LA TUTELA RISARCITORIA DEGLI INTERESSI LEGITTIMI TRA ILLECITO AQUILIANO E RESPONSABILITÀ «CONTRATTUALE» di Antonio Albanese La questione relativa al risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi riveste importanza per il diritto civile non soltanto per il contributo che questo è chiamato a dare nella soluzione del problema specifico, ma anche per gli stimoli e gli spunti che il civilista ne trae con riguardo a temi che assumono rilevanza generale nell'ambito della responsabilità civile. Il primo di questi aspetti attiene senz'altro al modo di intendere il danno ingiusto come elemento costitutivo della fattispecie di responsabilità prevista dall'art. 2043 c.c.. È’ noto il dibattito che sul punto ha visto confrontarsi dottrina e giurisprudenza e che la Cassazione ha riaperto nella sentenza n. 500 del 1999, quando ha riconosciuto nella lesione d’interessi legittimi un danno ingiusto fonte di responsabilità extracontrattuale della pubblica amministrazione. A tal fine, infatti, la Suprema Corte ha dovuto affrontare la questione relativa al modo di intendere il danno ingiusto Una prima affermazione dei giudici di legittimità che merita di essere esaminata è quella secondo cui per ritenere ingiusto il danno è sufficiente che esso sia arrecato "non iure", ossia in violazione di una norma di legge, mentre non è necessario che sia "contra ius", ossia lesivo di un diritto soggettivo. Alla base di tale affermazione c’è però un equivoco terminologico, che nasce dall'idea che la formula contra ius, tradotta alla lettera, si riferisca esclusivamente alla lesione di un diritto soggettivo (ius), con esclusione quindi dell'interesse legittimo, che evidentemente non è un diritto. Ma in dottrina era chiaro che tale formula dovesse essere intesa in senso più ampio come lesione non solo di un diritto, ma anche di altre situazioni giuridiche soggettive tutelate dall'ordinamento. Non si trattava quindi di contestare che ingiusto fosse solo il danno contra ius, ma di chiarire il significato di questa espressione, se cioè in essa si doveva ricomprendere anche la lesione di interessi legittimi. Ma l'equivoco terminologico ha determinato un errore sostanziale. Abbandonata la formula del danno contra ius, la Cassazione ha ritenuto invece necessario che si fosse cagionato "non iure". La Suprema Corte ha così ritenuto che l’ingiustizia del danno fosse legata non alla lesione oggettiva, ma alla qualificazione della condotta del soggetto che l'aveva provocata. In altre parole secondo la Corte un danno è ingiusto se deriva dalla violazione di una norma. Ma tale affermazione, proprio per portata generale che vorrebbe avere, si rivela inesatta sia per eccesso sia per difetto. 1) Per eccesso, perché non sempre un danno ingiusto presuppone la violazione di una norma diversa dall'art. 2043 c.c. Questo si verifica nella lesione di interessi legittimi, che per definizione presuppongono un'attività illegittima della pubblica amministrazione. Ma la lesione di altri diritti o situazioni giuridiche soggettive può anche avvenire mediante condotte che non sono espressamente proibite. Secondo l'art. 2043 c.c., infatti, è sufficiente un qualunque fatto, purché commesso con dolo o colpa, mentre non è necessario che questo sia già vietato in quanto tale: lo è solo se provoca un danno ingiusto. Non è del resto la contrarietà alla legge della condotta che rende ingiusto il danno, ma viceversa l'ingiustizia del danno che rende illecito il fatto doloso o colposo che lo cagiona. 2 In altre parole l'illecito civile non consiste in una condotta tipica come l'illecito penale, che invece presuppone un fatto espressamente previsto dalla legge come reato. La Corte, pertanto, introduce un requisito della fattispecie di responsabilità civile, che non è richiesto dall'art. 2043 c.c. Secondo questa norma non è necessaria un’antigiuridicità specifica della condotta che provoca il danno. Il fatto è antigiuridico solo perché cagiona un danno ingiusto. Quest'antigiuridicità generica peraltro viene meno in presenza di specifiche cause di giustificazione che la escludono: ad esempio la legittima difesa (art. 2044 c.c.), lo stato di necessità (art. 2045 c.c.) e più in generale le cause di giustificazione che valgono per l'illecito penale, previste dagli articoli 50 e seguenti codice penale. 