoio d’argento è una scuola di uguaglianza. Non è forse vero che
l’uomo che apprende questa lezione salva ciò che è giusto del suo
orgoglio? Vi sono due elementi nell’orgoglio: la sensazione, che
andrebbe abbandonata, che sia permesso essere sempre l’eccezione, e
la sensazione, che andrebbe preservata, della dignità di ogni uomo e
dunque della propria. Fintanto che non saremo capaci di apprendere
questo, senza saperlo saremo ancora fascisti».
Una nota su Hitler e sul carattere “metafisico” della guerra imminente.
«Hitler mostra tutte le caratteristiche dell’imbonitore. Le masse fondatamente avvertono in lui un potere di ordine metafisico e religioso,
poiché in lui è all’opera il diavolo e non sarà certo sufficiente una aufklärische Polemik per rovesciarlo».
Il 27 agosto 1939, pochi giorni prima dell’invasione della
Polonia, il diario di Landsberg, generalmente privo di data, riporta
questa sorta d’esame di coscienza.
«In questi giorni, davvero sinistri, non resta che rassegnarci a qualsiasi cosa si profili all’orizzonte. Tutti noi, indubbiamente, condividiamo
una parte della colpa per il modo in cui, tutto considerato, abbiamo
condotto le nostre vite, per i peccati accumulati e per le nostre spaventose omissioni. “Padre, ho peccato”, e tuttavia non abbiamo mai
voluto il male, né abbiamo mai scientemente falsificato i decreti di
Dio. Questa innocenza colpevole, questa colpa innocente, giace nuda
dinanzi a Lui. Imploriamo la Sua misericordia e che, insieme alla pace,
essa venga concessa agli uomini di buona volontà. Non sono consapevole di aver mai albergato in me sentimenti malevoli per il mio pros-
SAGGIO INTRODUTTIVO
173
simo, ma ciò, di per sé, costituisce forse buona volontà? Mi sembra
che la paralisi accidiosa e ostinata che coglie la nostra volontà non
appena si muove verso un vero bene, sia il vero vizio degli uomini
come me, e che, solo grazie alla Sua bontà, possiamo sperare di essere perdonati. Se dovesse visitarci la distruzione, non subiremmo alcuna ingiustizia, e tuttavia resta viva in noi la speranza nelle mani clementi che reggono ogni cosa. […]
Questa è la nostra posizione dinanzi a Dio. Oh, che questi tempi terribili possano servire a fare ammenda almeno per la nostra immeritata
felicità! Dopo tutto, chi conosce le leggi del grande equilibrio? Non
c’è dubbio che spesso ci siamo persi nei piaceri effimeri, abbiamo
ignorato crudelmente la miseria del nostro prossimo. La cosa più terribile è la paralisi della volontà, che io sento costantemente: questa
confusione tra teoria e pratica, che le priva del loro valore e del potere di convincimento. Quantunque perseguita con dignità e oggettiva
onestà, anche una giusta causa è viziata da una tediosità intrinseca e,
per così dire, da un’oggettiva disonestà presente in colui che ne è testimone, poiché l’oscurità presente in lui offusca comunque la luce della
verità. Indubbiamente, questo conflitto tra parole e fatti è, in un certo
senso, comune a tutti gli uomini. Colui che insegna la verità, essendo
umano, è sempre indegno della verità. Tuttavia, queste sono vuote
scuse. Qui non interessa la condizione universale, bensì la mia… e il
dato specifico, nel mio caso, è la debolezza della mia lotta per colmare questa lacuna, questa inerzia dell’anima, che è la mia colpa fondamentale».
L’afflizione di Landsberg per le proprie manchevolezze non era
senza speranza. Infatti, alcuni giorni dopo scrive: «…perché, se il
nostro cuore ci rimprovera, Dio è più grande del nostro cuore e sa
ogni cosa». Sul rapporto tra libertà, cieco destino e Provvidenza
annota:
«Che dietro il fato sia all’opera la Provvidenza; che la terrificante
oscurità di ciò che pare come fato scaturisca dalla misteriosa luce di
Dio, luce al di là di ogni luce; che questo crepuscolo esista solo nei
nostri occhi abbacinati, accecati dall’eccessiva luminosità: in questo
io credo. Tuttavia, una fede così dovrebbe condurre all’accettazione,
ed è far questo che trovo così duro: io credo in modo troppo astratto, ma la vera fede nella Provvidenza consiste nell’accettare le prove.
Nel ribellarci contro il nostro fato, dimostriamo di credere solo nel
174
MARCO BUCARELLI
“Dio dei filosofi”, che è alla nostra portata, facilmente comprensibile, e governa tutte le cose ragionevolmente. Una tale fede, però, contraddice in modo ovvio e grottesco la realtà di questo mondo, e quando le cose giungono ad un punto critico non può superare questa contraddizione. […] Se la fede nella Provvidenza divina fosse desumibile dallo stato del mondo, sarebbe ancora degna del nome di fede?
No!. Come per ogni vera fede, anche in questo caso occorre arrendersi ad un mistero: il vero scopo di ogni evento, e tutto ciò che lo
governa, sono interamente celati nel lento lavorio della divina
Provvidenza. Pertanto, è nostro dovere e privilegio credere, e soltanto credere, che in questo mistero si trovi la più grande unicità di giustizia e d’amore. Sebbene indegni, è nostro compito e privilegio confidare in quest’unicità. [..] Oggi, non esiste forza alcuna, salvo che nell’abbandonarsi al mistero della Provvidenza».
