LE VARIAZIONI TERRITORIALI DELLE REGIONI Michele Borgato 2008 INDICE INTRODUZIONE 1 CAPITOLO I L’ ISTITUZIONE DELLE REGIONI E LE VARIAZIONI DEL TERRITORIO REGIONALE 1- La Regione 5 2- Dal regionalismo alla Regione 8 3- I lavori della seconda Sottocommissione e la relazione dell’on. Ambrosini 14 4- L’individuazione del territorio delle Regioni 21 5- L’art. 22 del progetto del Comitato per le autonomie locali 25 6- L’art. 23 del progetto del Comitato per le autonomie locali 31 7- La discussione sulle autonomie locali della Commissione dei 75 riunita in adunanza plenaria 8- Il progetto di Costituzione della Repubblica italiana 36 39 9- La discussione dell’art. 123 del progetto di Costituzione della Repubblica italiana 40 10- La discussione dell’art. 125 del progetto di Costituzione della Repubblica italiana 47 11- L’art. 131 della Costituzione della Repubblica italiana 52 12- L’art. 132 della Costituzione della Repubblica italiana 56 13- La genesi della Regione nell’ordinamento italiano 60 CAPITOLO II IL TERRITORIO DELLA REGIONE 1- Il concetto di territorialità 63 2- I criteri d’individuazione del territorio regionale scelti dal Costituente e la loro inadeguatezza 67 2.1- Il concetto di regione costituzionale e la sua proiezione territoriale 69 2.2- Nuovi concetti di regione per una nuova società italiana 74 2.3- L’idoneità dell’art. 132 Cost. a modificare la Regione in senso storico ed in senso funzionale 80 3- Variazioni di denominazione delle Regioni 83 4- I confini delle Regioni 87 5- Le variazioni del territorio regionale a seguito di trattati internazionali 6- La cessione di territorio non abitato e la rettifica dei confini 90 97 CAPITOLO III IL PROCEDIMENTO DI VARIAZIONE TERRITORIALE 1- Premessa 105 2- L’iniziativa 108 2.1- L’iniziativa del procedimento di variazione territoriale 2.2- Le ulteriori fasi procedurali dell’atto d’iniziativa 3- Il referendum 108 120 137 3.1- Il referendum nella Costituzione italiana e negli ordinamenti regionali 137 3.2- La qualificazione giuridica del referendum previsto dall’art. 132 Cost. 142 3.2.1- Referendum “consultivo” in caso di esito positivo, “deliberativo” in caso di esito negativo 142 3.2.2- Referendum “deliberativo” nei casi di fusione e di creazione, “cumulativo” nel caso di distacco-aggregazione 151 3.2.3- Referendum come atto d’iniziativa o come condizione di procedibilità 155 3.2.4- Referendum “deliberativo” in ogni caso e critiche alle qualificazioni giuridiche precedenti 3.3- Il concetto di popolazioni interessate 157 164 3.4- La votazione, lo scrutinio e la dichiarazione del risultato del referendum 4- Il procedimento legislativo 175 183 4.1- La fase istruttoria del procedimento legislativo 183 4.2- Il parere dei Consigli regionali 186 4.3- La deliberazione legislativa 188 4.4- La qualificazione giuridica delle leggi di variazione territoriale e la loro collocazione nel sistema delle fonti 195 4.4.1- Qualificazione giuridica e collocazione sistematica della legge costituzionale di variazione territoriale 197 4.4.2- Qualificazione giuridica e collocazione sistematica della legge ordinaria di variazione territoriale 204 4.5- La forma della legge per l’aggregazione ad una Regione a Statuto speciale 207 CAPITOLO IV I PROCEDIMENTI DI VARIAZIONE TERRITORIALE DELLE REGIONI IN CORSO 1- Le variazioni territoriali delle Regioni dal 1948 ad oggi 217 2- I procedimenti di distacco-aggregazione in corso 219 2.1- Dal Veneto al Friuli-Venezia Giulia: il caso dei Comuni del Portogruarese 222 2.2- Dal Veneto al Trentino-Alto Adige: il caso dei Comuni bellunesi e vicentini. In particolare: il referendum cumulativo e la contiguità territoriale 235 2.3- Dal Piemonte alla Valle d’Aosta: il caso dei Comuni delle Valli Orco e Soana 249 2.4- Dalle Marche all’Emilia-Romagna: il caso dei Comuni della Valmarecchia e della Val Conca 254 2.5- Dalla Campania alla Puglia: il caso di Savignano Irpino 258 3- Motivazioni sostanziali sottese ai procedimenti di distacco-aggregazione sinora avviati 261 CAPITOLO V RECENTI SVILUPPI IN MATERIA DI VARIAZIONI TERRITORIALI DELLE REGIONI CENNI DI DIRITTO COMPARATO 1- Progetti di revisione costituzionale dell’art. 132 271 1.1- La fallita riforma costituzionale approvata nel corso della XIV legislatura 278 1.2- Il disegno di legge costituzionale per la modifica dell’art. 132, co. 2 Cost. proposto durante la XV legislatura 282 2- I Fondi per favorire le aree territoriali confinanti con le Regioni a Statuto speciale 292 2.1- Il Fondo per la valorizzazione e la promozione delle aree territoriali svantaggiate confinanti con le Regioni a Statuto speciale 2.2- Gli interventi attuati dalla Regione Veneto 293 299 2.3- L’Intesa tra la Regione Veneto e la Provincia autonoma di Trento 3- Cenni di diritto comparato 302 306 CONCLUSIONI 315 BIBLIOGRAFIA 323 INTRODUZIONE Le variazioni territoriali delle Regioni, oggetto di questo studio, rappresentano una tematica antica e nuova allo stesso tempo. Antica, in quanto il Costituente fu fautore di una ripartizione regionale che si fondava essenzialmente su motivi storici e come diretta conseguenza pensò ad un procedimento per modificare territorialmente tali enti locali. Antica, perché il procedimento di variazione territoriale delle Regioni fu inserito nella Costituzione in un apposito articolo, il 132, che non ha subito nel corso di sessant’anni nessuna modifica sostanziale, ma semplici specificazioni per renderne più chiaro il significato (modifica apportata all’art. 132, co. 2 Cost. dalla legge costituzionale n. 3/2001). Nuova, perché nessun procedimento di variazione territoriale (a parte il caso particolare dell’istituzione della Regione Molise nel 1963) è mai stato attivato prima del maggio 2005; nuova, perché nessun procedimento di variazione territoriale ha finora concluso il suo iter procedurale. Forse è anche per questo che l’analisi dell’art. 132 della Carta costituzionale non è mai stato oggetto di particolare attenzione da parte della dottrina: la maggior parte dei manuali di diritto costituzionale nemmeno lo citano e, a parte sporadici casi, non sono state prodotte monografie a riguardo. La modificazione del territorio regionale è divenuta tematica di attualità a seguito delle numerose richieste di passaggio ad altre Regioni che si sono susseguite nel corso dell’ultimo triennio; a seguito di queste richieste, la dottrina ha iniziato a porre attenzione su un problema per troppo tempo rimasto ai margini del dibattito costituzionale; ha iniziato ad analizzare i procedimenti di variazione territoriale previsti dall’art. 132 della Costituzione, vedendone i pregi 1 ed i limiti, ma soprattutto si è impegnata nel dare spiegazioni a problemi di coordinamento con la normativa ordinaria di attuazione (come ad esempio la legge n. 352/1970, attuativa del referendum). Anche la giurisprudenza costituzionale ha iniziato ad essere investita dei primi problemi riguardanti l’applicazione dell’art. 132 della Costituzione ed ha finora prodotto alcune sentenze (sentenze n. 334/2004 e n. 66/2007 della Corte Costituzionale) che contribuiscono a renderne più agevole l’applicazione. Una tanto repentina corsa al “cambio di casacca”1, al passaggio da una Regione ad un’altra (meglio se a Statuto speciale, visti i particolari benefici finanziari connessi), non può che sollevare numerosi punti interrogativi. La dottrina più recente ha tentato di dare delle spiegazioni, per molti versi quasi univoche, che dovrebbero essere di spunto per il legislatore a prendere provvedimenti. Ma i principi che regolano la politica, si sa, non sono così lineari come sono quelli che governano il mondo del diritto, e attualmente a queste istanze non è ancora stata data una risposta, né nel senso di approvare o meno la singola richiesta di variazione territoriale, né nel senso di procedere ad una più ampia riforma del fisco in senso federale, a cui queste richieste sono in realtà un’alternativa. Lo scopo di questa ricerca è quindi di approfondire una tematica antica ed attuale allo stesso tempo: si cercherà, nel corso della trattazione, di spiegare le origini della ripartizione regionalistica italiana (l’Italia, come ha affermato giustamente autorevole dottrina, è 1 Questa definizione del procedimento di distacco-aggregazione è usata da: M. BARBERO, Enti locali “in fuga”: questioni di “forma” e di “sostanza”, www.federalismi.it, 2007, p. 5. uno Stato regionale2) e del procedimento di variazione territoriale pensato dal Costituente per correggere eventuali errori di questa ripartizione. Si dedicherà però la maggior parte di questo studio all’analisi dei procedimenti di variazione territoriale previsti dall’art. 132 della Costituzione italiana ed alla normativa ordinaria di attuazione con cui vanno coordinati, facendo un’analisi “tecnica” delle varie fasi di questi procedimenti e degli istituti che di volta in volta verranno messi in luce. Si concluderà riportando i più recenti casi di procedimenti di variazioni territoriali in corso, cercando di dare una spiegazione alle motivazioni che hanno portato ad attivarli; si riferirà infine sulle “risposte” date dalle istituzioni, sia nazionali che regionali, a queste richieste. La tematica è poi localmente molto sentita perché, oltre all’indubbia attualità, riguarda fortemente il Veneto, la Regione maggiormente interessata da questa “secessione”3 dei Comuni di confine verso realtà regionali ad autonomia differenziata. 2 Si fa riferimento alla definizione dello Stato italiano data dall’illustre costituzionalista L. Carlassare. Sul punto si veda: L. CARLASSARE, Conversazioni sulla Costituzione, Padova, 1996, pp. 35-37. 3 Questo termine, molto adeguato per descrivere i procedimenti di variazione territoriale in corso, è stato usato da tutta la dottrina più recente in materia: A. FERRARA, Questione settentrionale. Dalla grande alla piccola secessione: la migrazione territoriale dei Comuni come istanza di specializzazione in deroga ai principi del federalismo fiscale, www.federalismi.it, 2007; M. BARBERO, Come (non) si risolve la questione delle “secessioni” dei Comuni di confine (e dei privilegi finanziari delle autonomie speciali), www.federalismi.it, 2008; C. FRAENKEL-HAEBERLE, La “secessione” dei Comuni: una chimera o una via percorribile? , www.federalismi.it, 2008. 3 4 CAPITOLO I L’ ISTITUZIONE DELLE REGIONI E LE VARIAZIONI DEL TERRITORIO REGIONALE SOMMARIO: 1. La Regione. – 2. Dal regionalismo alla Regione. – 3. I lavori della seconda Sottocommissione e la relazione dell’on. Ambrosini. – 4. L’individuazione del territorio delle Regioni. – 5. L’art. 22 del progetto del Comitato per le autonomie locali. – 6. L’art. 23 del progetto del Comitato per le autonomie locali. – 7. La discussione sulle autonomie locali della Commissione dei 75 riunita in adunanza plenaria. – 8. Il progetto di Costituzione della Repubblica italiana. – 9. La discussione dell’art. 123 del progetto di Costituzione della Repubblica italiana. – 10. La discussione dell’art. 125 del progetto di Costituzione della Repubblica italiana. – 11. L’art. 131 della Costituzione della Repubblica italiana. – 12. L’art. 132 della Costituzione della Repubblica italiana. – 13. La genesi della Regione nell’ordinamento italiano. 1. La Regione La Regione è un ente pubblico a rilevanza costituzionale, rappresentativo di una collettività stanziata su un determinato territorio, dotato di propri poteri e funzioni e di un ordinamento autonomo nei limiti prefissati dalla Costituzione e dalle leggi costituzionali4 (art. 114 Cost.). Le Regioni furono istituite dalla Costituzione della Repubblica italiana nel 1948. 4 Cfr. T. MARTINES, Diritto costituzionale , Milano, 2000, p. 632. 5 La Regione si differenzia dallo Stato per il fatto che quest’ultimo è un ente originario, dotato di un popolo, di un territorio e fornito di sovranità, mentre la prima è un ente derivato, con una propria popolazione, un territorio ben definito, ma sfornita di sovranità. La sovranità è la posizione di supremazia di uno Stato tanto all’interno, quanto nei confronti di ogni ente esterno; la supremazia si concreta nell’affermazione dell’originarietà dell’ordinamento giuridico statale e della sua indipendenza. L’originarietà è una caratteristica giuridica che indica che ogni ordinamento statale, in quanto sovrano, si autolegittima, cioè trova in sé medesimo la giustificazione giuridica della sua esistenza e del suo potere. L’indipendenza è una caratteristica che indica che lo Stato non può essere subordinato ad altri enti e che nel suo ambito è esclusivo (“ius excludendi omnes alios”). La supremazia all’interno implica che il potere dello Stato non subisce limitazioni o condizionamenti, che la sua volontà è superiore a tutte le altre presenti nell’ordinamento e che è la fonte di ogni competenza: in quanto tale lo Stato afferma la propria autorità su tutti gli enti presenti nel suo territorio, che quindi hanno rispetto ad esso una posizione derivata, come la Regione, appunto5. La Regione è un ente territoriale perché il territorio ne costituisce un elemento essenziale, inteso sia come ambito fisico-geografico, sia come sfera spaziale entro cui essa può esercitare le sue funzioni, ma soprattutto come centro di riferimento degli interessi della comunità regionale che in esso trovano la sua localizzazione6. La dimensione regionale degli interessi della comunità potrebbero non coincidere del tutto con il territorio dell’ente, nel senso che alcune 5 6 Cfr. F. CUOCOLO, Istituzioni di diritto pubblico, Milano 1998, pp. 78 ss. Cfr. T. MARTINES, Diritto costituzionale, Milano, 2000, p. 633. 6 aree geografiche potrebbero appartenere, per la loro vocazione economica, per le loro reali o tendenziali linee di sviluppo, per le caratteristiche e le tradizioni dei loro abitanti, ad una Regione diversa da quella nella quale sono state inserite. È pertanto possibile, e per alcuni aspetti auspicabile, che il territorio di alcune Regioni venga convenientemente modificato per adeguarlo a quella che è la reale consistenza e dimensione degli interessi regionali, al fine soprattutto di consentire un’omogenea e razionale azione programmatrice delle Regioni stesse: questo lo scopo per cui il Costituente ha inserito nella Carta costituzionale una serie di procedimenti volti alla modificazione del territorio regionale (art. 132 Cost.), che sarà l’oggetto di approfondimento di questa ricerca. La norma chiave per comprendere il sistema degli enti locali territoriali è l’art. 5 Cost., in cui si fissano due principi che si integrano reciprocamente: il principio dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica, ed il principio delle autonomie locali che la Repubblica deve riconoscere e promuovere. Il primo principio indica un limite invalicabile: la Repubblica italiana è uno Stato con una struttura unitaria, non è una confederazione di Stati. Unitarietà non significa però centralità, cioè che tutti i poteri e le funzioni siano di competenza dello Stato. Ecco allora che all’interno di questa struttura di Stato trovano spazio e ragion d’essere le autonomie locali, enti locali territoriali autonomi con propri poteri e funzioni, che, come dice il secondo principio contenuto nell’art. 5 Cost., lo Stato deve riconoscere e promuovere7. Si è detto che le Regioni hanno un ordinamento autonomo, cosa che permette di definirle come autonomie locali. Ma cosa significa 7 Cfr. F. CUOCOLO, Istituzioni di diritto pubblico, Milano 1998, p. 529. 7 autonomia? L’autonomia è una figura comprensiva di vari tipi di poteri, normativi ed amministrativi. L’autonomia indica la condizione di relativa indipendenza in cui certi apparati ed enti si trovano rispetto allo Stato-persona. All’indipendenza corrisponde una sfera di autodeterminazione, non avocabile dallo Stato. La relativa indipendenza dell’ente-regione deriva dal fatto che i suoi organi fondamentali hanno carattere rappresentativo, sono cioè eletti dai cittadini. Alla rappresentatività si ricollega anche un’autonomia politica: le Regioni promuovono un proprio indirizzo, volto a soddisfare gli interessi delle popolazioni locali. Tutto questo per dire che le Regioni hanno autonomia legislativa, amministrativa, finanziaria e statutaria. 2. Dal regionalismo alla Regione La questione regionale sorse in Italia con l’inizio del Risorgimento, quando si pose il problema del tipo di struttura da dare allo Stato dopo la sua unificazione: federalista oppure unitaria8. Mazzini fu certamente il più grande assertore del principio unitario, ma sostenne allo stesso tempo la necessità del riconoscimento delle Regioni. In un famoso articolo scritto nel 1831 intitolato “Dell’unità d’Italia”, egli definì “la Regione, zona intermedia indispensabile tra la Nazione ed i Comuni, additata dai caratteri territoriali secondari, dai dialetti e dal predominio delle attitudini agricole, industriali o marittime” indicando i vantaggi che sarebbero derivati dalla sua 8 Si veda: SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti dell’Assemblea Costituente, Roma, pp. 137 ss. 8 istituzione: “farebbe più semplice e spedito d’assai l’andamento, oggi intricatissimo e lento, della cosa pubblica”9. Anche Cavour avvertì l’esigenza di riconoscere la Regioni: nel 1860, quand’egli era Presidente del Consigli dei Ministri, Farini, Ministro dell’Interno, propose la formazione di una Commissione che avrebbe dovuto redigere alcuni progetti di legge che avevano come scopo la riforma dell’ordinamento amministrativo dello Stato. La Commissione proseguì i suoi lavori anche con Minghetti, nuovo Ministro dell’Interno, e nel 1861 questi presentò i progetti di legge alla Camera. Il Regno avrebbe dovuto essere ripartito in Regioni, Province, Circondari e Comuni. A capo della Regione avrebbe dovuto esserci un Governatore che avrebbe espletato in loco i servizi politici, di sicurezza e di amministrazione che erano di competenza del Ministro dell’Interno, e tutti quegli atti di competenza di altri Ministri che gli fossero delegati. Si trattava in buona sostanza di un decentramento burocratico. Alla Regione poi, come ente autarchico, venivano affidate alcune funzioni, quali: la cura degli istituti d’istruzione superiore, degli archivi storici, dei lavori pubblici per fiumi e torrenti. Accanto al Governatore si prevedeva fosse posta una Commissione, composta di membri eletti dai Consigli provinciali, con poteri deliberativi su alcune materie. Si trattava quindi di un decentramento autarchico ed istituzionale. Il Minghetti si era dunque proposto di realizzare, col riconoscimento delle Regioni, i due classici tipi di decentramento amministrativo: quello burocratico e quello istituzionale; egli voleva dimostrare che l’unità politica non importava necessariamente l’unità amministrativa. Sosteneva inoltre che non era 9 Cfr. G. MAZZINI, Scritti politici editi ed inediti, vol. II, Imola, 1907, pp. 302 e 305. 9 opportuno distruggere le abitudini e gli interessi delle popolazioni delle Regioni, ritenendo invece che queste fossero delle entità naturali, destinate a conservarsi nella loro varietà ed a cooperare contemporaneamente in armonia con l’unità nazionale. Nonostante tali progetti si fondassero su un’idea già affermata dal Mazzini e condivisa anche da Cavour, il Parlamento li respinse. Da quel momento si affermò in tutta Italia la struttura di Stato unitario ed accentrato che vigeva in Piemonte. Il regionalismo sembrava una questione ormai superata, e per quanto voci autorevoli10 si fossero levate per risollevare il problema, rimasero inascoltate. Si deve tuttavia segnalare l’adozione di una misura, seppur limitata temporalmente e circoscritta ad una parte di territorio, che costituisce certamente un precedente notevole per quanto riguarda il successivo riconoscimento dei poteri attribuiti all’ente locale Regione. Un Regio decreto del 1896 istituì per la durata di un anno un Commissario Civile per la Sicilia; questi era fornito di poteri considerevoli in materia di: pubblica sicurezza, istruzione primaria, amministrazione di Province e Comuni, opere pubbliche comunali e provinciali, tasse e tributi locali, lavoro delle donne e dei fanciulli, pesi e misure, miniere e cave, foreste. Ciò che conta è poi lo scopo che indusse il Parlamento ad adottare siffatto provvedimento legislativo, e cioè col fine di “avvicinare agli amministrati diverse attribuzioni che spetterebbero al Governo centrale, affidandole ad un Commissario che possa vedere da vicino i bisogni e provvedervi con maggior sollecitudine che non possa farlo un Governo lontano e che 10 Gli Autori che si occuparono della questione regionale alla fine dell’Ottocento furono BERTOLINI, CALENDA, TAVANI e SAREDO. 10 viene distratto da molteplici cure di tutto il Regno”11. In questo passaggio sono ben descritti i motivi a favore del regionalismo; purtroppo però, come si è detto questo provvedimento rimase circoscritto sia nel tempo che nello spazio. La questione regionalistica venne ripresa al termine della Prima Guerra Mondiale da movimenti di carattere locale in Sicilia ed in Sardegna, ed a livello nazionale dal Partito Popolare Italiano di don Sturzo. Il partito mostrò particolare interesse affinché nelle Terre Redente si mantenesse l’autonomia regionale esistente. Le Terre Redente erano quei territori appartenenti all’ex Impero austriaco, passati all’Italia al termine della Grande Guerra. In queste Regioni esisteva l’autonomia, come negli altri Regni e Paesi che costituivano l’Impero austriaco. Nelle Terre Redente furono costituiti due Commissariati generali Civili, uno a Trento, l’altro a Trieste. Il legislatore era orientato al riconoscimento regionale di queste terre, attribuendo loro anche un potere legislativo. Tale indirizzo fu abbandonato a causa della sempre maggiore influenza esercitata dal movimento fascista, assolutamente contrario ad ogni idea di regionalismo, tanto che i due Commissariati generali Civili furono soppressi nel 1922. Il movimento regionalista riprese e si rafforzò con la Resistenza e la questione regionale tornò prepotentemente di scena al termine della seconda Guerra Mondiale. Il legislatore assecondò le esigenze di alcune Regioni (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta) per le quali la riforma della struttura dello Stato appariva urgente: nel 1944 furono creati gli Alti Commissari per la Sicilia e la Sardegna, affiancati da una Consulta regionale; nel 1945 si provvide a dare alla Valle d’Aosta 11 Sul punto si veda: SENATO, Leg. XIX, Sess. 1895-1896, Doc. n. 216A, p. 1. 11 un ordinamento speciale. Si trattava a quel punto di vedere se e come adottare il principio regionalistico anche con riferimento alle altre Regioni. Subito dopo la caduta del fascismo, la Corona tentò di riprendere in mano le redini del potere, considerando il ventennio fascista come una parentesi, un’esperienza oramai conclusa. Tale tentativo si scontrò ben presto con l’opposizione dei partiti antifascisti, nel frattempo riorganizzatisi, che non intendevano collaborare col re Vittorio Emanuele III, gravemente compromesso col fascismo. Nella primavera del 1944 fu stipulato il ‘patto di Salerno’, un accordo tra il re e la cosiddetta esarchia, composta dai sei partiti antifascisti (Partito liberale, Democrazia del lavoro, Democrazia cristiana, Partito d’azione, Partito socialista e Partito comunista): con esso si stabilì che l’esarchia entrasse a far parte del nuovo Governo, che il re Vittorio Emanuele III si ritirasse a vita privata nominando Luogotenente generale del Regno suo figlio Umberto. Subito dopo, con il decretolegge 25 giugno 1944, n. 151, fu stabilito che dopo la liberazione di tutto il territorio nazionale, la forma istituzionale dello Stato, monarchia o repubblica, sarebbe stata scelta dal popolo italiano mediante l’elezione a suffragio universale di un’apposita Assemblea Costituente che avrebbe deliberato la nuova Costituzione dello Stato. La decisione sulla forma istituzionale dello Stato venne poi demandata direttamente al popolo, a causa della difficoltà delle forze politiche di impegnarsi su una questione che vedeva gli elettori divisi. Il 2 giugno 1946 si tenne l’elezione dei membri che avrebbero composto l’Assemblea Costituente e contemporaneamente il referendum sulla nuova forma istituzionale; fu scelta la repubblica. 12 Per quanto riguarda la redazione della nuova Carta Costituzionale, l’Assemblea Costituente formò nel suo seno un’apposita Commissione (la cosiddetta Commissione dei 75); il progetto di Costituzione avrebbe poi dovuto essere sottoposto all’esame ed all’approvazione dell’intera Assemblea Costituente. La Commissione dei 75 si divise in tre Sottocommissioni, ognuna delle quali avrebbe affrontato determinati temi: la prima Sottocommissione si sarebbe occupata dei diritti e dei doveri dei cittadini; la seconda Sottocommissione dell’ordinamento costituzionale della Repubblica; la terza Sottocommissione, infine, si sarebbe dovuta occupare dei diritti e doveri economici e sociali. Le Sottocommissioni si frazionarono a loro volta in particolari gruppi di lavoro. Apparve chiaro fin dall’inizio che la questione dell’ordinamento regionale avrebbe assunto notevole importanza all’interno della nuova Costituzione: il Ruini, presidente della Commissione dei 75, la definì come “l’innovazione più profonda introdotta dalla Costituzione”. Essa fu affrontata da un gruppo di lavoro della seconda Sottocommissione, in quanto la questione delle autonomie venne identificata immediatamente come la questione stessa della struttura dello Stato. La Costituzione della Repubblica Italiana fu approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947, promulgata il 27 dicembre 1947, ed entrò in vigore il 1° gennaio 1948. La Regione fu prevista all’interno della nuova Carta Costituzionale al Titolo V della Parte II (artt. 114-133), avente ad oggetto gli enti locali territoriali. Nello specifico al tema delle variazioni territoriali delle Regioni fu dedicato un apposito articolo, il 132, in cui al primo comma si prevedevano due ipotesi di variazione territoriale: la fusione di Regioni esistenti e la creazione di nuove Regioni. Al comma secondo 13 si prevedeva invece la terza ed ultima ipotesi di variazione del territorio regionale: il distacco di una Provincia e/o di un Comune da una Regione ed la sua aggregazione ad un’altra Regione. Il nuovo ordinamento costituzionale rimase però di fatto largamente incompiuto in quanto le disposizioni organizzative della Costituzione repubblicana non furono attuate per molto tempo: basti ricordare, per quanto riguarda il solo ambito di questa ricerca, che la riforma regionale su tutto il territorio del paese e la legge ordinaria in materia di referendum videro la luce solamente nel 1970. 3- I lavori della seconda Sottocommissione e la relazione dell’on. Ambrosini Saranno esaminati ora i lavori preparatori della Costituzione al fine di comprendere meglio la genesi storica e le motivazioni politiche che hanno portato ai testi degli attuali articoli 131 e 132 della Costituzione. La Commissione dei 75 non fu solamente un organo deputato a stendere un progetto di Costituzione dal punto di vista tecnicogiuridico, ma fu un organo essenzialmente politico, che riproduceva in nuce e proporzionalmente la composizione partitica dell’Assemblea Costituente. Questa premessa per comprendere che molte scelte fatte dai Costituenti furono il frutto di una mediazione tra contrapposte idee politiche, a volte anche all’interno degli stessi partiti. Inoltre i partiti inserirono all’interno della seconda Sottocommissione i più autonomisti fra i propri commissari ritenendo che fossero i più preparati in materia di autonomie locali, ma ciò fece venir meno quel proposito di ripartire all’interno delle Sottocommissioni i membri in 14 modo che essi riproducessero gli orientamenti dell’Assemblea con assoluta fedeltà: questa è la motivazione per cui si vedrà che dal primo progetto in materia regionale all’approvazione finale della Carta Costituzionale si perderà qualcosa in termini di autonomia regionale. Si tenga inoltre presente che nessuna voce si levò in favore dell’accentramento amministrativo e questo contribuì a creare un’ampia convergenza sin dai primi dibattiti intorno alla soluzione che prevedeva l’istituzione delle Regioni12. La discussione sull’autonomia regionale prese avvio il 26 luglio 1946 e fu introdotta il giorno successivo dalla relazione dell’on. Ambrosini alla seconda Sottocommissione. La relazione inquadrava fin da subito tutte le questioni che sarebbero poi sorte nel corso del dibattito sulle autonomie locali. Il relatore esordiva dicendo che le autonomie locali avrebbero dovuto essere istituite per riparare agli inconvenienti dell’accentramento, che erano: - la sottrazione degli affari amministrativi a coloro che erano direttamente interessati e la loro attribuzione ad organi centrali, lontani e male informati sulle situazioni locali; - l’accumulazione di pratiche al centro con conseguente ritardo nel loro svolgimento; - l’appesantimento del lavoro dei parlamentari, gravati da molte sollecitazioni e richieste da parte degli elettori. Per eliminare questi inconvenienti Ambrosini propose di istituire la Regione, ente locale territoriale, autarchico e fornito di potere legislativo. Tutte le sue prerogative avrebbero dovute essere garantite 12 Cfr. E. ROTELLI, L’avvento della Regione in Italia, Milano, 1967, pp. 295 ss. 15 in una Carta Costituzionale rigida, perciò non modificabili o diminuibili con legge ordinaria. La Regione avrebbe dovuto avere una competenza legislativa così suddivisa: - competenza legislativa esclusiva su determinate materie costituzionalmente previste (ad esempio: agricoltura, pesca, strade, acquedotti, miniere, turismo); - facoltà di dettare norme di esecuzione su temi in cui gli organi legislativi dello Stato avevano stabilito i principi fondamentali; - potestà legislativa concorrente per materie sulle quali il diritto di legiferare spettava allo Stato, ma che concedeva alle Regioni fintanto che egli non decidesse di legiferare. Alla Regione sarebbe spettato anche il diritto di farsi iniziatrice di proposte di legge da sottoporre al potere legislativo dello Stato, ove avesse avvertito determinati bisogni della propria popolazione. Per quanto riguarda il potere esecutivo, la Regione avrebbe dovuto esercitare la funzione esecutiva amministrativa su tutte le materie di sua competenza esclusiva ed anche su quelle proprie dello Stato, che questi le avesse delegato. Venne prevista una finanza esclusiva regionale, coordinata con quella statale, in modo da dare all’ente la possibilità di esercitare le funzioni che gli furono attribuite. In merito al potere giurisdizionale, Ambrosini disse che non era possibile attribuire all’ente regionale una funzione giurisdizionale senza infrangere il sistema generale dell’unità della giurisdizione dello Stato, ma la Regione avrebbe potuto istituire organi giurisdizionali per la decisione di ricorsi avverso atti o deliberazioni degli enti locali ed anche sezioni decentrate dei supremi tribunali dello Stato. 16 Quello che più interessa l’ambito di questa ricerca furono le considerazioni del relatore in merito al territorio della Regione. Per quanto riguarda la sua individuazione, egli disse: “In Italia esistono regioni geograficamente o tradizionalmente determinate; ma bisogna tener presente la necessità che l’ente regione si istituisca in modo da essere vitale”13. Per individuare il territorio delle Regioni si proponeva quindi di utilizzare il criterio storico e in via subordinata il criterio funzionale. Tutte le considerazioni su questi due criteri saranno svolte nel proseguio di questo studio. In tema di cambiamenti della struttura politico-territoriale della Regione, il relatore suggerì che la competenza spettasse al “potere centrale, naturalmente, sentita la regione o a richiesta della regione”. Ambrosini affrontò poi la questione degli organi dell’ente-regione, che identificò in: - un Presidente, che rappresentasse la Regione e fosse il capo dell’amministrazione regionale; - una Giunta, composta da assessori preposti alle varie materie dell’amministrazione; - un’Assemblea regionale, elettiva e dotata di potere legislativo. Si pose infine il problema sulla necessità o meno che il governo dello Stato avesse all’interno della Regione un suo rappresentante. Nella successiva relazione, datata 13 novembre 1946, Ambrosini espose le conclusioni a cui era giunta la seconda Sottocommissione dopo la discussione avviata dalla sua prima relazione. 13 Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti dell’Assemblea Costituente, Seconda Sottocommissione, seduta del 27 luglio 1946, Roma, p. 8. 17 La nuova relazione constava di due parti: la prima, la parte generale, ripercorreva brevemente i precedenti storici della questione regionale e ne delineava le possibili soluzioni; la seconda, la parte speciale, proponeva un progetto di norme nelle quali si concretava una soluzione di massima a detta questione. Per quanto riguarda la parte generale (tralasciando i precedenti storici di cui si è già parlato), si delinearono quattro possibili soluzioni al problema regionalista: la prima e più radicale proponeva il ricorso al sistema federale. Il Mortati prospettò uno Stato con forma presidenziale connesso con un regime di vasto decentramento o un regime federale. Nessuno dei commissari concordò con questa soluzione, che prevedeva una netta trasformazione della forma e della struttura dello Stato. Questi erano preoccupati che il regime presidenziale potesse condurre facilmente ad una dittatura: il ricordo del fascismo era ancora troppo forte e si decise di mantenere uno Stato con forma parlamentare14. La seconda soluzione prevedeva un decentramento burocratico (o gerarchico) ed avrebbe comportato il trasferimento di determinate attribuzioni dello Stato dai suoi organi centrali ad altri suoi organi locali: tale soluzione avrebbe permesso una migliore conoscenza dei fatti ed una più rapida soluzione degli affari degli interessati. Anche questa soluzione fu scartata in quanto non avrebbe soddisfatto in pieno le aspirazioni del regionalismo perché gli ordini e le direttive sarebbero venuti comunque dal centro e perché non permetteva di utilizzare gli uomini più capaci di un determinato territorio, che 14 Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti dell’Assemblea Costituente, Relazione dell’on. Ambrosini, Seconda Sottocommissione, seduta del 13 novembre 1946, Roma, pp. 142 ss. 18 avrebbero meglio conosciuto e risolto i problemi dei loro conterranei15. La terza soluzione prevedeva un decentramento autarchico (od istituzionale): si sarebbe dovuto realizzare un trapasso di attribuzioni dallo Stato a degli enti autarchici che tali attribuzioni facessero proprie, decidendo liberamente su di esse ed assumendosene la responsabilità. Questa soluzione compiva un passo decisivo verso il regionalismo, ma non arrivava a soddisfarlo ancora in pieno perché non prevedeva alcuna facoltà legislativa16. L’ultima soluzione prevedeva l’attribuzione di poteri autarchici ed una potestà legislativa primaria ed integrativa. Dalla potestà legislativa derivava la capacità di emanare leggi su materie ed entro i limiti stabiliti dalla Costituzione. Su questo punto si registrarono forti disparità di vedute da parte dei commissari circa il quantitativo maggiore o minore di materia da affidare alla competenza legislativa della Regione. In seguito ancor più forti divergenze si registrarono in merito al tipo di potestà legislativa da attribuire alle Regioni: primaria (od esclusiva), integrativa o concorrente. Ambrosini fu un tenace sostenitore di quest’ultima soluzione e per convincere alcuni commissari che un ordinamento regionale così concepito non avrebbe potuto arrecare danno all’unità dello Stato, fece leva sul principio di sovranità. Lo Stato federale si costituisce in modo pattizio per volontà di singoli Stati completamente indipendenti che decidono di unirsi tra loro conferendo alla federazione funzioni e poteri in determinate 15 Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti dell’Assemblea Costituente, Relazione dell’on. Ambrosini, Seconda Sottocommissione, seduta del 13 novembre 1946, Roma, p. 144. 16 Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti dell’Assemblea Costituente, Relazione dell’on. Ambrosini, Seconda Sottocommissione, seduta del 13 novembre 1946, Roma, p. 144. 19 materie, trattenendo per sé altre materie a titolo originario di sovranità. Lo Stato organizzato sulla base della autonomie locali è invece l’esatto opposto: è esso stesso che, in quanto ente sovrano, crea le Regioni, come enti dotati di autonomia politica di cui stabilisce i poteri e le funzioni17. La seconda Sottocommissione fu quindi concorde nell’istituire la Regione, considerandolo un ente autarchico (cioè con propri fini e con la capacità di perseguirli), un ente autonomo (cioè con potere legislativo), un ente rappresentativo di interessi locali su basi elettive, un ente dotato di autonomia finanziaria. Su queste basi la seconda Sottocommissione incaricò un proprio Comitato, il Comitato di redazione per le autonomie locali (detto Comitato dei 10), di formulare un progetto di ordinamento regionale che essa avrebbe approvato; il Comitato dei 10 diede a sua volta incarico all’on. Ambrosini di approntare un primo schema di progetto. In seguito furono presentati altri due progetti ma il Comitato decise di procedere nei suoi lavori sulla base del progetto Ambrosini. Il progetto constava di 24 articoli. Il primo capo era dedicato alla Regione ed alle sue attribuzioni: si diceva che il territorio della Repubblica era ripartito in Regioni (art. 1), si delineava la natura giuridica dell’ente regionale come ente autonomo (art. 2) dotato di potestà legislativa su materie determinate della Costituzione (artt. 3 e 4). Alla Regione spettava pure l’amministrazione delle materie di propria competenza ed in quelle materie di competenza dello Stato che le vengano affidate per 17 Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti dell’Assemblea Costituente, Relazione dell’on. Ambrosini, Seconda Sottocommissione, seduta del 13 novembre 1946, Roma, p. 144. 20 l’esecuzione (art. 6). La Regione ha autonomia finanziaria (art. 8). Al capo II si delineavano gli organi della Regione, Assemblea regionale, Deputazione (Giunta) e Presidente regionale, ed i loro poteri (artt. 9, 10 e 11). Nel capo III si definivano i rapporti fra Regione e Stato. Nel capo V si definivano i ruoli degli altri enti locali territoriali, Province e Comuni. Il capo VI è il più importante ai fini di questa ricerca: in esso s’individuava il territorio delle Regioni da istituire (art. 22) e si prevedevano dei procedimenti di variazione del territorio regionale (art. 23). 4- L’individuazione del territorio delle Regioni Il concetto di regione non ha mai sottinteso un’idea univoca sull’identificazione del territorio che avrebbe dovuto designarla. La geografia, con il termine ‘regione’, intende aree territoriali diverse, a seconda del contesto: regione può essere un intero continente, una parte di esso, un Paese cui corrisponde uno Stato, una suddivisione ulteriore al suo interno, come quella che ripartisce l’Italia in tre zone, nord, centro, sud ed isole. Tali ripartizioni non erano idonee a concretizzare l’idea di regione del costituente italiano. All’interno del territorio italiano, i geografi identificavano altri due tipi di regioni: quelle “maggiori”, tradizionali, che esistevano soltanto nelle pubblicazioni statistiche dove erano state costruite come raggruppamenti di province confinanti, e le regioni “minori”, i cui confini erano molto più netti. Queste ultime presentavano l’inconveniente di avere dimensioni territoriali troppo ristrette, molto spesso simili a quelle delle Province, ente territoriale che il legislatore voleva abolire (esempi di regioni “maggiori” e di regioni “minori” 21 comprese in queste: il Piemonte e la Valle d’Aosta, la Lombardia e la Valtellina, la Toscana e la Garfagnana). Le regioni “maggiori” costituivano dunque il naturale punto di riferimento di ogni proposta di riforma regionale, per quanto fossero state poco studiate e i cui confini risultassero tutt’altro che definiti. A suffragare questa scelta vi era anche una tendenza, diffusa in tutta l’Europa occidentale, che sosteneva l’istituzione di regioni sempre più vaste ritenendole più adatte alle nuove esigenze della pianificazione. I criteri per individuare il territorio delle Regioni ed i procedimenti di variazione di esso apparvero questioni ben delineate sin dalla prima relazione dell’on. Ambrosini. In essa si diceva che si sarebbe dovuto utilizzare il criterio “storico” per la ripartizione regionale; Ambrosini infatti asseriva che: “in Italia esistono regioni geograficamente o tradizionalmente determinate”18. Egli riteneva però che detto criterio andasse integrato con quello “funzionale”, ritenendo necessario che la Regione fosse istituita in modo da essere un ente vitale. Entrambi i criteri, secondo Rotelli19, non erano chiari: non era chiaro per esempio nella definizione del criterio storico se le Regioni dovessero essere geograficamente determinate, tradizionalmente determinate, oppure se si designassero modi d’impiego diversi del criterio storico, a seconda che per l’identificazione degli spazi regionali il riferimento venisse fatto ad una storicità pura oppure ad una storicità che poggiava su fattori geografici. Per quanto riguarda invece il criterio funzionale, esso poggiava sul concetto di vitalità dell’ente. Vitale è l’ente in cui vi sia un rapporto di strumentalità tra la 18 Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti dell’Assemblea Costituente, Seconda Sottocommissione, seduta del 27 luglio 1946, Roma, p. 8. 