2) L'affermazione della Suprema Corte secondo cui il danno è ingiusto quando è recato non iure è errata anche per difetto. La violazione di una norma, infatti, non solo non è necessaria, ma neppure è sufficiente: occorre infatti la lesione. Secondo l'art. 2043 c.c. ingiusto deve essere il danno ossia l'evento lesivo, non la condotta che lo cagiona. Non è soltanto una questione legata alla lettera della norma, ma è un aspetto che assume rilevanza sostanziale. Quando l’art. 2043 c.c. richiede un danno ingiusto invece che una condotta antigiuridica riflette un'esigenza di oggettivizzazione della responsabilità civile, caratteristica degli ordinamenti moderni. L'attenzione si sposta dalla condotta del soggetto autore dell’illecito al risultato oggettivo di questa. Il problema della responsabilità civile non è quello di individuare chi è il soggetto responsabile di un'azione, ma di stabilire se il costo del 3 danno deve rimanere là dove si è verificato o deve allocarsi in un'altra sfera patrimoniale. La risposta alla domanda non presuppone necessariamente una valutazione della condotta del soggetto, come dimostrano le ipotesi di responsabilità oggettiva, che prescindono non solo dal dolo dalla colpa del responsabile, ma addirittura da un fatto a esso riferibile. Da questa prospettiva, quindi, elemento essenziale della responsabilità civile non è la condotta antigiuridica, ma la lesione di una situazione giuridica soggettiva. Consapevole di ciò è del resto la stessa Cassazione nella sentenza del 1999, allorché, contraddicendo l'affermazione che abbiamo finora esaminato, sostiene che il danno ingiusto è una clausola generale e che pertanto spetta al giudice, non alla legge, stabilire se sono stati lesi interessi meritevoli di tutela. La Suprema Corte ritiene quindi che non basta la violazione di una norma, occorre anche la lesione. La Cassazione inoltre dichiara apertamente di aderire a una precisa concezione del danno ingiusto elaborata dalla dottrina. Secondo questa tesi l'ingiustizia del danno, al pari della buona fede, del buon costume, della diligenza del buon padre di famiglia, configura una clausola generale. Questo significa che la legge non determina interamente tutti gli elementi della fattispecie di responsabilità, ma affida tale compito al giudice, il quale deve trarre dal contesto sociale i criteri di valutazione per stabilire caso per caso se è stato leso l'interesse meritevole di tutela risarcitoria e quindi se il danno è ingiusto oppure no. Da questo punto di vista l'illecito civile è un illecito atipico in senso forte, non solo perché non è tipizzata dalla legge la condotta del responsabile, ma anche perché può costituire danno ingiusto anche la lesione di un interesse che non è riconosciuto meritevole da una norma di legge, ma soltanto dalla coscienza sociale, della quale il giudice è chiamato a farsi direttamente interprete. 4 A questa tesi si contrappone una concezione tipica o normativa dell’illecito, secondo la quale si ha un danno ingiusto quando sia stata lesa una situazione giuridica soggettiva, riconosciuta come meritevole di tutela da una norma diversa dall'art. 2043 c.c.. Non è necessario che questa norma preveda espressamente il risarcimento del danno né che vieti espressamente la condotta che lo cagiona, è invece necessario che riconosca al soggetto danneggiato, già prima del danno, un diritto o un’altra situazione giuridica soggettiva. Qualunque lesione della situazione giuridica soggettiva protetta può costituire danno ingiusto e rendere illecita la condotta che lo cagiona. L’illecito civile è quindi tipico nel senso che sono tipiche le situazioni giuridiche soggettive, la cui lesione configura danno ingiusto, non le condotta che lo provoca. Una volta esaminate le due concezioni opposte del danno ingiusto possiamo verificare che il riferimento della Suprema Corte alla tesi della clausola generale è del tutto inutile ai fini della responsabilità per lesione di interessi legittimi. Infatti è assolutamente pacifico che si tratta di una situazione giuridica soggettiva tutelata dall'ordinamento, che a tal fine ha addirittura istituito appositi organi di giurisdizione amministrativa. Il giudice del resto non deve valutare caso per caso se l'interesse legittimo, che è