Accettazione cristiana non vuol dire quietismo. Landsberg si
domanda: «Perché noi, in quanto cristiani, siamo i più incondizionati oppositori di Hitler?». E risponde: «Perché Hitler è uno strumento
dell’Anticristo. Per noi questa non è affatto una metafora, né una
figura letteraria. L’Anticristo è presente e attivo ovunque Cristo sia
crocifisso; e Cristo è crocifisso ovunque un potere ingiusto perseguita l’innocente, anche l’ultimo degl’innocenti. Il cristiano non può
avere alcuna parte in ciò, deve essere vigile e fermo. […] Bisogna
scegliere: Cristo o Anticristo! Con chi ti sei schierato: a fianco del
massacratore o dell’agnello? Agnus Dei, Agnello di Dio che togli i
peccati del mondo, abbi pietà di me!». Dobbiamo piangere, ma dobbiamo anche tener testa alle ondate di falsità e d’ingiustizia.
«Nella tempesta di quest’età, ogni vita degna di essere vissuta perisce. Resistere il più possibile è l’unica cosa che ci è rimasta. Ma il
nostro problema interiore è come combinare un autentico dolore con
un’autentica resistenza. Il demonio, infatti, può vincerci o facendoci
intristire, ovvero indurendoci. Tuttavia, le nostre sole forze non
riusciranno mai a risolvere questo dilemma. Così, la necessità dell’assistenza divina viene appresa ad una dura scuola. Ma c’è mai
stata altra scuola se non la scuola del cielo?[…] Il destino
dell’Europeo di oggi è di affogare nel fango. Se rifiuta, viene chiamato guerrafondaio. […] Esistono vigliacchi che vorrebbero riservare l’unica e divina verità a Dio, in misura tale da renderla total-
SAGGIO INTRODUTTIVO
175
mente insignificante per l’uomo. Essi dimenticano il dovere di
approssimazione, che è parte del dovere primario di divenire Uomo.
Inutile affermare che Dio solo conosce la pura verità; ciò non potrà
mai giustificare la menzogna. Divenire come Dio è impossibile, ma
necessario; è il compito attraverso il quale l’uomo diviene Uomo. E
ciò che vale per la verità, vale anche per la giustizia».
Proprio negli anni in cui Landsberg approfondisce il senso della
storicità per un’adeguata comprensione dell’uomo e del significato
dell’impegno personale e dell’azione, delle sue responsabilità nei
confronti dello Stato, la mente e il cuore del filosofo si rivolgono
alla felicità: «Il destino universale dell’uomo è la beatitudine».
«Tutti noi dobbiamo certamente sperare nella beatitudine, e tuttavia
potremmo non raggiungerla, potremmo inseguire le illusioni. Senza
la grazia, l’uomo caduto cerca appagamento nelle creature. Il destino specifico dell’uomo è ad Deum, verso Dio. Lì si trova la sua reale
beatitudine».
La vera azione, che rende l’uomo artefice del futuro, non può
mai fare a meno della grazia, e molte delle annotazioni di
Landsberg si riferiscono alla stretta relazione tra queste due realtà.
«Nella libertà l’essenza dell’uomo si realizza, mentre la costrizione lo ostacola. La grazia è un potere che libera, il peccato è il suo
opposto». A proposito del vocativo Vuestra Merced (“Vostra
Grazia”), usato così spesso da santa Teresa d’Ávila nei suoi scritti,
egli commenta: «La grazia è l’attributo più elevato del sovrano, che
in virtù della sua libertà si solleva al di sopra della vita nell’ambito del gruppo. Nulla può superare la grazia». In un’altra occasione
scrive: «La felicità è un dono, è un essere benedetti, non per merito, ma liberamente. Sublime e gioioso aspetto della dottrina della
grazia! Così sant’Agostino, che non vuole che la sua felicità venga
da se stesso, e così pure santa Teresa».
La grazia è una forza discreta, ma reale, che permette stupore e
fiducia – i poteri del bambino – e consente di accostarsi con rispetto e semplicità al mistero. «Soltanto nel mistero siamo a nostro
agio», medita Landsberg la vigilia del Natale 1939, a guerra oramai
iniziata.
«Le luci dell’albero di Natale risplendono solo nel buio della notte
176
MARCO BUCARELLI
invernale. La stanza chiusa nella veglia del Natale è il luogo del mistero, dove, proprio come un bimbo, il nucleo più segreto della nostra
anima attende speranzoso. “Se non vi convertirete e diventerete come
bambini, non entrerete nel regno dei cieli”. Il mistero di quella grande
dimora originaria delle anime è l’intima consolazione grazie alla quale
gli uomini possono vivere. Ogni superficialità è sacrilegio…».
Il segno di una mente matura è quando riesce a conservare un
animo da bambino e la sua sete e il suo stupore dinanzi al mistero. «Niente convince di più circa la dignità e la verità del cristianesimo di un’approfondita conoscenza dei molti attacchi sferrati
contro di esso, da Celso a Rosenberg. Quale fiera delle stupidità,
quale frastuono di sofisti, e qua e là un bagliore terrificante di
fuoco infernale…». Ancorché giovane e attivo, Landsberg aveva
nostalgia della dimora finale dell’anima. Quando considera le
vite e gli scritti dei santi e come possono essere veramente compresi – ma soltanto da coloro che posseggono, per un dono, una
certa esperienza dell’efficacia della grazia, quindi una certa affinità con loro – egli improvvisamente esclama: «Portaci lontano,
o Signore, nella terra che solo l’occhio del nostro spirito può
vedere, la cui brezza soffia sull’arpa della nostra anima. Rendici
forti per poter attendere e comprendere la Tua grazia, e percorrere il sentiero che essa ci addita. Così sia».