19 Cfr. E. ROTELLI, L’avvento della Regione in Italia , Milano, 1967, pp. 304 ss. 22 dimensione territoriale e l’efficienza dei pubblici servizi: tale definizione non era univoca tra gli autori e comunque quella data dall’on. Ambrosini non sembrava sufficiente. Nella Relazione il padre Costituente prospettava quindi una ripartizione del territorio sulla base del criterio storico, integrato dal criterio funzionale in posizione sussidiaria e residuale. Nessun ruolo veniva invece previsto per le popolazioni interessate: la loro volontà sarebbe stata richiesta solamente per un’eventuale rettificazione della ripartizione, successiva all’entrata in vigore della Costituzione, come chiesto dall’on. Lami Starnuti20. I motivi di rettificazione avrebbero potuto essere determinati non solamente da esigenze di ordine funzionale, ma anche fondarsi su motivi di ordine storico. Nel dibattito che seguì alla Relazione dell’on. Ambrosini, il primo punto da chiarire riguardò l’intensità, il grado e le modalità del decentramento. Solo in seguito fu possibile passare a discuterete dell’identificazione del territorio della Regione e del ruolo da assegnare alle popolazioni interessate. Vi furono posizioni antiregionalistiche, che ritenevano la Regione antistorica, ne rifiutavano l’istituzione generalizzata e suggerivano che l’istituzione dell’ente fosse fatta dipendere da un libero e spontaneo raggruppamento di una o più Province, deciso dalle popolazioni interessate, mediante referendum. Era questa la tesi della “regione facoltativa”. 20 Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti dell’Assemblea Costituente, Relazione dell’on. Ambrosini, Seconda Sottocommissione, seduta del 13 novembre 1946, Roma, p. 152. 23 Dall’altro lato vi furono i sostenitori della creazione della Regione, divisi tra vere e proprie posizioni federaliste, come l’on. Mortati21, e posizioni regionaliste più attenuate, che propendevano per l’istituzione della Regione come ente autarchico autonomo, dotato di potere legislativo, seppur all’interno dell’indiscutibile unità dello Stato22. In quest’ultimo gruppo, vi era chi individuava le Regioni sulla base del criterio storico e chi invece propendeva perché si facesse ricorso alla volontà delle popolazioni interessate per individuare il territorio regionale. Col proseguio del dibattito le posizioni si appianarono e convertirono verso la posizione regionalista. Il territorio della Regione sarebbe stato individuato sulla sola base del criterio storico, lasciando alle popolazioni interessate il ruolo circa un’eventuale rettificazione della ripartizione fatta dal Costituente. In merito alla funzione delle popolazioni interessate nell’identificazione del territorio regionale, vi furono delle posizioni autorevoli, per quanto rimaste minoritarie e dunque disattese. È il caso di ricordare quella espressa dell’on. Mortati che propose di compiere una serie di ricerche, prima d’individuare il territorio di una Regione, volte a cogliere il legame tra la dimensione territoriale dell’ente e la sua capacità economica, al fine di poter individuare la dimensione territoriale compatibile con l’autosufficienza economica. Di conseguenza il Mortati riteneva che le popolazioni interessate non fossero idonee ad individuare confini tali da garantire un’autosufficienza economica all’istituenda Regione e che quindi la scelta sarebbe dovuta spettare al potere centrale. La tesi del Mortati fu 21 Cfr. E. ROTELLI, L’avvento della Regione in Italia, Milano, 1967, p. 306. Un’autorevole costituzionalista, Carlassare, ha definito l’Italia uno “Stato regionale”. Sul punto si veda: L. CARLASSARE, Conversazioni sulla Costituzione, Padova, 1996, pp. 35 ss. 22 24 contrastata dall’on. Conti, il quale riteneva che dall’espressione della volontà delle popolazioni interessate non potessero che derivare indicazioni utili di carattere economico e finanziario, funzionali all’individuazione del territorio. La volontà delle popolazioni interessate avrebbe dovuto dunque essere tenuta in considerazione fin dal momento della ripartizione del territorio regionale e non solamente in sede di successiva rettificazione. Taluni Costituenti, forse preoccupati che il nesso funzionale così individuato potesse compromettere il riconoscimento di alcune situazioni storiche da regionalizzare, lo contrastarono adducendo varie motivazioni. Fu per questo che la proposta del Mortati rimase disattesa23. Tutte le considerazioni sopra esposte confluirono nel Progetto redatto dal Comitato per le autonomie locali, già esaminato in precedenza. In particolare l’art. 22 si occupò dell’istituzione delle Regioni, indicandone il numero e la denominazione; l’art. 23 contemplava invece la possibilità di modificare la ripartizione fatta dal Costituente. 5- L’art. 22 del progetto del Comitato per le autonomie locali L’art. 22 del progetto era così formulato: “Le Regioni sono costituite secondo la tradizionale ripartizione geografica dell’Italia. Esse sono: Piemonte; Lombardia; TrentinoAlto Adige; Veneto; Liguria; Emilia; Toscana; Umbria; Marche; 23 Cfr. E. ROTELLI, L’avvento della Regione in Italia, Milano, 1967, p. 350. 25 Lazio; Abruzzi e Molise; Campania; Puglia; Lucania; Calabria; Sicilia; Sardegna; e in più la Valle d’Aosta” 24. Il disegno di fondo dei Costituenti fu preciso: restituire un’identità politico-istituzionale alle grandi comunità territoriali della tradizione storico-geografica italiana. Il compromesso fra le diverse posizioni portò a fare delle scelte non più fondate sul criterio storico, ma su criteri sostanzialmente politici. L’articolo in questione presentò delle novità positive rispetto alla discussione preliminare: si indicava un criterio certo di ripartizione: il criterio storico. Sta scritto infatti nell’art. 22 che le Regioni s’individuano secondo la tradizionale ripartizione geografica dell’Italia: la suddivisione geografica ha valore solamente nel caso sia storicamente convalidata. Il criterio geografico non è dotato di autonomia, ma costituisce un semplice presupposto interno del criterio storico. Altra novità positiva riguarda il fatto che nell’art. 22 si formula una concreta proposta di ripartizione regionale. Novità negative riguardano invece il fatto che comunque detto articolo non definisce precisamente ed univocamente il criterio storico e che la suddivisione territoriale che esso ispira non è definitiva. Infatti il successivo art. 23 prevede possibilità di rettificare il territorio delle Regioni individuato dal Costituente. Con l’abbandono del criterio funzionale per ragioni essenzialmente politiche, la rettificazione si basava solamente su esigenze di carattere storico. Vi è però una contraddittorietà di fondo: com’è possibile che vi siano delle Regioni 24 L’enunciazione di questo articolo si riferisce allo schema di Progetto presentato dall’on. Ambrosini al Comitato per le autonomie locali a seguito della sua seconda Relazione il 13 novembre 1946. 26 “storiche” ab initio ed aree territoriali che diverranno Regioni “storiche” solo dopo aver attivato il procedimento di variazione territoriale di cui all’art. 23? La risposta si trova nel fatto che il Costituente in questa fase è stato indirizzato da motivi di opportunità politica più che di coerenza logica. Egli tendeva a creare un’ampia convergenza da parte di tutte le forze politiche e, come si è visto sopra, il criterio funzionale era stato avversato da taluni commissari. Tale tendenza può essere ravvisata anche nel fatto di non aver previsto fra le diverse variazioni territoriali la “fusione” di Regioni. La fusione, avendo a suo presupposto l’istituzione vitale dell’ente regionale, avrebbe legittimato implicitamente il criterio funzionale. Il distaccoaggregazione o la creazione di una nuova Regione, invece, corrispondono meglio alle esigenze di modificazione dettate dal criterio storico piuttosto che a quelle ispirate al criterio funzionale, che richiede per il suo soddisfacimento dimensioni più ampie di quelle della Regione. L’art. 22 pone quindi la summa divisio tra Regioni storiche, elencate in detto articolo, e Regioni nuove, ossia tutte quelle Regioni che non sono ivi elencate, ma di cui è possibile la costituzione se sussistano determinati requisiti. Questi requisiti erano, oltre al fondamento storico, l’accertamento dell’autosufficienza economica e la volontà delle popolazioni interessate. Per le Regioni storiche questi requisiti si danno per presupposti. Per le Regioni nuove invece devono essere verificati: la presenza contemporanea di questi due requisiti non è in realtà così facile da realizzarsi. Per la prova di resistenza cui è sottoposta la creazione di nuove Regioni, si potrebbe parlare di una vera e propria una “probatio diabolica”. Ciò corrispondeva esattamente alla volontà del legislatore che voleva dare la parvenza di 27 lasciare un margine di autonomia alle popolazioni interessate, che con la loro volontà avrebbero potuto modificare una partizione del territorio decisa dallo Stato centrale, ma che concretamente diveniva molto difficile da realizzarsi. Inoltre, accantonando la decisione su certe aree regionalizzabili, il legislatore contribuiva a spostare ogni decisione in tempi in cui presumibilmente le istanze autonomistiche e regionalistiche sarebbero state meno pressanti. Tutto ciò perché non considerava positiva un’eccessiva frammentazione del territorio. La costituzione di Regioni “nuove” rispetto a quelle previste nell’art. 22 venne proposta già nella fase costituente al Comitato dei 10: il Salento, distaccato dalla Puglia; il Molise, distaccato dagli Abruzzi; l’Emilia, distaccata dalla Romagna; il Friuli, distaccato dal Veneto. Il Comitato, in mancanza degli elementi necessari per una decisione ponderata in merito, si attenne al criterio della tradizionale ripartizione geografica dell’Italia. Non si pronunciò sulle richieste di costituzione di suddette Regioni, ma ripropose la questione della loro istituzione davanti alla Sottocommissione. Quando la seconda Sottocommissione discusse il progetto del Comitato dei 10, alcuni commissari vollero fortemente l’istituzione di Regioni che stavano loro a cuore e che difficilmente si sarebbero realizzate se avessero dovuto rispettare i requisiti dell’autosufficienza economica e della volontà delle popolazioni interessate. La coppia di requisiti venne ben presto scemando, dimostrando ancora una volta come le scelte del Costituente fossero motivate innanzitutto da ragioni di opportunità politica. Si riportano qui di seguito alcuni esempi che fanno ben capire quanto affermato. L’istituzione delle prime due Regioni nuove, la Regione UmbroSabina ed il Sannio (un’area territoriale che comprendeva l’Abruzzo 28 meridionale, il Molise e la Campania orientale), non poté realizzarsi perché all’autosufficienza economica di entrambe non si accompagnò il requisito della volontà popolare. Nella discussione sull’istituzione della Regione Molise vi fu contrasto sui parametri sui quali fondare il giudizio di autosufficienza economica: alcuni ritennero che una situazione regionalizzabile soddisfacesse detto principio se il carico tributario regionale fosse superiore alla media nazionale. Altri invece ritennero che vi fosse autosufficienza economica se la Regione fosse stata in grado di far fronte ai compiti derivatigli dalla concessione dell’autonomia. Tutti questi argomenti emarginarono e poco a poco coprirono del tutto il requisito dell’autonomia economica, dimostrando una volta in più come i criteri tecnici introdotti dal dibattito costituzionale venissero strumentalizzati a fini politici. Altra prova della pressione politica che ruotava attorno alla richiesta della Regione Molise poteva essere ravvisata nell’esiguità della popolazione di questa Regione, inferiore alle 500.000 persone richieste nel successivo art. 23 del Progetto per la creazione di una nuova Regione. La proposta d’istituzione della Regione Daunia (un’area territoriale situata nelle Puglia settentrionale) venne respinta sia per la mancanza dell’autosufficienza economica, sia per la mancanza della volontà popolare. Per l’istituzione del Salento (la penisola salentina è situata nella Puglia meridionale), il requisito dell’autosufficienza economica era documentato alla stessa maniera che per la Daunia, ma in questo caso la volontà popolare fu favorevole all’istituzione della Regione che quindi fu inserita nell’art. 22. 29 Nell’istituzione dell’Emilia Appenninica e dell’Emilia e Romagna il requisito dell’autosufficienza economica non venne ormai più preso in considerazione e si considerò invece determinante il solo requisito della volontà popolare, che portava con sé un nuovo dilemma: le modalità di esternazione della volontà popolare. In questo caso la volontà espressa dalle Deputazioni provinciali non venne considerata valida espressione della volontà popolare in quanto questi organi non erano stati ancora eletti. La volontà delle Deputazioni fu invece stata considerata valida per l’istituzione della Regione Molise: ecco l’ennesimo esempio di strumentalizzazione politica. Anche l’istituzione della Regione Friuli si fondò sul solo requisito della volontà della popolazione: sarebbe stato del resto molto difficile dimostrare il requisito dell’autosufficienza economica per una regione afflitta in maniera cronica dal problema dell’emigrazione. Al termine della discussione l’articolo in questione venne modificato con l’aggiunta delle seguenti Regioni: Friuli, Molise, Salento; l’Emilia fu frazionata in Emilia Appenninica ed Emilia e Romagna25. Da questi esempi emerge chiaramente che il solo requisito ormai richiesto per la creazione di una nuova Regione era quello della volontà della popolazione; si trattava a quel punto di definire le modalità per l’accertamento della volontà popolare. Le proposte furono molteplici: referendum approvativo delle decisioni della Sottocommissione; referendum consultivi; semplici pareri delle amministrazioni comunali o provinciali; manifestazioni di volontà dei deputati dell’Assemblea Costituente eletti nei territori interessati. La decisione finale fu che la volontà popolare si manifestasse nella forma 25 Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. I, Padova 1979, nota 102, p. 40. 30 di un parere facoltativo e non vincolante espresso dagli organi rappresentativi delle popolazioni interessate. La strumentalizzazione politica aveva completato la sua opera: il requisito della volontà popolare aveva avuto la funzione di svalutare quello dell’autosufficienza economica, volontà popolare che venne poi di fatto svuotata della sua capacità di incidere a seguito delle decisioni della Sottocommissione. 6- L’art. 23 del progetto del Comitato per la autonomie locali L’art. 23 del progetto statuiva che: “E’ consentito alle popolazioni interessate, mediante deliberazione della maggioranza dei rispettivi Consigli comunali, di chiedere il distacco da una Regione e l’aggregazione ad un’altra”. “E’ consentito inoltre la richiesta dell’erezione di una nuova Regione quando provenga dai Consigli comunali rappresentanti una popolazione di almeno 500.000 abitanti”. “Le modificazioni di cui ai primi due comma sono disposte con legge dello Stato, previo parere delle Assemblee Regionali interessate” . Quest’articolo rappresenta lo stadio embrionale dell’art. 132 della Costituzione, al quale si giungerà dopo numerose discussioni. La norma in questione contempla due sole tipologie di variazione territoriale: il distacco-aggregazione (co. 1) e la creazione di una nuova Regione (co. 2). Manca l’ipotesi della fusione di Regioni esistenti, che invece compare nell’art. 132 Cost. L’omissione è ancora una volta frutto di una strumentalizzazione politica: il criterio funzionale era il presupposto della fusione che, come si è visto, fu più volte avversato ed ostacolato. Il fatto che sia stato poi introdotto nella 31 versione definitiva dell’art. 132, fa ben sperare per il futuro: un’eventuale modificazione territoriale per fusione recupererebbe quel criterio funzionale, tanto ingiustamente avversato. Verrà svolta ora qualche considerazione sull’art. 23 del Progetto, riservando un’analisi più approfondita sulle tematiche che esso solleva, quando si andrà ad esaminare dettagliatamente l’art. 132 Cost., oggetto di questo studio. I procedimenti di variazione territoriale si compongono di tre fasi: la richiesta di celebrare la consultazione referendaria; il referendum, per conoscere la volontà delle popolazioni interessate; in caso di esito positivo del referendum, l’iniziativa di legge e la conseguente istruttoria del procedimento legislativo. L’atto che avvia il procedimento era qualificato come “richiesta” (si veda art. 23, co. 2). Vi furono alcuni commissari che avrebbero voluto qualificarlo come “proposta” perché ritenevano che questo termine fosse in grado di porre un obbligo a carico di chi avrebbe dovuto emettere il provvedimento finale. In realtà né l’uno, né l’altro, furono in grado di vincolare ad emettere un provvedimento finale con contenuto conforme ad essi. Titolari dell’iniziativa erano la maggioranza dei Consigli comunali delle popolazioni interessate, nell’ipotesi di distacco-aggregazione (co. 1); i Consigli comunali che rappresentassero una popolazione di almeno 500.000, abitanti nell’ipotesi di creazione (co. 2). Nel corso del dibattito emerse la proposta di concedere la titolarità dell’iniziativa anche allo Stato, quando ritenesse una variazione territoriale utile agli interessi generali. La proposta fu respinta dalla Sottocommissione. 32 Nel caso di distacco-aggregazione, vi era un aspetto problematico: il co. 1 dell’art. 23 attribuiva l’iniziativa alla maggioranza dei Consigli comunali delle popolazioni interessate e non ai Consigli comunali che ne rappresentassero la maggioranza. Poteva quindi verificarsi l’ipotesi che la volontà della maggioranza dei Consigli, minoritaria rispetto alla volontà delle popolazioni delle zone da aggregare, riuscisse ad imporre una modificazione territoriale da queste non voluta. Per far fronte a tale situazione la seconda Sottocommissione, in sede di discussione del progetto, propose un emendamento all’art. 23: per aggregare un’area territoriale di una Regione ad un’altra sarebbe stata necessaria la proposta della maggioranza dei Consigli comunali compresi in quell’area. La proposta avrebbe poi dovuto essere sottoposta a referendum della popolazione delle zone da aggregare. In questo modo si sarebbe tenuto conto delle popolazioni interessate al mutamento territoriale e si sarebbe offerto loro la possibilità di esprimere un parere. L’emendamento fu accolto prevedendo che i Consigli comunali che rappresentassero almeno 1/3 delle popolazioni interessate potessero chiedere il referendum. Questo emendamento portava con sé un aspetto problematico: un referendum di tutta la popolazione della zona da aggregare non era in grado di attribuire una dislocazione territoriale alla maggioranza. Poteva accadere che in un Comune la maggioranza degli elettori fossero contrari alla variazione territoriale, ma rappresentassero una minoranza nella consultazione complessiva. In questo modo essi sarebbero stati costretti a subire l’aggregazione ad un’altra Regione contrariamente alla loro volontà. Per ovviare a questo problema si sarebbe dovuto prevedere un referendum Comune per Comune e 33 aggregare solamente quei Comuni che avessero risposto positivamente al quesito referendario. Per l’ipotesi di creazione di una nuova Regione si è detto che titolari dell’iniziativa fossero i Consigli comunali che rappresentassero una popolazione di almeno 500.000 abitanti. Coordinando questa norma con il precedente emendamento, sorgeva il seguente dilemma: i Consigli comunali che assumevano l’iniziativa referendaria dovevano rappresentare almeno 500.000 abitanti, pertanto la frazione di 1/3 delle popolazioni interessate avrebbe dovuto corrispondere ad un numero uguale o superiore a 500.000 abitanti? No, la cosa pare eccessiva. Il numero di 500.000 abitanti si riferisce solamente al numero minimo di abitanti necessario per dar vita ad una nuova Regione. Tale numero fu stabilito per limitare il frazionamento delle Regioni esistenti. La seconda fase dei procedimenti di variazione territoriale si concretizzava nel referendum delle popolazioni interessate. L’aspetto più problematico di questa fase riguardava la qualificazione giuridica da dare all’atto risultante dal referendum: atto consultivo oppure atto deliberativo dell’iniziativa? Pareva più adeguata la seconda soluzione: in caso di esito negativo, i Consigli comunali non potevano presentare alcuna richiesta. Nel caso in cui invece il referendum avesse dato esito positivo, i Consigli comunali non sarebbero stati obbligati a presentare la richiesta di mutamento territoriale. Se la presentavano però, essa avrebbe dovuto essere conforme nel contenuto alla decisione referendaria (fase dell’iniziativa di legge). 34 L’ultimo aspetto da esaminare riguarda la legge di variazione territoriale. A tal proposito l’art. 23, co. 3 dice che doveva trattarsi di una legge dello Stato, ma non ne specificava la tipologia. Per quanto riguarda l’ipotesi della creazione di una nuova Regione doveva trattarsi di legge costituzionale, in quanto si andava a modificare l’elencazione delle Regioni prevista dall’art. 22 del Progetto, che avrebbe avuto rango costituzionale. Si ricordi che le Regioni influiscono sulla composizione di alcuni organi dello Stato, in particolare sulla composizione del Senato (art. 57 Cost.). Nell’ipotesi di distacco-aggregazione la legge di variazione avrebbe invece potuto essere ordinaria oppure costituzionale. La Sottocommissione decise che si dovesse procedere anche in questo caso con legge costituzionale, preoccupata dal fatto che un passaggio di Comuni in più tempi potesse modificare sostanzialmente le Regioni. In entrambi i casi la legge doveva essere preceduta dal parere delle Assemblee regionali interessate. La funzione era quella di tutelare le popolazioni non direttamente interessate al mutamento territoriale, “ma che potrebbero sentirsi danneggiate da questa separazione di una parte della Regione”26, come affermò l’on. Terracini. Un’ultima considerazione prima di concludere questa breve analisi dell’art. 23 del Progetto: si può notare che il ruolo previsto dal Costituente per le popolazioni interessate fosse molto più ampio ed incisivo di quanto non fosse stato durante la discussione sull’inserimento delle Regioni nuove nell’elencazione dell’art. 22 del Progetto. Ciò è stato previsto in funzione garantistica delle 26 Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti dell’Assemblea Costituente, Atti della seconda Sottocommissione, Roma, p. 1590. 35 popolazioni interessate, cosa che nella precedente discussione era stata messa in ombra dalla necessità di raggiungere un compromesso politico sulle Regioni da istituire. 7- La discussione sulle autonomie locali della Commissione dei 75 riunita in adunanza plenaria Il testo del progetto redatto dal Comitato dei 10 fu emendato dopo essere stato presentato alla seconda Sottocommissione, seguendo le deliberazioni della stessa. Gli articoli del progetto del Comitato dei 10 confluirono in un nuovo progetto, che fu presentato alla Commissione dei 75 riunita in adunanza plenaria. La discussione del nuovo progetto segnò un sensibile arretramento rispetto alle posizioni regionalistiche fino ad allora raggiunte. Nel corso del dibattito della Commissione dei 75 non emersero posizioni particolarmente innovative rispetto alle discussioni precedenti. Fu più che altro la sede dove venne svolto il dibattito che non era più favorevole come prima alle teorie regionaliste. Come sopra ricordato, i partiti inserirono all’interno della seconda Sottocommissione i membri più spiccatamente regionalisti nella convinzione che fossero anche i più preparati in tema di autonomie locali. Era quindi logico che all’interno della Commissione dei 75 le posizioni antiregionalistiche fossero molto più accentuate. Per quanto riguarda la materia di questa ricerca, gli artt. 18 e 20 del nuovo progetto riguardavano rispettivamente l’elenco delle Regioni da istituire e la disciplina delle variazioni territoriali delle Regioni. 36 L’art. 18 in particolare riproduceva il testo dell’art. 22 del progetto del Comitato dei 10, con le modificazioni intervenute dopo le deliberazioni della seconda Sottocommissione: “Le Regioni sono: Piemonte; Lombardia; Trentino-Alto Adige; Veneto; Friuli; Liguria; Emilia Appenninica; Emilia e Romagna; Toscana; Umbria; Marche; Lazio; Abruzzi; Molise; Campania; Puglia; Salento; Lucania; Calabria; Sicilia; Sardegna; Valle d’Aosta” . I commissari posero l’accento sulla divisione tra Regioni storiche e Regioni nuove e criticarono i criteri proposti per individuare queste ultime. Per quanto riguarda il criterio storico, si disse che era troppo vago: la tradizionale ripartizione geografica d’Italia non era unanimemente condivisa. In merito al requisito della volontà delle popolazioni interessate, si disse che la procedura adottata per raccogliere la volontà popolare era inadeguata: non appariva adeguato che questa si manifestasse nella forma di un parere facoltativo e non vincolante espresso dagli organi rappresentativi delle popolazioni interessate, soprattutto alla luce del procedimento referendario, più garantista, previsto per la creazione di Regioni future. Si ravvisava poi una carenza di volontà popolare in merito alle situazioni da regionalizzare. La consultazione delle popolazioni interessate aveva appena avuto inizio. Le Deputazioni provinciali ed i Comuni delle Regioni interessate dovevano ancora esprimere un giudizio sulle decisioni prese dal Costituente. Per questi motivi, per l’opportunità cioè di attendere i risultati della verifica in corso, l’on. Moro propose che: “la decisione in merito potrà essere riservata a quando gli elementi di giudizio saranno in possesso della 37 Commissione che potrà decidere senza basarsi su presunzioni e senza dar motivo a sospetti di simpatie per una Regione o per l’altra”27. L’emendamento dell’on. Moro fu approvato e l’adunanza plenaria decise di sospendere ogni decisione riguardante l’istituzione delle Regioni “nuove”. L’elencazione continuò a comprendere pertanto 22 Regioni. L’art. 20 del nuovo progetto aveva ad oggetto i procedimenti di variazione territoriale delle Regioni. In esso furono recepite tutte le deliberazioni assunte dalla seconda Sottocommissione quando andò ad esaminare il progetto del Comitato dei 10. In particolare: - fu previsto che 500.000 fosse il numero minimo di abitanti richiesti per poter creare una nuova Regione e non più il numero su cui contare i legittimati alla richiesta; - titolari dell’iniziativa della legge costituzionale non furono più i Consigli comunali che rappresentassero la maggioranza delle popolazioni interessate. Allo stesso tempo però non fu chiaro se fosse il referendum a valere come atto introduttivo del procedimento legislativo o se invece fosse la richiesta di referendum ad operare come atto d’iniziativa, in caso di esito positivo del referendum. La novità più importante introdotta dall’adunanza plenaria riguarda l’ipotesi di distacco-aggregazione. Per questa tipologia di variazione territoriale venne previsto l’utilizzo della legge ordinaria e non più di quella costituzionale. Con tale decisione l’adunanza plenaria intendeva risolvere un conflitto che era derivato da due distinte 27 Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti dell’Assemblea Costituente, Commissione per la Costituzione, Adunanza Plenaria, seduta del 1° febbraio 1947, Roma, p. 282. 38 statuizioni della Sottocommissione. La prima prevedeva, ex art. 23, co. 3 del progetto, che il distacco-aggregazione fosse adottato con legge costituzionale. La seconda prevedeva invece che i confini delle Regioni fossero stabiliti con legge ordinaria. Tale contraddizione avrebbe potuto portare alla situazione paradossale di doversi ricorrere alla legge costituzionale per un’aggregazione minima, come quella indotta dall’aggregazione di un solo Comune. Allo stesso tempo avrebbe potuto impiegarsi una legge ordinaria per variazioni territoriali rilevanti, in quanto tutte le variazioni comportano una modificazione dei confini regionali. Il limite delle statuizioni della Sottocommissione era quello di non aver previsto una soglia minima di consistenza demografica al di sopra della quale avrebbe dovuto utilizzarsi la legge costituzionale, al di sotto della quale avrebbe potuto impiegarsi invece la legge ordinaria. Lo stesso limite inficia anche la decisione dell’adunanza plenaria, che è egualmente contraddittoria. 8- Il progetto di Costituzione della Repubblica italiana I lavori svolti dalla tre Sottocommissioni confluirono nel progetto di Costituzione della Repubblica italiana, che doveva essere approvato dall’Assemblea Costituente. Il progetto venne presentato alla presidenza dell’Assemblea Costituente il 31 gennaio 1947; era composto di due parti: la prima, dedicata ai diritti e ai doveri dei cittadini; la seconda, dedicata all’ordinamento della Repubblica. L’ordinamento delle autonomie locali fu collocato al Titolo V della Parte II (artt. 106-125), intitolato: “le Regioni e i Comuni”. Per quanto riguarda l’oggetto specifico di 39 questo studio, l’art. 123 si occupava di enumerare le Regioni; l’art. 125 trattava i procedimenti di variazione territoriale delle Regioni. 9- La discussione dell’art. 123 del progetto di Costituzione della Repubblica italiana La discussione dell’Assemblea Costituente sul Titolo V fu caratterizzata dal fatto di riproporre il dibattito sulla questione regionale, in una sede in cui però le posizioni del regionalismo moderato e dell’antiregionalismo erano più numerose. Unanimemente riconosciuta un’esigenza di decentramento, i modi per attuarla proposti furono i più disparati: dalle tesi federaliste a quelle che propendevano per un’istituzione facoltativa della Regione. Si levarono anche tesi antiregionaliste. Alla fine però, tutto ruotò sempre attorno al medesimo dilemma: istituzione delle Regioni storiche oppure approvazione anche di Regioni nuove? La questione delle circoscrizioni regionali, ai sensi dell’art. 123, avrebbe dovuto essere discussa il 22 luglio 1947. Si decise però di sospendere la discussione e la votazione dell’articolo in questione e di rinviarla a dopo che fosse stata approvata la parte del progetto relativa al Senato, che doveva essere costituito su base regionale. La questione della ripartizione del territorio fu esaminata nella seduta del 29 ottobre 1947. Questo il testo dell’art. 123 del progetto di Costituzione: “Le Regioni sono così costituite: Piemonte; Valle d’Aosta; Lombardia; Trentino-Alto Adige; Veneto; Friuli e Venezia Giulia; Liguria; Emiliana lunense; Emilia e Romagna; Toscana; Umbria; 40 Marche; Lazio; Abruzzi; Molise; Campania; Puglia; Salento; Lucania; Calabria; Sicilia; Sardegna” . “I confini ed i capoluoghi delle Regioni sono stabiliti con legge della Repubblica” . Il Comitato di redazione sottopose all’attenzione dell’Assemblea, come base del dibattito, la ripartizione tradizionale in 18 Regioni, proposta a suo tempo dal Comitato dei 10, e non quella stabilita dalla seconda Sottocommissione e riportata nel testo dell’art. 123, in 22 Regioni. Il fatto sollevò una vivace disputa giuridica sulla legittimità della scelta del Comitato di redazione: discutibile era il fatto che il Comitato avesse il potere di modificare la decisione precedentemente presa dalla seconda Sottocommissione, ciò soprattutto alla luce del fatto che le consultazioni popolari cui era stata demandata l’approvazione definitiva delle Regioni, erano state effettuate. Inoltre, se l’Assemblea avesse voluto ritornare alla ripartizione tradizionale, avrebbe potuto farlo durante la discussione dell’art. 123. Ma fu proprio questo che l’Assemblea mostrò di non voler fare. I grandi partiti temevano di dover giungere alla discussione sulle singole nuove situazioni regionalizzabili, perché la possibilità che alcune venissero accolte ed altre respinte, avrebbe avuto delle conseguenze in termini di costo elettorale. La soluzione che si seguì può definirsi “salomonica”28, cioè scontentare tutti in egual misura, lasciando allo stesso tempo intravedere la possibilità di un riconoscimento futuro. Si decise così un’interpretazione restrittiva del 28 Secondo l’espressione di Ambrosini, in Atti dell’Assemblea Costituente, a cura della SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Roma, p. 1707. 41 criterio storico, ripartendo il territorio della Repubblica nelle 18 Regioni tradizionali, ma prevedendo la possibilità di porre degli emendamenti al nuovo testo dell’art. 123. A tutte queste funzioni sembrava corrispondere l’ordine del giorno firmato dall’on. Targetti ed altri. Formalmente la discussione della seduta del 29 ottobre 1947 ruotò attorno alla contrapposizione fra due ordini del giorno: l’o.d.g. Targetti ed altri29, che proponeva un’applicazione rigorosa del criterio storico-tradizionale in conformità alle pubblicazioni statistiche, e l’o.d.g. De Martino ed altri30, che proponeva di rinviare alla legislazione ordinaria il compito d’identificare le Regioni. Nella sostanza, il primo o.d.g. fu assunto come baluardo estremo di difesa del regionalismo, il secondo invece rappresentò l’ultimo appiglio per gli antiregionalisti, che sapevano di poter contare anche sull’appoggio dei regionalisti favorevoli all’istituzione delle Regioni nuove. L’o.d.g. De Martino proponeva di scindere i due aspetti del problema regionale, quello attinente al principio dell’autonomia regionale e quello riguardante la sua concreta attuazione. Le motivazioni di questa scissione erano ravvisate ne: - le difficoltà di carattere organizzativo ed economico cui avrebbe dato luogo l’istituzione immediata dell’ente-regione; - l’impossibilità di effettuare le complesse valutazioni che erano a fondamento della ripartizione territoriale; 29 Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti dell’Assemblea Costituente, Roma, pp. 1682-1683. 30 Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti dell’Assemblea Costituente, Roma, p. 1682. 42 - l’opportunità di dar modo alle popolazioni interessate di esprimere la loro volontà sulla Regione di cui dovrebbero far parte attraverso la consultazione dei loro organi rappresentativi. Il dibattito sull’o.d.g. De Martino si ridusse essenzialmente al principio per cui doveva essere la volontà popolare a determinare l’ambito territoriale delle Regioni e al fatto che la consultazione indiretta fosse insufficiente, alla luce anche dei risultati modesti e contraddittori raggiunti fino ad allora dalle consultazioni effettuate in concreto. Si noti come il principio dell’autodecisione popolare fu strumentalizzato in senso antiregionalistico. Critico nei confronti dell’o.d.g. De Martino fu soprattutto l’on. Piccioni31, il quale sollevò in Assemblea una pregiudiziale, motivandola con le seguenti considerazioni: - le motivazioni che avevano spinto l’Assemblea a sospendere ed a rinviare l’approvazione dell’art. 123 e le motivazioni dell’o.d.g. in questione che proponevano il rinvio si fondavano su presupposti completamente diversi; - era scorretto riconsiderare le deliberazioni già approvate dall’Assemblea, adducendo l’esigenza di completare un ordinamento regionale ormai approvato; disse che: “venire a questa tardissima ora, del nostro esame sull’ordinamento regionale, a dire di nuovo all’Assemblea Costituente che l’applicazione di quello che abbiamo per tanti mesi discusso e deliberato, deve essere rinviata alle future Camere legislative, evidentemente vuol dire un po’ ironizzare – se mi è lecito dirlo – su quello che è il contenuto del lavoro della nostra Assemblea”. Aggiunse che riteneva l’o.d.g. in questione l’ultimo 31 Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti dell’Assemblea Costituente, Roma, p. 1694. 43 tentativo di sabotare, attraverso il rinvio, l’attuazione della riforma regionale. Le istanze di Piccioni furono condivise anche da Ambrosini32, che riteneva la definizione delle circoscrizioni regionali condizione necessaria per l’attuazione della riforma. La pregiudiziale di Piccioni venne approvata e così fu superato anche l’ultimo tentativo di annullare la riforma regionale. A parere di chi scrive, la critica più consistente all’o.d.g. De Martino è stata sollevata da un Autore, il Pedrazza Gorlero, in uno scritto del 197033, dove diceva che elementi costitutivi di un ente locale sono il territorio e la popolazione. Non sarebbe stato quindi possibile prevedere l’istituzione degli enti locali senza determinarne contemporaneamente questi due elementi, come proponeva di fare l’o.d.g. De Martino. L’o.d.g. Targetti34 sosteneva un’interpretazione restrittiva del criterio storico in modo da circoscriverlo per impedire richieste di istituzione di Regioni nuove. Si ricordi infatti che, a fondamento dell’istituzione delle Regioni nuove, la seconda Sottocommissione aveva posto tre criteri: la loro appartenenza ad una ripartizione storica accettata; l’autosufficienza economica dell’area territoriale in questione; la volontà delle popolazioni interessate. I due ultimi requisiti erano stati inseriti per limitare il numero di richieste di erezione di nuove Regioni, che altrimenti fondandosi sul solo criterio storico, sarebbero state molto più numerose. Nella medesima 32 Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti dell’Assemblea Costituente, Roma, p. 1699. 33 Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. I, Padova, 1979, p. 79. 34 Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti dell’Assemblea Costituente, Roma, pp. 1682 ss. 44 direzione andava anche l’o.d.g. Targetti, che forniva il fondamento per un ennesimo giro di vite: il criterio su cui fondare la ripartizione regionale era solamente quello storico, di cui alle pubblicazioni statistiche. Si trattava di un criterio non scientifico, ma obiettivo, che aveva il pregio di far coincidere perfettamente la suddivisione territoriale che ne risultava con quella contenuta nell’elenco di 18 Regioni. Nessun ruolo veniva riservato alla volontà delle popolazioni interessate, nemmeno nel senso di una correzione “attuale”, anche in senso storico, del criterio storico adottato. La differenza rispetto al progetto della seconda Sottocommissione salta all’occhio, soprattutto alla luce del fatto che in alcuni casi (per esempio il Molise) la volontà popolare era stata dimostrata dalle indagini condotte. Il criterio storico-statistico proposto da Targetti nel 1947 sembrò una buona scelta. Nessuno, allora, fra i cultori delle discipline correlate col tema regionalistico sarebbe stato in grado di contestarlo. Non gli economisti, perché non si erano ancora verificate quelle grandi trasformazioni sociali che avrebbero caratterizzato l’Italia dei decenni successivi; né gli urbanisti, perché non vi era ancora stata quella pianificazione economica e territoriale, che in seguito l’avrebbero fatto apparire inadeguato. Solo i geografi mostrarono interesse: si disse che era compito della geografia definire e delimitare le singole Regioni. La Regione, secondo la definizione geografica, era la localizzazione di un insieme di fenomeni ed aspetti tra loro spazialmente collegati ed interdipendenti, che adempivano alla funzione di veri e propri organi nella fisiologia della vita nazionale. La suddivisione del territorio italiano fatta dai geografi era molto simile a quella che si stava delineando in seno all’Assemblea Costituente 45 anche senza il loro apporto. Nessun geografo criticò il progetto di Costituzione né la ripartizione secondo le Regioni tradizionali35. Le Regioni tradizionali, individuate secondo il criterio storicostatistico, derivano in realtà, come dice Rotelli in un suo scritto del 1967, da un grande “equivoco”36: nel 1864 si definirono dei raggruppamenti di Province confinanti, con scopi meramente statistici, che furono chiamate “compartimenti statistici”. Nel 1912 la Direzione di statistica del Regno ribattezzò i compartimenti “regioni statistiche”. Durante il periodo fascista, i testi scolastici cominciarono a chiamare “storiche” le regioni statistiche. Non meno diffuso era allora anche un altro “equivoco”, confortato dalla geografia: identificare le regioni storiche con le regioni naturali e ritenere queste ultime delle aree a struttura economica e sociale solidale. Furono questi i fondamenti storici su cui si basò l’o.d.g. Targetti. Anche il criterio statistico fu strumentalizzato per i soliti fini politici, in modo da far coincidere la ripartizione storico tradizionale con quella proposta dall’art. 123; a tal proposito si riportano due esempi chiarificatori: - il Molise era una Regione storicamente distinta dall’Abruzzo, ma furono unite per fini statistici. Questo era il senso dell’emendamento all’o.d.g. Targetti proposto dall’on. Colitto37; si chiedeva di costituire il Molise come Regione distinta dall’Abruzzo. La proposta non fu accettata, affermando che l’o.d.g. aveva carattere preclusivo. In realtà si volle far approvare l’art. 123 così com’era. In questo caso il criterio statistico sopravanzò quello storico; 35 Cfr. E. ROTELLI, L’avvento della Regione in Italia, Milano, 1967, pp. 364 ss. Cfr. E. ROTELLI, L’avvento della Regione in Italia, Milano, 1967, pp. 368 ss. 37 Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti dell’Assemblea Costituente, Roma, pp. 1704 ss. 36 46 - nel caso della Regione Emilia-Romagna, la denominazione statistica “Emilia” differiva da quella storico-tradizionale “Emilia-Romagna”. In questo caso si decise di adottare la denominazione storicotradizionale, perché questa veniva utilizzata nel testo dell’art. 123. Si conclude l’analisi dell’art. 123 riportando un’affermazione della dottrina più autorevole in materia (Pedrazza Gorlero): “le realtà regionali da istituire e le denominazioni da attribuire loro non si desumono né dall’applicazione del criterio “storico”, né dall’applicazione del criterio “statistico”, ma dall’impiego di un criterio sostanzialmente “politico”, che utilizza la integrazione dei due criteri a reciproco “ritaglio”, in modo da far coincidere la ripartizione “storico-tradizionale” con quella proposta per meri motivi di opportunità politica, dall’art. 123”38. 