stato leso, è meritevole di tutela, in quanto si tratta di una situazione giuridica soggettiva tutelata in via generale dall'ordinamento, la cui lesione configura senz'altro un danno ingiusto. Ma la Cassazione, nella sentenza del 1999 e in altre sentenze successive (n. 157/03 e n. 4538/03) è condizionata dall'affermazione dell'ingiustizia come clausola generale e pertanto ritiene necessario un ulteriore requisito per considerare ingiusto il danno. A tal fine, infatti, il giudice deve accertare se l'attività illegittima della pubblica amministrazione abbia concretamente pregiudicato un interesse al bene della vita, meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico. 5 In tal modo peraltro la Corte ritiene di ovviare a quello che viene considerato il principale inconveniente della tesi che considera il danno ingiusto una clausola generale: ossia il rischio di un'eccessiva proliferazione dei risarcimenti. Per evitare ciò la Cassazione introduce però una limitazione ingiustificata nella tutela degli interessi legittimi, richiedendo una nuova valutazione di meritevolezza. Ma questa non è giustificata, dato che è stato leso non un qualunque interesse del cittadino ma un interesse che l'ordinamento stesso tutela come situazione giuridica soggettiva. In questo modo si finisce quindi per restringere arbitrariamente la tutela del soggetto danneggiato. In realtà, una volta accertata la lesione di un interesse legittimo, il giudice non deve fare altro che verificare che questa si sia tradotta in una perdita economica (così Consiglio di Stato n. 1945/03). In ciò si può anche ravvisare il pregiudizio al bene della vita, ma è chiaro che con riguardo a esso non c'è da compiere alcuna valutazione di meritevolezza. È vero quindi che la lesione degli interessi legittimi non è sufficiente e che occorre anche una perdita economica. A tale requisito fa del resto riferimento all'art. 2043 c.c. quando parla di danno con due significati diversi: il danno ingiusto, che è l'evento lesivo e il danno senza ulteriore qualificazione, che è oggetto dell'obbligazione risarcitoria. Il più delle volte, peraltro, il pregiudizio economico che consegue alla lesione di un interesse legittimo non è certo, ma è solo probabile. Così ad esempio nel caso deciso dalla Cassazione nella sentenza n. 9366 del 2003 un'impresa era stata illegittimamente esclusa da una gara di appalto e chiedeva di essere risarcita del pregiudizio consistente del mancato guadagno, derivante dal non aver potuto aggiudicarsi il contratto. 6 Non si poteva però dire con certezza che, se avesse partecipato, avrebbe vinto la gara. Ma neppure si poteva escludere a priori il risarcimento, sostenendo che si trattava di una mera perdita di chance: non c'è una semplice aspettativa di guadagno c'è invece un'aspettativa giuridicamente tutelata, mediante riconoscimento di un interesse legittimo alla cui lesione si correlava la perdita. Il giudice quindi deve ammettere il risarcimento quando ritenga probabile, anche se non sicura, l'esistenza del pregiudizio consistente nel mancato guadagno. Diversamente non c'è risarcimento, non perché manca il nesso di causalità, ma in termini ancor più radicali perché manca il danno da risarcire. Dalle considerazioni finora svolte si può quindi ritenere acquisita l'ammissibilità della tutela risarcitoria degli interessi legittimi. Resta però ancora aperta la questione relativa alla natura della responsabilità della pubblica amministrazione. Finora abbiamo esaminato l'orientamento prevalente in giurisprudenza, che ritiene trattarsi di una responsabilità extracontrattuale o aquiliana ai sensi dell'art. 2043 c.c.. In dottrina e in giurisprudenza è però presente anche un'opinione diversa, che qualifica come contrattuale la responsabilità della pubblica amministrazione. Prima di esaminare in particolare questa ricostruzione occorre puntualizzare la differenza essenziale tra le due forme di responsabilità, per poter stabilire quale di esse possa più correttamente qualificare l'attività illegittima della pubblica amministrazione, dalla quale sia derivato il danno oggetto di risarcimento. Innanzitutto va detto che la responsabilità c.d. contrattuale non presuppone necessariamente l'esistenza di un contratto. 