Il Diario di Landsberg s’interrompe all’inizio del 1940. Era
cominciata la guerra e cominciava il suo calvario finale. Alcuni
mesi dopo gli accordi di Monaco – fine settembre 1938: «la capitolazione di Monaco», come Landsberg la definì – i rifugiati tedeschi in Francia sono invitati a moderare il loro zelo antifascista,
così da non creare ostacoli al tentativo di riappacificazione con
Hitler. Jorge Semprun ricorda una conversazione tra Landsberg,
Benjamin e altri rappresentanti dell’opposizione tedesca in
Francia, avvenuta al “Café Sélect”di Montparnasse.
«La discussione verte sull’assurdità della loro situazione. Fino alla
vigilia della dichiarazione di guerra sono sorvegliati, controllati, il
290
Lettera inedita messa a nostra disposizione, insieme alla restante “corrispon-
SAGGIO INTRODUTTIVO
177
loro antifascismo militante rischia di dispiacere alle autorità naziste,
con le quali, soprattutto dopo il viaggio a Parigi di Ribbentrop, la
Francia teneva ad avere buone relazioni. [..] Il diritto d’asilo, secondo le autorità francesi, non dava loro la facoltà di intervenire nella
politica del paese d’accoglienza: ed eccoli divenuti, dall’oggi al
domani dei fuorusciti da un paese nemico col quale si stava tentando
una riappacificazione, e quindi dei nemici virtuali»289.
La confusione politica regna sovrana in Francia. Alcuni esuli
tedeschi vengono confinati; Landsberg si salva una prima volta
per l’intervento di Mounier. Anzi, dal settembre del 1939, inizio
formale della seconda guerra mondiale, benché la propaganda
fosse profondamente estranea alla sua natura, si mette a disposizione del governo francese e insieme alla moglie lavora alle emissioni radiofoniche che il Ministero dell’informazione predisponeva quotidianamente per la Germania.
Nel maggio 1940, nel pieno della travolgente avanzata della
Wehrmacht nei Paesi Bassi, con una decisione che denota lo stato
di panico e di confusione totale del governo francese, si decide
l’internamento in campi di prigionia di tutti i cittadini d’origine
tedesca, ritenuti potenziali spie di Hitler. A questa sorte non sfuggono Paul Ludwig e la moglie Magdalena. Questa viene internata a Gurs, nei pressi di Pau sotto i Pirenei; il marito, a cui è revocata la cittadinanza francese, viene relegato, come cittadino tedesco, in un campo della Bretagna. Il 17 giugno, proprio nel
momento in cui le truppe tedesche stanno per impossessarsi di
questo campo di prigionia, grazie all’aiuto del prefetto di polizia
francese – che gli fornisce anche un documento d’identità falso
intestato a “Paul Richert, alsaziano, di professione medico” –
Landsberg riesce a fuggire in modo rocambolesco, scavalcando
con altri compagni il muro di cinta. Attraversa in bicicletta la
zona occupata, cercando di ritrovare i suoi amici e la moglie di
cui non aveva più notizie. A Parigi riceve l’invito dall’amico José
Bergamín di trasferirsi in Messico, dove il letterato spagnolo
viveva già da qualche anno e vi aveva fondato una casa editrice e
la rivista España Peregrina; anche Horkheimer e Maritain, attraverso il console statunitense, gli fanno pervenire lettere d’invito e
persino un contratto d’insegnamento universitario per gli Stati
Uniti. Dal console riceve immediatamente i visti di espatrio, ma
178
MARCO BUCARELLI
egli non intende andarsene senza la moglie; la cerca inutilmente
a Parigi e poi, muovendosi con una bicicletta e sempre sotto falsa
identità, per due mesi nella zona occupata, aiutato dalla resistenza clandestina. Anche Magdalena, dal suo campo di prigionia, è
in attesa di notizie del marito; possediamo una lettera inviata a
Wahl poco dopo il proprio internamento (4 giugno 1940).
«Voi sicuramente non potete immaginare come il campo rifletta tutta
l’atrocità di questa guerra, di migliaia di donne di tutte le razze,
donne e madri di legionari… bigame, tutte insieme. Il piazzale è
sotto un sole implacabile, senza alberi, dei piccoli tra le braccia delle
loro madri cercano l’ombra introvabile. […] Non ho alcuna notizia
di mio marito. Se voi sapete dove egli è, vi prego di inviarmi il suo
indirizzo. [..] Se la nostra famiglia francese non mi vorrà più, io
vivrò per la prima volta veramente come un’esiliata…»290.
Paul Ludwig, passato dopo l’armistizio del mese di luglio
nella cosiddetta “zona libera”, rimane per qualche settimana
ospite di Jean Lacroix a Lione. Riuscito dopo lunghe ricerche ad
avere notizie della moglie, la raggiunge dopo varie peripezie a
Pau, dove però la trova gravemente malata (caduta in uno stato
di forte depressione fisica e psichica era stata ricoverata in un
sanatorio), e nella assoluta impossibilità di seguirlo all’estero.