10- La discussione dell’art. 125 del progetto di Costituzione della Repubblica italiana L’art. 125 del progetto di Costituzione della Repubblica italiana prevedeva i procedimenti di variazione territoriale delle Regioni e riproduceva il testo dell’art. 20 del progetto presentato dalla seconda Sottocommissione ed approvato con emendamenti dalla Commissione dei 75 riunita in adunanza plenaria; questa la sua formulazione: “Si può con legge costituzionale, sentiti i Consigli regionali interessati, disporre la fusione delle Regioni esistenti e la creazione di nuove Regioni con un minimo di 500.000 abitanti, quando ne facciano richiesta tanti Consigli comunali che rappresentino almeno un terzo 38 Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. I, Padova, 1979, p. 86. 47 delle popolazioni interessate, e la proposta sia approvata per referendum dalla maggioranza delle popolazioni stesse”. “Si può, con referendum e legge della Repubblica, sentiti i Consigli regionali, consentire che i Comuni, i quali ne facciano richiesta, siano staccati da una Regione ed aggregati ad un’altra”. Nella discussione in Assemblea furono proposti numerosi emendamenti a questo articolo. L’emendamento proposto dall’on. Persico intendeva sopprimere il comma 1 dell’art. 12539. La motivazione risiedeva nel fatto che la pronuncia referendaria favorevole di 250.001 elettori (la metà più uno dei 500.000 abitanti richiesti per la creazione di una nuova Regione) avrebbe portato all’erezione di una nuova Regione, e ciò poteva portare ad un frazionamento eccessivo del territorio. L’emendamento fu respinto perché l’on. Persico aveva commesso il grave errore di identificare il numero di abitanti con il corpo elettorale interessato. Altri emendamenti presentati riguardarono l’iniziativa in caso di creazione di una nuova Regione o di fusione di Regioni. Si propose di attribuire l’iniziativa anche al Senato, a maggioranza dei 2/3 dei membri; si propose di elevare a 1/2 o addirittura a 2/3 la frazione di popolazione che i Consigli comunali dovevano rappresentare per attivare il procedimento; si propose di mantenere la frazione di 1/3, calcolandola però sull’intera popolazione della Regione o delle Regioni interessate. Nessuno di questi però venne approvato. Altra serie di emendamenti riguardarono la popolazione minima per costituire una nuova Regione: alcuni volevano abbassarla a 400.000 abitanti, altri innalzarla a 1.000.000 o 1.500.000 o 2.000.000 di 39 Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti dell’Assemblea Costituente, Roma, p. 2826. 48 abitanti. L’on. Mortati sostenne che 1.500.000 abitanti fosse la consistenza demografica minima perché la Regione potesse risolvere i problemi di equilibrio interno di forze ed interessi sociali e venisse ad assumere nei consessi nazionali il necessario rilievo politico40. L’Assemblea Costituente decise di elevare il numero minimo di abitanti a 1.000.000. Ulteriori emendamenti riguardarono la legge statale di variazione territoriale: vi è chi avrebbe voluto l’utilizzo della legge ordinaria per tutti i procedimenti di variazione territoriale e chi invece, al contrario, avrebbe voluto l’utilizzo della legge costituzionale anche per il procedimento di distacco-aggregazione. Una volta soppresso dall’Assemblea l’ultimo comma dell’art. 123, il quale prevedeva che “i confini ed i capoluoghi della Regione sono stabiliti con legge della Repubblica”, era venuto meno il motivo di conflitto tra questa norma e la legge costituzionale prevista per l’ipotesi di distaccoaggregazione. Anche questi emendamenti non furono approvati e continuarono a prevedersi leggi di rango differenziato a seconda della tipologia di variazione territoriale. La discussione più importante in merito all’art. 125 riguardò l’articolo aggiuntivo proposto da Mortati che poi divenne, pur se con qualche modifica, l’art. XI delle disposizioni transitorie e finali della Costituzione italiana. Nel testo originario si prevedeva che: “Fino a cinque anni dopo l’entrata in vigore della presente Costituzione si potrà procedere, con legge costituzionale, alla modificazione delle circoscrizioni regionali stabilite dall’art. 123, anche senza il concorso delle condizioni di cui all’art. 125” . 40 Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti dell’Assemblea Costituente, Roma, p. 2827. 49 Il fondamento logico di questo articolo stava nel fatto che il Mortati considerava la ripartizione regionale ex art. 123 una ripartizione provvisoria, che dunque poteva essere rivista nell’immediato futuro senza l’ingombro di una procedura complessa come quella prevista all’art. 125. Si ricorda infatti che questi aveva proposto di compiere delle ricerche nelle aree da regionalizzare41 prima d’istituirvi una Regione, ma che tale proposta non venne accettata. Questo articolo mirava a restituire un fondamento di razionalità ad una suddivisione territoriale fatta senza avere gli elementi conoscitivi necessari ed indirettamente ad utilizzare quel criterio funzionale di ripartizione regionale tanto ingiustamente avversato. La discussione di questo articolo in Assemblea assunse una curvatura unidirezionale che gli assegnò il compito di soddisfare le richieste di istituzione di Regioni che il Costituente aveva deciso di non accogliere. A suffragare questo sospetto vi era poi il fatto che non fu previsto un minimo di consistenza demografica. Tale articolo era stato strumentalizzato per consentire l’erezione a Regione del Molise, i cui sostenitori erano stati i più tenaci durante il dibattito in Assemblea Costituente. Lo stesso Mortati disse che questo articolo era posto in deroga limitatamente all’art. 125, co. 1, quindi ai casi di creazione di nuove Regioni ed a quello di fusione di Regioni, in quanto la modificazione da farsi con legge costituzionale si riferiva solamente a questi due procedimenti di variazione territoriale. Il testo dell’articolo fu poi modificato dal Comitato di redazione in sede di formulazione definitiva; l’inciso “modificazione delle circoscrizioni regionali stabilite” fu sostituito con “formare altre regioni, a modificazione dell’elenco”. Il termine “altre” esprimeva l’aggiunta numerica: 41 Si veda Capitolo I, pp. 24-25. 50 Regioni nuove, cioè altre rispetto a quelle già esistenti. In questo modo veniva esclusa dalla deroga anche l’ipotesi della fusione. Alla luce di queste considerazioni, l’articolo in questione venne a porsi in contraddizione con le finalità iniziali che si era proposto di avere, cioè consentire una revisione razionale delle circoscrizioni regionali. La spiegazione consiste nel fatto che il distaccoaggregazione e la fusione sono procedimenti volti ad una ricomposizione razionale del territorio. La creazione di una nuova Regione invece provoca solamente un ulteriore frazionamento del territorio. Si è visto che l’articolo aggiuntivo nella sua formulazione definitiva si riferisce esclusivamente al procedimento di creazione che non ha funzione di razionalizzare il territorio, ma di frazionarlo. La strumentalizzazione anche in questo caso è palese. Altra modificazione all’articolo aggiuntivo fu quella che pose l’obbligo, a carico di chi avesse voluto attivare il procedimento straordinario di revisione territoriale, di avere il consenso delle popolazioni interessate. Si trattava di un’aggiunta importante perché restituiva alla volontà popolare il ruolo di primo piano che le era stato attribuito durante il dibattito regionalistico e tanto ingiustamente sottratto dalla strumentalizzazione politica. La formulazione definitiva dell’art. XI delle disposizioni di attuazione fu la seguente: “Fino a cinque anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione si possono con leggi costituzionali, formare altre Regioni a modificazione dell’elenco di cui all’art. 131, anche senza il concorso delle condizioni richieste del primo comma dell’articolo 132, fermo rimanendo tuttavia l’obbligo di sentire le popolazioni interessate” . 51 11- L’art. 131 della Costituzione della Repubblica italiana L’art 123 del progetto di Costituzione, dopo la discussione e gli emendamenti approvati in Assemblea Costituente, divenne l’art. 131 della Costituzione. Questo il testo: “Sono costituite le seguenti Regioni: Piemonte; Valle d’Aosta; Lombardia; Trentino-Alto Adige; Veneto; Friuli-Venezia Giulia; Liguria; Emilia-Romagna; Toscana; Umbria; Marche; Lazio; Abruzzi e Molise; Campania; Puglia ; Basilicata; Calabria; Sicilia; Sardegna” . Si può notare che il testo differisce da quello del progetto per la modifiche apportate dagli emendamenti su cui si è ampiamente discusso e per il fatto che è stato abrogato il comma 2, riferito ai confini ed ai capoluoghi delle Regioni. Tale comma fu soppresso dal Comitato di redazione perché, avendo previsto la conservazione della Provincia come ente autonomo e di decentramento regionale, i confini di ciascuna Regione sono quelli entro cui si trovano le circoscrizioni delle rispettive Province, secondo la ripartizione del territorio della Repubblica. Si noti inoltre che rispetto al testo originario proposto dal Comitato dei 10, nella redazione definitiva dell’art 131 fu prevista anche l’istituzione della Regione Friuli-Venezia Giulia. Il Friuli-Venezia Giulia fu una Regione “costituita solo di nome”42 dall’Assemblea Costituente; se ne spiegano qui di seguito i motivi. Come si desume dalla denominazione, questa Regione è composta da due aree territoriali: il Friuli e la Venezia Giulia. La prima era ignota 42 Così la definisce M. PEDRAZZA GORLERO in Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. II, Padova 1991, p. 38. Nessuna definizione pare più appropriata. 52 alla ripartizione statistica, l’area territoriale Friuli appartiene storicamente alla Regione Veneto. Il Friuli circoscrive una zona formata dalla Provincia di Udine e da territori limitrofi, e la Provincia di Udine appartiene al Veneto “statistico”. Con il d.P.R. 6 febbraio 1948 n. 30 si ripartì il territorio delle Regioni in collegi uninominali a fini elettorali e sotto la Regione Veneto furono comprese tutte le Province appartenenti al Veneto “statistico”, con esclusione della Provincia di Udine. Si deve quindi desumere che la Provincia di Udine appartenga ad un’altra Regione, il Friuli appunto. La seconda parte della denominazione poneva problemi ancora più seri. La Venezia Giulia apparteneva alla regione statistica Venezia Giulia e Zara, che, al momento della redazione della Carta Costituzionale, non era nella disponibilità dello Stato italiano, a causa degli eventi internazionali che interessarono la Venezia Giulia al termine del secondo conflitto mondiale. Va ricordato infatti che il Trattato di pace tra l’Italia e le potenze vincitrici aveva previsto la costituzione del “territorio libero di Trieste” ai margini orientali del Paese, che in realtà non trovò mai concreta attuazione. Continuò su di esso un regime di amministrazione militare, con una divisione tra una zona A (comprendente la città di Trieste ed i suoi dintorni) affidata alle forze armate anglo-americane ed una zona B (comprendente la parte residua) affidata alle forze armate jugoslave. Constatata l’impossibilità di rendere operante la clausola del Trattato di pace relativa al territorio libero di Trieste, l’Italia, la Jugoslavia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti siglarono a Londra il 5 ottobre 1954 un Memorandum d’Intesa in cui fu previsto di assegnare la zona A all’Italia e la zona B alla Jugoslavia. Fu così che la porzione della 53 Venezia Giulia assegnata all’Italia andò formare, insieme con il Friuli, la Regione Friuli-Venezia Giulia. Il testo originario dell’art. 131 fu in seguito modificato con la legge costituzionale 27 dicembre 1963, n. 3, avente ad oggetto l’istituzione della Regione Molise. L’istituzione del Molise avvenne a seguito del procedimento di creazione di una nuova Regione durante il periodo di vigenza dell’art. XI delle disposizioni di attuazione della Costituzione: come si è visto, l’articolo in questione permetteva, entro il termine di 5 anni dall’entrata in vigore della Costituzione, di istituire una nuova Regione, evitando il complesso procedimento previsto dall’art. 132, co. 1, fermo comunque l’ obbligo di sentire le popolazioni interessate. La norma in questione costituiva una deroga all’art. 132, co. 1; pertanto se l’art. 132, co. 1 prevedeva l’uso del referendum per sentire le popolazioni interessate, anche l’art. XI avrebbe dovuto impiegare tale mezzo. Ciò comportava però che nel termine di 5 anni previsto per la vigenza dell’art. XI, fosse approvata la legge attuativa del referendum, cosa che non avvenne. Inoltre il termine previsto dall’art. XI era spirato senza che la Regione venisse istituita. Il termine di 5 anni era da ritenersi perentorio, ma avrebbe potuto essere prorogato con legge costituzionale. Si decise invece di prorogare il termine di altri 5 anni con legge ordinaria, la legge n. 62 del 10 febbraio 1953 (la cosiddetta legge Scelba sulla costituzione e sul funzionamento degli organi regionali), giustificata dal fatto che la procedura non aveva potuto essere attivata in tempo utile perché non era stata emanata la legge sul referendum, né era stato attuato l’ordinamento regionale. Inoltre l’art. 73 di tale legge prevedeva che 54 l’obbligo di sentire le popolazioni interessate potesse essere assolto anziché col referendum, con i pareri dei Consigli comunali e dei Commissari prefettizi delle popolazioni interessate. Tale articolo era incostituzionale sotto molteplici punti di vista, in quanto: - aveva previsto una consultazione indiretta; - aveva previsto la richiesta di creazione di una nuova Regione da parte dei Comuni interessati, cosa prevista nell’art. 132, comma 1, ma non nell’art. XI; - aveva considerato popolazioni interessate, sia quelle direttamente interessate alla variazione territoriale, sia quelle indirettamente interessate. L’art. 73 inoltre, essendo sopravvenuto a termine ormai scaduto, presupponeva la vigenza dell’art. XI: era dunque possibile prorogare nuovamente la scadenza di detto articolo delle disposizioni di attuazione, purché entro il termine di scadenza della legge n. 62/1953 e ciò avvenisse con legge costituzionale. Ciò avvenne con la legge costituzionale 18 marzo 1963 n. 1 che fissò la scadenza della disposizione di attuazione al 31 dicembre 1964. In merito a tale articolo sorsero delle dispute dottrinali: vi fu chi, come Mortati, sostenne che l’art. 73, pur essendo incostituzionale, presupponeva la vigenza dell’art. XI, e dunque potesse venire prorogato. E vi fu chi, come Crisafulli, considerò l’art. 73 privo di ogni possibilità di applicazione: il temine previsto dall’art. XI doveva ritenersi perentorio e dunque prorogabile solo con legge costituzionale. La prima teoria viene sostenuta anche da Pedrazza Gorlero, la seconda da Bassanini43. A parere di scrive, sembra sia più condivisibile la teoria del Crisafulli piuttosto che quella del Mortati: l’art. 73 era da considerarsi 43 Cfr. F. BASSANINI, L’attuazione delle Regioni, Firenze, 1970, p. 83. 55 incostituzionale e pertanto privo di ogni efficacia. Per questo motivo non poteva mantenere in vita l’art. XI delle disposizioni di attuazione. La Regione Molise fu istituita con la legge costituzionale 27 dicembre 1963 n. 3, entro il termine previsto dalla legge costituzionale sopra citata. Il testo dell’art. 131 della Costituzione fu così modificato: invece che prevedere la Regione “Abruzzi e Molise” furono previste due Regioni distinte “Abruzzi” e “Molise” . L’art. 131 Cost. ricopre un ruolo fondamentale all’interno delle norme previste nel Titolo V, Parte II della Costituzione in quanto rappresenta il presupposto d’efficacia delle stesse44. 12- L’art. 132 della Costituzione della Repubblica italiana L’art. 132 della Costituzione prevede i procedimenti di variazione territoriale delle Regioni e, come specificato da recente dottrina, ha una posizione “servente” rispetto alla disposizione costituzionale che lo precede45. Esso originariamente riprendeva il testo dell’art. 125 del progetto di Costituzione, e, a parte delle lievi modifiche di forma, fu modificato sostanzialmente solamente nella parte in cui prevedeva che la Regione istituenda avesse una consistenza demografica di 1.000.000 di abitanti e non solo di 500.000, come invece previsto nel progetto. Questo il testo dell’art. 132 Cost.: 44 In questo senso si veda: C. MAINARDIS, commento all’art. 132 della Costituzione italiana in Commentario breve alla Costituzione, a cura di BARTOLE S., BIN R., Padova, 2008, p. 1142. 45 In questo senso si veda: MAINARDIS C., commento all’art. 132 della Costituzione italiana in Commentario breve alla Costituzione, a cura di BARTOLE S., BIN R., Padova, 2008, p. 1141. 56 “Si può con legge costituzionale, sentiti i Consigli regionali, disporre la fusione di Regioni esistenti o la creazione di nuove Regioni con un minimo di un milione d’abitanti, quando ne facciano richiesta tanti Consigli comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate, e la proposta sia approvata per referendum dalla maggioranza delle popolazioni stesse”. “Si può, con referendum e con legge della Repubblica, sentiti i Consigli regionali, consentire che Province e Comuni, che ne facciano richiesta, siano staccati da una Regione ed aggregati ad un’altra”. Il requisito del numero minimo di abitanti per la creazione di una nuova Regione è ancor oggi oggetto di dibattito in dottrina, nel senso che non vi è univocità di vedute in merito al fatto se il minimo di popolazione attenga solamente alla Regione “creata” o se debba essere esteso anche alla Regione “restante”46. Autorevole dottrina (Pedrazza Gorlero47) sostiene che il requisito non riguardi anche le Regioni “restanti” e ciò per tre motivi: - un argomento letterale: il termine “nuove” nel sistema delle variazioni territoriali delle Regioni non designa realtà istituzionali genericamente nuove rispetto al quelle precedenti, ma sta ad indicare solamente l’aggiunta numerica di un di un ente locale rispetto a quelli precedentemente individuati. Sta ad indicare cioè “altre” Regioni rispetto a quelle precedentemente esistenti; - un argomento storico: il Costituente ha istituito le Regioni di cui all’art. 131 Cost. derogando al minimo di popolazione che invece ha 46 La questione viene trattata più approfonditamente nel Capitolo III, pp. 122 ss. Si veda: M. PEDRAZZA GORLERO, commento all’art. 132 Cost., in Commentario della Costituzione a cura di G. BRANCA, A. PIZZORUSSO, tomo III, Bologna-Roma, 1990, p. 158 ss. 47 57 prescritto per la creazione di quelle nuove. La Regione “restante” continuerebbe pertanto a vivere per decisione del Costituente; - un argomento funzionale, secondo cui il limite minimo di popolazione sarebbe stato formulato al solo scopo di servire da remora al formarsi di nuove Regioni, non già per ottenere che tutte le Regioni italiane fossero costituite da una popolazione superiore al milione di abitanti. Tutte queste conclusioni paiono pienamente condivisibili, anche perché il dettato costituzionale non parla di Regioni “restanti” a seguito del procedimento di creazione e dunque non è possibile applicare a queste nessun requisito. Una questione simile, su cui però la dottrina48 ha posto scarsa attenzione, è la seguente: il requisito minimo di 1.000.000 di abitanti è richiesto solo per la creazione o anche per la fusione? Anche nel caso di fusione di Regioni esistenti si può dire che l’ente territoriale risultante sia “nuovo”, ma non è necessario in questo caso il requisito del minimo di 1.000.000 di abitanti; ciò per tre motivi: - un motivo storico: la fusione non è prevista fin dall’inizio come ipotesi di variazione territoriale, ma emerge solamente nel corso del dibattito in Sottocommissione, che individua la fusione per incorporazione come una sottofattispecie dell’ipotesi di distaccoaggregazione49. Quest’ultima ipotesi non richiede il requisito di un numero minimo di abitanti per poter essere attivata ergo si desume che la stessa cosa valga anche per l’ipotesi di fusione; 48 Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. II, Padova 1991, pp. 41 ss.; R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI, Commentario alla Costituzione , Torino, 2006, p. 2534. 49 Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO in Commentario alla Costituzione , tomo III, Bologna-Roma, 1991, p. 130. 58 - un motivo sostanziale: presupposto della fusione è un riordino in senso funzionale del territorio, volto alla riduzione del numero degli enti-regione; tale riordino mira ad una ricomposizione del territorio e non ad un frazionamento come nel caso della creazione di una nuova Regione50. La fusione di Regioni esistenti sarà quindi sempre auspicabile; - un motivo letterale: dice il primo comma dell’art. 132 Cost. che: “Si può (…) disporre la fusione delle Regioni esistenti e la creazione di nuove Regioni con un minimo di un milione di abitanti”, il requisito del milione di abitanti si riferisce solamente alla seconda ipotesi. Se si fosse voluto riferirlo anche alla prima si sarebbe dovuta aggiungere una virgola tra “Regioni” e “con un minimo” di modo da far diventare l’ultimo inciso una frase subordinata riferita ad entrambe le ipotesi. Il comma 2 di questo articolo è stato modificato a seguito della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che ha portato la seguente modifica al testo: “Si può, con l’approvazione della maggioranza delle popolazioni della Provincia o della Province interessate e del Comune o dei Comuni interessati espressa mediante referendum” . La modifica costituzionale, con questa precisazione, definisce il concetto di “popolazioni interessate alla variazione territoriale”. Per quanto la lettera costituzionale non appaia certo cristallina (anzi, in un recente disegno di legge costituzionale è stata definita “ambigua e lacunosa”51), ciononostante ha avuto un ruolo d’indubbia importanza 50 Si veda Capitolo I, p. 51. Sul punto si veda: Atti della Camera dei deputati, XV legislatura, atto n. 2523 del 17 aprile 2007, p. 3. 51 59 nella definizione del concetto di popolazioni interessate. La sentenza n. 334/2004 della Corte Costituzionale ha infatti ritenuto che l’innovazione costituzionale “inequivocamente si riferisce soltanto ai cittadini degli enti locali direttamente coinvolti nel distaccoaggregazione”, con ciò affermando che le popolazioni di cui sopra siano solamente gruppi di cittadini direttamente coinvolti nella variazione territoriale. Anche la dottrina ha espresso le prime opinioni a riguardo, producendo dei commenti sia a favore, sia contro l’innovazione attuata dalla riforma del 200152. La nozione di popolazioni interessate sarà oggetto di approfondimento nel corso di questo studio, quando si andrà ad esaminare nel dettaglio il procedimento di variazione territoriale (Capitolo III). Altre novità non ve ne sono, a parte il fatto che la legge ha introdotto un’evidente asimmetria tra il co. 1 ed il co. 2 dell’art. 132: nel primo caso la richiesta di modifica è affidata unicamente ai Consigli comunali, il comma successivo invece estende tale facoltà, seppur in una fattispecie diversa, anche alle Province. 13- La genesi della Regione nell’ordinamento italiano Si presenta qui di seguito uno schema che riassume i passaggi salienti fin qui esaminati, al fine di ricostruire la genesi della Regione nell’ordinamento italiano: 52 Cfr. R. PINARDI, L’iniziativa del referendum per il distacco-aggregazione dopo la riforma del titolo V in Giurisprudenza costituzionale , Milano, n. 6/2004, pp. 3782 ss.; T. GIUPPONI, Le “popolazioni interessate” e i referendum per le variazioni territoriali, ex artt. 132 e 133 Cost.: territorio che vai, interesse che trovi in Le Regioni, Bologna, n. 3/2005, pp. 416 ss. 60 - i cittadini italiani il 2 giugno 1946 eleggono a suffragio universale i membri dell’ Assemblea Costituente; - l’Assemblea Costituente incarica una Commissione composta da 75 dei suoi membri ( la Commissione dei 75 ) di redigere un progetto di Costituzione; - la Commissione dei 75 si suddivide in 3 Sottocommissioni, ognuna delle quali si occupa di determinate tematiche. La seconda Sottocommissione si occupa, tra le altre cose, anche delle autonomie locali; - la seconda Sottocommissione nomina il Comitato di redazione per le autonomie locali, composto da 10 dei suoi membri (il Comitato dei 10), col compito di redigere un progetto avente ad oggetto le autonomie locali; - il progetto elaborato dal Comitato dei 10 viene presentato alla seconda Sottocommissione che lo discute e propone degli emendamenti; - la seconda Sottocommissione redige un nuovo progetto, sulla base del testo del progetto del Comitato dei 10 emendato, e lo presenta alla Commissione dei 75 riunita in adunanza plenaria; - la Commissione dei 75 riunita in adunanza plenaria apporta delle modifiche al testo presentatole; - i lavori delle tre Sottocommissioni in cui si era diviso il Comitato dei 75 confluirono nel progetto di Costituzione della Repubblica italiana. Il testo viene approvato, con opportune modifiche dall’Assemblea Costituente. Le Regioni istituite sono elencate nell’art. 131 della Costituzione, mentre i procedimenti di variazione territoriale sono previsti dal successivo art. 132 Cost. 61 62 CAPITOLO II IL TERRITORIO DELLA REGIONE SOMMARIO: 1. Il concetto di territorialità. – 2. I criteri d’individuazione del territorio regionale scelti dal Costituente e la loro inadeguatezza. – 2.1. Il concetto di regione costituzionale e la sua proiezione territoriale. – 2.2. Nuovi concetti di regione per una nuova società italiana. – 2.3. L’idoneità dell’art. 132 Cost. a modificare la Regione in senso storico ed in senso funzionale. – 3. Variazioni di denominazione delle Regioni. 4. I confini delle Regioni. – 5. Le variazioni del territorio regionale a seguito di trattati internazionali. – 6. La cessione di territorio non abitato e la rettifica dei confini. 1. Il concetto di territorialità I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono i soli enti locali territoriali conosciuti dal nostro ordinamento giuridico (art. 114 Cost.). Se infatti gravi dispute possono sorgere in merito alla differenziazione degli enti locali territoriali rispetto agli altri enti pubblici, non vi sono dubbi circa gli enti ai quali attribuire tale qualifica, che sono solamente quelli sopra citati. Gli Autori sono infatti concordi nell’ammettere che accanto allo Stato, ente territoriale per eccellenza, vi siano delle persone giuridiche (il Comune, la Provincia e la Regione) esplicanti la loro attività entro una determinata 63 circoscrizione territoriale, che hanno in comune con esso il vincolo di necessaria connessione con un determinato territorio, cioè il carattere della territorialità. Il territorio non costituisce unicamente un ambito spaziale al cui interno l’ente esercita le competenze che gli sono proprie bensì un centro di riferimento di interessi generali che hanno nel territorio stesso il luogo e la fonte della loro emersione. Il collegamento tra territorio ed interessi è talmente stretto, inscindibile, da connotare l’intero ordinamento a cui si riferisce: questo è il motivo per cui sul medesimo territorio, fisicamente inteso, possono operare enti diversi, ciascuno portatore di interessi suoi propri, in ragione delle competenze agli stessi riconosciute. Nell’accezione oggettivo-funzionale, la stessa porzione di spazio fisico può rilevare come territorio ora di questo, ora di quell’ente (Stato, Regione, Comune). Quando però si tratta di definire concretamente il concetto di territorialità, la diversità e l’incertezza delle interpretazioni proposte dai vari Autori lascia intendere che tale concetto sia stato più intuito che spiegato. In tutto il movimento dottrinale che fa capo a Santi Romano, si ritiene che il territorio per gli enti locali sia solo un limite spaziale alla loro potestà; per gli enti locali territoriali esso è invece un elemento essenziale della struttura degli enti stessi. Il territorio per questi enti non è solamente un elemento costitutivo, ma è anche oggetto di uno jus in personam, cioè di un diritto che si pone come fondamento diretto od indiretto di poteri autonomi, cioè quelli che permettono di esercitare l’imperium su chiunque si trovi nel territorio e quelli tendenti a tutelare l’integrità territoriale di fronte alle pretese degli 64 enti contermini che avessero per scopo il loro ingrandimento territoriale. Alla tesi del Romano sono state successivamente contrapposte altre teorie. Gli Autori che ritengono errato configurare il territorio come elemento costitutivo del Comune, della Provincia e della Regione hanno a loro volta dato differenti interpretazioni del concetto di territorialità. Alcuni53 sostengono che la connessione ente-territorio (la territorialità) sia un presupposto indefettibile solamente per gli enti locali territoriali, mentre gli enti locali possono esistere indipendentemente dalla presenza del territorio. Altri Autori54 affermano che la territorialità sia una conseguenza della natura politica di questi enti: essi possono vincolare sia i propri appartenenti, sia soggetti estranei, in ragione del semplice contatto di questi col loro territorio. Ciò deriva della constatazione del fatto che soggezione dell’ente locale territoriale su un soggetto si realizza indipendentemente dall’appartenenza di questo all’ente. Queste due teorie prestano il fianco ad alcune critiche, sintomo dell’incertezza delle interpretazioni proposte dagli Autori. Per quanto riguarda la prima, si dice che il territorio non è un presupposto essenziale dei soli enti locali territoriali, ma che esso è indefettibile anche per tutti gli altri enti locali: non appare infatti ipotizzabile un ente avulso dal territorio nel quale agisce od individua i destinatari della propria attività. 53 Cfr. U. FORTI, La funzione giuridica del territorio comunale in Studi di diritto pubblico, vol. II, Roma, 1937, pp. 268 ss. 54 Cfr. R. ALESSI, Intorno alla nozione di ente territoriale in Rivista trimestrale di diritto pubblico, Milano, 1960, pp. 290 ss. 65 Per quanto riguarda la seconda tesi, quella che ritiene che il territorio sia il momento di collegamento della potestà degli enti locali territoriali con i soggetti, cioè una conseguenza, a questi si obietta che questo fenomeno si riscontra anche nei confronti di enti che territoriali non sono. La definizione che pare più adeguata sul concetto di territorialità è quella data dal Masucci55. Nel tentativo d’individuare un carattere peculiare degli enti locali territoriali, al fine di definire il concetto di territorialità, egli sostiene che il territorio è l’elemento che permette d’individuare (cioè il principium individuationis) gli appartenenti a tali enti. L’appartenenza ricorre solamente se la persona fa parte dell’organizzazione dell’ente, e si ricava dal dettato normativo ( d.P.R. 31 gennaio 1958 n. 136, art. 1): fanno parte del Comune (e di conseguenza anche della Provincia e della Regione) coloro che sono residenti nel territorio dell’ente, cioè quelli che hanno in questo la loro dimora abituale. Il mero fatto dello stanziamento nel territorio determina l’appartenenza all’ente ed infatti la dichiarazione fatta dal privato di essere residente nel territorio, se disgiunta dall’effettivo stanziamento, non fa acquistare la residenza, mentre se una persona abita stabilmente in un territorio anche se non ha fatto tale dichiarazione, appartiene comunque all’ente. L’appartenenza è diversa dalla soggezione presente nella concezione del Romano: questa ricorre quando l’ente esercita sul soggetto il suo imperium, la prima invece quando il soggetto fa parte dell’organizzazione dell’ente. 55 Cfr. A. MASUCCI, Enti locali territoriali in Enciclopedia del diritto, Milano, 1965, p. 977. 66 Al fine di suffragare questa concezione si fanno alcuni esempi: le camere di commercio sono enti locali; ad esse si appartiene per il fatto di essere in collegamento con i fini istituzionali dell’ente. L’essere residente in questo o quel Comune rileva solo indirettamente al fine d’individuare a quale degli enti, localmente distribuiti, bisogna appartenere. È proprio la diversità del criterio d’individuazione a contraddistinguere gli enti locali territoriali dagli altri enti locali, diversità che si traduce poi anche nelle diverse finalità cui tendono questi enti. Le camere di commercio, per continuare con l’esempio, curano gli interessi di una determinata categoria di persone; i Comuni, le Province e le Regioni curano gli interessi di interi gruppi sociali. La necessaria connessione che intercorre tra l’ente locale territoriale ed il suo territorio si può ricavare anche dal dettato costituzionale. In particolare, nei procedimenti di variazione territoriale di Comuni, Province e Regioni (artt. 133 e 132 Cost.) è previsto che i mutamenti siano subordinati al parere favorevole delle popolazioni interessate, cioè di quelle appartenenti al territorio da modificare. Non è difficile notare che il territorio sia il principium in base al quale s’individuano le popolazioni interessate alla modificazione. 2- I criteri d’individuazione del territorio regionale scelti dal Costituente e la loro inadeguatezza L’aver analizzato il concetto di territorialità non è stato inutile, in quanto ha permesso di comprendere meglio il legame tra l’enteregione ed il suo territorio. Prima di approfondire lo studio sui procedimenti di variazione territoriale, è però opportuno dare un 67 giudizio sulle motivazioni e sui criteri che hanno guidato il Costituente nella ripartizione del territorio italiano. È opinione corrente tra gli studiosi che la ripartizione territoriale effettuata dal Costituente utilizzando il criterio storico, integrato e ritagliato da quello statistico, sia oltre che scientificamente errata anche inadeguata a corrispondere ai caratteri della società italiana coeva e ad assecondare le trasformazioni economiche e sociali che il Paese avrebbe conosciuto negli anni subito successivi all’entrata in vigore della Costituzione. Talune aree geografiche presentano infatti una vocazione economica e caratteri complessivamente omogenei pur essendo ripartite tra più Regioni. Al contrario, vi sono dei casi in cui una stessa Regione presenta al suo interno delle aree disomogenee. La cosa può apparire insensata, ed infatti lo è, soprattutto considerati i risvolti concreti che porta con sé. Tale ripartizione incide pesantemente sulla soddisfazione degli interessi della comunità regionale. Considerando infatti l’ambito di operatività della legislazione regionale, le leggi di una Regione finiscono per trattare in modo eguale situazioni oggettivamente diverse, mentre aree territoriali simili, appartenenti a Regioni diverse, sono trattate con una disciplina diversa, quando invece richiederebbero di essere trattate allo stesso modo. Vi è quindi una complessiva irragionevolezza delle discipline normative conseguente alla mancata armonizzazione interna ed al rapporto tra territorio ed interessi. Nel tentare di dare un giudizio, si condurranno due tipi d’indagine, una concettuale e l’altra metodologica: - dal punto di vista concettuale, quale che sia il concetto di regione dal quale si muove, il territorio dev’essere funzionale al tipo di regione che si vuole istituire: per poter giudicare inadeguate le dimensioni 68 territoriali delle regioni costituzionali, bisogna innanzitutto accertare se esse siano funzionali al tipo di regione al quale attengono; - dal punto di vista metodologico, il giudizio sulla ripartizione non può limitarsi al solo art. 131, ma deve estendersi anche agli artt. 132 ed XI. Questi tre articoli fanno parte di un disegno complessivo del legislatore: egli era consapevole fin da subito dell’inadeguatezza della ripartizione fatta e per questo furono previsti degli strumenti giuridici idonei a modificarla. Il giudizio di inadeguatezza potrà quindi pronunciarsi solamente se la disciplina strumentale venga considerata inidonea a trasferire in nuove realtà istituzionali le aree territoriali che chiedono la variazione. 2.1- Il concetto di regione costituzionale e la sua proiezione territoriale Il concetto di “regione costituzionale”, ossia il concetto di regione adottato dal Costituente, non è di agevole definizione in base agli elementi onomastici e definitori da esso forniti. L’unico punto fermo riguarda l’impiego del criterio storico-tradizionale che presiede alla ripartizione statistica. Si tratta però di un’affermazione poco illuminante. Il concetto di regione storica fu oggetto di definizioni molto generiche che gli conferirono l’attitudine ad individuare concretamente una Regione sulla base della corrispondenza di un determinato ambiente con un certo complesso di dati storici scelti con criteri non univoci: ciò lo rese suscettibile di un’applicazione elastica ed arbitraria. 69 Il concetto di regione statistica fu proposto ed impiegato a fini meramente statistici, senza la pretesa di assurgere a criterio atto ad individuare le circoscrizioni regionali. L’infecondità delle analisi terminologiche delle definizioni di regione proposte non deve tuttavia trarre in inganno. I Costituenti, quando discutevano sulla regione, ne avevano ben chiaro un concetto, che potremmo definire “reale” di regione costituzionale, costante attraverso tutte le accezioni del termine. Per regione reale s’intendeva un ente dotato del carattere dell’omogeneità sotto il profilo ambientale e dell’uniformità sotto il profilo istituzionale. Omogeneità sotto il profilo ambientale significa dal punto di vista geografico, storico-tradizionale ed etnico-linguistico, come quella sottesa alla suddivisione storico-tradizionale nell’art. 131. Omogeneità presunta per le Regioni storiche e da accertarsi attraverso la consultazione delle popolazioni interessate per le Regioni nuove, perché altrimenti non sarebbe riconoscibile. Uniformità sotto il profilo istituzionale significa non aver lasciato libera l’organizzazione regionale, ma aver condizionato l’esercizio dei poteri normativi delle Regioni al rispetto della legislazione statale “di principio” nelle materie di competenza regionale; aver concesso l’autonomia normativa ed amministrativa in materie che per quantità e qualità sono compatibili con un ambito territoriale di medie dimensioni, come quello regionale. Il criterio che lega i diversi livelli di omogeneità e di uniformità è essenzialmente di natura politica. L’obiettivo politico fu l’erosione dell’accentramento statale, la creazione di un ente politico che fosse in grado di ergersi a contrappeso di natura garantistica nei confronti dello Stato e dei gruppi politici che l’avevano egemonizzato, attraverso la 70 restituzione di identità politica alle grandi comunità territoriali della tradizione storica italiana. A queste considerazioni si pervenne anche a seguito di una motivazione storica: durante l’approvazione del Titolo V vi fu una crisi di Governo che pose i partiti di sinistra fuori dalla formazione diretta dell’indirizzo politico statale56. Questo portò ad una vera e propria conventio ad excludendum: il partito Comunista sarebbe rimasto fuori dalla guida del Paese, ma avrebbe potuto dettare la linea politica in alcune Regioni spiccatamente di sinistra, constatata la disomogeneità politica italiana. Si ricordino inoltre le varie istanze sorte durante il dibattito regionalistico a favore o contro l’istituzione della Regione. La collocazione della regione costituzionale, tra il modello garantistico, in cui i poteri locali possono esistere con una propria azione politica senza soccombere al potere centrale, ed il modello democratico pluralistico, il quale comporta un riparto delle attività di pubblico potere fra più figure soggettive indipendenti, è sintomo del dibattito politico. In quel clima politico, l’autonomia regionale si pose in termini di garanzia per quelle forze politiche escluse dalla direzione politica dello Stato, come condizione prima e minima per la realizzazione del pluralismo democratico. La contaminazione tra motivi garantistici e partecipativi nella costruzione regionalistica del Costituente, porta a dire che il concetto di regione costituzionale è sostanzialmente un concetto politico. Il concetto di regione costituzionale è strumentale ad individuare un’area territoriale omogenea nella quale dislocare l’enteregione progettato. Fra i possibili criteri di relazione tra un ente ed il 56 Cfr. E. ROTELLI, L’avvento della Regione in Italia, Milano, 1967, pp. 314 ss. 71 suo territorio, il legislatore scelse quello dell’omogeneità storica. La scelta fu motivata da due ordini di ragioni: - una valutazione di ordine storico-politico. Tale costante aveva mantenuto inalterata lungo la storia del Paese l’individualità delle comunità locali dalle quali proveniva la richiesta di erezione in Regioni; - una ragione di efficienza politica, in quanto era necessario individuare il livello territoriale al quale la comunità riconoscesse di essere tale, cioè l’ambito territoriale entro il quale operassero fattori aggreganti che dessero la consapevolezza di appartenere ad una comunità. Una precisazione: l’espressione omogeneità di carattere storico integra caratteri propriamente storici di un’area territoriale, ma non solo. In essa si considerano ricompresi anche quegli elementi di natura geografica, etnica, linguistica, tradizionale ed economica che pur appartenendo a diverse nozioni scientifiche di regione, tuttavia si sono storicizzati in una determinata dimensione territoriale, generando nei gruppi entro essa ricompresi la convinzione di costituire un’entità storicamente omogenea. E ciò spiega pure l’incertezza concettuale e terminologica del Costituente nel definire la regione costituzionale come regione storica. Alla luce di questa analisi, è pienamente condivisibile il pensiero di autorevole dottrina (Pedrazza Gorlero), secondo cui si ritiene che: “la scelta di un’area territoriale omogenea dal punto di vista storico sia stata in larga misura la più adatta al fine di localizzare un ente dotato di autonomia” e che “vi sia corrispondenza tra gli elementi 72 istituzionali e territoriali che entrano a comporre il concetto di regione costituzionale”57. Queste considerazioni permettono di comprendere meglio le motivazioni che spinsero il Costituente a non considerare il requisito dell’autosufficienza economica come criterio fondante l’istituzione della Regioni58. Si trattava infatti di un criterio che, inteso nella sua accezione di complementarietà economica di zone diverse comprese in aree territoriali regionalizzabili, venne percepito dal Costituente e dalla realtà socio-politica che esso esprimeva, come un elemento di differenziazione piuttosto che di omogeneizzazione delle situazioni regionalizzabili, e che fu pertanto ritenuto inidoneo a concretare una situazione territoriale omogenea. In conclusione è possibile formulare un giudizio di adeguatezza del modello di regione costituzionale rispetto alla realtà politica, culturale, economica e sociale nella quale il Costituente si trovò ad operare. L’intento che mosse il legislatore fu primariamente quello di costituire un ente politicamente efficiente; da questo punto di vista il disegno regionalistico fu adeguato, nei suoi profili territoriali ed istituzionali, alla realtà politica dell’epoca. Il Costituente si muoveva in una realtà economico-sociale prevalentemente agraria e pertanto la concezione di ente che ne derivò fu quella di una regione omogenea dal punto di vista dei caratteri fisici, corrispondente alla proiezione geografica di una società agraria. Il fatto di essersi mosso in una società agraria e la volontà di istituire un ente politicamente efficiente, indusse il Costituente non solo a lasciare in ombra gli aspetti 57 Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. I, Padova, 1979, p. 130. 