7 L'art. 1218 c.c. parla di responsabilità del debitore per inadempimento di un’obbligazione, quale che sia la fonte di questa. Nella maggioranza dei casi la fonte sarà il contratto, ma non necessariamente è così. Ciò che caratterizza quindi la responsabilità contrattuale, differenziandola da quella extracontrattuale, è l’essere il danno conseguenza dell'inadempimento di un obbligo preesistente. Prima del verificarsi del danno c'era già un obbligo, dal cui inadempimento esso è stato cagionato. Viceversa, nella responsabilità extracontrattuale prima del verificarsi del danno non c'è alcun rapporto obbligatorio tra danneggiante e danneggiato. È il danno che fa sorgere un obbligo ex novo Arg. ex artt. 2043 e 1173 c.c.. In questo senso la responsabilità civile è detta anche responsabilità del passante, del soggetto cioè che cagiona il danno al di fuori di una relazione giuridica già esistente con il danneggiato. Ad esempio Tizio investe Caio che potrebbe essere un perfetto sconosciuto: dal danno nasce l'obbligo e non viceversa. Quale è quindi la forma giuridica più adeguata per descrivere la responsabilità della pubblica amministrazione? L’illegittimità dell'atto amministrativo può ritenersi violazione di un obbligo esistente già prima del suo compimento? Una parte della dottrina e alcune sentenze del Consiglio di Stato (n. 4239/01e n. 1945/03) ritengono di sì e affermano la natura contrattuale della responsabilità in cui incorre la pubblica amministrazione. Il contatto che si viene a creare con l'inizio del procedimento amministrativo, unitamente all'affidamento ingenerato dallo status 8 soggettivo della pubblica amministrazione, fa sorgere in capo questa un obbligo di correttezza, che le impone di agire in modo legittimo. Il compimento di un atto illegittimo quindi, dal punto di vista civilistico costituisce violazione di un obbligo, che genera a sua volta responsabilità contrattuale. La dottrina precisa che si tratta di un obbligo di protezione senza prestazione che nasce dalla buona fede: il privato, infatti, non ha diritto a un provvedimento favorevole o alla mancata adozione di un provvedimento sfavorevole, ma a un comportamento corretto della pubblica amministrazione. Questa figura dell'obbligo di protezione senza prestazione è stata peraltro riconosciuta dalla giurisprudenza della Cassazione in altre fattispecie: 1) Responsabilità del medico dipendente di una struttura ospedaliera. 2) Responsabilità dell'insegnante per danno autocagionato dall'allievo. Questa ricostruzione appare più moderna, anche perché in linea con una concezione nuova e più paritaria dei rapporti con la pubblica amministrazione, che rappresenta una tendenza del diritto europeo. Quali sono le conseguenze pratiche di questa ricostruzione? Ci limitiamo a segnalarne due: 1) Una è interna al diritto amministrativo: non è più rilevante ai fini della tutela risarcitoria la qualificazione di una posizione soggettiva come interesse legittimo o come interesse altrimenti tutelato. Il risarcimento è affrancato dalle incertezze che ancora permangono sulla nozione d’interesse legittimo. 2) La seconda differenza riguarda la disciplina civilistica applicabile, che sarà quella prevista dagli articoli 1218 e seguenti c.c.. 9 L'aspetto più significativo concerne il ruolo della colpa e l'onere della relativa prova. Nella responsabilità aquiliana la colpa è elemento costitutivo della fattispecie ex art. 2043 c.c., la cui presenza è necessaria in alternativa al dolo e la cui prova spetta al danneggiato. Diversamente, elemento costitutivo della responsabilità contrattuale non è la colpa, ma l'inadempimento, il quale costituisce pertanto oggetto dell'onere probatorio del creditore danneggiato. Il debitore deve invece provare non già la semplice mancanza di una sua colpa, ma l'impossibilità di adempiere derivante da causa a lui non imputabile. La colpa quindi assume una rilevanza non necessaria, ma solo eventuale, come causa che rende imputabile al debitore l'impossibilità di adempiere, impedendogli di invocarla per sottrarsi alla responsabilità. Pertanto, una volta che il privato provi l'illegittimità dell'atto e il danno che ne è derivato, sarà la pubblica amministrazione a dover provare che era impossibile l'adempimento degli obblighi gravanti su di essa e che tale impossibilità non è dipesa da sua colpa. 10