La decisione di rimanere in Francia accanto alla moglie malata,
nonostante i gravi rischi, fu senza tentennamenti. Mounier ci
racconta di mesi di vita «reclusa e militante» in cui Landsberg
collaborava anche attivamente al servizio di informazione del
gruppo di resistenti di Combat.
denza Landsberg/Wahl”, da Mme Béatrice Wahl, figlia di Jean Wahl; tr. it. infra 796.
291
Cfr. lettera di Mounier a Landsberg del 12 nov. 1940; tr. it. infra 777-778.
292
Anche W. Benjamin, al pari di Paul Ludwig, ai primi attacchi dei tedeschi alla
Francia fu deportato dai francesi nel campo di prigionia di Nevers. Rilasciato grazie
ad un intervento dall’America di Horkheimer e Pollock, e si diresse verso il confine
con la Spagna intenzionato, sia pure di malavoglia, a emigrare negli Stati Uniti.
Bloccato dalla guardia di frontiera spagnola, terrorizzato dalla prospettiva di essere
respinto e quindi cadere nelle mani della Gestapo, ingerì il veleno che portava con sé.
Morì dopo lunga agonia a Port Bou il 30 settembre 1940. Cfr. Arthur Koestler, The
invisible writing, London 1954, 512-513.
293
Di questa attrazione per l suicidio abbiamo una testimonianza diretta di
SAGGIO INTRODUTTIVO
179
Tutto il 1940, costituisce un vero periodo di “prova” per
Landsberg: il tradimento della nuova patria francese; la vita da
fuggiasco; il quotidiano rischio di essere arrestato; la ricerca angosciata della moglie e infine il ritrovamento di una persona “sfigurata” dalla malattia (che talvolta sembra quasi non riconoscerlo); il
senso d’abbandono assoluto e il cedimento di alcuni amici (per un
breve tempo dello stesso Mounier)291; la deportazione o la morte di
altri, come Willi Münzenberg assassinato a Parigi. La speranza e
la fede di Landsberg vacillano. Quando viene a sapere del suicidio
di Walter Benjamin, la cui sorte per tanti versi era stata simile alla
sua292, prova anch’egli un’acuta tentazione di compiere il medesimo gesto (come del resto aveva fatto sua madre tre anni prima)293.
«A Pau l’idea del suicidio continuava a tentarlo […] egli si teneva
costantemente pronto in caso di necessità»294. Ma col trascorrere
dei mesi qualcosa di nuovo accadde.
«Nell’estate del 1942 mi scrisse addirittura: “Ho incontrato Gesù
Cristo, mi si è rivelato”. È comunque certo che distrusse il veleno che
teneva sempre con sé, e al momento del suo arresto accettò pienamente di non disporre egli stesso della propria vita»295.
«Non dimenticherò mai la mia vecchia bambinaia che mi insegnò
a pregare», scriveva nel suo Diario nel 1940. Attraverso una preghiera costante e accorata, la dedizione alla moglie malata e il conforto che Mounier gli trasmetteva con le sue lettere, riprese poco alla
volta sopravvento in lui la speranza: la Speranza, la seconda virtù
teologale di cui Péguy – il poeta francese tanto amato da Landsberg
– diceva essere la più piccola e fragile; la virtù bambina, la più sorprendente anche agli occhi di Dio. Le sue preghiere furono esaudite: la moglie lentamente guarì, egli riprese a scrivere con lena, a collaborare attivamente con i gruppi della Resistenza. Decisiva a que-
Lacroix, che lo ebbe ospite nella sua casa di Lione nell’estate del 1940. Cfr. J.
Lacroix, «Prefazione» a P. L. Landsberg, Essai sur l’expérience de la mort, cit.
294
Ibidem.
295
Ibidem.
296
Cfr. J. M. Oesterreicher, Walls are crumbling. Seven Jewish Philosophers discover Christ, cit., 257-258.
297
Ibidem, 257.
180
MARCO BUCARELLI
sto riguardo la testimonianza di Magdalena, raccolta da
Oesterreicher. Secondo la moglie, in Paul Ludwig, alla fine del
1941, poco prima del suo definitivo arresto – in considerazione della
modalità inusuale che lo portò ad essere battezzato da neonato – battute le ultime resistenze ad accettare di essere anche giuridicamente
cattolico, ardeva il desiderio di ricevere di nuovo il battesimo sub
condicione, farsi cresimare e celebrare secondo il rito della Chiesa
cattolica il sacramento del matrimonio. Magdalena e Paul Ludwig
avevano già anche scelto il luogo e i celebranti: l’abbazia benedettina di Hautecombe e gli amici padre Gaston Fessard e Romano
Guardini.296
Come abbiamo già osservato, Landsberg si sentì sempre attratto
dalla Chiesa cattolica; lo affascinavano alcune grandi figure di santi
quali Agostino, Tommaso d’Aquino, Francesco d’Assisi,
Caterina da Siena e Teresa d’Ávila; e personaggi come Péguy. Di
fronte all’ortodossia del suo pensiero i suoi amici spesso rimanevano sbalorditi nell’apprendere che Landsberg non era cattolico297. Sin da ragazzo era stato colpito dalla bellezza della liturgia
cattolica e frequentava regolarmente la santa messa nelle chiese
cattoliche. Sempre secondo le testimonianze raccolte da
Oesterreicher, nel 1938, mentre soggiornava in un piccolo villaggio della Savoia, ogni domenica si univa alla gente del posto per
cantare il Kyrie e il Gloria, il Credo, il Sanctus e l’Agnus Dei. Il
latino della liturgia era come la sua madrelingua spirituale.