58 Si veda Capitolo I, pp. 24 ss. 73 economici della costruzione regionalistica, ma anche, quando furono presi in considerazione, ad assumerne una visione statica, alla cui realizzazione ritenne sufficiente l’estensione territoriale determinata dall’art. 131 della Costituzione. I problemi indotti dall’incipiente industrializzazione ed urbanizzazione non furono avvertiti dal Costituente come basilari nella costruzione dell’ente-regione. A suffragare questo giudizio vi è anche un dato legislativo: il Costituente era consapevole della provvisorietà della ripartizione effettuata e per questo predispose dei procedimenti di variazione territoriale adeguati sia rispetto alla realtà a lui coeva (l’art. XI della disposizioni di attuazione), sia rispetto alla realtà futura (il procedimento aggravato di cui all’art. 132 Cost.). 2.2- Nuovi concetti di regione per una nuova società italiana La trasformazione della società italiana da essenzialmente agricola a prevalentemente industriale, con gli squilibri economicosociali che ne sono derivati e che solo una coerente programmazione economica e territoriale è in grado di superare, ha imposto anche nel nostro Paese la dimensione regionale come la più adatta a consentire il coordinamento tra le due programmazioni. Questo fu da stimolo per gli studiosi di geografia economica ed urbanistica ad attuare una profonda revisione dei criteri e dei metodi di identificazione degli spazi regionali, il cui approdo fu la formulazione di nuovi concetti di regione, idonei per strutture, funzioni e dimensioni a realizzare una più equilibrata organizzazione del territorio. Le nuove teorie dimostrarono l’inadeguatezza della suddivisione regionale risultante dall’art. 131 Cost. 74 La contraddizione sorge quando, pur non essendo mancati né il tempo né gli strumenti giuridici per correggere quest’aspetto della costruzione regionalistica secondo le esigenze fatte palesi dalla nuova realtà e secondo le indicazioni provenienti dalla riflessione scientifica, le circoscrizioni territoriali rimangono invariate. Si esamineranno di seguito brevemente queste nuove concezioni geografiche e l’individuazione del territorio della regione da esse proposta. Il concetto di regione storica posto dal Costituente a fondamento della ripartizione territoriale adottata, trovava il proprio corrispondente scientifico nel concetto di regione naturale. Con questo concetto la geografia definiva un’area territoriale individuata da un complesso di caratteri fisici omogenei, che ben si adattava ad una società prettamente agraria. Nello stesso periodo in cui il Costituente si accingeva ad erigere le Regioni secondo il criterio storico, la scienza geografica rivedeva profondamente i metodi con i quali procedeva alla determinazione del concetto di regione e proponeva il nuovo concetto di regione antropogeografica: la regione si caratterizzava per essere la risultante di un complesso organico di più regioni naturali, corrispondente ad una localizzazione territoriale degli interessi collettivi, il cui elemento di coesione era essenzialmente di natura economica. In termini più semplici, si riconobbe l’influenza unificatrice delle città e che il fattore aggregante era di tipo economico e non più morfologico. La regione antropogeografica non influenzò le scelte del Costituente perché alla sua formulazione concettuale non seguirono coerenti proposte di suddivisione territoriale su base antropogeografica. La ripartizione antropogeografica comunque non sarebbe stata adeguata a 75 rappresentare l’articolata e mutevole realtà geografica coeva: essa infatti si basava sulla concezione che esistesse un rapporto causale uomo-natura, non idoneo ad individuare le nuove realtà regionali in una società industrializzata ed urbana dove esse venivano istituite allo scopo di intervenire sul territorio per eliminare gli squilibri economico-sociali. Furono proprio i fenomeni di industrializzazione e di urbanizzazione, con gli squilibri di cui furono portatori, a determinare quel rovesciamento di canoni metodologici che segneranno il passaggio da una geografia agraria, descrittiva di unità di paesaggio, ad una geografia attiva, che si proponeva di individuare i criteri per una più moderna ed equilibrata organizzazione e ripartizione del territorio. Si fece strada così il concetto di regione funzionale. La regione funzionale rappresenta il risultato dell’azione di un centro coordinatore, la metropoli regionale, per ciò che riguarda la vitalità economica e demografica, le istituzioni sociali e culturali, gli insediamenti e la viabilità, azione che il centro può esercitare solo mediante un’armatura di vari centri medi a lui fortemente connessi, e a cui a loro volta si legano gruppi di centri minori. La metropoli regionale, è polo di sviluppo industriale, ma soprattutto terziario, centro di servizi rari, a cui si annodano in ordine gerarchizzato secondo la dotazione funzionale di ciascuno degli altri centri, che formano l’armatura urbana della regione. I servizi rari sono i più costosi e per essere redditizi abbisognano di una clientela numerosa e dunque di una zona di distribuzione più estesa, per questo sono raggruppati nella metropoli regionale. L’area di influenza della metropoli regionale individua lo spazio e quindi la regione funzionale. 76 La regione funzionale è una realtà, non un’entità intellettuale. Per arrivare alla sua teorizzazione sono stati impiegati degli apparati metodologici che possono rivelarsi utili per definire i piani di intervento e di organizzazione del territorio. Anche gli urbanisti si sono occupati di sviluppare un concetto di regione che avesse come scopo il riequilibrio territoriale. Fu teorizzato così il concetto di città-regione. La regione funzionale e la città-regione sono anche regioni per il programma: la loro funzione è quella di consentire interventi economici complessi ed integrati quali sono quelli presupposti da un programma di sviluppo economico e sono pure uno strumento di organizzazione e di riequilibrio territoriali. Quindi la regione funzionale come regione per il programma. Per questo è possibile dire che la questione della suddivisione territoriale delle regioni, non è solamente una questione di dimensioni territoriali e di confini, ma riguarda soprattutto le strutture regionali, urbanistiche ed economiche. È da giudicarsi dunque inadeguata la ripartizione regionale attuata dal Costituente nell’art. 131 Cost., in quanto non corrispondente alle esigenze di programmazione economica e territoriale. Se la proiezione territoriale della regione costituzionale attuata dal Costituente è inadeguata, i nuovi modelli di Regione sono adatti ad assumere dimensioni più idonee alle funzioni previste. Se il disegno costituzionale non ha configurato la Regione come soggetto di programmazione economica e territoriale, non significa che ne abbia escluso una soggettività programmatoria nelle materie attribuite alla sua competenza. 77 Quest’interpretazione del disegno costituzionale si consolidò ed ampliò nel momento in cui le Regioni andarono ad approvare i loro Statuti, rivendicando la programmazione come strumento per la realizzazione delle loro finalità ed assumendo così in pieno il ruolo di soggetti della programmazione. Se le Regioni identificarono se stesse come soggetti di programmazione territoriale, lo stesso non fu per lo Stato. L’autorità centrale, al momento di trasferire le funzioni statali alle Regioni (decreti legislativi delegati del gennaio 1972, attuativi dell’art. 17 della legge n. 281/1970), indispensabili a renderne operanti i poteri e quindi la soggettività programmatoria, adottò un’interpretazione restrittiva in merito. Si attuò un trasferimento frammentario e disorganico delle funzioni statali, ritagliando funzioni da mantenere allo Stato anche all’interno delle materie di competenza regionale ai sensi dell’art. 117 Cost., precludendo in molti settori ogni serio tentativo regionale di programmazione. A ciò si aggiunse anche una ridotta autonomia finanziaria. Le funzioni e l’autonomia finanziaria dell’ente sono gli elementi che contribuiscono a disegnarne l’ambito territoriale e si può ritenere adeguato il limite territoriale tracciato dal Costituente, considerate le limitate funzioni ad esso trasferite. Dall’evoluzione della costruzione regionalistica emergono tuttavia alcuni elementi che fanno pensare ad un recupero da parte delle Regioni del loro ruolo di soggetti di programmazione territoriale ed economica e ad un possibile interesse per la variazione delle loro circoscrizioni regionali; si può fare un esempio: il d.P.R. n. 616/1977 (attuativo dell’art. 1 della legge n. 382/1975), prevedeva all’art. 8, comma 1 che: “Le regioni, per le attività ed i servizi che interessano i 78 territori finitimi, possono addivenire ad intese e costituire uffici o gestioni comuni, anche in forma consortile”. Si prevedeva quindi l’istituzione di un consorzio, un comprensorio di Regioni come soggetto di programmazione territoriale e socio-economica, il cui ambito coincide con la dimensione territoriale ottimale per lo svolgimento delle funzioni che gli sono attribuite. Difficile non vedere in questo ente le caratteristiche della definizione data sopra di regione funzionale per il programma. La soggettività programmatoria delle Regioni inizia però ad affievolirsi, seguendo le sorti della programmazione economica nazionale che viene abbandonata come fenomeno politicamente e giuridicamente unitario, frazionandosi nei diversi piani di settore. La stessa programmazione regionale si trasforma in un aggregato di programmi settoriali. Sul piano scientifico viene superata la necessità di coincidenza fra gli ambiti territoriali della regione costituzionale e della regione economica. Si consolida inoltre la radice garantistica del regionalismo italiano, che sostiene il principio di autoconservazione della Regione, invocando confini regionali immutabili, e si alimenta della non ancora superata dimensione organizzativa provinciale dei partiti e di leggi elettorali che in essa si rispecchiano. D’altra parte la ricerca geografica, che aveva esercitato la pressione culturale più forte per la modificazione delle circoscrizioni regionali, imbocca sentieri metodologici entro i quali perde d’interesse il problema classico della delimitazione dello spazio regionale: essendo la regione una classe areale che designa una superficie di territorio dotato di una qualche coerenza statisticamente provata, si possono avere tante regioni quante sono le coerenze esibite. Si ravvisa il 79 carattere dell’indefinibilità di un luogo secondo una sola delimitazione territoriale. In questo clima si consolida la concezione della regione sistematica; essa è un insieme di elementi, umani e fisici, interconnessi e mossi da uno stesso processo, il quale è aperto alle relazioni esterne e si oppone a comportamenti degradativi. L’elemento fondamentale di questa costruzione scientifica è il processo: esso muove e cementa la struttura, cioè la rete degli elementi interagenti localizzati sul territorio, e la proietta lungo una traiettoria temporale lungo la quale si dispiega il conseguimento dei fini. Il carattere oggettivo e la dimensione diacronica di questo sistema territoriale dinamico ne postulano la delimitazione spaziale. La regione sistematica giustifica la concettuale aspazialità dei suoi confini, concedendosi allo spazio soltanto in segmenti temporali. La regione è la proiezione spaziale dello Stato del sistema nell’unità di tempo considerata. Il concetto di regione sistematica giustifica e da forma geografica all’imprecisione dei limiti regionali. Alla luce delle considerazioni svolte si può concludere che la ripartizione attuata dall’art. 131 Cost. è inadeguata al concetto di regione per il programma, ma che il modello reale di regione che risulta dal disegno costituzionale, statutario e dalle successive trasformazioni, non sia inadatto ad evolvere verso il modello di regione per il programma e quindi verso nuove dimensioni territoriali. Tuttavia, considerato il concetto di regione sistematica, che postula una delimitazione dei confini territoriali delle Regioni, la ripartizione resta quella che è perché non c’è ragione per mutarla. 80 2.3- L’idoneità dell’art. 132 Cost. a modificare la Regione in senso storico ed in senso funzionale Conclusa l’indagine concettuale sul modello di regione per il programma ed espresso un giudizio sulla sua adeguatezza a concretizzare le funzioni previste per l’ente-regione, ci si occuperà ora dell’aspetto metodologico e si verificherà se i procedimenti di variazione territoriale previsti dall’art. 132 Cost. siano adeguati a corrispondere all’esigenza di rettificare in senso storico la suddivisione storica adottata dal Costituente ed alla necessità di consentire le modificazioni territoriali rese indispensabili dall’evoluzione del modello regione storica verso i nuovi modelli di regione elaborati per fronteggiare il processo d’industrializzazione ed urbanizzazione intervenuto nel Paese dopo l’entrata in vigore della Costituzione. La creazione di una nuova Regione ed il distacco-aggregazione rendono possibile una rettificazione in senso storico della ripartizione territoriale ed i relativi procedimenti previsti nell’art. 132 Cost. sono adeguati a dare voce a quelle realtà storiche che non furono ascoltate dal Costituente solamente per motivi politici. In particolare l’ipotesi della creazione si rivela adatta allo scopo di soddisfare le richieste d’istituzione di nuove Regioni che il Costituente aveva rinviato per ragioni di natura politica. La fusione di Regioni permette invece le modificazioni territoriali richieste dal modello di regione costituzionale verso i nuovi modelli di regione, più adeguati alle esigenze della società attuale. Attenzione particolare è bene porre sul requisito della volontà popolare: esso è idoneo sia a provare la storicità di un’area 81 regionalizzabile, altrimenti non accertabile, sia a provare la percezione del passaggio dai vecchi ai nuovi fattori di coesione regionale. La volontà popolare è il requisito che ha suscitato maggior perplessità. Si ritiene che le collettività regionali non siano idonee ad identificare il limite territoriale delle Regioni, perché portatrici d’interessi particolaristici; solo lo Stato sarebbe in grado di operare una ripartizione funzionale del territorio. A questa critica si risponde dicendo che l’art. 132 ha previsto che la decisione sulla modificazione del territorio si dividesse su due livelli: una decisione di primo livello spetta alle popolazioni interessate, le quali si esprimono con referendum. Si è visto che alla radice del concetto di regione funzionale stanno gli interessi collettivi di una comunità territoriale, e che la regione costituisce la proiezione territoriale di tale comunità. Escludere la volontà popolare dai procedimenti d’identificazione delle nuove circoscrizioni territoriali, significa entrare in contraddizione con il modello di regione funzionale: solo il consenso può provare che la collettività regionale ha superato, non necessariamente disperdendoli, i vecchi motivi di coesione, e legittimato la nuova dimensione territoriale come misura dei nuovi interessi e della nuova identità. Allo Stato viene assegnata una decisione di secondo livello: ad esso spetta la valutazione della rispondenza degli interessi delle collettività regionali a quelli della collettività nazionale. La soluzione approntata dall’art. 132 Cost., a parere di chi scrive, sembra complessivamente equilibrata, in quanto da il giusto peso ai vari soggetti, portatori di interessi diversi, ma comunque tutti determinanti nella definizione del territorio regionale. Concludendo, si può affermare che la ripartizione regionale di cui all’art. 131 Cost. ed il criterio storico ad essa sotteso siano 82 inadeguati a corrispondere ai caratteri dell’attuale società italiana. Allo stesso tempo si ritiene che i procedimenti di variazione territoriale previsti dall’art. 132 Cost. siano idonei a favorire una rettificazione in senso funzionale del territorio regionale, che meglio corrisponde alle esigenze attuali della società italiana, siano cioè idonee, come riferito da autorevole dottrina, a “non cristallizzare l’assetto territoriale quale stabilito dal Costituente”59. 3- Variazioni di denominazione delle Regioni La denominazione geografica di un ente locale territoriale corrisponde solitamente ad un territorio ben definito e circoscritto. Tuttavia anche la denominazione di una Regione può variare. Ciò può verificarsi in due ipotesi: - la variazione di denominazione consegua e si accompagni ad una variazione territoriale di fusione e di creazione. In questo caso si può far uso del procedimento di cui all’art. 132, co. 1 Cost. anche se non viene espressamente previsto. Ciò si giustifica per ragioni di economia degli atti giuridici, la cui ratio è la seguente: poiché alle popolazioni interessate ed ai Consigli regionali è riconosciuta nel procedimento l’attitudine ad identificare la nuova area territoriale regionalizzabile, conseguentemente si riconosce pure la capacità di esprimersi sul 59 Sul concetto di “non cristallizzazione” del territorio regionale si veda: M. BERTOLISSI, commento all’art. 132 della Costituzione italiana in Commentario breve alla Costituzione, a cura di CRISAFULLI V., PALADIN L., Padova, 1990, p. 770; E. GIZZI, Manuale di diritto regionale, 6a ed., Milano, 1991, p. 67; C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, 9a ed., Padova, 1976, pp. 892 ss. 83 nome nel quale la nuova identità regionale si manifesta. L’affermazione è supportabile anche con un argomento letterale e sistematico: l’art. 41 della legge 25 maggio 1970, n. 352, in tema di referendum per la modificazione territoriale delle Regioni ex art. 132, prevede, tra i requisiti da sottoporre a referendum, che “Può essere inserita l’indicazione del nome della nuova regione della quale si proponga la costituzione per fusione o per separazione”. Ciò dimostra che le popolazioni interessate possono esprimere la loro volontà sul tema in esame; - il mutamento di denominazione sia indipendente dalla variazione territoriale. In questo caso si pone il problema del procedimento da adottare per deliberarlo, visto che tale mutamento è privo della copertura rappresentata dal principio di economia degli atti giuridici, e si apre un’alternativa: si ritiene che la denominazione sia un elemento costitutivo dell’ente, ed allora si ricorre al procedimento previsto dall’art. 132, co. 1; si ritiene che la denominazione sia la semplice designazione delle comunità regionali ed allora s’impiega la legge statale ordinaria. È preferibile dar seguito alla prima ipotesi per due motivi: la denominazione storica è stata usata dal Costituente per identificare le aree territoriali da costituire in Regioni; essa ha il pregio di rendere giuridicamente omogenee le due ipotesi di variazione di denominazione prese in considerazione. A favore di questa scelta interpretativa sta pure un argomento sistematico: il mutamento di denominazione di un Comune deve essere statuito con legge regionale previa consultazione referendaria delle popolazioni interessate (art. 133, co. 2) che è un procedimento strutturalmente analogo a quello 84 previsto dall’art. 132. E’ evidente che una simile scelta favorisce l’omogeneità del sistema. Non può inoltre condividersi la tesi secondo la quale, al di fuori di variazioni contestuali territoriali e di denominazione, si dovesse far ricorso, per il mutamento di denominazione, al procedimento di revisione costituzionale ordinario e non a quello aggravato previsto dall’art. 132, co. 1, ciò perché non sembra potersi eludere il collegamento giuridico tra volontà regionale e legge di variazione della denominazione. Il procedimento di revisione costituzionale ordinario può contenere una manifestazione giuridicamente rilevante della volontà regionale in ordine alla variazione territoriale alla sola condizione che la relativa iniziativa legislativa sia esercitata dal Consiglio regionale interessato. A tale affermazione si oppone che un simile collegamento tra volontà regionale e legge di variazione territoriale è qualitativamente diverso da quello previsto dall’art. 132, co. 1 Cost. e che, quand’anche lo si considerasse idoneo, tale procedimento configurerebbe la fattispecie della legge ad iniziativa riservata, diversa ed in contrasto con la riserva prevista nell’articolo in questione. L’unico esempio di variazione di denominazione non contestuale alla variazione territoriale che è possibile portare, è quello riferentesi alla creazione della Regione Molise. Come si è precedentemente visto, la legge costituzionale n. 3 del 1963 frazionò la Regione Abruzzi e Molise nelle due distinte Regioni Abruzzi e Molise. Il problema sorge sulla denominazione Abruzzi: essa traeva origine dal raggruppamento in un unico ente locale tra l’Abruzzo Ulteriore I (L’Aquila), l’Abruzzo Ulteriore II (Teramo) e l’Abruzzo Citeriore (Chieti). 85 La denominazione, conservata dalla norma di revisione, fu poi modificata in “Abruzzo” dall’art. 1 dello Statuto60. Il problema è certo marginale, ma è interessante affrontarlo perché riflette uno scambio usuale di denominazione. Alla luce di quanto sopra detto in merito al procedimento di variazione di denominazione, si può ravvisare l’illegittimità costituzionale dello Statuto e della legge statale61 di approvazione nella parte in cui hanno sostituito la denominazione originaria di “Abruzzi” con quella di “Abruzzo” perché questi atti non hanno seguito il procedimento di cui all’art. 132, co. 1 Cost. Per dovere di approfondimento si ricorda anche che vi sono dei casi in cui le denominazioni delle Regioni, individuate sulla base del criterio statistico, divergono da quelle poi adottate dal Costituente. È il caso del Trentino-Alto Adige, denominato nelle pubblicazioni statistiche Venezia Tridentina; dell’Emilia-Romagna, denominata solamente Emilia; della Basilicata, conosciuta statisticamente come Lucania ed infine della Puglia e della Calabria, denominate statisticamente Puglie e Calabrie. Ora, tali variazioni di denominazioni non sono state attuate seguendo il procedimento sopra descritto, in quanto la variazione fu determinata dal Costituente prima dell’entrata in vigore della Carta costituzionale repubblicana. Era interessante comunque riportare anche questi esempi al fine di comprendere come 60 Lo Statuto della Regione Abruzzo è stato approvato con la legge 22 luglio 1971, n. 840. La medesima denominazione “Abruzzo” compare anche all’art. 1 del nuovo Statuto della Regione Abruzzo, approvato in seconda deliberazione il 12 settembre 2006 ed entrato in vigore l’11 gennaio 2007. 61 La nuova formulazione dell’art. 123, co. 2 Cost. prevede che gli Statuti delle Regioni ad ordinamento ordinario siano approvati con legge regionale e non più con legge statale. L’articolo in questione è stato così modificato con la legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1 recante “Disposizioni concernenti l’elezione diretta del presidente della Giunta regionale e l’autonomia statutaria delle Regioni”. 86 la variazione di denominazione delle Regioni si sia verificata secondo differenti modalità. 4- I confini delle Regioni I confini del territorio delle Regioni costituzionali sono quelli disegnati dalle circoscrizioni provinciali comprese sotto le rispettive denominazioni statistiche. Questo fu il criterio scelto dal Costituente per individuare il territorio regionale ed i suoi confini62. Non si ritornerà su di esso, in quanto è stato già ampiamente discusso, ma è opportuno soffermarsi ora a dimostrare che in alcuni casi tale soluzione interpretativa è inutile. Nel caso della Sicilia e della Sardegna i confini erano stati stabiliti dal Costituente prima dell’entrata in vigore della Costituzione. Nel caso della Regione Sicilia, per esempio, lo Statuto fu approvato con il r.d.l. 15 maggio 1946 n. 455, e all’art. 1 si prevedeva che: “La Sicilia, con le isole Eolie, Egadi, Pelagie, Ustica e Pantelleria, è costituita in Regione autonoma”. Nel caso della Valle d’Aosta la costruzione interpretativa risultava inapplicabile sia perché questa Regione non esisteva nella regionalizzazione statistica, sia perché l’atto normativo statale con il quale fu istituito l’ordinamento amministrativo della circoscrizione autonoma Valle d’Aosta, approvato anteriormente alla Costituzione, ne delineava già il territorio menzionando ciascuna delle circoscrizioni dei Comuni raggruppati nella Valle. Il Costituente aveva sicuramente presenti questi atti normativi che delimitavano i confini regionali già prima che egli definisse il 62 Cfr. o.d.g. Targetti. Si veda Capitolo I, pp. 41, 44 ss. 87 criterio di ripartizione storico-statistico e da cui si discostavano, rendendolo inutile. Si tratta ora di vedere se il meccanismo interpretativo sia capace d’individuare sempre i confini delle Regioni per le quali manchino atti normativi di definizione territoriale anteriori alla Costituzione. La risposta non può essere che negativa. Pur essendo vero che tale criterio è idoneo a risolvere la maggior parte dei casi concreti, vi sono delle ipotesi a cui non è in grado di dare soluzione. Si riportano di seguito alcuni casi. Nel caso del Piemonte, la regione statistica comprendeva anche il territorio della Valle d’Aosta: ciò portava pertanto ad una divergenza tra la denominazione della Regione ed il suo ambito territoriale. La soluzione al dilemma fu offerta dallo stesso Costituente, attraverso la sottrazione al Piemonte statistico della Valle d’Aosta, già eretta in Regione autonoma, territorialmente delimitata. In questo modo si ristabilì l’omogeneità tra la denominazione della Regione ed il suo ambito territoriale. Altro caso da prendere in considerazione è quello del Veneto, di cui, seppur sotto un altro angolo visuale, si è già discusso63. Il Veneto statistico comprendeva anche la Provincia di Udine; seguendo la teoria della regione costituzionale invece, questa Provincia venne fatta rientrare nella Regione Friuli-Venezia Giulia. Non è possibile operare in questo caso una sottrazione come nel caso precedente perché il Friuli non compariva nella ripartizione statistica ad individuare la Provincia di Udine. Per individuare i confini del Veneto si utilizzò un altro criterio: si fece ricorso al d.P.R. 6 febbraio 1948, n. 30 il quale, ripartendo il territorio delle Regioni in collegi uninominali a fini elettorali, sotto la Regione Veneto comprese collegi appartenenti a 63 Si veda Capitolo I, pp. 52 ss. 88 tutte le Province venete statistiche ad eccezione di quella di Udine. In questa parte il citato decreto presidenziale assume, pertanto, funzione integrativa del criterio statistico. Il caso più complicato è tuttavia quello del Friuli-Venezia Giulia, in cui non combaciano né la denominazione statistica, né il territorio. Come già visto64, la prima parte della denominazione, Friuli, era ignota alla ripartizione statistica; la seconda, Venezia Giulia, corrisponde ad una regione statistica in cui una parte del territorio è ora sotto la sovranità di un altro Stato in virtù di accordi internazionali. Il problema del Friuli si risolve allo stesso modo del Veneto, del quale rappresenta l’esatto opposto: la circostanza che la Regione costituzionale è, per la Provincia di Udine, inclusa nel Veneto statistico, viene superata facendo riferimento al menzionato d.P.R. 30/1948, il quale, sotto la denominazione costituzionale FriuliVenezia Giulia, ricomprende tra l’altro tutti i Comuni appartenenti alla Provincia di Udine. Il problema della Venezia Giulia si risolve invece considerando facenti parte della Regione i territori della regione statistica attualmente sotto la sovranità dello Stato italiano. Molto più semplice la soluzione del caso dell’individuazione dei confini del Molise: la ripartizione statistica non fornisce il criterio di riconoscimento del territorio di detta Regione; il relativo ambito territoriale si ottiene sottraendo dalla precedente Regione Abruzzi e Molise i territori delle Province di Campobasso e di Isernia, che formano il territorio della nuova Regione, come indicato nell’art. 2 dello Statuto65. 64 Si veda Capitolo I, pp. 52 ss. Lo Statuto della Regione Molise è stato approvato con la legge n. 347 del 22 maggio 1971. 65 89 È pertanto solo parzialmente esatta l’affermazione secondo la quale i confini territoriali delle Regioni sono individuati rinviando alla compartimentazione statistica. In realtà i rinvii sono stati vari: - alla regionalizzazione statistica, comprese le modificazioni introdotte dallo stesso Costituente; - ad atti di definizione legislativa del territorio regionale anteriori alla Costituzione; - ad atti legislativi di definizione territoriale successivi all’entrata in vigore della Costituzione. È importante, da ultimo, una precisazione di carattere legislativo: gli Statuti regionali, ordinari e speciali, che provvedono all’individuazione del proprio ambito territoriale assumono una valenza meramente ricognitiva; le Regioni sono istituite infatti nell’art. 131 Cost., che perciò ha valore costitutivo66. 5- Le variazioni del territorio regionale a seguito di trattati internazionali La Costituzione italiana riconosce la possibilità di apportate variazioni al territorio dello Stato (art. 80 Cost.) a seguito della ratifica di trattati internazionali. Ogni variazione che il territorio dello Stato subisce per effetto di detti trattati si riflette in una correlativa variazione del territorio di una Regione, se questa è posta ai confini e ad immediato contatto con un altro Stato. 66 Cfr. C. MAINARDIS, commento all’art. 132 della Costituzione italiana in Commentario breve alla Costituzione, a cura di BARTOLE S., BIN R., Padova, 2008, p. 1142; si veda anche Capitolo III, p. 211. 90 Per quanto riguarda l’oggetto di questa ricerca, si deve verificare se la Regione debba accettare passivamente la decisione dell’autorità centrale o se invece possa avere voce in merito. Negli Stati a struttura federale è regola di applicazione pressoché generale che la competenza legislativa in materia di rapporti internazionali spetti esclusivamente allo Stato federale. In taluni Stati federali l’interesse dello Stato membro interessato è riconosciuto non in via assoluta, cioè non in ogni caso in cui il territorio di questo fosse oggetto di mutamento, ma solamente nel caso in cui il mutamento importasse il distacco di nuclei abitativi e non assumesse il più modesto rilievo di rettifica di confine. Negli Stati aventi struttura unitaria, come quello italiano, invece, è prevista l’esclusività della competenza statale nell’accennato settore. Ciò comporta che la Regione non possa far valere alcun interesse diretto, che sia giuridicamente protetto, nella materia in esame. In tempi passati ci si era chiesti se alla seduta del Consiglio dei Ministri nella quale si procede alla deliberazione inerente stipulazione del trattato o all’iniziativa legislativa rivolta ad ottenere l’autorizzazione parlamentare alla ratifica, avesse titolo di partecipare il Presidente della Regione a Statuto speciale. La sua partecipazione era prevista come necessaria dagli Statuti di Sardegna, Valle d’Aosta e Friuli-Venezia Giulia per le materie che riguardassero “particolarmente” 67 la Regione. Una conclusione negativa in merito si 67 Sul punto si veda l’art. 47 dello Statuto della Sardegna, art. 44, u.c. dello Statuto della Valle d’Aosta, art. 44 dello Statuto del Friuli-Venezia Giulia. 91 desume sia dalla giurisprudenza68 sia, in via indiretta, da argomenti letterali; in particolare: - nella Costituzione italiana non è previsto che la validità della cessione internazionale di territorio sia condizionata al consenso delle popolazioni interessate, cosa che era prevista invece nelle Costituzioni di altri Stati a struttura unitaria69, ergo la competenza in materia è esclusivamente statale e non è sottoposta a condizioni di ammissibilità; - la procedura disposta dall’art. 132 Cost. italiana è speciale: innova la fase dell’iniziativa legislativa, stabilendone le condizioni di ammissibilità. La sua evidente inapplicabilità alla fattispecie in esame conferma che nella variazione di territorio nazionale ex art. 80 Cost. non sussistono interessi sostanziali direttamente e giuridicamente garantiti alla Regione. Né avrebbe peraltro senso chiedere per la non facoltativa, ma dovuta variazione del territorio regionale la procedura aggravata di cui all’art. 132 Cost. L’argomento più forte a sostegno della tesi negativa si ricava individuando quale sia il soggetto che ha interesse alla ratifica del trattato internazionale; viene individuato nell’intera comunità nazionale. Il fatto che la variazione ex art. 80 Cost. modifichi indirettamente, come conseguenza dell’osservanza da parte dello Stato di impegni internazionalmente assunti, uno degli elementi costitutivi dell’ente autonomo e produca i suoi effetti sul territorio di questo, non costituisce elemento idoneo a qualificare l’interesse come regionale. 68 Sul punto si veda la Sentenza Corte Costituzionale n. 151 del 1974. Nel giudizio, relativo alla Regione Trentino-Alto Adige, si ritenne che l’intervento del Presidente della Regione “…non può considerarsi prescritto…”. 69 Si vedano le Costituzioni francesi del 1946 (art. 47) e del 1958 (art. 53). 92 Pertanto la natura esclusivamente statuale ed unitaria dell’interesse perseguito esclude la anzidetta partecipazione del Presidente regionale. Quand’anche il Governo invitasse alla riunione il Presidente della Regione, la partecipazione di quest’ultimo esaurirebbe la sua portata su un piano meramente formale. L’unica manifestazione di attività regionale nella materia in esame può essere svolta nella forma generica e libera di un voto consultivo. Alcuni Statuti di Regioni ad ordinamento speciale richiedono che nel corso del procedimento diretto alla loro revisione sia udito, in talune ipotesi, il parere della Regione70; la cosa è opportuna in quanto l’assunzione dell’iniziativa legislativa a questo fine da parte del Governo presenta per l’ente-regione un interesse tale da giustificare e legittimare la partecipazione del Presidente della Regione interessata alla seduta del Consiglio dei Ministri. La peculiarità della fattispecie di revisione statutaria qui in esame (cioè a seguito di variazione territoriale della Regione in conformità ad un trattato internazionale) rende tuttavia dubbia la configurabilità di un interesse sostanziale facente capo alla Regione e di conseguenza carente di legittimazione la sua partecipazione in tale procedimento. La cosa si desume dai seguenti elementi: - nelle ipotesi di fusione, creazione e distacco-aggregazione è riconosciuto un interesse regionale; nulla è invece stabilito per l’ipotesi di variazione territoriale come conseguenza di un trattato internazionale; - l’iniziativa del Governo tesa alla revisione dello Statuto regionale ha carattere vincolato: non solo non può decidere l’an, ma nemmeno il 70 Sul punto si veda lo Statuto della Regione Sardegna, art. 54. 93 quantum della variazione territoriale. Per questo motivo un’eventuale parere della Regione in merito sarebbe superfluo oltre che inutile; - l’osservanza degli obblighi internazionali assunti dallo Stato esclude un interesse particolare dell’ente-regione in questa materia. È pur vero che un difetto di competenza della Regione in una materia non compresa tra quelle enumerate non esclude la sussistenza di un interesse dell’ente; tale interesse può manifestarsi con l’esercizio del potere regionale di iniziativa delle leggi statali o con il potere del Consiglio regionale di inviare voti alle Camere. A queste deduzioni si risponde dicendo che nella materia de qua la Regione non può esercitare il potere d’iniziativa legislativa; per l’altro aspetto, la genericità e la non vincolatività del voto impediscono che l’interesse regionale da esso espresso rientri tra quelli qualificati per i quali è disposta la partecipazione alle sedute del Consiglio dei Ministri. Per questi motivi la forma procedurale prestabilita da alcuni Statuti speciali per esprimere quel preteso interesse sul piano operativo (cioè la partecipazione alla seduta del Consiglio dei Ministri) si riduce ad una mera formalità, si da privare di ogni ratio la sua applicazione. Dette conclusioni valgono a maggior ragione per Regioni a Statuto ordinario, in ordine alle quali nessuna disposizione statutaria prevede un’analoga partecipazione al Consiglio dei Ministri. In questa materia, si ritiene che il Governo abbia facoltà di richiedere pareri ai Consigli regionali e che possa invitare il Presidente della Regione ad esprimere un voto consultivo in seno al Consiglio dei Ministri. Si tratta però come detto di una facoltà eventuale. Altra questione da analizzare riguarda l’esecuzione del trattato nell’ordinamento interno. È risaputo che lo Statuto delle Regioni ordinarie viene approvato con legge regionale (art. 123, co. 2 Cost.) 94 mentre lo Statuto delle Regioni ad autonomia speciale viene approvato con legge costituzionale (art. 116, co. 1 Cost.). Il problema sorge quando si deve adeguare lo Statuto speciale alla nuova situazione internazionale dello Stato: l’esecuzione del trattato internazionale non può validamente aver luogo se non mediante l’adozione di un atto che sia idoneo, per forma ed efficacia, a produrre la necessaria modificazione del testo normativo statutario. Vi possono essere distinte ipotesi di atti o di procedimenti di adattamento del diritto interno al trattato: quello considerato ordinario, che prevede che si adotti un atto di legislazione successivo e distinto dalla legge ordinaria di autorizzazione alla ratifica, che direttamente formula la norma da immettere nell’ordinamento interno; quello considerato speciale, che ricorre ad un ordine di esecuzione inserito nella stessa legge di autorizzazione. In entrambi i casi, per poter produrre l’effetto normativo indirettamente derivante dal trattato e consistente nell’abrogazione in parte qua della disposizione costituzionale e statutaria, occorre che le leggi modificative siano approvate secondo la procedura dell’art. 138 Cost., integrata e rafforzata con le variazioni previste nei singoli Statuti speciali. L’ordine di esecuzione, se da un lato ha il vantaggio che la stessa legge di autorizzazione sia adottata nelle forme costituzionali e quindi renda più agevole la successiva esecuzione all’interno, dall’altro comporta degli aggravamenti procedurali che rendono più difficile la ratifica del trattato, cioè l’assunzione dell’impegno da parte dello Stato. La forma dell’ordine di esecuzione varia in relazione al grado di potenzialità giuridica che esso deve assumere dell’interno dell’ordinamento per produrre gli effetti voluti: legge ordinaria, legge costituzionale o decreto. 95 La ratifica stessa del trattato internazionale non potrebbe aver validamente luogo nell’ordinamento internazionale se essa non fosse altresì valida nell’ordinamento interno, secondo il principio per cui il primo ordinamento rinvia al secondo per ciò che attiene alle condizioni di validità dell’atto. Si può tuttavia ipotizzare che proprio per il fatto che la modificazione interna non costituisce l’oggetto diretto del trattato, ma solo un effetto indirettamente derivante da quello, la modificazione non debba necessariamente aver luogo in modo espresso e formale, ma si verifichi per caducazione automatica ed implicita della parte di disposizione statutaria nella quale si fa menzione del territorio in questione, applicando il criterio per il quale cessante ratione legis, cessat et ipsa lex . A parere di chi scrive tale ipotesi non può essere accettata: le cinque Regioni a Statuto speciale delimitano nei loro Statuti l’estensione del territorio regionale con sufficiente certezza, pur seguendo criteri diversi e con varia formulazione. Si fanno di seguito alcuni esempi: - lo Statuto del Trentino-Alto Adige e quello del Friuli-Venezia Giulia rispettivamente agli artt. 1 e 2 elencano Province e Comuni che compongono il territorio regionale; - lo Statuto della Regione Sicilia indica nominativamente le isole minori che con la maggiore fanno parte della Regione (art. 1); - lo Statuto della Regione Sardegna invece indica in modo generico l’isola maggiore e le sue isole minori con riferimento alla loro posizione geografica (art. 1); - lo Statuto della Valle d’Aosta indica anch’essa nominativamente i Comuni che ne compongono il territorio regionale (art. 1, co. 2). 