Annotava nel diario: «Il latino, lingua del “consiglio imperioso”,
della preghiera che colpisce la nostra volontà più intima e il
nostro autentico bisogno»298. Tuttavia, sebbene la sua mente e il
suo cuore fossero già nella Chiesa, la sua volontà ne rimase fuori
per moltissimo tempo, come paralizzata (“paralisi della volontà”,
tema ricorrente nelle pagine del Diario). Nel 1935, dopo una visita di mons. Wilhelm Neuss, storico della Chiesa e suo ex collega
all’Università di Bonn, egli annota: «Oggi a mezzogiorno è partito Neuss. Un po’ di malinconia. Quando mi salutano questi cari
amici sono tristi, soprattutto perché si rendono conto che le loro
Ibidem, 256
Ibidem
300
Ibidem, 258
301
J. Lacroix, «Prefazione» a P. L. Landsberg, loc. cit.
298
299
SAGGIO INTRODUTTIVO
181
preghiere non sono ancora esaudite»299.
Le poche volte che, negli anni ’30, gli si chiedeva perché non
fosse anche formalmente un cattolico, Landsberg rispondeva che
lo sarebbe diventato, ma che anche la Chiesa doveva essere più
protesa a divenire se stessa ovvero “cattolica”. Analogamente a
che per l’essere umano, applicava anche alla Chiesa il concetto
del Werdesein: “essere-divenire”. La moglie Magdalena riferisce
che egli, fino alla fine degli anni ’30, vedeva la propria vita spirituale sotto il punto di vista del Werdesein in rapporto alla
Chiesa: «si diceva en route verso di essa, in cammino verso questa grande unione della fede e dell’amore»300.
Una testimonianza di Lacroix, mette luce quelle che potevano
essere state fino al 1940 le sue ultime resistenze per la sua definitiva adesione alla comunione piena con la Chiesa cattolica, che maturò proprio durante la prova più dolorosa e la tentazione più forte.
«Egli stesso si diceva cattolico. Ciò nonostante, nelle lunghe conversazioni filosofiche e politiche che avemmo all’inizio dell’inverno
1940, mi ha spesso detto che, senza sentirsi per questo separato dal
cattolicesimo, era in disaccordo con esso su due punti importanti:
quello della morale familiare, a riguardo della quale trovava la posizione della Chiesa di un eccessivo giuridicismo, e quello del suicidio,
che non credeva di poter condannare in modo assoluto»301.
Dei momenti in cui nell’animo di Landsberg s’intrecciavano
tentazioni disperate e preghiera, e gradualmente si compiva la sua
definitiva e totale adesione al cattolicesimo, abbiamo testimonianza in alcune poesie scritte all’inizio del 1941 (in particolare quella
intitolata «A Cristo»); con «Nachher» («Dopo»), dedicata alla
moglie nella primavera del 1941, finalmente il suo cuore si può
sciogliere in un canto di ringraziamento e la speranza della pace si
trasforma nella pace della speranza302.
Ad un tratto ti son rese, nuove, tutte le ore.
La vita vissuta, perduta, è passata,
302
Alcune poesie di questo periodo di clandestinità sono state pubblicate postume
come «Poèmes spirituels» su Esprit nel 1952; tr. it. infra 747-750.
303
Cfr. J. Lacroix, «Prefazione» a P. L. Landsberg, loc. cit.
182
MARCO BUCARELLI
ecco su di te il lampo dei suoi raggi unici.
Ciò che fuggiva è là per sempre.
Tu ti lasci scivolare fuori dal tempo che fluisce,
la sabbia sconvolta è scomparsa.
Ogni maschera e voluttà, ogni ferita,
reale e profonda, tutto si è dissolto nel vento.
Ciò che nel segreto ti spingeva avanti
mette ora il sigillo su te.
Imponente rumore, pace fortissima,
vita più che vita, riposo infinito.
Tra gli scritti filosofici del periodo di Pau si segnala un
Machiavelli, nel quale Landsberg propone una lettura dell’opera
politica del “segretario fiorentino” in continuità col pensiero politico agostiniano. Per l’importanza che egli attribuiva a questo
lavoro, mettendo in conto di poter essere catturato, lo inviò a tre
diverse persone; purtroppo, sino ad oggi, i manoscritti non sono
stati rinvenuti303.
L’ultimo scritto di Landsberg che ci è pervenuto, «Il problema
morale del suicidio», fu redatto nell’estate del 1942304. Questo
breve saggio, dai forti accenti autobiografici, può considerarsi il
suo testamento intellettuale e spirituale, testimonianza di una novità di pensiero, esito di una novità di vita: L’esperienza di fede cristiana ivi descritta è la sua, e non quella di sant’Agostino o di altri
mistici cristiani.
Lo scritto prende le mosse dall’osservazione della peculiare e
assoluta interdizione cristiana nei confronti del suicidio: una posizione nettamente in contrasto con la generale indulgenza, quando
non addirittura favore, accorda dalla quasi totalità delle altre religioni, filosofie, culture. Ben lontana dall’essere “contro natura”, la tentazione della morte volontaria si rivela immanente alla natura umana.
304
Pubbl. postumo da J. Lacroix: P. L. Landsberg, Le problème moral du suicide,
in Esprit, 1946; tr. it. infra 751-775.
305
Ibidem, cit. infra 752.
306
Ibidem, cit. infra 752.
SAGGIO INTRODUTTIVO
183
«Da un punto di vista filosofico, c’è un problema morale dovunque ci
sia una tentazione immanente alla natura umana. Basterebbe forse constatare il fatto che il suicidio esiste in tutti i popoli e in tutte le epoche,
anche presso i pretesi “primitivi”, per provare che esso costituisce una
tentazione abbastanza generale degli uomini. […] Ma soprattutto, basta
aver vissuto e conoscere un poco il cuore umano, per sapere che l’uomo può fare sua l’idea della morte. Non è vero che l’uomo ami la vita
incondizionatamente e sempre»305.
Considerando il suicidio come peccato, il cristianesimo lo concepisce come un peccato luciferino e non come una banale vigliaccheria. Eppure
«la mera e semplice constatazione del comandamento divino non basta
da sola, quando l’umanità deve rispondere ad una delle sue tentazioni
specifiche e, per così dire, essenziali. È necessario che l’uomo vi
risponda con tutto il suo essere, con la pienezza della sua esistenza,
con l’azione, col cuore e anche col pensiero»306.
Landsberg passa in rassegna i principali argomenti della dottrina cristiana contro il suicidio: in particolare esamina le motivazioni addotte da sant’Agostino nel primo libro del De civitate
Dei e quelle di san Tommaso nella Summa Theologica307. Tali
argomenti non rispondono pienamente a questo problema dal
punto di vista esistenziale. Ad un uomo che in situazioni drammatiche preferisce darsi la morte piuttosto che continuare a vivere, la filosofia, anche la più alta filosofia cristiana, non può venire in aiuto: in fondo è astratta come la pura e semplice ripetizione del comandamento divino.
«Ho discusso alcuni argomenti tradizionali, non tanto per fare della storia, quanto per far avvertire l’enorme complessità e difficoltà del nostro
problema. Al riguardo mi è appunto successo di consultare, con molta
fiducia, i dottori del passato e di non trovare in loro una risposta total307
Tommaso d’Aquino, Summa theol. II-II, q. 64, art. 5, spec. «Respondeo dicendum quod se ipsum occidere est omnino illicitum triplici ratione».
308
P. L. Landsberg, Le problème moral du suicide, cit. infra 766.
309
Ibidem, cit. infra 766.
184
MARCO BUCARELLI
mente convincente. Dico però che questo mi capita molto raramente. E
così non ho criticato per il piacere di criticare questo o quell’argomento, ma per una ragione infinitamente più seria. “Soltanto nella misura
in cui simpatizziamo possiamo parlare convenientemente di una cosa”:
così dice Goethe nel Werther proprio riguardo al suicidio»308.
Soltanto se si simpatizza, se si è coinvolti in una situazione a
livello della propria persona si può parlare con rispetto e convenientemente. Di certo Landsberg è abilitato a farlo in forza della
propria esperienza.
«Provate a immaginare un uomo che senta molto intensamente la
tentazione del suicidio. Immaginatevi che perda la sua famiglia, che
disperi della società nella quale deve vivere, che sia privato di ogni
speranza da numerose e crudeli sofferenze. Il suo presente è terribile, il suo futuro è buio e minaccioso. Se gli dite che deve vivere per
obbedire al comandamento, per non peccare contro l’amore di se
stesso, per compiere il proprio dovere verso la società e la famiglia,
e infine anche per non risolvere da sé una questione la cui soluzione dipende da Dio, vi domando: credete che questo possa convincere il nostro uomo nella situazione di sofferenza e di miseria in cui si
trova? Non esito un istante a dire “no”! Egli troverà questi argomenti sia ridicoli che dubbi. Può essere trattenuto dal suicidio per
difficoltà tecniche, per debolezza di volontà e vigliaccheria, per un
certo istinto di vita oppure, e ciò accade spesso, per la fede implicita nella proibizione divina, o infine per paura dell’inferno. Ma gli
argomenti tradizionali saranno molto probabilmente inefficaci»309.
C’è bisogno di qualcosa d’altro che non la ripetizione di
verità filosofiche o di precetti per vincere la tentazione ultima
del gesto più disperato della speranza esistenziale corrotta dal
dolore e dalla sofferenza e tentata dal peccato più luciferino,
dall’ultimo voler far da sé. Per vincere tale estrema tentazione
c’è bisogno di un’attrattiva più grande, di una sorta di entusiasmo che risorga da una bellezza vicina che si può seguire, che
310
311
Ibidem, cit. infra 769.
Ibidem, cit. infra 768.
SAGGIO INTRODUTTIVO
185
può far compagnia anche nelle situazioni limite più dolorose e
drammatiche.