96 Per questi motivi, per il fatto cioè che lo Statuto indica così precisamente il territorio della Regione, è necessario che la modificazione sia attuata in modo espresso e formale: espresso, nel senso che si deve indicare precisamente il nome dell’ente locale minore che entra a far parte o che viene sottratto dal territorio regionale in seguito alla ratifica di un trattato internazionale. Formale perché, essendo gli Statuti delle Regioni ad autonomia speciale approvati con legge costituzionale, è necessario attivare il procedimento revisione costituzionale di cui all’art. 138 Cost. Anche in questo caso la Regione interessata non può vantare alcun interesse in sede di revisione71, e l’atto si riduce ad una mera formalità ma che si ritiene, comunque, debba essere svolta e non possa darsi per implicita. 6- La cessione di territorio non abitato e la rettifica dei confini Questa ricerca ha avuto sinora a presupposto che la variazione del territorio di una Regione si concreti nel distacco di un intero Comune o di un’intera Provincia, cioè di uno degli enti minori in cui è ripartito l’ente-regione. È tuttavia possibile configurare altre figure di modificazione territoriale, come la cessione di territorio non abitato o la mera rettifica di confine. Lo Statuto albertino all’art. 5 prevedeva che si distinguesse l’ipotesi della variazione territoriale dalla fattispecie della determinazione più esatta dei confini già fissati in un precedente trattato internazionale e l’ipotesi della delimitazione di confini che 71 Le stesse deduzioni valgono per l’aggregazione ad una Regione a Statuto speciale; sul punto si veda Capitolo III, paragrafo 4.5. 97 avesse per effetto una variazione territoriale da quella che invece si riducesse ad una pura e semplice delimitazione di confini. Vari esempi di natura storico-comparatistica configurano autonomamente tale fattispecie sia per quanto riguarda la regolamentazione internazionale, sia per l’esecuzione all’interno dello Stato, nel senso che le forme per essa richieste sono distinte da quelle più rigorose previste per le vere e proprie cessioni di territorio in virtù di trattati internazionali. Secondo l’interpretazione data dell’art. 5 dello Statuto albertino, un atto che implicasse una minima perdita di territorio, senza insediamenti di popolazione, che non toccasse il diritto all’esistenza della Regione, né che arrecasse sostanziali modificazioni alla sua struttura, poteva essere validamente disposto senza l’impiego delle forme altrimenti necessarie per la revisione dello Statuto nel caso opposto. Alcuni Autori72 sono concordi nel ritenere che la distinzione concettuale e giuridica operata dallo Statuto albertino sia tuttora da accogliere in relazione all’art. 80 Cost., che nulla prevede in proposito, ed auspicano che nel dettato costituzionale rientri una distinzione simile. Conseguenze sono che debba farsi rientrare nell’oggetto e nella previsione della statuizione costituzionale l’atto che importi effettiva variazione, ciascun altro restando invece sul piano della mera dichiarazione o fissazione di uno stato di diritto già esistente; nel primo caso è indispensabile l’autorizzazione legislativa alla ratifica, mentre per gli altri tale autorizzazione è da escludere in quanto non integrano la fattispecie costituzionale prevista. 72 Sul punto si veda in particolare: G. D’ORAZIO, In tema di variazioni del territorio regionale in Scritti in onore di Costantino Mortati, Milano, 1977, pp. 704 ss. 98 Spetta agli organi legislativi e politici apprezzare in fatto se sussista un certo grado d’innovazione sostanziale, anche minima, all’elemento territoriale. Da tale valutazione dipende l’impiego delle forme previste dall’art. 80 Cost. per quei mutamenti che possano qualificarsi come variazioni territoriali. Questione a questa correlata riguarda la contestazione dei confini tra Regioni. La giurisprudenza costituzionale si è espressa raramente su tali questioni: con le sentenze 743/1988 e 55/1993 la Corte Costituzionale ha statuito che la contestazione dei confini delle Regioni non rientrino nelle ipotesi normative di cui all’art. 132 Cost. Per quanto riguarda la prima di queste due sentenze, la situazione venutasi a creare era la seguente: il Presidente della Repubblica in data 29 marzo 1982 aveva rettificato con decreto i confini tra il Comune di Rocca Pietore ed il Comune di Canazei, dietro richiesta di quest’ultimo ed in ottemperanza all’art. 267 del r.d. 383/1934. La cosa comportava anche la modifica dei confini tra la Regione Veneto, dove si trova il Comune di Rocca Pietore, e la Regione Trentino, dove si trova quello di Canazei. La Regione Veneto sollevò il conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato contro la decisione (ex art. 134 n. 2 Cost.) ritenendola lesiva delle sue attribuzioni per due motivi: - perché toccava il territorio regionale, che è un elemento costitutivo dell’ente-regione assistito da garanzia costituzionale; in questo caso esso sarebbe stato modificato eludendo la procedura superaggravata prevista dall’art. 132 Cost.; - perché sottraeva ingiustamente a detta Regione una parte del suo territorio. 99 In particolare l’art. 267 del r.d. 383/1934 (testo unico legge comunale provinciale) prevedeva che: “i ricorsi per contestazioni di confini fra comuni o province sono decisi con decreto reale, udito il consiglio di Stato. Contro il provvedimento è ammesso il ricorso, anche in merito, al consiglio di Stato in sede giurisdizionale, ovvero il ricorso straordinario al Re”. Con l’avvento dell’ordinamento repubblicano questo potere spettante al Re passò al Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri. Per dovere di cronaca si ricorda che l’art. 267 fu abrogato dalla l. 265/1999 e che il t.u.l.c.p. fu interamente abrogato dall’art. 274 del t.u. enti locali, approvato con d. lgs. 267/2000. L’art. 267 del r.d. 383/1934 avrebbe dovuto considerarsi implicitamente abrogato in virtù del nuovo rapporto Stato-Regioni sancito nella Carta costituzionale. Contro il ricorso si costituì, tra gli altri enti, anche la Provincia di Trento che ritenne il ricorso infondato per motivi di merito: esso infatti muoveva da premesse giuridiche inesatte, dalla confusione, in particolare, tra procedimento di modifica delle circoscrizioni regionali, disciplinato dall’art. 132 Cost., e procedimento di rettifica dei confini. L’accertamento dei confini non avrebbe potuto essere censurato per violazione dell’art. 132 Cost., che attiene al diverso problema della modifica dei medesimi. La Corte costituzionale rigettò il ricorso per conflitto di attribuzione proposto dalla Regione Veneto contro lo Stato e dichiarò la permanenza in vigore dell’art. 267 sopra citato. La medesima questione fu oggetto di un’altra sentenza della Corte costituzionale, la n. 55 del 1993. Il T.A.R. del Lazio aveva 100 sollevato questione di legittimità costituzionale (ex art. 134 n. 1 Cost.), in riferimento agli artt. 5, 132 e 134 Cost., dell’art. 267 del r.d. 383/1934, in quanto prevedeva che i ricorsi per la contestazione dei confini tra Comuni e Province di Regioni diverse fossero decisi con atto di competenza governativa. Il Comune di Rocca Pietore aveva impugnato davanti al T.A.R. del Lazio il d.P.R. del 29 marzo 1982 (si veda sopra), deducendo che con il trasferimento alle Regioni delle competenze in materia di circoscrizioni comunali sarebbe venuta meno la competenza statale prevista dall’art. 267 r.d. 383/1934. Il T.A.R. del Lazio a sua volta deduceva che l’art. 267 consentiva di risolvere con un provvedimento amministrativo (ecco spiegata la ragione del ricorso al T.A.R.) le contestazioni di confine insorte tra Comuni di Regioni diverse, ma che la vicenda influiva pure direttamente sulla consistenza del territorio di due Regioni contermini garantita dall’art. 132 Cost., che impone l’emanazione di una legge (e non di un atto amministrativo) per le variazioni del territorio regionale. La norma ordinaria, secondo il giudice a quo, avrebbe inciso direttamente sullo stesso principio dell’autonomia degli enti locali, il cui valore e riconoscimento si trovavano solennemente riaffermati nell’art. 5 Cost.73. L’avvocatura dello Stato74 dedusse, per contro, che l’art. 132 Cost. prevede soltanto casi di modificazione dei confini regionali, mentre 73 Si veda Capitolo I, par. 1. La difesa in giudizio delle amministrazioni statali spetta all’avvocatura dello Stato. E’ composta da legali che forniscono consulenza legale alle amministrazioni statali e provvedono, appunto, alla loro difesa in giudizio. L’avvocatura è incardinata presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, ma svolge le proprie funzioni in modo indipendente; ne è a capo l’avvocato generale dello Stato. Esistono delle sedi periferiche, dette avvocature distrettuali, presso ciascuna sede di Corte d’appello. 74 101 resta estranea alla previsione della norma, e quindi alla riserva di legge, l’ipotesi del semplice accertamento del preesistente confine. La Corte, premettendo che né l’art. 132, né l’art. 134 Cost. nulla dispongono in materia di contestazione di confini tra Regioni, asseriva che l’art. 267 r.d. 383/1934, viceversa, ha continuato e regolare i ricorsi per contestazione di confini tra Comuni (e Province) appartenenti a Regioni diverse. Le differenze tra le fattispecie di cui all’art. 132 Cost. e la previsione di cui all’art. 267 r.d. 383/1934 erano evidenti. Le ipotesi di modificazione territoriale ex art. 132 Cost. operavano in funzione dell’assetto degli interessi, competenze o potestà, determinato dalla nuova configurazione istituzionale e strutturale degli enti locali che ne erano titolari: situazioni del tutto differenziate dalla semplice riconduzione territoriale del confine al suo titolo costitutivo (ex art. 267). Nessun contrasto poteva esservi pertanto fra l’art. 267 r.d. 383/1934 e gli artt. 132 e 134 Cost., disciplinando questi ultimi materia diversa da quella oggetto della norma impugnata. La Corte Costituzionale dichiarò non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 267 r.d. 383/1967, sollevata in riferimento agli artt. 5, 132 e 134 Cost. dal T.A.R. del Lazio. Della questione si occupò anche la dottrina75 sostenendo che era esatta l’affermazione della Corte Costituzionale, e cioè che la Costituzione non detta una disciplina ad hoc in ordine alla contestazione di confini tra Regioni, ma non anche se si intendesse 75 Sul punto si veda: M. PEDRAZZA GORLERO, Recenti sviluppi della giurisprudenza costituzionale in tema di variazioni territoriali delle Regioni e dei Comuni in rivista Le Regioni, 1993, nota 1, pp. 1400 ss. 102 sostenere che non esistono principi costituzionali in grado di risolvere il problema in modo soddisfacente. Il dato assiomatico, negato dalla Consulta, da cui si parte è il seguente: la decisione di una contestazione di confini, anche se meramente ricognitiva degli stessi, può indurre una, sia pur minima, variazione territoriale del Comune e delle Regioni interessate. Ciò perché, pur potendosi distinguere, come la Corte esattamente fa, tra costituzione, modificazione ed accertamento di un confine territoriale, ed anche ammettere che la decisione sulla lite confinaria riconduca semplicemente il confine al suo titolo costitutivo, non si può disconoscere che alla reinterpretazione del titolo costitutivo effettuatane dall’autorità che decide il conflitto possa seguire una concreta modificazione del confine contestato. Osservato da questo punto di vista, non pare controvertibile che le variazioni confinarie delle Regioni, in quanto variazioni territoriali, rientrino tra quelle disciplinate dalle norme costituzionali. Oltre a ciò si deve convenire sul fatto che l’art. 132 Cost. ha ad oggetto principalmente le modificazioni del territorio regionale sul quale insistono le popolazioni interessate alla decisione di variazione (il cui contenuto anzi esse concorrono a formare), mentre ad una decisione di una contestazione di confini sono normalmente estranei gruppi di popolazioni direttamente toccati dalla variazione territoriale. La circostanza tuttavia che, da un lato, gruppi siffatti, per quanto esigui, possano esistere, e, dall’altro, che la decisione debba essere statale, non essendo nella competenza della Regione la soluzione di un conflitto riguardante il proprio e l’altrui confine, fa ritenere che, per dirimere controversie attinenti ai confini regionali, si debba adottare il 103 procedimento disposto per il distacco-aggregazione di un Comune da una Regione all’altra. Si avrà così l’iniziativa dei Consigli dei Comuni in conflitto o anche di uno solo i essi, il parere obbligatorio dei Consigli delle Regioni interessate, il referendum delle popolazioni direttamente interessate (ovviamente solo se l’area territoriale non sia priva di copertura umana), ed infine la legge statale ordinaria. La costruzione della Corte Costituzionale in merito alla contestazione di confini può quindi riguardare solo aree territoriali prive di copertura umana, ma non potrebbe reggere ad una contestazione di confini la cui decisione comportasse una variazione territoriale comprendente un gruppo di popolazione, la quale, anche se derivante da una mera riconduzione di un confine al suo titolo costitutivo, non potrebbe essere deliberata che con il procedimento previsto dall’art. 132, co. 2 Cost.76 Resterebbe però da spiegare la ragione di una procedura differente nei due casi, dal momento che il collegamento tra necessità di celebrare il referendum ed esistenza di gruppi di popolazione è in grado di soddisfare pienamente la differenza tra le due ipotesi. A parere di chi scrive la soluzione auspicabile, come si è già detto sopra77, sarebbe quella d’inserire nella Carta Costituzionale una norma che preveda l’ipotesi della contestazione di confini, diversificandola da quella delle variazioni territoriali di cui all’art. 132 Cost., disponendo inoltre procedimenti differenziati perché diverse sono le esigenze che queste ipotesi mirano a soddisfare. 76 In questo senso si veda: L. FERRARO, commento all’art. 132 della Costituzione italiana, in Commentario alla Costituzione, a cura di BIFULCO R., CELOTTO A., OLIVETTI M., Torino, 2006, p. 2537. 77 Si veda Capitolo II, p. 98. 104 CAPITOLO III IL PROCEDIMENTO DI VARIAZIONE TERRITORIALE SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. L’iniziativa. – 2.1. L’iniziativa del procedimento di variazione territoriale. – 2.2. Le ulteriori fasi procedurali dell’atto d’iniziativa. – 3. Il referendum. – 3.1. Il referendum nella Costituzione italiana e negli ordinamenti regionali. – 3.2. La qualificazione giuridica del referendum previsto dall’art. 132 Cost. – 3.2.1. Referendum “consultivo” in caso di esito positivo, “deliberativo” in caso di esito negativo. – 3.2.2. Referendum “deliberativo” nei casi di fusione e di creazione, “cumulativo” nel caso di distacco-aggregazione. – 3.2.3. Referendum come atto d’iniziativa o come condizione di procedibilità. – 3.2.4. Referendum “deliberativo” in ogni caso precedenti. – 3.3. Il concetto di popolazioni interessate. – 3.4. La votazione, lo scrutinio e la dichiarazione del risultato del referendum. – 4. Il procedimento legislativo. – 4.1. La fase istruttoria del procedimento legislativo. – 4.2. Il parere dei Consigli regionali. – 4.3. La deliberazione legislativa. – 4.4. La qualificazione giuridica delle leggi di variazione territoriale e la loro collocazione nel sistema delle fonti. – 4.4.1. Qualificazione giuridica e collocazione sistematica della legge costituzionale di variazione territoriale. – 4.4.2. Qualificazione giuridica e collocazione sistematica della legge ordinaria di variazione territoriale. – 4.5. La forma della legge per l’aggregazione ad una Regione a Statuto speciale. 1. Premessa L’art. 132 Cost. prevede i procedimenti idonei ad attuare le variazioni territoriali delle Regioni. Come detto nell’introduzione, l’articolo in questione, dopo aver svolto la funzione politica di rendere accettabile la ripartizione storico-statistica accolta nell’art. 131 Cost., non ha mai ricevuto concreta applicazione. L’unica modificazione territoriale finora intervenuta è stata l’istituzione della Regione 105 Molise, deliberata con il procedimento contemplato nell’ XI disposizione di attuazione. Il successivo consolidamento della ripartizione storica ha tolto interesse all’art. 132 Cost., confinandolo nelle zone grigie dell’ordinamento, dove l’idoneità funzionale del congegno normativo convive con la sua concreta inattivazione (come sostiene Pedrazza Gorlero). Tale articolo non riesce quindi a rivelare appieno l’uso al quale era stato destinato, mancandone esempi concreti adatti a dimostrarne l’idoneità. Come si è visto, i procedimenti di variazione territoriale sono tre: la fusione di Regioni esistenti, la creazione di una nuova Regione ed il distacco del territorio da una Regione e la sua aggregazione ad un’altra. I procedimenti presentano molti elementi in comune, tali da giustificare la riduzione ad un unico procedimento entro il quale si faranno notare le eventuali differenze. Una questione che investe la configurazione complessiva del procedimento è l’alternativa se considerarlo un procedimento unitario, di legislazione costituzionale od ordinaria, aggravato da forme di consultazione degli organi rappresentativi e d’intervento del corpo elettorale, interessati alla variazione territoriale, oppure un procedimento duale, articolato in un subprocedimento di democrazia diretta ed in un procedimento legislativo, del quale quello referendario costituisce il necessario presupposto. La formulazione testuale degli antecedenti normativi dell’art. 132 Cost. sembra accreditare la concezione unitaria del procedimento in questione: si tratta di un procedimento legislativo unitario che è possibile definire, come si vedrà nel corso della trattazione, “superaggravato”. Durante la discussione dell’art. 23 del Comitato per 106 le autonomie locali78 sorse la questione se la richiesta degli organi rappresentativi delle popolazioni interessate alla variazione territoriale introducesse il referendum o il procedimento legislativo. In quest’ultimo caso il referendum sarebbe stato da considerare come un subprocedimento, presupposto necessario del procedimento legislativo, configurante quindi una concezione duale. La seconda Sottocommissione risolse la questione nel senso di ritenere che la fase dell’iniziativa si aprisse con la richiesta che avviava il procedimento referendario, che quindi costituiva un unicum con l’eventuale procedimento legislativo. In sostanza, alla richiesta degli organi rappresentativi è demandato il compito di promuovere il referendum capace di evidenziare integralmente l’area dell’interesse e di assicurare il consenso necessario alla formazione del contenuto dell’eventuale deliberazione legislativa. Alla luce di tutto ciò, il procedimento unitario di variazione territoriale si compone delle seguenti fasi: - l’iniziativa, riservata agli organi rappresentativi delle popolazioni interessate alla variazione territoriale; - il referendum, espressivo della volontà delle popolazioni interessate; - il procedimento legislativo statale, comprendente a sua volta: - i pareri dei Consigli regionali a tutela delle popolazioni indirettamente interessate o controinteressate; - l’eventuale approvazione di una legge statale, costituzionale od ordinaria, che certifichi l’avvenuta variazione territoriale. 78 Si veda Capitolo I, paragrafo 6. 107 2- L’iniziativa 2.1- L’iniziativa del procedimento di variazione territoriale La fase dell’iniziativa si apre con la richiesta degli organi rappresentativi degli enti comunali e provinciali interessati, richiesta che avvia anche il procedimento referendario. Secondo la concezione unitaria, scompare ogni riferimento ad un’iniziativa referendaria distinta dall’iniziativa legislativa: il legislatore d’attuazione, prescrivendo che il procedimento di variazione territoriale sia introdotto dalla richiesta di referendum, ha escluso la possibilità che l’iniziativa di legge venga esercitata dagli organi rappresentativi delle popolazioni interessate. Saranno analizzati ora gli aspetti procedimentali dell’iniziativa, ponendo particolare attenzione sul rapporto tra la norma costituzionale e la legislazione di attuazione, con la riserva di dare una qualificazione giuridica al referendum “territoriale”79 e di definire il concetto di popolazioni interessate80 nel corso della trattazione. Facendo un’analisi esegetica della disposizione costituzionale, la “richiesta” appare rivolta sia ad ottenere il provvedimento di variazione territoriale, sia ad attivare il procedimento che gli è strutturale, e perciò il subprocedimento presupposto. Quest’intreccio di competenze tra gli organi rappresentativi e l’istituto referendario ed i motivi sostanziali ad essi sottesi potrebbero ben spiegarsi così: “si potrebbe parlare di un effetto addizionale, nel senso che l’iniziativa degli enti locali, operante sul piano della legalità, 79 80 Si veda Capitolo III, paragrafo 3.2. Si veda Capitolo III, paragrafo 3.3. 108 verrebbe attratta dal referendum sul versante della legittimità politica, ma altrettanto in una dinamica osmosi, quest’ultimo riceverebbe beneficio dalla prima, nella prospettiva di un suo ulteriore rafforzamento. Si realizzerebbe così un risultato complesso, dove l’istituto di democrazia diretta, da una parte e l’azione delle istituzioni rappresentative, dall’altra, si rafforzerebbero vicendevolmente, sebbene il primo, in ragione del suo plusvalore simbolico, conserverebbe comunque il ruolo centrale, nonostante la porzione limitata del corpo elettorale coinvolto. Non di meno, può forse aggiungersi che le istituzioni rappresentative in questione trasmettano anch’esse al referendum, in forza della loro vicinanza ai cittadini, un quid pluris in termini di valenza politica”81. Il costrutto legislativo in questione viene previsto nell’art. 132 Cost. e nell’art. 42 della legge 25 maggio 1970 n. 352, attuativa del procedimento referendario. Si analizzerà ora la fase dell’iniziativa del procedimento in questione. Per prima cosa si deve vedere se l’art. 42 della l. 352/1970 sia rispettoso del dettato costituzionale. L’art. 132 Cost. prevede una riserva d’iniziativa del procedimento di variazione territoriale a favore dei soli organi rappresentativi delle popolazioni interessate. Su tale interpretazione concorda gran parte della dottrina più autorevole in materia82. La domanda che sorge è la seguente: l’art. 42 della l. 81 Cfr. L. FERRARO, commento all’art. 132 della Costituzione italiana, in Commentario alla Costituzione, a cura di BIFULCO R., CELOTTO A., OLIVETTI M., Torino, 2006, p. 2540. 82 Sul punto si veda: M. SCUDIERO, Il referendum nell’ordinamento regionale, Napoli, 1971, p. 56; S. CARBONARO, Il referendum nella Costituzione e negli statuti delle Regioni ad ordinamento speciale in Studi in memoria di Carlo Esposito, Padova, 1972, p. 162; E. DE MARCO, Contributo allo studio del referendum, Padova, 1974, p. 247; M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. II, Padova, 1991, pp. 145 ss. e pp. 178 ss. 109 352/1970 soddisfa questa riserva d’iniziativa? Da una lettura sinottica delle disposizioni in questione emerge che il comma 1 dell’articolo in questione si adegua all’art. 132, co. 1 Cost., prevedendo che l’iniziativa sia riservata ai soli Consigli comunali, mentre l’art. 42, co. 2 della l. 352/1970 si adegua all’art. 132, co. 2 Cost., che estende l’iniziativa anche alle Province. Analizzando dettagliatamente la disciplina dell’iniziativa referendaria, con particolare riguardo per i soggetti che ne sono titolari, emergono però dei problemi di natura esegetica di non facile soluzione, sia nelle disposizioni costituzionali, sia nella legge in materia referendaria. Già nell’art. 132 Cost. si registra un’evidente asimmetria in merito all’attribuzione del potere d’iniziativa, che nel comma 1 è affidato ai soli Consigli comunali, mentre nel comma 2 è esteso anche alle Province. L’art. 42 della l. 352/1970 poi, non si è contenuto nei limiti del dettato costituzionale, ma ha notevolmente ed illegittimamente innovato le prescrizioni dell’art. 132 Cost., accordando l’iniziativa referendaria ad organi da esso non previsti e condizionando quella dei titolari dell’iniziativa necessariamente congiunta di soggetti dalle stesse non contemplati. La fusione di Regioni esistenti è l’ipotesi che meno si discosta dal dettato costituzionale. Prevede infatti l’art. 132, co. 1 Cost. che titolari dell’iniziativa siano i “Consigli comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate”, mentre l’art. 42, co. 1 della l. 352/1970 ne riproduce la formulazione, specificando esattamente che la popolazione interessata sia “la popolazione complessiva delle regioni della cui fusione si tratta”. Nella fusione infatti tutte le popolazioni sono direttamente interessate, in quanto tutte vanno a costituire la nuova entità territoriale. Titolari 110 dell’iniziativa saranno quindi i Consigli comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni di tutte le Regioni che andranno a comporre la nuova entità territoriale; non importa come i gruppi di popolazione da essi rappresentati siano dislocati, ossia in una soltanto, in alcune, o in tutte le Regioni interessate. In una simile situazione potrebbe accadere che la popolazione di una Regione non voglia addivenire ad una fusione con altre Regioni, ma sia comunque costretta a subire il procedimento referendario perché chiesto dai Consigli comunali di cui sopra. Ciò è indubbiamente vero, ma la Regione non può essere costretta a fondersi con altre Regioni contrariamente alla sua volontà. Per far fronte a questa situazione ed a garanzia della volontà della popolazione della Regione, vi sono le modalità di svolgimento del referendum, il quale dev’essere tenuto Regione per Regione: in questo modo si riesce a localizzare la volontà delle singole popolazioni. Altra situazione problematica è rappresentata da una tipologia particolare di fusione, la fusione per incorporazione. È il caso che si verifica quando un ente regionale, la Regione incorporanda, si estingue annettendosi totalmente ad un’altra realtà regionale già esistente, la Regione incorporante; in questo modo non si verifica l’istituzione di una nuova Regione, come avviene con la fusione, bensì la modificazione della Regione incorporante. È un’ipotesi più vicina al distacco-aggregazione che non alla fusione. In questo caso il principio della corrispondenza fra popolazioni interessate alla richiesta (solo quelle della Regione incorporanda) ed alla variazione (quelle di entrambe le Regioni) potrebbe rendere impossibile l’iniziativa di tale figura di fusione: ciò potrebbe accadere quando i Consigli comunali della Regione incorporanda, pur rappresentando l’intera popolazione 111 regionale, non rappresentino almeno un terzo della popolazione complessiva che risulterà dalla fusione. Si deve quindi giudicare costituzionalmente illegittima la norma di attuazione di cui all’art. 42, co. 1 della l. 352/1970, nella parte in cui non prevede tale situazione. La disciplina dell’iniziativa nell’ipotesi di creazione di una nuova Regione diverge sensibilmente da quella prevista a livello costituzionale. L’art. 132, co 1 Cost. infatti identifica i titolari dell’iniziativa del procedimento allo stesso modo che per l’ipotesi della fusione: titolari dell’iniziativa sono soltanto i “Consigli comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate”; l’art. 42, co. 2 della l. 352/1970 prevede invece che titolari dell’iniziativa siano i “consigli provinciali” ed i “consigli comunali delle province e dei comuni di cui si propone il distacco” e che essa sia necessariamente accompagnata con quella “di tanti consigli provinciali o di tanti consigli comunali che rappresentino almeno un terzo della restante popolazione della regione dalla quale è proposto il distacco”. Si può notare come la norma costituzionale in questo caso sia stata completamente travisata dalla norma di attuazione, e pertanto l’art. 42, co. 2 della l. 352/1970 deve ritenersi viziato per illegittimità costituzionale. Questi i motivi: - si è conferito il potere d’iniziativa ai Consigli provinciali, che nell’art. 132 co. 1 Cost. non sono contemplati. Ciò si è verificato perché il legislatore d’attuazione ha esteso il regime del distaccoaggregazione alla creazione, dando per presupposto che nelle ipotesi di variazione territoriale in questione vi sia una qualche somiglianza per quanto riguarda la fase del distacco. L’estensione attuata è però illegittima perché postula la corrispondenza tra titolari dell’iniziativa nelle ipotesi di creazione e di distacco-aggregazione: da una lettura 112 sinottica emerge che il primo comma della lettera costituzionale prevede come titolari solamente i Consigli comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate (quindi non vi è una completa identificazione tra i titolari dell’iniziativa e territori aggregabili, in quanto il procedimento può essere sollevato solamente da una parte dei rappresentanti di tutte le popolazioni interessate). Nell’ipotesi di cui al capoverso dell’art. 132 Cost., invece, titolari dell’iniziativa devono essere tutti i Consigli, provinciali e comunali, dei territori che intendono staccarsi (vi sarà quindi una completa identificazione tra gli organi rappresentativi ed i territori aggregabili). Si noti inoltre che soggetti ammessi all’iniziativa dovrebbero essere solamente le popolazioni interessate alla creazione di una nuova Regione e non anche le popolazioni “restanti” delle Regioni da cui si realizza il distacco, perché così stabilisce la lettera costituzionale del primo comma dell’art. 132, ed infatti la parte della norma in questione (art. 42, co. 2 della l. 352/1970) è stata dichiarata costituzionalmente illegittima dalla sentenza 334/2004 della Corte Costituzionale83; questi i motivi: - la falsificazione operata dalla norma di attuazione in merito alla frazione minima di popolazione che i Consigli comunali debbono rappresentare per poter avanzare la richiesta di creazione. Nel dettato costituzionale è infatti previsto che la richiesta debba essere avanzata da tanti Consigli comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate. Nella norma di attuazione si stabilisce invece che la richiesta debba provenire da tutti i Consigli comunali e provinciali che chiedono il distacco per la creazione di una nuova 83 Sul punto si veda: Sentenza 10 novembre 2004 n. 334 in Giurisprudenza costituzionale, n. 6/2004, Milano. 113 Regione. La differenza è talmente palese da non aver bisogno di commenti; - l’iniziativa necessariamente concomitante dei Consigli comunali e provinciali che rappresentino almeno un terzo della popolazione residua della Regione dalla quale si effettua il distacco. Tale iniziativa non trova riscontro nell’art. 132, co. 1 Cost. e deve ritenersi pertanto costituzionalmente illegittima. Il procedimento di distacco-aggregazione è l’ipotesi più articolata e complessa, perché presenta due particolarità rispetto ai procedimenti di fusione e di creazione, ossia la titolarità dell’iniziativa alle Province e l’assenza di popolazioni direttamente interessate diverse da quelle che chiedono la variazione. L’autonoma iniziativa delle Province è stata contestata da una parte della più autorevole dottrina in materia che ha ritenuto di poterla escludere sulla base dell’irragionevolezza di accordarla ai soli Comuni nelle ipotesi di fusione e creazione ed anche alle Province nel distacco-aggregazione. Il Balladore Pallieri84 fonda le sue deduzioni in merito su un argomento letterale: l’espressione “che ne facciano richiesta” contenuta nel comma 2 dell’art. 132 Cost. dovrebbe riferirsi unicamente ai Comuni e non anche alle Province. Il dettato costituzionale viene così superato da un’interpretazione restrittiva dell’inciso “che ne facciano richiesta”, limitato ai soli Comuni. I motivi dell’irragionevolezza non sono direttamente esplicitati, ma si possono dedurre dal contesto ermeneutico: il Costituente ha individuato nel Comune l’unità minima di variazione territoriale, 84 Vedi G. BALLADORE PALLIERI, Diritto costituzionale, Milano, 1970, pp. 379 ss. 114 pertanto, con il riferimento alla Provincia, egli non ha denotato uno dei titolari dell’iniziativa, bensì solamente un territorio aggregabile. La Provincia anzi sarebbe da considerare la dimensione massima del distacco-aggregazione; l’Autore infatti afferma che: “alle regioni possono essere aggiunte o da esse distaccati solo comuni, sia singolarmente sia raggruppati in vari modi e anche in intere province”. Su questa lunghezza d’onda è pure il Mortati85, che fonda le sue deduzioni su due tipi di argomenti. In base ad un argomento sistematico, egli afferma che nell’art. 133 co. 1 Cost., in materia di variazione territoriale delle Province, sono previsti come titolari dell’iniziativa soltanto i Comuni, quindi la stessa cosa dovrebbe valere anche per l’articolo in questione, pena una disomogeneità nel sistema. Sulla base di un argomento sostanziale (più forte), egli ritiene che la Provincia, secondo l’ordinamento italiano, sia un ente fornito di competenze specifiche su materie determinate. Il Comune invece è dal punto di vista morfologico l’unità minima di variazione territoriale e dal punto di vista soggettivo l’ente rappresentativo della volontà della popolazione in materia di variazione territoriale. Pertanto, non essendo la Provincia un ente superiore gerarchico del Comune, come tale non può ritenersi rappresentativa della volontà della popolazione ad essa appartenente fuori dalle materie di sua competenza. Il Mortati conclude dicendo che o si ritiene che alla Provincia sia preclusa ogni attività in materia (come sostiene il Balladore Pallieri), oppure, ove si voglia essere più aderenti al dettato costituzionale, deve consentirsi un’iniziativa all’ente-provincia, subordinandola però al successivo consenso dei Comuni in essa inclusi, che in analogia a quanto disposto 85 Sul punto si veda: C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1976, nota 1, p. 894. 115 dal primo capoverso dell’art. 132 Cost., devono rappresentare almeno un terzo della popolazione interessata. Si esclude espressamente l’iniziativa dei Consigli provinciali anche nel Commentario alla Costituzione di Falzone, Palermo, Cosentino86, pur senza portare argomentazioni specifiche sulla questione. A parere di chi scrive, francamente, sembra che gli argomenti addotti siano deboli e la critica si fonda su un’impostazione interpretativa differente che si ritiene più adeguata. L’interpretazione normativa infatti dev’essere strettamente aderente al dettato costituzionale, e si crede che sia poco opportuno che un autore deformi le disposizioni costituzionali secondo il suo pensiero. Sarebbe invece opportuno che fosse lui ad adeguare questo alla lettera costituzionale, anche se una norma non incontra il suo favore. L’argomento di Balladore Pallieri non pare decisivo, in primo luogo perché è un argomento letterale, e quindi debole per antonomasia, ma soprattutto perché sembra una forzatura ritenere l’inciso “che ne facciano richiesta” attribuito ai soli Comuni, quando i soggetti della preposizione normativa sono con ogni evidenza sia i Comuni che le Province. Come detto sopra, quando si va ad interpretare una disposizione, sarebbe bene attenersi precisamente al dettato costituzionale e non far dire alla norma ciò che la norma non dice. Continuando con la critica, se alla denominazione, che individua l’ente anziché l’organo, si attribuisce la capacità d’indicare l’area aggregabile, ma non il titolare dell’iniziativa, ciò dovrebbe valere anche per i Comuni, mentre per questi il nome identifica sia il territorio aggregabile sia il soggetto dell’iniziativa. 86 Sul punto si veda: V. FALZONE, F. PALERMO, F. COSENTINO, La Costituzione della Repubblica italiana, Roma, 1969, p. 411. 116 Sul fatto poi che la Provincia sia da considerare la dimensione territoriale massima del distacco-aggregazione, niente nella disposizione costituzionale fa concludere in tal senso: non è quindi preclusa per nessun motivo la possibilità che si possa realizzare una simile variazione territoriale congiuntamente tra Province e Comuni. L’argomento sistematico di Mortati può essere anch’esso oggetto di confutazione: pare abbastanza logico che nell’art. 133, co. 1 Cost. avanzino richiesta solo i Comuni perché nel sistema delle variazioni territoriali delle Regioni e delle Province è regola che la domanda sia presentata dagli organi rappresentativi degli enti rientranti nell’ambito territoriale dell’ente da variare e non da quelli dell’ente medesimo. Si ritiene pertanto che anche le Province possano essere titolari dell’iniziativa del procedimento del distacco aggregazione ai sensi dell’art. 132, co. 2 Cost. e ciò perché così sta scritto nel dettato costituzionale. L’argomento sostanziale di Mortati pone anch’esso dei seri dubbi in quanto, pare di capire, che l’iniziativa dei procedimenti di variazione territoriale possa essere avanzata solo dagli enti che siano rappresentativi dell’intera popolazione, e che questa rappresentatività venga a mancare quando i fini perseguiti dall’ente e le funzioni ad esso assegnate sono limitate a materie determinate. Le Province sono però enti rappresentativi delle popolazioni residenti a tutti gli effetti, o meglio, come dice parte della dottrina, sono “enti territoriali (…) direttamente esponenziali delle popolazioni residenti sul loro territorio”87: un ente locale è esponenziale in quanto 87 Cfr. F. PIZZETTI, Il sistema costituzionale delle autonomie locali, Milano, 1979, p. 189. 117 rappresenta ed è portatore degli interessi della comunità stanziata in un determinato territorio. L’ente locale è dotato di potere di autodeterminazione, ma il contenuto di tale potere varia in ragione della natura e delle funzioni della comunità e del suo ente esponenziale88. La Provincia ha, come detto sopra, delle competenze specifiche su determinate materie, ma ciò non ne riduce il potere di rappresentanza: in sostanza, la limitatezza dei fini generali perseguiti non riduce la rappresentatività dell’ente (fino ad escluderla in relazione ad un’iniziativa riguardante la variazione del suo territorio). La tesi del Mortati sembra invece invertire il rapporto tra esponenzialità e territorialità dell’ente: anziché far guadagnare alla prima le disposizioni costituzionali in materia di variazioni territoriali, essa, interpretandole restrittivamente, le porta a limite della seconda, e la cosa, alla luce di quanto visto, non sembra condivisibile. Concludendo, si ritiene che anche le Province possano essere titolari dell’iniziativa del procedimento del distacco aggregazione ai sensi dell’art. 132, co. 2 Cost. e ciò perché così sta scritto nel dettato costituzionale. Questa posizione si fonda su autorevole dottrina, che fornisce vari argomenti sulla questione89: Pedrazza Gorlero definisce “insuperabile la lettera della disposizione”, osservazione che pare molto adeguata; De Marco sostiene esplicitamente che l’interpretazione del Balladore Pallieri “rappresenta (…) una forzatura del dettato costituzionale”. 88 In questo senso si veda: M. S. GIANNINI, Autonomia pubblica (voce) in Enciclopedia del diritto, vol. IV, Milano, 1959, pp. 364 ss. 89 Sul punto si veda: M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. II, Padova, 1991, pp. 59 ss.; S. CARBONARO, Il referendum nella Costituzione e negli statuti delle Regioni ad ordinamento speciale in Studi in memoria di Carlo Esposito, Padova, 1972, nota 59, p. 161; E. DE MARCO, Contributo allo studio del referendum, Padova, 1974, nota 5, p. 246. 118 Si hanno ora gli elementi per rispondere adeguatamente alla domanda con cui era stata aperta la trattazione di questo paragrafo e cioè: l’art. 42 della l. 352/1970 soddisfa la riserva d’iniziativa posta dall’art. 132 Cost.? La parte di tale articolo in cui si prevede l’iniziativa dei “Consigli provinciali e comunali delle Province e dei Comuni di cui si propone il distacco” è senz’altro rispettosa del dettato costituzionale. Per quanto riguarda invece i “Consigli provinciali” o i “Consigli comunali che rappresentino almeno un terzo della restante popolazione della Regione dalla quale è proposto il distacco” ed i “Consigli provinciali” o i “Consigli comunali che rappresentino almeno un terzo della restante popolazione della Regione alla quale si propone l’aggregazione”, il legislatore è andato ben oltre le tesi dottrinali sopra esaminate. In primo luogo ha disposto l’associazione all’iniziativa di altri soggetti interessati alla variazione, spezzando di fatto la corrispondenza tra soggetti richiedenti e territori aggregabili; ha inoltre previsto il concorso necessario all’iniziativa di soggetti indirettamente interessati o controinteressati alla variazione, e ciò in contrasto con il principio che l’iniziativa della variazione spetta solo a chi abbia un diretto interesse. In sostanza ha aggravato quanto esplicitamente richiesto dalla Costituzione90. Per questi due motivi si deve concludere che l’art. 42 della l. 352/1970 sia, in queste parti, costituzionalmente illegittimo. 