«Pertanto ciò che occorre non sono argomenti astratti, ma piuttosto
un esempio. Al riguardo credo ce ne sia uno veramente magnifico e
validissimo. […] Quello di Gesù Cristo. Per comprendere perché il
cristianesimo si oppone al suicidio, bisogna ricordarsi l’aspetto fondamentale della vita cristiana, che in tutte le sue forme è un tentativo di seguire Gesù Cristo.[…]
Non ci resta che l’esempio di Cristo e di quanti tra gli uomini hanno
saputo seguire quest’esempio, provando che non occorreva essere
un Dio per farlo, ma solamente ottenere la grazia divina, la quale ci
è ugualmente promessa»310.
È opinione di Landsberg che, lungi dall’appartenere ad una presunta legge naturale, il divieto assoluto del suicidio si giustifica e
si comprende solamente quando lo si riferisce allo scandalo e al
paradosso della croce, che da simbolo e strumento della più orribile morte e tortura è divenuta in Cristo segno glorioso di vittoria.
«Il rifiuto del suicidio non ha proprio nulla di naturale in certe circostanze. Preferire il martirio al suicidio è un paradosso caratteristico
del cristiano. Nell’atteggiamento dei martiri proprio questo fatto
doveva scioccare nella maniera più profonda i filosofi pagani. I martiri erano persone che rifiutavano il suicidio non per un vile attaccamento alla vita, ma perché trovavano una strana beatitudine nel seguire l’esempio di Gesù Cristo e nel soffrire per lui e come lui»311 .
Sviluppando un puntuale confronto tra la posizione degli stoici
e dei cristiani, tra il suicidio del filosofo stoico e il martirio del più
semplice dei fedeli, Landsberg arriva a considerare come assolutamente opposte la morale stoica (a forma più nobile sviluppata dall’uomo) e l’esperienza del più umile dei cristiani. Una è la morale
dei grandi animi che coscienti della loro dignità sfidano il fato, l’altra è l’obbedienza e la sequela umile di chi è cosciente di non essere nulla, mentre Cristo è tutto. L’una è la morale del dominio e della
312
313
Ibidem, cit. infra 769.
Ibidem, cit. infra 768.
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MARCO BUCARELLI
sfida, l’altra è la morale dell’accettazione e dell’attrattiva. «Niente
è così nemico e opposto al cristianesimo quanto ciò che sembra
somigliargli»312.
I martiri, ovvero i testimoni della verità del cristianesimo.
«Essi non dimostrano una qualsiasi verità teorica, ma insegnano con il
loro esempio che è possibile vivere e morire con spirito cristiano. La
cosa importante non è che siano morti, ma lo spettacolo del loro morire. Essi testimoniano appunto che la grazia può far sì che l’uomo imiti
Cristo nel suo atteggiamento, per nulla naturale, verso la sofferenza e
la morte. La beatitudine che provano nella sofferenza, e in una certa
misura attraverso la sofferenza, supera l’eroismo freddo degli antichi.
L’immensa maggioranza dell’umanità è moralmente inferiore agli
stoici. Il cristiano martire è superiore. […] Il santo non è una specie di
super-eroe specificamente cristiano. L’argomento [razionale della teologia cattolica] si realizza essenzialmente soltanto nella sua esistenza.
Egli soltanto per la grazia di Gesù Cristo mostra che l’uomo può vivere la sofferenza scoprendo un senso trascendente nel profondo di sé»313.
All’uomo che soffre e che subisce, o che come lui stesso ha
subito la tentazione del suicidio, Landsberg si sente di dire:
«Ricordati quello che hanno sofferto Gesù e i martiri. Porta la croce,
come loro. Non smetterai di soffrire, ma la croce della sofferenza
diverrà dolce per te grazie ad una forza sconosciuta che proviene dal
centro dell’amore divino. Non devi ucciderti, perché non devi gettare
la tua croce. Ne hai bisogno. Chiedi intanto alla tua coscienza se sei
veramente innocente. Scoprirai che, se sei forse innocente di una cosa
che tutti ti rimproverano, sei però colpevole in mille altri modi. Sei un
peccatore. Se Cristo, che era innocente, ha sofferto per gli altri e, come
dice Pascal, ha versato anche per te una goccia del suo sangue, proprio
tu che sei un peccatore avresti il diritto di rifiutare la sofferenza? […]
Chi le si rivolta contro in realtà si rivolta contro il senso stesso della
propria vita. Indubbiamente non c’è giustizia in questo mondo.
Persone mostruose hanno molto successo e nessuno soffre più dei
314
315
Ibidem, cit. infra 770.
E. Mounier, «Paul-Louis Landsberg», in Esprit, juin 1946, 155.
SAGGIO INTRODUTTIVO
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santi. Giungiamo al mistero dell’iniquità, che è appunto legato al
mistero per il quale il senso della vita si realizza per il cristiano nella
sofferenza e attraverso la sofferenza. L’uomo, dicevamo, è un essere
che può uccidersi e che non deve farlo. Quest’affermazione acquista
ora un senso più preciso. Esiste la tentazione e anche il rifiuto. Quando
quest’ultimo è autenticamente cristiano, esprime un atto d’amore
verso Dio e verso la sofferenza, non in quanto sofferenza – ciò è
impossibile: l’algofilia è patologica, Cristo stesso ha esitato davanti
all’ultima sofferenza e ha pregato Dio di risparmiargliela – ma in
quanto rimedio voluto da Dio»314.
Come per Gesù, Dio non volle risparmiare l’ultima prova a
Landsberg. La sua identità, a molti già nota nel 1941, era miracolosamente rimasta nascosta agli occupanti. Nel maggio 1943
accadde l’irreparabile. Sua moglie si era ormai ristabilita e la
loro permanenza in Francia rischiava di mettere a repentaglio la
vita di chi li proteggeva; benché a malincuore Paul Ludwig decise finalmente di utilizzare i documenti di viaggio per gli Stati
Uniti. Alcuni giorni prima della partenza, «avvisato di un sopralluogo della Gestapo, risolse di prendere l’ultimo treno della sera,
ma troppo tardi. Commise l’imprudenza di dormire nel suo
hotel. Quando uscì per prendere il primo treno del mattino
seguente, il suo destino lo attendeva alla porta»315. Fu arrestato
all’alba del 23 febbraio 1943 come alsaziano sospettato di attività sovversive antinaziste, e nemmeno in seguito la sua identità fu scoperta. Internato successivamente in varie località (Pau,
Drancy, Bordeaux, Lione e Compiègne), nell’autunno fu avviato al campo di concentramento di Oranienburg-Sachsenhausen
presso Berlino, dove morì – sfinito dalle le sofferenze patite,
dalla tubercolosi e dalla fame – il 2 aprile 1944. Il luogo della
sepoltura non fu mai rinvenuto. Una lapide commemorativa fu
posta nel cimitero di Bonn-Poppelsdorf nel 1948.
Degli ultimi giorni di Landsberg nel campo di concentramento abbiamo varie testimonianze, una parte delle quali rac316
In particolare quelle di André Ribard (parzialmente pubblicate in Introduction
à la vie publique, Paris 1948, 222) e del dott. Anton Hilckmann.
317
E. Mounier, «Paul-Louis Landsberg», loc. cit.
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MARCO BUCARELLI
colte da Mounier, Lacroix e Klossowski, altre di compagni di
prigionia316.
Dalle testimonianze dirette emerge come Landsberg affrontò
la prova finale con consapevole umiltà e con coraggio cristiano.
Nel tristemente noto lager di Oranienburg-Sachsenhausen egli
divenne una sorgente di forza d’animo. «Jamais il ne douta»,
scrisse Mounier, avendo ascoltato i superstiti del campo: mai
dubitò mai, non perse la speranza.
Il fatto che la sua vera identità non fosse stata scoperta (per
la Gestapo egli restava Paul Richert) aveva lasciato ben sperare
per la sua salvezza, come ebbe in seguito a confessare Mounier.
Non lo si sarebbe certo cercato dove era prigioniero. La realtà
doveva rivelarsi alquanto più crudele.
«Non sapevamo ancora che cos’erano i campi. Ho visto a lungo uno
dei suoi compagni sopravvissuti. Ne parlava, lui, semplice militante, con un’ammirazione intatta. Landsberg era riuscito a riunire
intorno a sé amicizie tali da poter confidar loro il suo vero nome.
Egli fortificava, attorno a sé, le energie. Non dubitò mai. Ciò nonostante la vita fu più dura per lui che per altri. Quel corpo da gigante era sommamente impacciato e maldestro, incapace, nonostante i
tentativi, di disbrigarsi nei lavori manuali e di adattarsi a quelle disumane condizioni di vita. Inoltre non sapeva fingere: di lavorare,
quando per affetto i suoi compagni si sostituivano a lui cercando di
preservarlo dalle fatiche dei lavori massacranti e insostenibili; di
sottomettersi, quando, di fronte alle inumanità contro di lui e i suoi
compagni, si ribellava. Fu percosso, sottoposto a vessazioni, sbattuto da un reparto all’altro: le condizioni peggiori per resistere fisicamente come resisteva moralmente»317.
Un compagno sopravvissuto afferma: «Non abbandonò neanche per un momento la determinazione, la bontà e la fede, finché
morì di inedia»318. Un’ulteriore testimonianza è quella di André
318
Cfr. P. Klossowski, Introduzione» a P. L. Landsberg, «Les sens spirituels dans
saint Augustin», in Dieu Vivant 11 (1948) 83), dov’è riportata una testimonianza del
dr. Hilckmann.
319
Citato da J. Lacroix nella sua «Prefazione» a P. L. Landsberg, Essai sur l’expérience de la mort, loc. cit.
320
E. Mounier, «Paul-Louis Landsberg», loc. cit.
SAGGIO INTRODUTTIVO
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Ribard, che nella sua Introduzione alla vita pubblica scrive:
«Penso a Paul Landsberg, di cui non ho conosciuto l’identità che più
tardi: questo professore così smagrito – spesso avvolto nei suoi pensieri e quasi trasognante, così provato dall’estenuante tensione nervosa della nostra vita - mi aveva attirato. Un giorno, per incoraggiarmi mentre ero vinto dallo scetticismo mi disse: ogni conoscenza è credenza, e la credenza esige un al di là di se stessa»319.
Sentendo approssimarsi la morte, desiderava ricevere il
“santo viatico” – ricorda ancora Anton Hilkmann –, ma questo
suo desiderio non fu possibile esaudirlo.
«Un giorno lo condussero all’infermeria in uno stato di magrezza e
debolezza spaventose. Nessuno lo ha più visto. Nell’accomiatarsi
dai suoi ultimi compagni, i testimoni ricordano, si rivolse verso di
loro e in silenzio – non aveva più la forza di parlare – fece un segno
di croce sui rimanenti»320.
Quel giorno era il 2 aprile 1944, domenica delle Palme, l’inizio della Settimana santa.
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