90 Cfr. E. GIZZI, Manuale di diritto regionale, Milano, 1991, pp. 42 ss. 119 2.2- Le ulteriori fasi procedurali dell’atto d’iniziativa L’atto formalmente introduttivo del procedimento referendario è la richiesta. La richiesta di referendum dev’essere depositata presso la cancelleria della Corte di Cassazione da uno stesso delegato, effettivo o supplente, che sia stato preventivamente designato nelle deliberazioni dei Consigli comunali e provinciali titolari dell’iniziativa (art. 42, co. 3 e 4, della l. 352/1970). Queste deliberazioni devono contenere anche la riproduzione testuale precisa del quesito da sottoporre a referendum e devono essere identiche per oggetto (art. 42, co. 1, 2 e 3, della l. 352/1970); devono inoltre essere depositate a corredo della richiesta nei tre mesi successivi alla data di deposito di quest’ultima e devono essere adottate non oltre tre mesi prima della data del rispettivo deposito (art. 42, co. 5 della l. 352/1970). Qual è la ratio dell’eventuale sfasatura temporale tra il deposito della richiesta e quello delle deliberazioni consiliari? È possibile individuarla nell’ampliamento della libertà d’iniziativa, che può esercitarsi anche prima che tutti i titolari l’abbiano deliberata. Tale vantaggio è però apparente, visto che le deliberazioni vengono acquisite, il delegato conosciuto e il quesito referendario fissato definitivamente solo all’atto del deposito, entro i termini, dell’ultima deliberazione. Per quanto riguarda invece la formulazione testuale del quesito referendario, si può notare che nell’ipotesi del distacco-aggregazione (art. 41, co. 1 della l. 352/1970) esso è differenziato a seconda che riguardi Province o Comuni. Come si è visto sopra91, nessuna disposizione costituzionale esclude il distacco-aggregazione congiunto 91 Si veda Capitolo III, p. 117. 120 tra Province e Comuni: si può pertanto concludere che tale disposizione sia in contrasto con il dettato costituzionale, nella parte in cui non prevede un format di quesito anche per questo caso di variazione territoriale. Per quanto riguarda le deliberazioni consiliari, la l. 352/1970 non prevede un quorum di validità delle riunioni o specifiche maggioranze, quindi ad esse debbono ritenersi applicabili le norme generali: è richiesta la presenza in aula della maggioranza dei componenti del Consiglio regionale e le deliberazioni sono approvate con il voto favorevole della maggioranza dei presenti92. La richiesta dev’essere necessariamente sottoposta all’accertamento di legittimità dell’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di Cassazione93. Quest’ufficio “accerta che la richiesta di referendum sia conforme alle norme dell’art. 132 della Carta costituzionale e della legge, verificando in particolare che sia raggiunto il numero minimo prescritto dalle deliberazioni depositate” (art. 43, co. 1, della l. 352/1970). Si può notare che questo accertamento è anticipato rispetto al referendum al fine di evitare la diseconomia di una pronuncia a vuoto da parte del corpo elettorale. Il primo accertamento riguarda la frazione minima di popolazioni interessate che i Consigli comunali e provinciali devono rappresentare per poter avanzare la richiesta. L’espressione “popolazioni interessate” va intesa diversamente a seconda che sia riferita alle popolazioni interessate ai fini della richiesta (vedi ad esempio art. 42, co. 1 e 2, della l. 352/1970) o alle popolazioni 92 Si veda ad esempio art. 43, co. 1 Statuto Regione Piemonte ed art. 27, co. 3 Statuto Regione Lazio. 93 Si veda art. 12 della l. 352/1970. 121 interessate al referendum : nel primo caso l’espressione si deve intendere come popolazione in senso puro e genericamente demografico, cioè nel senso di abitanti; nel secondo invece come cittadini aventi diritto di voto, cioè gli elettori94. Altro aspetto da considerare è l’accezione da attribuire alla rappresentanza di questi organi: è rappresentanza in senso tecnico? No, pare proprio di no. La formulazione normativa dell’art. 132, co. 1 Cost. sembra far intendere che i Consigli comunali debbano appartenere a Comuni aventi un numero di abitanti corrispondente ad un terzo delle popolazioni interessate alla variazione, piuttosto che rappresentarne l’interesse alla variazione. Ciò si può desumere anche da un possibile risvolto di questo procedimento: si potrebbe verificare la situazione paradossale per cui i Consigli comunali non rappresentino in concreto gli interessi della propria popolazione (che si esprimerà negativamente sul quesito referendario), ma rappresentino al contrario gli interessi di altri Comuni coinvolti nella variazione. Non a caso nell’ipotesi di distacco-aggregazione di cui al comma 2 di detto articolo, nella quale c’è corrispondenza tra i titolari della richiesta ed i territori aggregabili, manca ogni riferimento espresso al rapporto di rappresentanza, pur non essendo contestabile che i Consigli comunali e provinciali che avanzano la richiesta di variazione, siano degli organi rappresentativi. Un secondo accertamento da parte dell’Ufficio centrale per il referendum ha ad oggetto il minimo di un milione di abitanti su cui la nuova Regione deve poter contare per essere istituita. 94 In questo senso: C. CARBONE, Referendum in Novissimo digesto italiano, vol. XIV, Torino, 1967, p. 1110; G. D’ORAZIO, In tema di variazioni del territorio regionale in Scritti in onore di Costantino Mortati, Milano, 1977, p. 688. 122 L’interpretazione di questo requisito non è univoca in dottrina: vi è unanime accordo sul fatto che il minimo della popolazione attenga alla Regione creata, ma vi è divisione sulla possibilità di estenderlo anche alla Regione restante, o alle Regioni restanti, dopo la variazione territoriale. Cioè: la Regione o le Regioni da cui sono staccate le aree territoriali che andranno a comporre la nuova Regione, dopo questa “menomazione” dovranno anch’esse avere una popolazione minima di un milione di abitanti o non è necessario, ergo questo requisito è previsto solo per le Regioni nuove? La risposta data dalla dottrina si fonda su differenti interpretazioni letterali del concetto di “Regioni nuove”. Una parte afferma, con deduzioni tra l’altro plausibili, che la Regione che subisce il distacco vede modificati, anche in misura notevole, i propri elementi costitutivi, e cioè la popolazione e il territorio. Per questi motivi, questa Regione dovrà anch’essa essere considerata nuova a tutti gli effetti. Ne consegue che il requisito della popolazione minima di un milione di abitanti dovrà valere anche per le Regioni restanti. Sostenitori di questa tesi sono il Mortati che, con riferimento all’ipotesi del distacco-aggregazione, dice: “in ogni caso condizione preliminare per poter consentire tale mutamento è che la regione da cui dovrebbe effettuarsi il distacco non rimanga in seguito a questo con una popolazione inferiore ad un milione di abitanti” 95 e Falzone, Palermo, Cosentino che dicono: “la Regione nuova avrebbe il requisito della popolazione minima ma non lo avrebbe più quella già costituita. Sembra che ciò non possa ritenersi consentito, poiché anche la parte restante della Regione antica verrebbe, dopo la scissione, ad essere una Regione nuova, pur se col vecchio nome e col vecchio 95 Cfr. C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Padova. 1976, p. 895. 123 statuto, essendosi profondamente mutato uno degli elementi costitutivi, e cioè il territorio (…) Come Regione nuova, anch’essa dovrebbe avere un minimo di un milione di abitanti”96. Altra parte della dottrina invece afferma invece che il termine “nuove” nel sistema della variazione territoriale delle Regioni non designa realtà istituzionali genericamente nuove rispetto a quelle precedenti, ma sta ad indicare la semplice aggiunta numerica al novero delle Regioni stabilito dal Costituente; nuove in questo caso significa “altre”. Sostenitore di questa tesi è autorevole dottrina (Pedrazza Gorlero97). L’Autore in questione porta un argomento (che potrebbe essere definito “storico”) che pare condivisibile: il Costituente ha individuato il numero delle Regioni di cui all’art. 131 Cost. basandosi sul criterio storico-statistico, derogando al numero minimo di popolazione richiesto per l’istituzione di nuove Regioni, che si basava evidentemente su un criterio diverso, il criterio funzionale. Questa volontà di deroga del Costituente fu addirittura estesa anche alla creazione di Regioni nuove, durante la vigenza dell’ XI disposizione transitoria. La ratio del requisito del limite minimo di popolazione può ravvisarsi nell’intento di servire da remora al formarsi di nuove Regioni troppo piccole, che avrebbero favorito un’eccessiva frammentazione del territorio italiano. Per questo motivo l’estensione del requisito in oggetto alla Regione restante contrasterebbe con le decisioni assunte dal Costituente. Questa seconda interpretazione sembra essere più convincente perché, considerando più opportuna quell’interpretazione che sia il più 96 Cfr. V. FALZONE, F. PALERMO, F. COSENTINO, La Costituzione della Repubblica italiana, Roma, 1969, p. 412. 97 Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. II, Padova, 1991, p. 68. 124 possibile aderente al dettato costituzionale98, si ritiene che questa si adatti perfettamente alla volontà del Costituente ed a quanto egli ha voluto concretamente esprimere negli artt. 131 e 132 Cost. Non che le interpretazioni di altri pur autorevoli Autori (Mortati, Falzone, Palermo, Cosentino) siano prive di fondamento, anzi, ma, avendo assunto come stella polare la metodologia interpretativa di cui sopra, non è possibile condividere le loro seppur valide interpretazioni. Ad ulteriore dimostrazione di questa tesi interpretativa, è possibile addurre anche un argomento sistematico: l’estensione del limite alle Regioni restanti ne comporterebbe l’automatica applicazione anche al caso di distacco-aggregazione, il quale, nella fase del distacco, non differisce dalla creazione; appare invece evidente dalla lettera del dettato costituzionale che il limite in questione, di cui all’art. 132, co. 1 Cost., si riferisce solamente al caso di creazione di una nuova Regione. Un ultimo accertamento riguarda infine l’osservanza di tutte le prescrizioni legislative attinenti al contenuto delle deliberazioni consiliari, alla forma della richiesta di referendum e alle modalità e ai termini del deposito della richiesta e delle deliberazioni. L’accertamento dell’Ufficio centrale per il referendum si può concludere in due modi: - con un’ordinanza di legittimità, che dev’essere comunicata al Presidente della Repubblica, al Ministro per l’Interno e al delegato che ha provveduto al deposito (art. 43, co. 2, della l. 352/1970); - con un’ordinanza d’illegittimità, che dev’essere affissa all’albo della Corte di Cassazione e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale (art. 43, co. 3, della l. 352/1970). 98 Si veda Capitolo III, p. 116. 125 In entrambi i casi non sono assunti termini massimi per la decisione né mezzi di tutela avverso la dichiarazione d’illegittimità della richiesta. In virtù tuttavia del rinvio operato dall’art. 47 della l. 352/1970 dovrebbe trovare applicazione l’art. 12, co. 3 della citata legge che disciplina l’accertamento di legittimità del referendum costituzionale, che dispone quanto segue: “l’Ufficio centrale decide, con ordinanza, sulla legittimità della richiesta entro 30 giorni dalla sua presentazione. Esso contesta, entro lo stesso termine, ai presentatori le eventuali irregolarità. Se, in base alle deduzioni dei presentatori da depositarsi entro 5 giorni, l’Ufficio ritiene legittima la richiesta, l’ammette. Entro lo stesso termine di 5 giorni, i presentatori possono dichiarare all’Ufficio che intendono sanare le irregolarità contestate, ma debbono provvedervi entro il termine massimo di 20 giorni dalla data dell’ordinanza. Entro le successive 48 ore l’Ufficio centrale si pronuncia definitivamente sulla legittimità della richiesta”. Si potrebbe poi profilare l’ipotesi in cui l’Ufficio centrale presso la Corte di Cassazione ritenga illegittima l’istanza referendaria, ma i presentatori non siano d’accordo ed impugnino l’ordinanza d’illegittimità. Della questione si è occupata di recente la dottrina99, con riferimento all’ipotesi di cui al capoverso dell’art. 132 Cost. L’impugnazione delle ordinanze d’illegittimità delle richieste referendarie di variazione territoriale solleva un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato di fronte alla Corte Costituzionale. I poteri dello Stato interessati alla risoluzione del conflitto di attribuzione, sono: 99 Cfr. F. RATTO TRABUCCO, L’impugnabilità in sede di conflitto di attribuzione delle ordinanze d’illegittimità delle richieste referendarie di variazione territoriale, ex art. 132, co. 2 Cost., per violazione del diritto di autodeterminazione della comunità locale, www.forumcostituzionale.it, 2008. 126 - l’Ufficio centrale per il referendum, un organo che non può certo definirsi “costituzionale”, ma che ha un carattere “giurisdizionale” soprattutto in forza della “definitività” che contraddistingue le sue decisioni; - il comitato promotore del referendum, il quale ha lo scopo di pervenire alla deliberazione consiliare di richiesta referendaria, ed i delegati comunali, soggetti ricorrenti direttamente interessati a seguire la procedura di variazione territoriale. L’attribuzione del potere di ricorso ai soggetti in questione presuppone un’interpretazione estensiva del concetto di “potere dello Stato”: i delegati ed il comitato promotore sarebbero infatti portatori di un’attribuzione costituzionale di cui è titolare il corpo elettorale. Sul fatto che i delegati comunali possano essere considerati “potere dello Stato” però non vi unanimità di consensi: parte della dottrina (Benelli100 e, come appena detto, Ratto Trabucco101) sostiene un’interpretazione estensiva del concetto di potere dello Stato; altra parte (Pinardi102, Dolso103) e la giurisprudenza costituzionale propendono invece per un’interpretazione restrittiva. È da ritenersi che quest’ultima interpretazione sia la più adeguata e che i delegati comunali non siano legittimati a sollevare il conflitto di attribuzione 100 Sul punto si veda: F. BENELLI, Un conflitto da atto legislativo (davvero peculiare), una decisione di inammissibilità (ricca di implicazioni) (a margine dell’Ordinanza della Corte Costituzionale n. 343 del 25 novembre 2003) in Le Regioni n. 2-3/2004, Bologna, pp. 714 ss. 101 Si veda: Capitolo III, nota 99. 102 Sul punto si veda: R. PINARDI, Ancora un conflitto su atto legittimo (ovvero: la legge sul referendum alla luce della modifica dell’art. 132 comma 2 Cost. (a margine dell’Ordinanza della Corte Costituzionale n. 343 del 25 novembre 2003) in Giurisprudenza costituzionale n. 6/2003, Milano, pp. 3584 ss. 103 Sul punto si veda: G. P. DOLSO, commento all’art. 134 Cost. in Commentario breve alla Costituzione italiana, a cura di S. BARTOLE e R. BIN, Padova, 2008, p. 1170. 127 tra i poteri dello Stato ex art. 134 Cost.104 in rappresentanza del corpo elettorale in quanto manca il profilo oggettivo del conflitto, cioè un’attribuzione direttamente stabilita dalla Costituzione, che invece vi è nel caso del comitato promotore del referendum abrogativo, in quanto questi agisce in nome e per conto del corpo elettorale. Il comitato promotore del referendum territoriale, al pari dei promotori del referendum ex art. 75 Cost., invece, rappresenta una frazione del corpo elettorale, ossia le popolazioni direttamente interessate alla variazione territoriale, e quindi potrebbe essere parte di un conflitto interorganico tra i poteri dello Stato105. L’oggetto del conflitto di attribuzione starebbe nella menomazione del diritto costituzionalmente garantito all’autodeterminazione territoriale delle popolazioni interessate alla variazione territoriale. L’Ufficio centrale, respingendo illegittimamente l’istanza referendaria comunale, porrebbe in essere una violazione di una norma avente 104 I delegati effettivi del Comune non possono essere considerati potere dello Stato, a differenza di quanto avviene per i promotori del referendum abrogativo ex art. 75 Cost. (sul punto si veda: L. CARLASSARE, Conversazioni sulla Costituzione, Padova, 1996, p. 170) perché un’interpretazione analogica ed estensiva di tale concetto sarebbe forzata: mentre la richiesta presentata dal comitato promotore provoca una pronuncia dell’intero corpo referendario e la successiva abrogazione di un atto legislativo statale, nel caso previsto dall’art. 132, co . 2 Cost. l’iniziativa è volta alla raccolta di un semplice parere, ma anche se fosse prodromica ad una decisione considerata di natura deliberativa (come sostenuto in questo studio) comunque non sarebbe vincolante per il Parlamento. Non sussiste nessuna contrapposizione tra il corpo elettorale ed il legislatore che giustifichi un conflitto, proprio perché le Camere possono decidere liberamente se emanare o no la legge di variazione territoriale. Sul punto si veda: R. PINARDI, Ancora un conflitto su atto legittimo (ovvero: la legge sul referendum alla luce della modifica dell’art. 132 comma 2 Cost. (a commento dell’Ordinanza della Corte Costituzionale n. 343 del 25 novembre 2003) in Giurisprudenza costituzionale n. 6/2003, Milano, p. 3587. 105 La natura giuridica del referendum non va confusa con il ruolo che possono avere gli esponenti del comitato promotore: questi infatti sono sempre rappresentativi del corpo elettorale o di una frazione di esso. I delegati comunali invece non rappresentano nessuno: sono nominati dai Consigli comunali al solo scopo di depositare la richiesta di referendum. 128 copertura costituzionale, qual è l’art. 43, co. 1 della l. 352/1970, che disciplina il controllo di legittimità esercitato dal suddetto Ufficio sulla richiesta al fine di assicurare attuazione al disposto di cui all’art. 132, co. 2 Cost., che afferma il diritto del corpo elettorale comunale ad attivare la procedura per mutare l’appartenenza regionale. Riassumendo, i promotori della richiesta referendaria sarebbero legittimati ad impugnare in sede di conflitto di attribuzione le ordinanze dell’Ufficio centrale che dichiarano illegittime le richieste di referendum territoriale, e ciò perché simili ordinanze menomano il diritto costituzionalmente garantito dell’autodeterminazione territoriale delle popolazioni interessate. Fin qui le deduzioni di Ratto Trabucco paiono quasi tutte condivisibili; ciò che invece non può essere oggetto di condivisione sono le deduzioni fatte partendo dal caso concreto dell’ordinanza di rigetto della richiesta referendaria (datata 18 ottobre 2005) del Comune di Cinto Caomaggiore. L’ordinanza di rigetto dell’istanza referendaria si fondava sul ritardo nel deposito della deliberazione comunale, avvenuto oltre il termine perentorio dei tre mesi dalla data di adozione (si veda art. 42, co. 5 della l. 352/1970). Si sostiene che l’ordinanza conterrebbe “un lampante svarione”106 in quanto riferiva la sua motivazione all’inciso di cui all’art. 42, co. 5 della l. 352/1970: tale termine non riguarderebbe il deposito della deliberazione del Comune interessato107, ma solamente il deposito delle deliberazioni a 106 Cfr. F. RATTO TRABUCCO, L’impugnabilità in sede di conflitto di attribuzione delle ordinanze d’illegittimità delle richieste referendarie di variazione territoriale, ex art. 132, co. 2 Cost., per violazione del diritto di autodeterminazione della comunità locale, 2008, p. 6, www.forumcostituzionale.it. 107 Sul concetto di popolazioni direttamente interessate si veda Capitolo III, paragrafo 3.3. 129 corredo della richiesta, cioè quelle dei Comuni delle Regione da cui avviene il distacco e quelle dei Comuni verso cui avviene l’aggregazione. Le deliberazioni a corredo sono state espressamente soppresse dalla sentenza 334/2004 della Corte Costituzionale108, la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 42, co. 2 della l. 352/1970 nella parte in cui prevedeva queste deliberazioni a corredo, sancendo che l’unico soggetto abilitato ad attivare il procedimento ex art. 132, co. 2 Cost. sia la popolazione del Comune direttamente interessato alla variazione territoriale. Di conseguenza anche il co. 5 dell’art. 42 della l. 352/1970 sarebbe da considerarsi illegittimo dopo la pronuncia della Consulta. Il suddetto termine trimestrale non si estenderebbe analogicamente alla richiesta di referendum delle popolazioni direttamente interessate, il cui termine per il deposito sarebbe invece quello quinquennale stabilito dall’art. 45, co. 5 della l. 352/1970: in quest’articolo è infatti previsto che qualora la proposta di distacco-aggregazione sottoposta a referendum non sia approvata “non può essere rinnovata prima che siano trascorsi cinque anni” 109 . Da ciò si desumerebbe che solo qualora la deliberazione fosse depositata oltre cinque anni dalla data della sua adozione potrebbe configurarsi l’inammissibilità della stessa per carenza nell’attualità dell’intenzione della comunità locale interessata alla variazione territoriale. Queste considerazioni non paiono condivisibili in quanto distorcono indebitamente la legge di attuazione del referendum: dalla lettera dell’art. 42, co. 2 della l. 352/1970 emerge chiaramente che le 108 Sul punto si veda: Sentenza 10 novembre 2004 n. 334 in Giurisprudenza costituzionale, n. 6/2004, Milano. 109 Si veda art. 45, co. 5 della l. 352/1970. 130 deliberazioni a corredo della richiesta siano sia quelle dei Comuni indirettamente interessati alla variazione territoriale, sia quelle dei Comuni direttamente interessati; dice infatti la norma in questione che: “la richiesta (…) deve essere corredata delle deliberazioni, identiche nell’oggetto, rispettivamente dei consigli provinciali e dei consigli comunali delle province e dei comuni di cui si propone il distacco”. Di conseguenza, il termine perentorio di tre mesi stabilito nella lettera della legge (“è consentito il deposito delle deliberazioni, prescritte a corredo della richiesta, sia effettuato dai delegati nel periodo di tre mesi a partire dalla data del deposito della richiesta stessa” dei 110 ) varrebbe per tutte le deliberazioni; il fatto poi che quelle Comuni indirettamente interessati siano state dichiarate costituzionalmente illegittime, fa ritenere che attualmente tale termine trimestrale si riferisca solamente alle deliberazioni (a corredo) dei Comuni direttamente interessati. In merito poi al termine quinquennale ai sensi dell’art. 45, co. 5 della l. 352/1970 indicato dall’Autore in questione come il termine ultimo entro cui può essere approvata la richiesta di referendum dei Comuni direttamente interessati, bisogna dire che esso ricalca a grandi linee la norma prevista dall’art. 38 della l. 352/1970 per il referendum abrogativo, dove la ratio della disposizione è quella d’impedire il reiterarsi di un potenziale conflitto fra i rappresentanti ed il corpo elettorale, che potrebbe dar luogo ad una “drammaticità istituzionale”111, caratteristica estranea alla nozione di referendum 110 Si veda art. 42, co. 5 della l. 352/1970. Così definisce Pedrazza Gorlero questa caratteristica del referendum abrogativo; si veda: M. PEDRAZZA GORLERO, Le Regioni , le Province, i Comuni in Commentario della Costituzione, tomo III, Bologna-Roma, 1990, p. 166. 111 131 territoriale. È da ritenersi pertanto che non sia né opportuna, né appropriata per l’istituto in esame, come si vedrà nel corso della trattazione112, e non vi sia pertanto ragione di considerarlo il termine ultimo per l’approvazione della richiesta di referendum territoriale. La Corte Costituzionale, come si è detto, è il giudice deputato a sindacare sulle ordinanze dell’Ufficio centrale per il referendum ; sul punto però vi è una questione che divide dottrina e giurisprudenza: quale tipo di sindacato può esercitare la Consulta? Deve riguardare solamente la legittimità dell’ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum o può estendersi anche al merito del provvedimento? La giurisprudenza costituzionale è sempre stata costante113 nel ritenere che il proprio sindacato possa riguardare esclusivamente la mancanza dei presupposti per l’esercizio dei poteri attribuiti all’Ufficio centrale per il referendum (error in procedendo), ma non gli eventuali errori di giudizio in cui detto organo sia incorso (error in iudicando): un sindacato quindi di mera legittimità, non estendibile anche al merito delle ordinanze dell’Ufficio centrale. La dottrina (Ratto Trabucco114) non è d’accordo con quest’orientamento restrittivo della Consulta per due motivi: - da una parte perché lascia prive di tutela quelle sfere di attribuzioni costituzionali che risultano lese dal giudizio di merito dell’Ufficio centrale, ponendosi in netto contrasto con la restante giurisprudenza in 112 Si veda Capitolo III, pp. 137 ss. Sul punto si vedano ad esempio le Sentenze della Corte Costituzionale n. 289 del 1974, n. 81 del 1975, nn. 30 e 31 del 1980. 114 Cfr. F. RATTO TRABUCCO, L’impugnabilità in sede di conflitto di attribuzione delle ordinanze d’illegittimità delle richieste referendarie di variazione territoriale, ex art. 132, co. 2 Cost., per violazione del diritto di autodeterminazione della comunità locale, 2008, www.forumcostituzionale.it, pp. 8 ss. 113 132 tema di conflitti che ha ormai da tempo legittimato la sindacabilità sui conflitti di attribuzione ogniqualvolta risultino menomate le attribuzioni che un determinato soggetto si veda riconosciute dalla Costituzione; - dall’altra perché il corpo elettorale del Comune interessato ad attivare il procedimento di variazione territoriale al fine di mutare la propria appartenenza regionale si vede privato ab origine del diritto costituzionalmente garantito di avviare il suddetto iter referendario: sussiste infatti un concreto interesse del corpo elettorale comunale, rappresentato dai delegati comunali115 e dal comitato promotore del referendum, ad impugnare l’ordinanza che dichiara l’inammissibilità della richiesta. Sarebbe opportuno che la Consulta superasse la sua rigida posizione di chiusura e decidesse di sindacare il modo di esercizio del potere attribuito all’Ufficio centrale, dato che l’oggetto del gravame consiste nell’erronea valutazione compiuta dall’Ufficio in ordine all’esistenza di una causa che inficia la deliberazione consiliare comunale di svolgimento della consultazione referendaria ex art. 132, co. 2 Cost. La Corte, una volta ritenuto ammissibile il conflitto, dovrebbe sindacare nel merito le valutazioni compiute dai magistrati della Cassazione, esaminandone la correttezza. Allo stato attuale invece la Consulta si limita a dichiarare l’inammissibilità della richiesta, qualora le sia richiesto di giudicare nel merito l’ordinanza d’illegittimità, e ciò non è corretto in quanto indirettamente lesivo del principio di autoidentificazione territoriale delle popolazioni interessate alla variazione. 115 Su questo punto però non si concorda; si veda Capitolo III, pp. 127 ss. 133 Le considerazioni della dottrina sul sindacato nel merito delle ordinanze dell’Ufficio centrale per il referendum sono pienamente condivisibili. Un appunto di carattere ormai storico: parte della più autorevole dottrina in materia116 riteneva che le deliberazioni fossero soggette al controllo di legittimità non solo da parte dell’Ufficio centrale per il referendum, ma anche da parte del Comitato regionale di controllo (CoReCo), un organo, previsto nell’art. 130 Cost., con la funzione di controllare la legittimità degli atti degli enti locali (art. 130, co. 1 Cost. [abrogato]: “Un organo della Regione, costituito nei modi stabiliti da legge della Repubblica, esercita, anche in forma decentrata, il controllo di legittimità sugli atti delle Province, dei Comuni e degli altri enti locali” ). L’art. 130 è stato abrogato con la riforma del Titolo V della Costituzione (legge costituzionale n. 3/2001) e con esso è stato eliminato anche il controllo di legittimità del CoReCo sulla richiesta di referendum “territoriale” di Province e Comuni. Conclusi gli accertamenti si apre la fase dell’indizione, che viene effettuata “con decreto del Presidente della Repubblica, su deliberazione del Consiglio dei Ministri, entro tre mesi dalla comunicazione dell’ordinanza che dichiara la legittimità della richiesta, per una data di non oltre tre mesi da quella del decreto” (art. 44, co. 1 della l. 352/1970). Tale data può essere rinviata di non oltre un anno, allo scopo di far coincidere il referendum territoriale ex art. 132 Cost. con un eventuale referendum costituzionale di cui all’art. 138 Cost. (art. 44, co. 2 della l. 352/1970). La ratio di questa disposizione è stata rinvenuta, come detto da parte della dottrina (De 116 Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. II, Padova, 1991, p. 65. 134 Marco), nell’esigenza di “evitare l’insorgere di fenomeni di assenteismo negli elettori, che potrebbero derivare da reiterate chiamate alle urne”117. Non si capisce il motivo di tale scelta: essa avrebbe potuto essere soddisfatta estendendo la coincidenza del referendum territoriale alle elezioni o al referendum abrogativo, dal momento che non c’è incompatibilità tra i referendum territoriali e gli altri due tipi di pronunce del corpo elettorale. In merito alla sospensione per un anno, a seguito dello scioglimento anticipato delle Camere, del referendum abrogativo ex art. 34 della l. 352/1970, tale disposizione non vige anche per il referendum territoriale, che quindi avrebbe potuto essere celebrato unitamente alle elezioni politiche in una sorta di election day. Inoltre nessuna disposizione costituzionale od ordinaria parla di incompatibilità tra il referendum in questione e quello abrogativo ex art. 75 Cost. Si deve quindi doverosamente concludere che la disposizione dell’art. 44, co. 2 della l. 352/1970 sia costituzionalmente illegittima in quanto pone un ostacolo irragionevole all’iniziativa referendaria ed aggrava arbitrariamente il procedimento di variazione territoriale, ma finché non interverrà una decisione della Consulta in merito si dovrà considerarla valida ed efficace. Pur sostenendo il criterio interpretativo letterale, in questo caso specifico non è possibile adottarlo in quanto dichiarare legittimo il secondo comma dell’art. 44 significherebbe restringere indebitamente la potestà di espressione del corpo elettorale rappresentativo delle autonomie locali, in contrasto con quanto prescritto dall’art. 5 Cost. 117 Cfr. E. DE MARCO, Contributo allo studio del referendum, Padova, 1974, p. 250. 135 Su questi aspetti del procedimento di variazione territoriale è recentemente intervenuta la giurisprudenza con la sentenza n. 66/2007 della Corte Costituzionale118. Questa pronuncia riguarda il rapporto tra gli atti prodromici al referendum nel caso di distacco-aggregazione e gli Statuti delle Regioni ad autonomia speciale. Nel caso specifico, la Regione Valle d’Aosta aveva sollevato conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato in relazione a tre atti prodromici alla celebrazione del referendum richiesto dal Comune di Noasca per il distacco dal Piemonte e l’aggregazione alla Valle d’Aosta. Tali atti erano: l’ordinanza con cui l’Ufficio centrale per il referendum dichiara legittima la richiesta, la deliberazione del Consiglio dei Ministri con cui si approva l’indizione del referendum e l’indizione del referendum da parte del Presidente della Repubblica. La ricorrente sosteneva che tali atti erano lesivi del riparto di competenze costituzionali e statutarie: secondo la difesa regionale il territorio dell’ente speciale sarebbe stato costituzionalizzato dall’art. 1, co. 2 dello Statuto e di conseguenza ogni modifica di esso sarebbe dovuta passare attraverso il procedimento di revisione statutaria regolato dall’art. 50 dello Statuto speciale. A quest’affermazione la Consulta ha risposto che l’art. 132 Cost. “si riferisce pacificamente a tutte le Regioni” e pertanto non è previsto un procedimento differenziato per le Regioni speciali. La Consulta ha concluso quindi che i tre atti prodromoci erano di competenza esclusiva dello Stato, anche nel caso che il procedimento di variazione coinvolgesse una Regione a Statuto speciale. 118 Sul punto si veda: Sentenza della Corte Costituzionale 9 marzo 2007 n. 66 in Giurisprudenza costituzionale, Milano, 2007. 136 Il dictum della Corte si occupa soprattutto di una questione sostanziale (competente per quanto riguarda la legittimazione e l’indizione del referendum è solo lo Stato e non anche la Regione ad autonomia speciale) e non dà invece il giusto peso ad una questione formale importante: la legge ordinaria di modificazione di cui al capoverso dell’art. 132 Cost. vale anche nel caso di modificazioni del territorio di Regioni speciali o, al contrario, in tali casi, occorre una legge costituzionale? La questione non è di poco conto, ma di essa ci si occuperà nel proseguio di questo studio, quando si andrà ad analizzare le leggi di variazione territoriale119. 3- Il referendum 3.1- Il referendum nella Costituzione italiana e negli ordinamenti regionali Terminata l’analisi dell’iniziativa di legge, si passerà ora a considerare quella che è stata definita come la seconda fase del procedimento di variazione territoriale, cioè la manifestazione della volontà delle popolazioni interessate espressa mediante referendum. Prima però di analizzare nel dettaglio il referendum di variazione territoriale di cui all’art. 132 Cost., si farà una breve digressione sull’istituto referendario in generale, così come previsto nella Carta costituzionale italiana. L’istituto del referendum è stato introdotto in Italia dalla nuova Costituzione repubblicana del 1948, rappresentando uno degli aspetti più alti della democrazia, in quanto dava modo al corpo elettorale di 119 Si veda Capitolo III, paragrafo 12. 137 partecipare direttamente ad alcune importanti deliberazioni relative all’attività di governo e legislativa. Ammessa l’opportunità dell’istituto referendario, il problema era di stabilire concretamente i casi di referendum ; era questa la questione più delicata, da una parte perché il referendum era volto ad integrare gli strumenti di democrazia diretta e quindi non poteva che avere una portata limitata, dall’altra perché una sua larga estensione poteva influire e dirigere l’istituto a fini di demagogia anziché di democrazia. I tre casi di referendum ammessi nell’ordinamento giuridico italiano furono fissati già nella Carta costituzionale; la loro attuazione concreta è stata oggetto di una specifica legge, la legge 25 maggio 1970 n. 352. Queste le tre forme di referendum previste dalla Costituzione ed interessanti le leggi dello Stato: - il referendum abrogativo, disciplinato dall’art. 75 Cost., per mezzo del quale gli elettori possono “deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente forza di legge”; - il referendum approvativo delle leggi di revisione della Costituzione e delle altre leggi costituzionali, disciplinato dall’art. 138 Cost.; - il referendum per la variazione territoriale delle circoscrizioni regionali, che parte della più autorevole dottrina in materia definisce “consultivo” (Martines120, con riferimento all’esito positivo della consultazione referendaria), e che altra parte definisce invece “deliberativo” (Scudiero121, Pedrazza Gorlero122, Martines con riferimento all’esito negativo della consultazione referendaria123). 120 Cfr. T. MARTINES, Il referendum negli ordinamenti particolari, Milano, 1960, p. 36. 121 Cfr. M. SCUDIERO, Il referendum nell’ordinamento regionale, Napoli, 1971, p. 43. 138 Non è stato invece previsto il referendum costituivo, per mezzo del quale il corpo elettorale è chiamato ad approvare progetti di legge in luogo del Parlamento, cosa che avrebbe dato luogo ad un nuovo tipo di fonte-atto. Un’ipotesi del genere è stata però scartata dalla Commissione dei 75 perché ritenuta incompatibile con la forma parlamentare di governo. I referendum approvativo e consultivo sono sub-procedimenti che s’inseriscono nei procedimenti formativi di leggi statali ordinarie ovvero costituzionali, concretizzando autonome fasi del procedimento stesso. Per quanto riguarda il referendum abrogativo, invece, prevale in dottrina124 l’idea che quest’istituto si risolva indirettamente, qualora gli elettori si esprimano a favore dell’abrogazione, in una fonte-atto: il referendum dà luogo cioè ad un atto avente forza di legge ordinaria dello Stato. La motivazione si ricava dalle seguenti deduzioni: - il fatto stesso che dall’esito del referendum dipenda la permanenza in vigore della legge statale o di un atto normativo equiparato, induce a collocare i voti popolari abrogativi sul medesimo piano nel quale si collocano le norme che ne vengono abrogate; - l’abrogazione referendaria determina conseguenze modificative dell’ordinamento, sia che il Parlamento si affretti a reagire ridisciplinando la materia, sia che il vuoto normativo prodotto non venga affatto colmato. 122 Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. II, Padova, 1991, pp. 79 ss. 123 Cfr. T. MARTINES, Il referendum negli ordinamenti particolari, Milano, 1960, p. 35. 124 Cfr. L. PALADIN, Diritto costituzionale, Padova, 1998, pp. 205 ss. 139 Ad ulteriore dimostrazione di questa tesi vi è pure il fatto che la delibera del corpo elettorale è destinata ad assumere la forma del decreto del Presidente della Repubblica (ai sensi dell’art. 37 della l. 352/1970), al quale spetta dichiarare l’avvenuta abrogazione. In questo modo lo Stato-soggetto fa proprio il contenuto dell’atto scaturente dalla consultazione popolare, che diventa quindi fonte normativa. L’istituto referendario non interessa solamente le leggi dello Stato, ma è previsto pure nell’ambito della legislazione regionale125. Per le Regioni a Statuto ordinario il referendum è prescritto dall’art. 123 e dall’art. 133, co. 2 Cost. Nel primo caso, si tratta di un caso di referendum abrogativo; prevede infatti l’art. 123, co. 1 Cost. che: “lo statuto regola l’esercizio (…) del referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della Regione”. Questo tipo di referendum è previsto e disciplinato da tutti gli Statuti, anche se tale disciplina presenta una grande varietà di contenuti specifici che è pressoché impossibile analizzare analiticamente in questa sede. Il secondo caso prevede un referendum avente carattere consultivo-integrativo126, da celebrarsi presso le popolazioni interessate, quando la Regione intenda istituire, nell’ambito del proprio territorio, nuovi Comuni o modificare le circoscrizioni o denominazioni. Tali provvedimenti devono essere adottati con legge regionale ed il referendum è un’audizione obbligatoria. I singoli 125 Cfr. E. SPAGNA MUSSO e AAVV., Il referendum regionale, Padova, 1993, pp. 1 ss. 126 Così Spagna Musso definisce l’ipotesi di referendum prevista dall’art. 133, co. 2 Cost., in: E. SPAGNA MUSSO e AAVV., Il referendum regionale, Padova, 1993, p. 3. 140 Statuti anche in questo caso hanno variamente disciplinato sia il modo d’intendere le popolazioni interessate, sia la fase del procedimento legislativo nella quale è inserito, che in questa sede non ci si soffermerà ad analizzare. Nelle Regioni a Statuto speciale invece la materia referendaria rientra nella competenza esclusiva della Regione, che pertanto incontra solamente i limiti previsti dalle leggi costituzionali e dai principi dell’ordinamento giuridico. Tutti gli Statuti delle Regioni ad autonomia differenziata sono stati modificati dalla legge costituzionale 31 gennaio 2001 n. 2, la quale ha prescritto che la legge regionale debba determinare la disciplina del referendum regionale abrogativo, propositivo e consultivo127. Il referendum approvativo delle leggi regionali ha anch’esso trovato collocazione all’interno degli Statuti delle Regioni ad autonomia speciale128. Come si può notare, a differenza delle Regioni a Statuto ordinario, sono previste tutte e tre le tipologie di referendum descritte nella Carta costituzionale, ed in più viene previsto anche l’istituto del referendum propositivo. Lo Statuto della Regione Sardegna prevede, inoltre, un altro tipo di referendum a carattere consultivo, che non trova riscontro negli altri Statuti delle Regioni ad autonomia speciale e che differisce pure dalle tre forme di referendum previste nella Costituzione. Dispone infatti l’art. 54 dello Statuto di questa Regione che il Presidente della 127 Si vedano gli Statuti di: Valle d’Aosta (art. 15, co. 2), Trentino-Alto Adige (art. 42, co. 2), Friuli-Venezia Giulia (art. 12, co. 2), Sicilia (art. 13 bis) e Sardegna (art. 15, co. 2). 128 Si vedano gli Statuti di: Valle d’Aosta (art. 15, co. 4), Trentino-Alto Adige (art. 42, co. 6), Friuli-Venezia Giulia (art. 12, co. 4), Sicilia (art. 17 bis) e Sardegna (art. 15, co. 4). 141 giunta, ove un progetto di modifica dello Statuto sia stato approvato in prima deliberazione da una delle due Camere ed il parere del Consiglio regionale sia contrario, può indire un referendum consultivo prima del compimento del termine previsto dalla Costituzione per la seconda deliberazione. Il risultato del referendum non vincola le Camere, ciononostante esse difficilmente non considereranno l’orientamento espresso dagli elettori. Consultazioni referendarie possono essere celebrate anche dagli altri enti locali (Province e Comuni come nel caso dell’art. 132 Cost.). 3.2- La qualificazione giuridica del referendum previsto dall’art. 132 Cost. 3.2.1- Referendum “consultivo” in caso di esito positivo, “deliberativo” in caso di esito negativo Nel paragrafo precedente si è cercato di descrivere sommariamente le varie tipologie di referendum previste nella Costituzione italiana; si cercherà ora di vedere in quale categoria sia inquadrabile il referendum previsto dall’art. 132 Cost. Ciò non sarà fatto per semplice esercizio dottrinale, bensì perché a tale qualificazione sono collegate le risposte che si potranno dare all’interrogativo sull’efficacia giuridica della pronuncia referendaria nei confronti delle fasi successive del procedimento e, segnatamente, della deliberazione legislativa. Il referendum da svolgersi presso le popolazioni interessate alla variazione territoriale non è unanimemente configurato dalla dottrina allo stesso modo: questo rende sicuramente difficile darne una 142 qualificazione giuridica univoca. Allo stesso tempo però ciò rende affascinante questo aspetto dell’istituto in questione, in quanto l’analisi delle varie teorie e la loro eventuale confutazione condurrà a quella che, si ritiene, sarà la qualificazione più adeguata. Saranno descritte di seguito le tesi proposte dai vari Autori in materia. Secondo autorevole dottrina (Crisafulli129) le ipotesi di referendum previste al primo e al secondo comma dell’art. 132 Cost. non sono tra loro perfettamente identiche, offrendo anzi qualche motivo di dubbio circa la loro appartenenza ad un solo e medesimo tipo di referendum. I maggiori dubbi sull’esatta classificazione dogmatica di questa forma di consultazione referendaria sorgono in relazione alla prima ipotesi, contenuta nel co. 1 dell’art. 132: pare infatti che in quest’ipotesi il corpo elettorale delle popolazioni interessate sia chiamato a manifestare attraverso il referendum, più che un parere, una dichiarazione di approvazione della proposta, di fusione e creazione di Regioni, già espressa dai Consigli comunali, quindi un qualcosa di diverso dalla semplice manifestazione di un parere contraddistingue la tipologia del referendum consultivo. Malgrado queste interessanti deduzioni in forma dubitativa, l’Autore si adegua a ritenere, questo, un referendum consultivo, precisando però che il corpo elettorale è chiamato ad emettere un parere obbligatorio e, nel caso di esito contrario alla proposta iniziale dei Consigli comunali, anche vincolante. Nel caso inverso, di esito favorevole, il Parlamento resta libero di rifiutare l’emanazione della legge costituzionale: il referendum non è quindi vincolante per il 129 Cfr. V. CRISAFULLI, Norme regionali e norme statali in materia di referendum in Rivista amministrativa della Repubblica italiana, Roma, 1955, nota 1, p. 459. 143 supremo organo legislativo dello Stato, aspetto questo tipico del referendum consultivo. Altra dottrina (Martines130) propone una visione ancor più ben argomentata sulla qualificazione giuridica del referendum in questione. Per prima cosa si guarda ai referendum sotto il profilo della loro efficacia e si ritiene che essi possano distinguersi in: - referendum deliberativi, in cui la manifestazione di volontà del corpo elettorale è direttamente ed immediatamente produttiva di effetti giuridici; - referendum consultivi, in cui gli effetti sono prodotti dall’atto finale del procedimento dove la consultazione referendaria s’inserisce come sub-procedimento. Questa distinzione è suscettibile di alcuni sviluppi: il referendum deliberativo contrappone istituzionalmente il corpo elettorale al complesso di autorità centralizzate alle quali è attribuita dall’ordinamento la potestà di governo, mentre il referendum consultivo inserisce il corpo elettorale nell’organizzazione centralizzata, attribuendogli l’esercizio di un’attività consultiva. Ancora: il primo svolge una funzione di decisione politica, il secondo una funzione consultiva sia nei confronti dello Stato, sia nei confronti della Regione. Dal punto di vista del corpo elettorale, può rilevarsi come alla funzione di decisione politica che il popolo esplica attraverso il referendum sia chiamato a partecipare l’intero corpo elettorale dell’ente: tutto ciò spiega perché, nel nostro ordinamento, il referendum deliberativo sia in linea di massima espressione di 130 Cfr. T. MARTINES, Il referendum negli ordinamenti particolari, Milano, 1960, pp. 26 ss. 144 autonomia normativa; alla funzione consultiva, invece, partecipano soltanto gli elettori residenti in porzioni di territorio circoscritte e che siano più direttamente interessati all’emanazione dell’atto finale. In tema di referendum deliberativo, occorre esaminare il co. 1 dell’art. 132 Cost., la cui formulazione letterale non può dare adito ad alcun dubbio: alla manifestazione di volontà del corpo elettorale che sia contraria alla creazione di una nuova Regione ed alla fusione di Regioni esistenti si è voluto collegare in via diretta ed immediata un effetto preclusivo dell’ulteriore svolgersi del procedimento. Ecco quindi che la volontà popolare appare decisiva allorché non approvi la richiesta avanzata dai Consigli comunali; il Parlamento non potrà sovrapporsi a tale volontà prendendo in esame il disegno di legge costituzionale per la creazione di una nuova Regione o per la fusione di Regioni esistenti: un simile comportamento, se posto in essere, sarebbe incostituzionale. L’Autore in esame si oppone fermamente alla tesi del Crisafulli, che vedeva nell’art. 132, co. 1 Cost. una manifestazione di un parere obbligatorio del corpo elettorale, facendo rientrare quest’ipotesi legislativa nel novero dei referendum consultivi, anziché di quelli deliberativi. Se si accettasse la tesi del referendum consultivo si svuoterebbe di ogni contenuto la norma costituzionale, la quale assegna alla maggioranza delle popolazioni interessate un ruolo determinante per quanto si riferisce al rigetto della proposta. Se il referendum con esito contrario alla proposta dovesse avere valore di semplice parere, esso non potrebbe essere vincolante per le due Camere in sede di revisione costituzionale. Nel caso invece in cui il referendum abbia dato un esito favorevole alla proposta, esso non sarebbe vincolante per il 145 Parlamento, rimanendo questo in sede di revisione costituzionale libero di approvare oppure no, nell’esercizio della sua ampia discrezionalità legislativa, la proposta di legge relativa alla creazione di una nuova Regione o alla fusione di Regioni esistenti. Si tratta in questa ipotesi di un referendum consultivo, assegnandosi alle popolazioni interessate il valore di una semplice manifestazione di giudizio, obbligatoria ma non vincolante e che, come tale, non produce alcun effetto giuridico, essendo la modifica del numero delle Regioni direttamente ed immediatamente fatta discendere dalla legge costituzionale. In merito al referendum consultivo inoltre, il legislatore statale o regionale, anche se è ormai riconosciuto che incontra dei limiti nell’esercizio della sua funzione, resta libero di conseguire l’interesse generale secondo la valutazione che ne farà in sede politica, sia emanando l’atto legislativo, sia non emanandolo: in tal modo l’organo agente sarà l’unico giudice in via definitiva dell’interesse pubblico in rapporto al provvedimento invocato, anche se nulla toglie che possa avvalersi del parere espresso dal corpo elettorale facendo proprio il giudizio da questo enunciato. Il referendum consultivo è generalmente previsto dalla nostra Costituzione per le modificazioni delle circoscrizioni territoriali, come previsto nell’art. 132, co. 2 Cost. Secondo tale norma è richiesto il parere delle popolazioni interessate, espresso mediante consultazione diretta, per consentire che, con legge della Repubblica, Province e Comuni che ne facciano richiesta, siano staccati da una Regione ed aggregati ad un’altra. Oltre al parere delle popolazioni interessate l’articolo in commento prescrive che sia sentito anche il parere della Regione dalla quale Comuni e Province intendono distaccarsi e di 146 quella alla quale hanno chiesto di aggregarsi: tale parere, espresso dai rispettivi Consigli regionali, è obbligatorio ma non vincolante. Si riassume brevemente e schematicamente la teoria dottrinale appena descritta: - referendum consultivo, obbligatorio, preventivo: referendum si cui all’art. 132, co. 1 Cost., nel caso in cui il corpo elettorale abbia dato esito favorevole alla proposta; referendum di cui all’art. 132, co. 2 Cost.; - referendum deliberativo, obbligatorio, preventivo: referendum si cui all’art. 132, co. 1 Cost., qualora il corpo elettorale abbia espresso volontà contraria alla fusione di Regioni esistenti o alla creazione di una nuova Regione. Entrambe queste tipologie di referendum appaiono obbligatorie, nel senso che il momento referendario dev’essere celebrato assolutamente prima di procedere alla modifica legislativa, e fors’anche preventive, perché le manifestazioni di volontà devono esservi prima della modifica: questo si desume da un’interpretazione letterale del dettato legislativo. Ma è proprio così? La cosa è certamente vera per il caso del referendum consultivo, non per quello deliberativo. Quest’ultimo è senz’altro obbligatorio, ma altrettanto non può dirsi circa il fatto che sia pure preventivo. Qualora il referendum deliberativo abbia dato un esito negativo, il procedimento si arresta e non potrà più esservi un atto finale: verrebbe allora a mancare uno dei termini della relazione referendum-atto finale per cui, a rigor di logica, il referendum non dovrebbe più considerarsi come preventivo (rispetto all’atto finale). Viene qui nuovamente in rilievo la duplice natura dei referendum in esame in quanto, se il voto delle popolazioni interessate sarà favorevole alla proposta, il 147 referendum s’inserirà nella fase di attivazione; se invece sarà contrario, ne resterà fuori. Queste considerazioni inducono a non avanzare una qualificazione temporale circa i referendum deliberativi, tanto che è possibile considerarli una species a parte, singolare. Un dubbio che può sorgere dopo aver esaminato questa tesi dottrinale è il seguente: perché non è stato inquadrato all’interno della fattispecie del referendum deliberativo l’art. 132, co. 2 Cost., nel caso in cui la manifestazione di volontà delle popolazioni interessate avesse dato esito contrario alla proposta di distacco-aggregazione? A parere di chi scrive la risposta dev’essere ricavata da un argomento letterale che deve tenere in considerazione le modifiche costituzionali che la norma in esame ha subito. L’Autore in questione ha fissato i concetti in esame in uno scritto del 1960, molto prima quindi della legge costituzionale 3/2001, che ha modificato l’art. 132, co. 2 Cost.; prima il co. 2 diceva solamente: “si può con referendum e con legge della Repubblica”, ora invece dice: “si può con l’approvazione della maggioranza delle popolazioni della Provincia o delle Province interessate e del Comune o dei Comuni interessati espressa mediante referendum e con legge della Repubblica”. Questa specificazione, oltre ad assolvere alla funzione d’identificare meglio il concetto di popolazioni interessate, potrebbe pure servire per uniformare l’ipotesi del distacco-aggregazione a quelle della fusione e della creazione. La semplice dizione “con referendum” infatti poteva far apparire la manifestazione di volontà delle popolazioni interessate in ordine alla variazione territoriale come un semplice parere, non vincolante per il legislatore, e ciò faceva propendere per inquadrare tale ipotesi nella figura dogmatica del referendum consultivo. La nuova dizione “con l’approvazione della maggioranza delle popolazioni (interessate) (…) 148 espressa mediante referendum” pare enfatizzare il ruolo delle popolazioni interessate in modo da far ritenere vincolante la loro volontà nel caso in cui si esprimano in maniera contraria alla proposta di distacco-aggregazione. Per questo motivo, quello che nel 1960 poteva apparire come un unico caso di referendum consultivo, appare oggi invece come referendum consultivo nel caso di esito positivo della consultazione referendaria, come referendum deliberativo nel caso contrario. Altra tesi da esaminare (Carbone131), molto simile a quella precedente, è quella che sostiene che il referendum relativo alle variazioni territoriali ha carattere consultivo se si conclude con una votazione positiva, mentre ha carattere deliberativo qualora il risultato sia negativo. L’esito positivo del referendum, sulla proposta di Regioni esistenti, di creazione di nuove Regioni o di distacco da una Regione ed aggregazione ad un’altra, costituisce un momento necessario del procedimento legislativo, ma non vincola il Parlamento, che è libero di accogliere o meno la proposta. Diversamente avviene nell’ipotesi in cui la deliberazione del corpo elettorale sia negativa: in questo caso non è dato procedere alle variazioni territoriali, in quanto l’esito positivo della consultazione referendaria è condizione perché possa esercitarsi la facoltà discrezionale del Parlamento in ordine alle variazioni territoriali. L’Autore in questione contesta il precedente quando questi prevede che tale risoluzione sia valida solo per l’ipotesi prevista dal co. 1 dell’art. 132 Cost. e non anche per il co. 2. Si ritiene che non vi sia ragione per distinguere perché identica è la situazione, sotto il profilo 131 Cfr. C. CARBONE, Referendum in Novissimo digesto italiano, vol. XIV, Torino, 1967, pp. 1109 ss. 149 della logica del sistema, nelle due ipotesi previste rispettivamente dal co. 1 e dal co. 2 della norma in esame. La diversa espressione letterale sarà collegata a motivi di carattere linguistico, per non ripetere un dizione adoperata nel comma precedente, ma ciò non autorizza l’interprete a pensare che il Costituente abbia inteso seguire un sistema differente. Non sarebbe comprensibile infatti il motivo per cui il risultato negativo del referendum sia vincolante per la fusione di Regioni o la creazione di nuove Regioni e non lo sia per il distacco di Province e Comuni da una Regione per essere aggregati ad un’altra. Secondo l’Autore in esame considerare alla stessa stregua le due ipotesi di risultato negativo della consultazione referendaria trova rispondenza nel principio costituzionale del rispetto delle autonomie locali (art. 5 Cost.). A parere di chi scrive la teoria in esame è condivisibile per quanto riguarda il risultato, cioè considerare alla stessa stregua i casi di referendum di cui all’art. 132, co. 1 e 2 Cost., non per quanto riguarda il metodo adottato per ricavare questa conclusione. Come più volte ribadito, bisogna sempre attenersi strettamente al dettato costituzionale e questo ha previsto due formulazioni letterali diverse per i due commi in questione: ciò, o perché il Costituente voleva dire la stessa cosa e si è espresso male, o perché voleva effettivamente distinguere le due ipotesi di referendum. Comunque sia, l’esegesi della norma in questione dev’essere dettagliata ed approfondita. Per questi motivi, francamente pare una spiegazione troppo banale che il Costituente non abbia usato la stessa espressione letterale solamente per non ripetersi. Anche la giurisprudenza costituzionale più recente si è espressa in senso favorevole alla qualificazione “consultiva” del referendum in 150 caso esito positivo; nella sentenza 334/2004 (riferentesi ad un caso di distacco-aggregazione) si dice infatti che: “l’esito positivo del referendum, avente carattere meramente consultivo, sicuramente non vincola il legislatore statale alla cui discrezionalità compete di determinare l’effetto di distacco-aggregazione”132. 3.2.2- Referendum “deliberativo” nei casi di fusione e di creazione, “consultivo” nel caso di distacco-aggregazione Dal modello sopra descritto di referendum in materia di mutamenti degli assetti territoriali si discosta notevolmente una parte della più autorevole dottrina in materia di consultazione referendaria (Scudiero133). Dopo aver fatto un’analisi delle forme di referendum ammesse nell’ordinamento regionale dalle norme costituzionali, si conclude che il referendum regionale è previsto non già mediante l’esatta definizione delle sue caratteristiche tipologiche, ma mediante la delineazione di uno schema aperto, la cui determinazione ed articolazione è lasciata alla potestà normativa regionale. Per quanto riguarda la materia oggetto del nostro studio, sono individuate due tipologie di referendum. Il referendum consultivo è uno strumento che permette ai cittadini di esprimere il proprio orientamento e la propria valutazione intorno ad atti che gli organi dell’apparato autoritario intendono adottare; esso postula un’attività ancora da svolgere, nei riguardi della quale adempie ad una funzione ausiliaria, com’è tipico di ogni attività 132 Sul punto si veda: Sentenza 10 novembre 2004 n. 334 in Giurisprudenza costituzionale, n. 6/2004, Milano, p. 3779. 133 Cfr. M. SCUDIERO, Il referendum nell’ordinamento regionale, Napoli, 1971, pp. 51 ss. 151 consultiva. Questo tipo appare adeguato alle consultazioni dirette a conoscere l’orientamento soltanto di parti della comunità rappresentata dagli organi cui spetta di adottare i provvedimenti sull’oggetto deferito in referendum. E ciò perché soltanto in tal modo, in un ordinamento fondato sul principio della sovranità popolare e della rappresentanza politica, può coerentemente lasciarsi agli organi rappresentativi la libertà di disattendere le indicazioni offerte dalla pronuncia popolare. Esprimendo il referendum consultivo il giudizio di una frazione della comunità, evidentemente ispirato al proprio particolare interesse, e dovendo invece il provvedimento degli organi rappresentativi riflettere l’interesse di tutta la comunità, è conforme ai principi che nel conflitto degli interessi prevalga quello più generale. Tutte queste caratteristiche rientrano nella fattispecie di referendum consultivo prevista nell’art. 132, co. 2 Cost., caratterizzabile come: locale, in quanto rivolto solo alle popolazioni interessate specificamente al detto mutamento; obbligatorio, in quanto il procedimento di modifica non può validamente svolgersi e perfezionarsi senza che abbia avuto luogo la consultazione popolare; non vincolante, perché il parere espresso dalle popolazioni interessate non vincola l’organo competente a provvedere. Che la disposizione costituzionale in esame sia diretta a configurare un’ipotesi di referendum consultivo lo si deduce anche da un argomento letterale, allorché è solamente prescritto che siano previamente “sentite le popolazioni interessate” ; da tale disposizione si deduce anche che il legislatore costituzionale ha inteso riferirsi al referendum ed ha escluso che l’apprezzamento delle popolazioni stesse possa essere compiuto e manifestato dagli organi rappresentativi delle comunità locali interessate, come invece previsto nell’emanazione di talune 152 norme statali di attuazione della disposizione costituzionale sopra ricordata. Per quanto riguarda invece l’ipotesi di cui all’art. 132, co. 1 Cost., l’Autore in esame inizia la sua analisi partendo da un approccio critico nei confronti della tesi di altra dottrina (Martines) (che configurava due diverse tipologie di referendum a seconda dell’esito, cosa che non avviene per l’art. 132, co. 2 Cost.), dicendo che tale impostazione non attribuisce il dovuto rilievo al fatto che il corpo elettorale pone in essere una volizione, esprime una volontà, non un giudizio. In secondo luogo, non sembra coerente assegnare ad un identico istituto, strutturalmente e funzionalmente unitario, due distinte qualifiche e forme di efficacia. Avverso poi l’assunto specifico che la pronuncia popolare sfavorevole alla proposta di riassetto territoriale o funzionale sarebbe da considerare un parere vincolante è da osservare che un tale parere è parte di un modulo strutturale articolato in cui il provvedimento risulta deciso in due coprovvedimenti: l’uno, attinente al contenuto dell’atto, è posto in essere dall’organo che esprime il parere, l’altro, costituente la volizione dell’atto stesso, è posto in essere dall’organo attivo. Ciò implica che il parere vincolante attenga ad un procedimento destinato a concretarsi in un atto positivo, in un facere, tant’è vero che l’organo attivo può disattendere il parere vincolante di cui è destinatario solo desistendo dal proposito di emanare l’atto cui il parere si riferisce. Secondo la teoria criticata (Martines) invece, il parere vincolante opera non nel senso di fissare il contenuto dell’atto da adottare, bensì nel senso logicamente contrario d’impedire l’adozione di qualsiasi atto. L’Autore qualifica il referendum in questione come deliberativo e specifica che, conformemente al dettato costituzionale e all’esigenza 153 di una ricostruzione unitaria dell’istituto, occorre ravvisare nella pronuncia popolare di cui si sta trattando la natura e l’efficacia di un atto di controllo preventivo di merito sulla congruità della proposta legislativa di modifica rispetto all’interesse delle popolazioni interessate, cioè un atto di controllo tecnico-giuridico. Tale soluzione appare fondata alla stregua dell’art. 132, co. 1 Cost. per i seguenti motivi: - essa dà il giusto rilievo al fatto che la proposta legislativa di modifica non può tradursi in legge costituzionale se non sia stata preventivamente approvata dagli elettori interessati, cioè giudicata confacente all’interesse degli elettori stessi; - nella fattispecie in esso delineata ricorrono tutti gli elementi dell’istituto del controllo in senso tecnico-giuridico: la diversità tra controllante e controllato ed il momento valutativo; - l’operatività della pronuncia, che resta delimitata nella fase dell’iniziativa e ciò lo si deduce dal fatto che, nonostante la pronuncia popolare favorevole, il legislatore costituzionale rimane libero sul se e sul come provvedere alla proposta di variazione territoriale. Alla tesi in questione non potrebbe opporsi che la funzione tipica e peculiare del referendum sarebbe quella di dare impulso al procedimento di legislazione costituzionale: dunque non referendum di controllo, ma referendum-iniziativa (cioè la richiesta dei Consigli comunali sia da intendersi come richiesta di referendum ed il referendum come proposta legislativa). Tale interpretazione sarebbe in contrasto con il dettato dell’art. 132, co. 1 Cost. che riferisce in modo espresso la richiesta dei Consigli comunali alla legge costituzionale di fusione o creazione di nuove Regioni, e non al referendum. 154 La concezione in esame è debole nel punto in cui prevede due qualificazioni giuridiche diverse per un procedimento di variazione territoriale, che è stato unanimemente riconosciuto come unico (seppure tre siano le ipotesi di variazione territoriale). 3.2.3- Referendum come atto d’iniziativa o come condizione di procedibilità Dalle concezioni finora prese in esame si scosta profondamente una parte della dottrina coeva (Carbonaro134). La questione viene inquadrata sotto una luce un po’ meno dogmatica, nel senso che non si fanno rientrare le ipotesi di referendum in questione all’interno di una delle categorie dottrinali sopra individuate, ma si preferisce condurre un’analisi esegetica dell’istituto. Si sostiene che, secondo la norma contenuta nell’art. 132 Cost., al corpo elettorale non è demandata la potestà di esprimere un provvedimento che ponga o modifichi la volontà dello Stato con la stessa efficacia degli atti prodotti dagli organi attivi, poiché il compito di esso si esaurisce in una pronuncia contenente una manifestazione di desiderio. Pare quindi che il Costituente abbia voluto conciliare, dal punto di vista tecnico, gli interessi superiori dello Stato unitario con quelli delle autonomie locali, spettando al corpo elettorale l’iniziativa, che manifesta attraverso il referendum, sulla proposta redatta dagli organi consiliari degli enti territoriali minori. 134 Cfr. S. CARBONARO, Il referendum nella Costituzione e negli statuti delle Regioni ad ordinamento speciale in Scritti in memoria di Carlo Esposito, Padova, 1972, p. 162. 155 Gli argomenti addotti dall’Autore sulla questione per quanto esatti non sono né originali, né approfonditi e quindi non è possibile esaminarli criticamente. Si prende ora in considerazione un’altra tesi dottrinale (De Marco135) sulla questione. Anche questa concezione parte da un approccio critico nei confronti della tesi sostenuta dal Martines, in quanto non può non destare perplessità il fatto di voler condizionare la qualifica giuridica della pronuncia popolare all’esito, positivo o negativo, della consultazione. Preferibile pare piuttosto accentrare l’attenzione sulla dinamica dei procedimenti in cui s’inseriscono i referendum per le modificazioni territoriali delle Regioni: non sembra allora illogico configurare le pronunce delle popolazioni interessate alla stregua di manifestazioni di volontà con cui le stesse popolazioni esprimono il proprio consenso, o il proprio dissenso, sulle richieste di modificazioni territoriali, accettandole o respingendole. Le manifestazioni di volontà delle popolazioni interessate, considerate con riguardo al procedimento in cui s’inseriscono, possono essere viste come condizioni di procedibilità di un progetto legislativo attinente a modificazioni territoriali delle Regioni. Ecco quindi che se la richiesta avanzata dagli enti territoriali legittimati viene accettata in sede di referendum, essa è presentata al Parlamento che è libero di approvare o meno detta proposta; se invece è respinta dalle popolazioni interessate, essa viene meno, di modo che il Parlamento non può nemmeno prenderla in considerazione. Considerando il referendum territoriale in quest’accezione, cioè come condizione di procedibilità, 135 Cfr. E. DE MARCO, Contributo allo studio del referendum, Padova, 1974, pp. 243 ss. 156 ben si spiega la differenziazione di effetti connessa ai suoi possibili diversi esiti. In sostanza sempre uguale è la natura del referendum, sia in caso di esito positivo, sia in caso di esito negativo, l’unica cosa che cambia sono i suoi effetti: in caso di esito positivo della consultazione, sarà possibile l’ulteriore iter legislativo del progetto di modificazione territoriale, per essere questo stato accettato dalle popolazioni interessate. Nel caso di esito negativo invece, lo stesso progetto non potrà più avere alcun corso per difetto di una condizione a ciò indispensabile, qual è appunto l’accettazione popolare. 3.2.4- Referendum “deliberativo” in ogni caso e critiche alle qualificazioni giuridiche precedenti La dottrina più autorevole in materia di variazioni territoriali delle Regioni è anche quella che meglio approfondisce la questione della qualificazione giuridica da dare al referendum di cui all’art. 132 Cost. (Pedrazza Gorlero136). Si sostiene che la qualificazione giuridica della consultazione referendaria dipenda con ogni evidenza dall’identificazione del suo oggetto e dal contenuto dell’atto che ne risulta; è importante darne una definizione, perché da questa dipendono le risposte che si possono dare all’interrogativo sull’efficacia giuridica della pronuncia referendaria. L’oggetto del referendum non è individuato con chiarezza dall’art. 132 Cost., ciononostante l’oggetto del referendum è individuato nella “proposta” avente come contenuto la variazione territoriale “richiesta” 136 Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. II, Padova, 1991, pp. 79 ss. 157 dagli organi rappresentativi delle popolazioni interessate. Si sono messi in evidenza i due termini, proposta e richiesta, perché dalla definizione e dalla funzione di essi deriva la soluzione circa l’oggetto dell’istituto in questione. La richiesta degli organi rappresentativi delle popolazioni interessate appare diretta al legislatore e rivolta ad ottenere il provvedimento di variazione territoriale in essa indicato, ha cioè il carattere di un atto d’iniziativa legislativa del procedimento che fissa la materia della decisione e manifesta l’interesse che si vuole soddisfatto dal legislatore. Ora, anche se la consultazione popolare verte sul contenuto del provvedimento legislativo ed accerta ed amplia l’interesse al suo ottenimento, l’oggetto del referendum è propriamente diverso. Alla sua delineazione concorrono in modo determinante le peculiarità del procedimento di variazione territoriale, nel quale l’iniziativa è riservata agli organi rappresentativi delle popolazioni interessate e la discrezionalità del legislatore è limitata all’accoglimento o al rigetto della richiesta di variazione approvata dal corpo elettorale, senza possibilità di porre degli emendamenti, cosa che attribuirebbe al legislatore un potere d’iniziativa legislativa che invece gli è espressamente negato. Ciò significa che né gli organi rappresentativi delle popolazioni interessate, né il legislatore hanno il potere di determinare quell’aspetto essenziale del contenuto del provvedimento di variazione territoriale che è costituito dalla totale o parziale autoidentificazione come comunità territoriale: questo potere è riservato al corpo elettorale interessato ed il suo oggetto costituisce l’oggetto specifico del referendum. L’atto risultante dalla consultazione referendaria è una deliberazione avente ad oggetto l’autoidentificazione territoriale come aspetto essenziale del contenuto 158 della legge eventuale di variazione territoriale. Tale atto s’interpone tra l’iniziativa e la deliberazione legislativa: l’iniziativa è vincolata all’autoidentificazione territoriale deliberata dal corpo elettorale ed è perciò sottoposta alla condizione dell’esito del referendum; il legislatore può esercitare discrezionalità, ma solo con riferimento all’accettazione o al rigetto del contenuto fissato dall’atto d’iniziativa e deliberato dalla pronuncia referendaria. La proposta è, come si è detto, l’oggetto della consultazione referendaria e a fondamento di quest’affermazione sta il fatto che il corpo elettorale si esprime sul contenuto del provvedimento di variazione territoriale così com’è stato prefigurato dagli stessi titolari dell’iniziativa. Richiesta e proposta sono quindi due atti distinti, dotati di diversa struttura e funzione nell’ambito del procedimento di variazione territoriale. Alla luce di queste considerazioni si può dire che la natura giuridica della pronuncia referendaria sia essenzialmente deliberativa: il corpo elettorale delibera su un aspetto essenziale del contenuto dell’eventuale legge di variazione territoriale. A quest’aspetto bisogna fare riferimento quando si deve qualificare giuridicamente il referendum di cui all’art. 132 Cost., che sarà quindi essenzialmente deliberativo. Concorda con la qualificazione deliberativa del referendum territoriale anche altra autorevole dottrina (Lavagna137). 137 Cfr. C. LAVAGNA, Istituzioni di diritto pubblico, Torino, 1985, p. 828. 159 Nello stesso senso è anche la dottrina più recente (Trabucco138). Si sostiene che il voto favorevole espresso dalle popolazioni interessate sia una “manifestazione di volontà del corpo elettorale locale (…) dotata del carattere della “forza politica” vincolante quanto ai contenuti (almeno in re) per il disegno di legge che il Ministro dell’Interno (…) dovrà presentare alle Camere”; nel caso di esito sfavorevole della consultazione referendaria, invece, “l’interruzione immediata del procedimento si rivelerebbe come effetto della volontà popolare al mantenimento ed alla conservazione dello status quo”. Entrambe queste considerazioni paiono molto condivisibili: nel caso di esito favorevole della consultazione referendaria, il carattere deliberativo sta nella “forza politica” in grado di vincolare la legge sul piano dei contenuti; nel caso di esito sfavorevole, il carattere deliberativo sta nella sua capacità d’interrompere il procedimento di variazione territoriale. Tali considerazioni sono utili anche per fare una critica strutturata e ben argomentata alle tesi degli Autori esaminati sopra. Alle tesi dottrinali che considerano il referendum come consultivo (cioè che l’atto risultante dal referendum sia un parere obbligatorio e non vincolante), si risponde che, alla veste consultiva dell’atto, assunta a garanzia della discrezionalità del legislatore nell’adozione del provvedimento, non sembra appropriata la qualificazione di parere obbligatorio. Obbligatorio è il parere che dev’essere richiesto dall’organo attivo e che dev’essere fornito dall’organo consultivo. Ora, se come organo attivo si guardi agli 138 Cfr. D. TRABUCCO, Brevi considerazioni sulla natura deliberativa dei referendum ex art. 132, 2° comma, Cost., www.forumcostituzionale.it, 2008, pp. 1 ss. 160 organi rappresentativi delle popolazioni interessate, essi sono liberi di chiedere il parere, esercitando o meno l’iniziativa del procedimento. Se invece si guardi al legislatore, egli non ha l’obbligo di richiedere il parere, perché, essendogli preclusa l’iniziativa del procedimento referendario, manca dello strumento per potervi corrispondere. Se si guarda poi all’organo consultivo, il corpo elettorale non sembra obbligato a fornire il parere, posto che non c’è nessun vincolo a prender parte alla consultazione referendaria. Nel caso poi che al voto non partecipi la maggioranza degli elettori, il parere dovrebbe considerarsi come non emesso piuttosto che negativo. È quindi dimostrato che il parere espresso nel referendum non ha la caratteristica dell’obbligatorietà. Ma, oltre a questa, manca anche quella della non vincolatività: quando la consultazione popolare abbia dato un esito negativo, essa avrà l’effetto di precludere l’ulteriore corso del procedimento, vincola cioè il legislatore a non provvedere. In questo caso non potrà certo dirsi che il referendum non sia vincolante. Contestata la sussistenza dei due requisiti su cui si fonda la concezione del referendum consultivo, viene meno anche la qualificazione giuridica: la pronuncia del corpo elettorale non ha natura consultiva, di un atto di valutazione, ma natura deliberativa, di un atto di volizione. Il referendum è dunque deliberativo, non consultivo. A chi sostiene la tesi della doppia natura giuridica dell’istituto in esame, in relazione alla duplicità degli effetti che può conseguire (natura consultiva in caso di esito positivo, natura deliberativa in caso 161 di esito negativo139), si risponde che è difficile sostenere che lo stesso istituto (ed atto) sia caratterizzato da una doppia natura in relazione alla duplicità degli effetti che può conseguire ed inoltre che, una volta stabilito il carattere di volizione della deliberazione referendaria negativa, non si vede come negarlo a quella positiva. In realtà la pronuncia referendaria ha sempre carattere deliberativo, e la diversificazione degli effetti si realizza in ragione della diversità del suo contenuto volitivo, non per la relazione che essa intrattenga con la deliberazione legislativa. Più coerente appare la tesi che attribuisce al referendum una funzione di controllo tecnico-giuridico, preventivo e di merito, sulla congruità della proposta legislativa avanzata dagli organi rappresentativi rispetto all’interesse delle popolazioni. Tuttavia anche tale concezione non va esente da critiche. L’oggetto della consultazione referendaria è (secondo la concezione di Scudiero) la verifica della congruità della proposta di variazione territoriale all’interesse degli elettori. In realtà l’interesse degli elettori da una parte può venire rappresentato prima della consultazione referendaria dai Consigli comunali e provinciali che avanzano la richiesta, dall’altra non è completamente rappresentato nemmeno dopo la consultazione in quanto da essa rimangono escluse le popolazioni indirettamente interessate alla variazione e territoriale, i cui interessi sono tutelati mediante i pareri dei Consigli regionali. L’unico interesse che risulti veramente accertato dalla consultazione referendaria è quello delle popolazioni direttamente interessate alla variazione, ossia l’interesse che individua l’area e la popolazione 139 Si veda Capitolo III, paragrafo 3.2.1. 162 sopra essa insistente come elementi costitutivi del contenuto del provvedimento. La seconda critica che si può muovere alla tesi in questione è la seguente: dato che l’oggetto della consultazione referendaria è solamente una verifica di congruità della proposta di variazione territoriale, il legislatore “rimane libero sul se e su come provvedere alla proposta di ristrutturazione delle comunità regionali”140. Quest’interpretazione è però da considerarsi incostituzionale: libero sul “come”, il legislatore finisce per acquistare un’iniziativa che ha un contenuto diverso da quello approvato dal corpo elettorale e di conseguenza viene vulnerata la riserva d’iniziativa a favore degli organi rappresentativi delle popolazioni interessate, in contrasto con quanto statuito dall’art. 132, co. 1 Cost. Alla tesi dottrinale che considera il referendum territoriale una condizione di procedibilità (De Marco), si contesta il fatto che essa accentua la conseguenza negativa già riscontrata a proposito della concezione precedente, e cioè il fatto di essere del tutto inidonea a vincolare il contenuto della deliberazione legislativa eventuale alla pronuncia referendaria. Ecco perché: secondo la tesi in esame il referendum è da iscriversi nella fase dell’iniziativa; l’atto da esso risultante è collegato alla deliberazione legislativa solo per renderne possibile l’adozione in caso di esito positivo della consultazione. In questo modo però la pronuncia referendaria è del tutto inidonea a vincolare il contenuto dell’eventuale deliberazione legislativa, per non essere in grado di obbligare il legislatore (com’è proprio di tutti gli atti d’iniziativa) ad assumere un provvedimento conforme alla pronuncia 140 Cfr. M. SCUDIERO, Il referendum nell’ordinamento regionale, Napoli, 1971, p. 55. 163 popolare. Questa critica è da considerarsi in linea del tutto teorica; in pratica sarà difficile che il legislatore decida difformemente dalla deliberazione referendaria, pena arrischiarsi in una soluzione che potrebbe rivelarsi politicamente costosa. Recentemente anche la giurisprudenza costituzionale si è pronunciata su questo argomento (sentenza n. 334/2004 della Corte Costituzionale141) affermando espressamente che “l’esito positivo del referendum” ha “carattere consultivo” nel caso di distaccoaggregazione. Seppur questa considerazione venga da autorevole giurisprudenza, non pare francamente condivisibile per gli stessi motivi sopra enunciati e pertanto è avallabile la critica fatta da recente dottrina142. In conclusione è da ritenersi (conformemente con quanto sostenuto dal Pedrazza Gorlero) che il referendum per le variazioni territoriali delle Regioni sia deliberativo perché agisce stabilendo un aspetto essenziale del contenuto del provvedimento legislativo eventuale: ribadisce cioè l’area e le popolazioni ad esso direttamente interessate delle quali rivela l’autoidentificazione territoriale, ossia il presupposto costituzionale dell’autonomia regionale. 3.3- Il concetto di popolazioni interessate Il concetto di popolazioni interessate è intriso di numerose sfaccettature: 141 Sul punto si veda: Sentenza della Corte Costituzionale 10 novembre 2004 n. 334 in Le Regioni n. 3/2005. 142 Cfr. T. GIUPPONI, Le “popolazioni interessate” e i referendum per le variazioni territoriali, ex artt. 132 e 133 Cost.: territorio che vai, interesse che trovi in Le Regioni, Bologna, n. 3/2005, p. 427. 164 - vi sono popolazioni interessate alla richiesta e alla variazione; - tra le popolazioni interessate alla variazione, vi sono quelle direttamente interessate e quelle indirettamente interessate; - vi sono poi le popolazioni interessate al referendum e quelle direttamente interessate alla variazione territoriale. Qui di seguito si cercherà di fare un po’ di chiarezza. Popolazioni interessate alla richiesta sono tutte quelle popolazioni che, per mezzo dei propri organi rappresentativi, dimostrano un qualche interesse ad una possibile variazione territoriale, mentre le popolazioni interessate alla variazione sono sia quelle che andranno a comporre la nuova entità territoriale (popolazioni direttamente interessate), sia quelle che in qualche maniera sono toccate dalla variazione territoriale, pur senza esserne direttamente coinvolte (popolazioni indirettamente interessate). Parte della dottrina (D’Orazio) sostiene che, nonostante l’identità dell’espressione testuale, al concetto di popolazioni interessate non sia da attribuire lo stesso univoco significato. Appare infatti evidente che quando la disposizione costituzionale (art. 132, co. 1 Cost.) fissi il requisito del minimo valore rappresentativo nella richiesta dei Consigli comunali (prescrivendo che questi rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate), si fa riferimento alla popolazione in senso puro e genericamente demografico. Quando invece si statuisce che la popolazione interessata sia consultata mediante referendum, si fa riferimento al corpo elettorale, cioè ai cittadini aventi diritto di voto (sono quei cittadini che sono iscritti nelle liste elettorali del Comune della Regione)143. 143 Cfr. G. D’ORAZIO, In tema di variazioni del territorio regionale in Scritti in onore di Costantino Mortati, Milano, 1977, pp. 688 ss. 165 Altra autorevole dottrina (Pedrazza Gorlero) invece, facendo un’esegesi letterale dell’art. 132 Cost., sostiene vi sia coincidenza tra popolazioni interessate ai fini della richiesta, popolazioni direttamente interessate alla variazione territoriale e popolazioni interessate al referendum: si sostiene infatti al co. 1 dell’art. 132 Cost. che popolazioni interessate al referendum sono le “stesse” che sono interessate alla variazione territoriale144. A parere di chi scrive, la prima nozione (D’Orazio) fa delle osservazioni che sono da ritenersi pienamente condivisibili; ciononostante l’interpretazione letterale del Pedrazza Gorlero pare più adeguata in quanto si riferisce esplicitamente al dettato costituzionale. Il concetto più importante da definire è la distinzione tra popolazioni direttamente interessate alla variazione territoriale e popolazioni indirettamente interessate: a fare ciò hanno provveduto sia la dottrina sia, in tempi molto recenti, la giurisprudenza. La dottrina in realtà non è unanimemente concorde sul punto: una parte (Balladore Pallieri145) ritiene che popolazioni interessate siano le “popolazioni del comune o dei comuni che si tratta di trasferire”; altra (Biscaretti di Ruffia146) che popolazioni interessate siano “tutte quelle delle Regioni toccate dai mutamenti”. Anche questa volta, la soluzione più adeguata è individuata dalla dottrina più autorevole in materia (Pedrazza Gorlero147): si ritiene infatti che la disposizione costituzionale distingua tra un interesse 144 Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. II, Padova, 1991, pp. 71 ss. 145 Cfr. G. BALLADORE PALLIERI, Diritto costituzionale, Milano, 1976, p. 395. 146 Cfr. P. BISCARETTI DI RUFFIA, Diritto costituzionale, Napoli, 1989, p. 758. 147 Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. II, Padova, 1991, pp. 72 ss. 166 diretto ed un interesse indiretto alla variazione, fornendo mezzi di tutela differenziati per i due interessi. Ciò si desume dalla struttura morfologica delle variazioni, che evidenzia aree attive e passive, con la distinta previsione del referendum e del parere dei Consigli regionali, la quale, ove non fosse collegata alla garanzia di popolazioni differenti comporterebbe un’inutile duplicazione degli strumenti di tutela: alla consultazione referendaria sarà quindi affidato l’accertamento della volontà delle popolazioni che andranno a costituire il novum territoriale; al parere dei Consigli regionali sarà invece affidato il ruolo di tutela delle popolazioni indirettamente interessate o controinteressate alla variazione insistenti sull’area territoriale passiva. Il dettato costituzionale, molto chiaro nel suo significato, non è stato ben recepito dalla legge 352/1970 attuativa dell’istituto referendario. Per fare chiarezza bisogna distinguere le singole ipotesi di variazione territoriale: - nell’ipotesi di fusione, la consultazione referendaria deve svolgersi nel territorio di tutte le Regioni destinate a confluire nella nuova Regione. Il referendum dev’essere tenuto separatamente per ciascuna delle Regioni interessate alla fusione, al fine di evitare che una Regione, pur avendo espresso a maggioranza la sua contrarietà, sia costretta a subirla per essere minoranza nella consultazione complessiva. Ciò sarebbe lesivo non solo dell’articolo costituzionale in esame, ma anche degli artt. 5, 114 e 131 della Carta costituzionale. L’art. 44, co. 3 della l. 352/1970 attua in modo corretto la prescrizione costituzionale, stabilendo che “il referendum è indetto nel territorio delle regioni della cui fusione si tratta”, ma tace sulle modalità di 167 effettuazione della consultazione atte ad evitare il risultato illegittimo sopra evidenziato148; - nell’ipotesi di creazione di una nuova Regione, le popolazioni direttamente interessate, da chiamare a referendum, sono quelle abitanti le aree territoriali che, distaccandosi da una o più Regioni, danno vita ad una nuova Regione con un minimo di un milione di abitanti. Il legislatore di attuazione non si è attenuto a tale interpretazione, preferendole quella, di dubbia legittimità, che individua le popolazioni interessate al referendum in tutte quelle coinvolte nella variazione, ed ha perciò stabilito che la consultazione referendaria debba tenersi “nel territorio della regione dalla quale le province o i comuni intendono staccarsi per formare una regione a sé stante” (art. 44, co. 3 Cost.). La mancata previsione di un referendum per l’area che deve distaccarsi procura a questa disposizione una sicura ragione d’incostituzionalità: la richiesta dei Consigli comunali fa presumere l’esistenza di un interesse alla variazione che dev’essere accertato dalla successiva consultazione referendaria; il fatto di non distinguere tra aree-interessi non solo frustra l’effettuazione del riscontro, ma consente pure che l’interesse diretto alla variazione venga verificato da popolazioni di aree territoriali diverse da quelle delle quali si chiede il distacco. In questo modo la variazione potrebbe essere decisa contro il volere delle popolazioni insistenti sulle aree che sono oggetto del distacco, in aperta violazione degli artt. 5, 114, 131 e 132, co. 1 Cost.; 148 Tale mancanza di chiarezza è ravvisata anche da: E. DE MARCO, Contributo allo studio del referendum, Padova, 1974, pp. 251 ss. 168 - nell’ipotesi di distacco da una Regione e di aggregazione ad un’altra Regione, le popolazioni direttamente interessate sono, a norma dell’art. 44, co. 3 della l. 352/1970, sia quelle “della regione dalla quale le province o i comuni intendono staccarsi” sia quelle “della regione alla quale le province o i comuni intendono aggregarsi”. Le conseguenze derivanti da una simile scelta legislativa sono le medesime già riscontrate per l’ipotesi della creazione di una nuova Regione, ma sono ancor più gravi per il fatto che il corpo elettorale viene allargato anche a quello delle Regione “aggregante”. Da questa lettura emerge un’ulteriore conclusione: il sistema di consultazione referendaria viene omologato dal legislatore ordinario ed è lo stesso per tutte le popolazioni–interessi–aree–variazioni. In questo modo si appesantisce in modo inversamente proporzionale alla consistenza e all’interesse ed alla variazione, cosicché la variazione più complessa da realizzare è il distacco-aggregazione, disposto dal Costituente per piccoli aggiustamenti territoriali, corrispondenti ad interessi limitati, costituendo una remora a mutamenti territoriali del genere ed una illegittima limitazione delle autonomie comunali e provinciali. Tutti questi rilievi sono stati confermati anche da una recente sentenza della Corte Costituzionale. Con la sentenza n. 334 del 10 novembre 2004149, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 42, co. 2 della l. 352/1970 “nella parte in cui prescrive che la richiesta di referendum per il distacco di una Provincia o di un Comune da una Regione e l’aggregazione ad altra Regione deve essere corredata – 149 Sul punto si veda: Sentenza della Corte Costituzionale 10 novembre 2004 n. 334 in Le Regioni n. 3/2005. 169 oltre che dalle deliberazioni, identiche nell’oggetto, rispettivamente dei consigli provinciali e dei consigli comunali delle Province e dei Comuni di cui si propone il distacco – anche delle deliberazioni, identiche nell’oggetto, «di tanti consigli provinciali e di tanti consigli comunali che rappresentino almeno un terzo della restante popolazione della regione dalla quale è proposto il distacco delle province e dei comuni predetti» e «di tanti consigli provinciali e di tanti consigli comunali che rappresentino almeno un terzo della popolazione della regione alla quale si propone che le province o i comuni siano aggregati»”. Questa la vicenda storica che costituisce il substrato culturale sotteso alla sentenza in esame: il Comune di S. Michele al Tagliamento si era fatto portatore di una richiesta di referendum per il suo distacco dalla Regione Veneto e la sua aggregazione alla Regione Friuli-Venezia Giulia; il delegato del Comune aveva chiesto all’Ufficio centrale di sollevare questione di legittimità costituzionale del citato art. 42, co. 2 della l. 352/1970, per contrasto con l’art. 132, co. 2 Cost., come modificato dalla legge costituzionale 3/2001. L’Ufficio centrale aveva però dichiarato manifestamente infondata la questione. La Corte Costituzionale non era d’accordo con l’Ufficio e con l’ordinanza 343/2004150 che definiva “significativa” la portata della riforma dell’art. 132, co. 2 Cost. introdotta dalla l.c. 3/2001. In seguito a ciò, l’Ufficio centrale, re melius perpensa, ha mutato opinione ed ha sollevato la questione di legittimità costituzionale precedentemente dichiarata manifestamente infondata. In particolare si sosteneva che il legislatore, col testo novellato dell’art. 132 Cost., aveva inteso 150 Sul punto si veda: Ordinanza della Corte Costituzionale 12 novembre 2004 n. 343, www.giuricost.org. 170 riservare unicamente agli enti territoriali, richiedenti il proprio distacco da una Regione e l’aggregazione ad un’altra, l’iniziativa del referendum prodromico alla variazione dell’assetto territoriale regionale, ed escludere quindi qualsiasi partecipazione a tale iniziativa di altri enti rappresentativi di popolazioni solo indirettamente interessate a tale variazione. La Consulta ha deciso sulla questione con la sentenza in esame. Nel merito la Corte ha ritenuto fondate le doglianze dell’Ufficio centrale, in quanto la norma impugnata “pone a carico dei richiedenti un onere di difficile e gravoso assolvimento”, dal momento che “accordava l’iniziativa referendaria ad organi non previsti nel testo costituzionale e condizionava l’iniziativa dei titolari a quella, necessariamente congiunta, di tali soggetti”: in questo modo veniva frustrato il diritto di autodeterminazione dell’autonomia locale, la cui affermazione e garanzia risultava invece tendenzialmente accentuata dalla riforma del 2001. Il referendum previsto dalla disposizione costituzionale attualmente vigente mira a verificare se la maggioranza delle popolazioni dell’ente o degli enti interessati approvi l’istanza di distacco-aggregazione e da ciò deriva coerentemente che la legittimazione a promuovere la consultazione referendaria spetti soltanto ad essi e non anche ad altri enti esponenziali di popolazioni diverse. Infatti, la riforma del parametro evocato ha inteso evitare che maggioranze non direttamente o immediatamente coinvolte nel cambiamento possano contrastare ed annullare finanche le determinazioni iniziali (neppure giunte allo stadio di semplici richieste) di collettività che intendano rendersi autonome o modificare la propria appartenenza regionale. 171 Le valutazioni di tali altre popolazioni, anche di segno contrario alla variazione territoriale, trovano congrua tutela nelle fasi successive a quella della mera presentazione della richiesta di referendum, da una parte perché l’esito positivo del referendum, secondo i giudici costituzionali, avrebbe carattere meramente consultivo e pertanto non vincolerebbe il legislatore statale, dall’altra perché l’audizione dei Consigli delle Regioni coinvolte consentirebbe l’emersione e la valutazione d’interessi locali contrapposti. In merito al concetto di popolazioni interessate, la Corte Costituzionale conclude che: “l’espressione «popolazioni della Provincia o delle Province interessate e del Comune o dei Comuni interessati», utilizzata dal nuovo art. 132, secondo comma, inequivocabilmente si riferisce soltanto ai cittadini degli enti locali direttamente coinvolti nel distacco-aggregazione”. Consapevole dell’importanza della sua decisione, la Consulta ha deciso di giustificarsi preventivamente da eventuali obiezioni d’incoerenza rispetto alla ormai copiosa giurisprudenza costituzionale relativa all’istituzione di nuovi Comuni e alla modifica delle loro circoscrizioni o denominazioni ex art. 133, co. 2 Cost. dicendo che: “la specificità dell’ipotesi di variazione territoriale disciplinata dall’art. 132 Cost. non consente (…) di mutuare l’accezione e l’estensione del concetto di «popolazioni interessate» individuato da questa Corte relativamente al procedimento, affatto diverso, di cui al successivo art. 133, secondo comma” e questo perché “l’espressione «popolazioni interessate», utilizzata da tale ultima norma costituzionale evoca un dato che può anche prescindere dal diretto coinvolgimento nella variazione territoriale; ed è stata intesa nelle sentenze citate come comprensiva sia dei gruppi direttamente 172 coinvolti nella variazione territoriale, sia di quelli interessati in via mediata e indiretta. Invece l’espressione «popolazioni della Provincia o delle Province interessate e del Comune e dei Comuni interessati», utilizzata dal nuovo art. 132, secondo comma, inequivocamente si riferisce soltanto ai cittadini degli enti locali direttamente coinvolti nel distacco-aggregazione”151. In realtà la Corte dava per scontata una nozione che così scontata non era: sulla norma in questione la giurisprudenza costituzionale si era già espressa molte volte, oscillando costantemente, senza mai trovare una soluzione veramente definitiva al concetto di popolazioni interessate152. A parere di chi scrive, i rilievi evidenziati dalla Consulta nella sentenza in esame sono tutti pienamente condivisibili: innanzitutto la Corte fa chiarezza sulla portata della riforma del 2001 in merito all’art. 132 Cost., esplicitando un principio di portata generale, il “diritto di autodeterminazione dell’ autonomia locale”. In secondo luogo ha ammesso che la norma sub judice (art. 42, co. 2 della l. 352/1970) appariva già non conforme all’originaria formulazione del capoverso dell’art. 132 Cost. e bene ha fatto la Consulta ad evidenziarlo mettendo in luce che il procedimento previsto dalla normativa di attuazione sul referendum non solo rendeva molto difficile l’iniziativa dell’ente che intendeva variare la propria appartenenza regionale, ma anche che introduceva una categoria di soggetti titolari dell’iniziativa referendaria estranei alla 151 Per l’estratto di questa Sentenza si veda, tra gli altri: Quaderni regionali, n. 1/2005; sul punto si veda anche: C. PAGOTTO, Per promuovere il referendum di passaggio di province e comuni ad altra Regione o Provincia basta il consenso dei “secessionisti”, 2004, www.associazionedeicostituzionalisti.it. 152 Cfr. Sentenze della Corte Costituzionale n.: 453/1989, 94/2000, 47/2003. 173 lettera costituzionale e risultanti in contrasto con il principio generale secondo cui l’iniziativa della variazione spetta a chi vi abbia un interesse diretto. In questo modo si è data una definizione chiara, ma soprattutto dotata di un alto valore giuridico, in quanto proveniente dalle Consulta, del concetto di popolazioni interessate153. Queste conclusioni non sono unanimemente condivise dalla dottrina. Una parte (Giupponi), nel commentare la sentenza in esame154, ritiene che la decisione della Consulta sia particolarmente controversa per quanto riguarda il concetto di popolazioni interessate; si ritiene assurdo che le popolazioni interessate debbano cambiare fisionomia a seconda del livello territoriale cui accede la variazione: nel distacco-aggregazione popolazioni interessate sono solamente quelle direttamente interessate, mentre nel caso di cui all’art. 133, co. 2 Cost. popolazioni interessate sono sia i gruppi direttamente coinvolti nella variazione territoriale, sia quelli interessati in via mediata e indiretta. La conclusione a cui si giunge è che la Corte abbia dato eccessivo rilievo alla riforma dell’art. 132, co. 2 Cost. attuata dalla l.c. 3/2001. Ciò sarebbe confermato dal fatto che è lo stesso giudice costituzionale ad ammettere che l’illegittimità della norma preesisteva a tale innovazione. Le conclusioni appena viste non sono del tutto errate: prevedere due diverse nozioni di popolazioni interessate per procedimenti di variazioni che riguardano enti diversi non è molto appropriato. Nel 153 Questa soluzione è condivisa anche da parte della dottrina; in particolare si veda: R. PINARDI, L’iniziativa del referendum per il distacco-aggregazione dopo la riforma del titolo V in Giurisprudenza costituzionale, Milano, n. 6/2004, pp. 3782 ss.; L. FERRARO, Commentario alla Costituzione, a cura di R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI, Torino, 2006, pp. 2537 ss. 154 Cfr. T. GIUPPONI, Le “popolazioni interessate” e i referendum per le variazioni territoriali, ex artt. 132 e 133 Cost.: territorio che vai, interesse che trovi in Le Regioni, Bologna, n. 3/2005, pp. 416 ss. 174 contempo non è condivisibile il tentativo di sminuire la riforma costituzionale del 2001: l’innovazione (sebbene la sua formulazione non sia propriamente cristallina) è stata di grande aiuto alla giurisprudenza costituzionale nella precisazione del concetto di popolazioni interessate. Si ritiene pertanto che sarà opportuno utilizzare questa nozione anche per i casi d’istituzione di nuovi Comuni o di modifica delle loro circoscrizioni o denominazioni (ai sensi dell’art. 133, co. 2 Cost.), ma ciò sarà compito della giurisprudenza costituzionale che verrà. Recentemente sul punto è intervenuto anche un disegno di legge costituzionale d’iniziativa governativa155 che mira, attraverso la modifica dell’art. 132, co. 2 Cost., a ridefinire il concetto di popolazioni interessate, ampliandolo. Secondo questa proposta, popolazioni interessate sono tutti quei “soggetti che, in qualche misura, subiscono effetti significativi dal processo globale di distacco e di aggregazione”. Non si approfondirà ora sul punto, riservandosi di farlo nel corso del capitolo V di questa ricerca, dedicato espressamente ai recenti sviluppi in materia di variazioni territoriali delle Regioni. 3.4- La votazione, lo scrutinio e la dichiarazione del risultato del referendum 155 Sul punto si veda il disegno di legge costituzionale in atto della Camera dei deputati n. 2523 del 17 aprile 2007. 175 La votazione, come si è ricordato sopra156, si tiene entro tre mesi dall’indizione del referendum ed è fissata con decreto del Presidente della Repubblica. Per quanto riguarda lo scrutinio c’è da aggiungere che non è previsto un quorum di validità, ma è invece implicito un quorum di approvazione della proposta soggetta a referendum. Ai sensi dell’art. 45, co. 2 della l. 352/1970, “la proposta sottoposta a referendum è dichiarata approvata, nel caso che il numero dei voti attribuiti alla risposta affermativa al quesito del referendum non sia inferiore alla maggioranza degli elettori iscritti nelle liste elettorali dei comuni nei quali è stato indetto il referendum” : si da così esatta attuazione alla disposizione costituzionale che per l’approvazione della proposta prescrive “la maggioranza delle popolazioni” interessate, in quanto il soddisfacimento della funzione garantistica assegnata alla consultazione popolare è compatibile solo con la deliberazione della maggioranza assoluta del corpo elettorale interessato. Non è un caso che la lettera costituzionale non riferisca la maggioranza a “voti validamente espressi” come nell’art. 75, co. 4 Cost. o a “voti validi” come nell’art. 138 Cost., ossia a quelle espressioni che nel referendum abrogativo o costituzionale legittimano l’esclusione delle schede bianche e nulle dal computo del quorum di deliberazione e consentono perciò che la proposta referendaria venga approvata con una maggioranza di voti favorevoli inferiore a detto quorum 157 . Ciò è precluso nei referendum territoriali dalla barriera della maggioranza assoluta degli elettori. 156 Si veda Capitolo III, p. 134. Cfr. G. BALLADORE PALLIERI, Diritto costituzionale, Milano, 1976, p. 265. 157 176 Una questione sollevata molto di recente158 è quella riguardante il quorum previsto dall’art. 45, co. 2 della l. 352/1970 per la validità del referendum territoriale, che prevede il voto favorevole della maggioranza assoluta degli iscritti nelle liste elettorali del Comune interessato al voto: tale quorum è difficilmente raggiungibile in presenza di enti locali che detengono molti elettori residenti all’estero in quanto essi sono costretti a rientrare in Italia per l’esercizio del loro diritto di voto. La disposizione attuativa in questione è inoltre, per parte della dottrina159, incostituzionale ed in contrasto con altre leggi ordinarie, sostenendo che tale quorum sia “abnorme”. Innanzitutto si sostiene vi sia un contrasto con il secondo comma dell’art. 132 Cost. in quanto, dopo la modifica intervenuta con la legge costituzionale 3/2001, l’espressione “maggioranza delle popolazioni” è interpretabile nel senso di maggioranza dei voti validi espressi dalla maggioranza degli aventi diritto al voto (come per il referendum abrogativo di cui all’art. 75, co. 4 Cost.). Su tale riforma costituzionale è intervenuta, sia pure in via indiretta, la Corte Costituzionale, la quale ha statuito che il referendum territoriale ha carattere “meramente consultivo”160; considerata la natura consultiva e dunque non vincolante per il legislatore statale della consultazione referendaria in questione, perché, sostiene la più recente dottrina 158 Cfr. F. RATTO TRABUCCO, Sulla presunta incostituzionalità del quorum della maggioranza assoluta degli iscritti alle liste elettorali per i referendum territoriali ex art. 132, Cost., 2008, www.forumcostituzionale.it; F. RATTO TRABUCCO, Il distacco-aggregazione di Comuni da una Regione ad un’altra: ovvero il revival dell’autodeterminazione delle comunità locali in Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, n. 1/2008, Firenze, pp. 39 ss. 159 Cfr. F. RATTO TRABUCCO, Sulla presunta incostituzionalità del quorum della maggioranza assoluta degli iscritti alle liste elettorali per i referendum territoriali ex art. 132, Cost. , 2008, www.forumcostituzionale.it, pp. 4 ss. 160 Si veda: Sentenza della Corte Costituzionale 10 novembre 2004 n. 334 in Giurisprudenza costituzionale, Milano, n. 6/2004, p. 3779. 177 (Ratto Trabucco), prevedere un quorum estremamente difficoltoso da raggiungere? La domanda naturalmente è retorica: quello che l’Autore vuole dire è che, data la natura non vincolante del referendum, non avrebbe senso prevedere un simile quorum e pertanto si deve concludere che esso sia illegittimo, soprattutto alla luce della riforma dell’art. 132, co. 2 Cost. e della precisazione intervenuta su di esso da parte della Consulta. Secondo detta dottrina l’aver aggravato il procedimento con un quorum abnorme si pone in chiaro contrasto con i principi ispiratori del Titolo V ed in particolare con quello di autoidentificazione territoriale delle comunità locali; ne discenderebbe che il quorum da prevedersi per i referendum ex art. 132, co. 2 Cost. non può che essere quello della maggioranza dei voti validamente espressi. Si sostiene poi che vi sia un contrasto con la disciplina per il quorum del referendum abrogativo e costituzionale (o approvativo). Nel caso del referendum abrogativo, vi è l’unica previsione costituzionale regolatrice del quorum di una fattispecie referendaria (art. 75, co. 4 Cost.); in essa si prevede un quorum strutturale di partecipazione pari alla maggioranza degli aventi diritto al voto e, qualora tale quorum sia raggiunto, un quorum funzionale che richiede che la proposta sia approvata con il voto favorevole della maggioranza dei voti validi. Nel caso del referendum costituzionale non è previsto, sia pure in via implicita, un quorum strutturale, ma solamente un quorum funzionale pari alla maggioranza dei voti validamente espressi (art. 138, co. 2 Cost.). Per quanto riguarda il referendum territoriale invece viene previsto che il quorum per l’approvazione della proposta sia anche il quorum 178 di partecipazione per la validità della consultazione (art. 45, co. 2 della l. 352/1970), cosa che ne rende molto più difficoltosa l’attuazione rispetto alle altre due tipologie referendarie. Si sottolinea inoltre che la disciplina del quorum per il referendum abrogativo è perfettamente parallela alla disciplina costituzionale in tema di numero legale prescritto per la validità delle deliberazioni parlamentari (ex art. 64, co. 3 Cost.) e che maggioranze speciali sono previste esclusivamente in casi determinati (per esempio: elezione del Presidente della Repubblica, limitatamente ai primi tre scrutini; leggi di concessione di amnistia o indulto), tra cui non rientra la previsione di cui all’art. 132 Cost. Conclude l’Autore sostenendo che, alla luce di queste considerazioni, la regola del quorum di cui all’art. 75, co. 4 Cost. debba ritenersi ragionevolmente estendibile anche all’ipotesi referendaria di cui all’art. 132 Cost. e che non pare legittima la pretesa di un quorum superiore, come invece stabilito dall’art. 45, co. 2 della l. 352/1970. In ultimo si ritiene che vi sia anche un contrasto con la disciplina per il voto dei cittadini italiani residenti all’estero, quale risulta dalla legge 27 dicembre 2001, n. 459: la legge in questione è stata adottata al fine di garantire piena attuazione del nuovo art. 48, co. 3 Cost., introdotto dalla legge costituzionale n. 1 del 1999, che garantisce appunto l’effettività del diritto di voto degli elettori residenti all’estero. Questi i motivi: le disposizioni di cui all’art 1, co. 1 e 2 della legge in questione configurano una disparità di trattamento nell’esercizio del diritto di voto in danno dei cittadini residenti all’estero; la situazione varia a seconda che essi siano chiamati a votare per le elezioni delle Camere e per i referendum abrogativo o costituzionale, dove è ammesso il voto per corrispondenza, o per le 179 elezioni comunali, provinciali, regionali e per i referendum territoriali, dove invece è previsto che essi rientrino in Italia per votare nel territorio del Comune in cui risultano iscritti all’anagrafe degli italiani residenti all’estero (A.I.R.E.). Simili disposizioni sono in palese contrasto col principio di effettività del suffragio (ex art. 48, co. 3 Cost.) in favore dei cittadini italiani residenti all’estero e col principio di eguaglianza formale delle condizioni di voto di questi elettori rispetto a quelli che risiedono nel territorio della Repubblica. Tale differenziazione non ha alcuna valida ragione di sussistere anche e soprattutto alla luce della riforma del Titolo V, la quale ha accentuato l’autonomia degli enti locali, sancendo la divisione della Repubblica nei seguenti livelli di governo: Comuni, Città metropolitane, Province, Regioni, Stato (art. 114, co. 1 Cost.). È logico quindi pensare che le condizioni per le elezioni di un dato livello di governo non possano essere più gravose di quelle previste per un altro livello, pena la frustrazione dell’eguaglianza formale circa le condizioni di voto. Inoltre, per i referendum ex art. 132, già è stato previsto un quorum approvativo161 più elevato rispetto alle altre tipologie referendarie e non pare possibile aggravare ulteriormente tale consultazione con adempimenti ulteriori, quali il necessario rientro degli elettori residenti all’estero. L’Autore desume dall’interpretazione di alcune disposizioni della legge sul voto degli italiani all’estero rapportate con la legge attuativa sul referendum che gli italiani residenti all’estero siano privi del diritto di voto in merito alle variazioni territoriali delle Regioni e che di conseguenza debbano rimanere esclusi dal computo ai fini del 161 Si veda la pagina precedente. 180 quorum 162 . Simile interpretazione non pare condivisibile, pena una disparità di trattamento tra elettori residenti in Italia e residenti all’estero, contraria all’effettività del diritto di voto a favore di questi ultimi, come prescrive la disposizione costituzionale di cui al comma terzo dell’art. 48 Cost. Concludendo, le tesi dell’Autore in questione non sono pienamente condivisibili. Come sempre, conviene attenersi precisamente al dettato legislativo e quindi pensare che se il legislatore ha previsto quorum diversi per le varie tipologie di referendum è perché ha voluto differenziare il referendum territoriale da quello abrogativo e da quello costituzionale. In questo senso non si ritiene simile differenziazione illegittima e di conseguenza non si ritiene illegittimo nemmeno l’art. 45, co. 2 della l. 352/1970. Al contrario, pare invece che la normativa che disciplina il voto degli elettori residenti all’estero lo sia, in quanto crea delle ingiuste disparità circa le condizioni di voto (vedi art. 1, co. 1 e 2 della l. 459/2001) e frustra il principio di effettività del suffragio dei cittadini residenti all’estero, di cui all’art. 48, co. 3 Cost. Per questi motivi si ritiene che la questione del difficile raggiungimento del quorum previsto dall’art. 45, co. 2 della l. 352/1970 potrebbe essere risolta dal legislatore modificando la legge 459/2001 nella disposizione in cui non prevede il voto per corrispondenza per i referendum ex art. 132 Cost. (e per le elezioni degli altri enti locali). 162 Cfr. F. RATTO TRABUCCO, Sulla presunta incostituzionalità del quorum della maggioranza assoluta degli iscritti alle liste elettorali per i referendum territoriali ex art. 132, Cost., 2008, www.forumcostituzionale.it, p. 11. 181 Altra questione controversa relativa al quorum è quella che si verifica qualora siano indetti referendum “unitari”163 o “cumulativi”164 tra più Comuni: della questione ci si occuperà nel proseguio di questa trattazione165. La fase della dichiarazione del risultato conclude la procedura referendaria. È previsto che l’Ufficio centrale per il referendum proceda alla somma dei risultati della consultazione relativi a tutto il territorio nel quale si è svolto e ne proclami il risultato (art. 45, co. 1 della l. 352/1970). Un esemplare del verbale dell’Ufficio centrale contenente la dichiarazione di approvazione o di rigetto della proposta è depositato presso la Cancelleria della Corte di Cassazione; altre copie del verbale sono trasmesse rispettivamente: ai Presidenti delle due Camere, al Presidente del Consiglio dei Ministri ed ai Presidenti delle Regioni interessate. Il Presidente del Consiglio dei Ministri cura che sia data notizia sulla Gazzetta Ufficiale del risultato del referendum (art. 45, co. 3 della l. 352/1970). Merita un approfondimento la disposizione del co. 5 dell’art. 45 della l. 352/1970; in essa si prevede che: “qualora la proposta non sia approvata, non può essere rinnovata prima che siano trascorsi cinque anni”. La norma ricalca a grandi linee quella prevista dall’art. 38 della l. 352/1970 per il referendum abrogativo: in questo caso la ratio della disposizione è quella d’impedire il reiterarsi di un 163 Secondo la definizione di D. TRABUCCO, Alcuni problemi legati alle variazioni territoriali ex art. 132, 2° comma, Cost., www.forumcostituzionale.it, p. 2. 164 Secondo la definizione di F. RATTO TRABUCCO, Il distacco-aggregazione dei comuni da una Regione all’altra: ovvero il revival dell’autodeterminazione delle comunità locali in Nuova rassegna di legislazione, dottrina, giurisprudenza, n. 1-2008, Firenze, p. 48. 165 Si veda Capitolo IV, paragrafo 2.2. 182 potenziale conflitto fra i rappresentanti ed il corpo elettorale, che potrebbe dar luogo ad una “drammaticità istituzionale”166. Questa caratteristica non trova una giustificazione ed è estranea alla nozione di referendum territoriale che si è finora cercato di ricostruire: è da ritenersi pertanto che non sia né opportuna, né appropriata per l’istituto in esame. 4- Il procedimento legislativo 4.1- La fase istruttoria del procedimento legislativo Una volta che il referendum abbia dato esito positivo, si apre la fase istruttoria del procedimento legislativo. Questa fase è stata attuata dal legislatore ordinario con l’art. 45, co. 4 della l. 352/1970 il quale ha prescritto che: “il Ministro dell’Interno”, entro 60 giorni dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’esito referendario positivo, “presenta al Parlamento il disegno di legge costituzionale o ordinaria di cui di cui all’articolo 132 della Costituzione”. Il legislatore ha deciso di accordare l’iniziativa di legge al Ministro dell’Interno, un organo che in via ordinaria è sprovvisto del potere di avviare il procedimento legislativo come è ben specificato nell’art. 71, co. 1 Cost., che ha previsto tale potere per il Governo, per i parlamentari e per gli organi ed enti ai quali tale potere sia conferito da legge costituzionale. Come può quindi rivestire tale funzione quest’organo? La risposta che si può dare è che esso possa operare 166 Così definisce Pedrazza Gorlero questa caratteristica del referendum abrogativo; Si veda: M. PEDRAZZA GORLERO in Commentario della Costituzione a cura di G. BRANCA, A. PIZZORUSSO, tomo III, Bologna-Roma, 1990, p. 166. 183 soltanto come tramite formale dell’altrui iniziativa sostanziale. L’iniziativa sostanziale è data dalla consultazione referendaria positiva: in questo modo si accoglie implicitamente la concezione del referendum d’iniziativa il quale, in quanto previsto dall’art. 132 Cost., soddisfa la prescrizione dell’art. 71, co. 1 Cost., ma, per essere strutturalmente incapace di tradursi nell’atto d’iniziativa, legittima un’iniziativa “tecnica” adatta allo scopo. La riserva non potrà essere violata in quanto il Ministro dell’Interno è vincolato sia da un termine perentorio previsto dalla legge (i 60 giorni), sia dal fatto che la legge deve avere un contenuto conforme alla deliberazione referendaria. L’iniziativa del Ministro dell’Interno è, di fatto, un atto dovuto ed egli è pertanto un semplice organo di trasmissione. Una critica che si può fare al legislatore ordinario in merito a questa scelta è la seguente: perché affidare l’iniziativa di legge al Ministro anziché al Governo nel suo insieme, che è l’ordinario titolare dell’iniziativa (anche se vincolata), ai sensi dell’art. 71, co. 1 Cost? Alcuni Autori167 hanno ravvisato una qualche analogia tra la norma in esame e quella dell’art. 6, co. 1 della l. 62/1953 secondo la quale è il Presidente del Consiglio dei Ministri che presenta al Parlamento gli Statuti delle Regioni. Vi sono però delle forti divergenze tra queste due norme: nell’art. 6, co. 1 della l. 62/1953 il Governo è lasciato libero di determinarsi riguardo al merito della legge, mentre la norma in esame esclude questa possibilità. Il disegno di legge approvato col referendum, inoltre, potrebbe aver bisogno di un contenuto accessorio da deliberarsi con scelta collegiale: si pensi al caso in cui si ritenga di 167 Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. II, Padova, 1991, p. 98. 184 mutare il numero fisso dei seggi senatoriali attribuiti alle Regioni toccate dalla variazione. Si ritiene dunque che la scelta di affidare l’iniziativa di legge al Ministro dell’Interno susciti notevoli perplessità in merito alla sua legittimità costituzionale. Si fa ora una breve digressione esegetica per vedere se il legislatore ordinario avrebbe potuto attuare la norma costituzionale in maniera diversa. Si esordisce dicendo che la scelta di escludere gli organi rappresentativi delle popolazioni interessate dal potere d’iniziativa di legge è una scelta propria del legislatore ordinario: nulla infatti nel dettato costituzionale sembra imporre una simile scelta a scapito dei titolari dell’iniziativa referendaria. Anzi, se si fa un’interpretazione analogica si vedrà che i soggetti dai quali proviene la richiesta di referendum sono in parte gli stessi a cui è attribuita l’iniziativa delle leggi di variazione delle circoscrizioni provinciali ai sensi dell’art. 133, co. 1 Cost.168 ergo i Consigli comunali sono in grado di presentare un progetto di legge. Questa era, a parere di chi scrive, la scelta più idonea da fare, anche in virtù di un principio di omogeneità sotteso a tutta la Carta costituzionale. Secondo parte della dottrina169 l’iniziativa legislativa avrebbe potuto essere attribuita anche ai Consigli regionali interessati, dato che le norme di attuazione (art. 44, co. 3 della l. 352/1970) hanno ammesso alla pronuncia referendaria tutte le Regioni interessate a tutte le variazioni territoriali. Questa tesi non appare condivisibile: già 168 Cfr. E. SPAGNA MUSSO, L’iniziativa nella formazione delle leggi, Napoli, 1958, pp. 97 ss. 169 Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. II, Padova, 1991, p. 98. 185 sopra170 si sono ravvisati dei dubbi circa la legittimità costituzionale di questa norma che non permette un accertamento preciso della volontà delle popolazioni direttamente interessate alla variazione territoriale; dire ora che i Consigli regionali interessati potrebbero essere titolari dell’iniziativa legislativa sarebbe una contraddizione in termini. È invece pienamente condivisibile la tesi dottrinaria171 che individua nella consultazione popolare un soggetto idoneo ad aprire il procedimento legislativo, dal momento che si è accettato di seguire la concezione unitaria172 in cui la richiesta come iniziativa di legge non viene distinta dalla richiesta come iniziativa della consultazione referendaria. Tale scelta, anche per essere congruente con quanto è stato sopra affermato173 e cioè che titolare sostanziale dell’iniziativa è la consultazione referendaria e che il Ministro dell’Interno è un semplice organo di trasmissione. 4.2- Il parere dei Consigli regionali Il parere dei Consigli regionali è costituzionalmente previsto dall’art. 132 Cost. sia nelle ipotesi di fusione e creazione, sia in quella di distacco-aggregazione. Tale gravame è stato previsto nella fase istruttoria del procedimento di variazione territoriale: è obbligatoria l’audizione dei pareri dei Consigli regionali interessati che non sono vincolanti per il legislatore. La funzione era, almeno nelle intenzioni del Costituente, quella di rappresentare al Parlamento l’avviso delle 170 Si veda Capitolo III, pp. 167 ss. Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. II, Padova, 1991, p. 98. 172 Si veda Capitolo III, pp. 106 ss. 173 Si veda Capitolo III, pp. 183 ss. 171 186 popolazioni indirettamente interessate o controinteressate che non si esprimono mediante il referendum. Originariamente il parere non era previsto nell’ipotesi di fusione nella quale tutte le popolazioni erano direttamente interessate alla variazione territoriale e pertanto tutte potevano esprimere il loro parere con il referendum, vanificando quindi qualsiasi valutazione del Consiglio regionale. Tale diversa garanzia, che aggrava ulteriormente il procedimento, s’incrocia perfettamente con quella referendaria, circoscritta però nei termini sopra esposti (il corpo elettorale è composto solamente dalle popolazioni direttamente interessate), in quanto ogni altra diversa estensione della popolazione abilitata alla consultazione si tradurrebbe in una superflua duplicazione degli strumenti di tutela, cosa che è puntualmente avvenuta. Le idee iniziali del Costituente, ottime e condivisibili, sono state compromesse in parte dallo stesso, che implicitamente ha introdotto il parere dei Consigli regionali anche nell’ipotesi di fusione, in parte e soprattutto dal legislatore d’attuazione del referendum, il quale, annullando ogni differenza tra le varie categorie di popolazioni interessate, tutte chiamate alla consultazione referendaria, ha non solo “sfigurato”174 l’autoidentificazione territoriale delle popolazioni direttamente interessate, ormai dissolta nell’interesse di tutte, ma ha anche esteso alle ipotesi di creazione e di distacco-aggregazione il problema postosi inizialmente per la sola fusione. La duplicazione delle valutazioni è ormai generalizzata, con il risultato che quella 174 Questa espressione forte è utilizzata da Pedrazza Gorlero e pare molto adeguata a definire la situazione; si veda: M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. II, Padova, 1991, p. 100. 187 dell’organo rappresentativo viene coperta e svalutata da quella del corpo elettorale. Una funzione importante continua però ad essere ad appannaggio del parere dei Consigli regionali e cioè quella di riequilibrare la deliberazione di variazione territoriale adottata con una maggioranza numerica cui non corrisponda una maggioranza diffusa sul territorio. Una funzione quindi che merita di essere conservata, ma che per essere più efficace in un simile quadro normativo dovrebbe avere una collocazione procedimentale diversa, ad esempio fra l’iniziativa legislativa e l’indizione del referendum, in modo che la valutazione dell’organo rappresentativo abbia la possibilità di proporsi in maniera autonoma e di esercitare la sua influenza sia sul corpo elettorale interessato, sia sul legislatore. 4.3- La deliberazione legislativa La fase della deliberazione sulla legge di variazione territoriale pone anch’essa delle questioni delicate, tanto da essere meritevoli di un accurato approfondimento. Si esordisce dicendo che il Costituente ha previsto due diverse tipologie di leggi per la modificazione del territorio regionale: - per le ipotesi di fusione e di creazione ha prescritto l’utilizzo della legge costituzionale; - per l’ipotesi del distacco-aggregazione richiede l’utilizzo della legge ordinaria. 188 Le motivazioni di tale differenziazione sono essenzialmente storiche: come si è visto175 l’ultimo comma dell’art. 123 del progetto di Costituzione prevedeva che: “I confini ed i capoluoghi delle Regioni sono stabiliti con legge della Repubblica”, pertanto il Costituente aveva previsto la legge ordinaria per l’ipotesi del distaccoaggregazione, che andava indirettamente a modificare i confini delle Regioni, per evitare un conflitto tra quest’ipotesi ed il capoverso dell’art. 123. Questa norma non fu approvata in sede di votazione definitiva dell’art. 131 Cost. e quindi si sarebbe forse potuta prevedere anche per l’ipotesi in questione l’utilizzo della legge costituzionale per un discorso di omogeneità. Francamente è opportuno dire che sia stato meglio così: l’ipotesi di cui al co. 2 dell’art. 132 Cost. riguarda piccole modifiche al territorio, e la legge costituzionale finirebbe per renderne il procedimento troppo laborioso con il risultato di scoraggiarne l’avvio. La cosa potrebbe creare problemi quando la Regione da cui avviene il distacco o verso cui avviene l’aggregazione sia una Regione ad autonomia speciale, per via dello Statuto “costituzionalizzato”; come si vedrà però, eventuali problematiche sono state brillantemente risolte dal Governo e dalla dottrina176. La legge costituzionale è quella che pone le problematiche maggiori. Uno dei procedimenti di legislazione costituzionale (art. 138, co. 2 Cost.) prevede che la legge non sia promulgata e che si faccia ricorso 175 Si veda Capitolo I, pp. 41, 49, 52. Per tutti i riferimenti, anche dottrinali, su questo punto si veda: Capitolo III paragrafo 12. 176 189 al referendum (approvativo177) nel caso in cui la seconda deliberazione legislativa sia stata approvata con la maggioranza assoluta dei componenti e un quinto dei membri di ciascuna Camera, o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali lo abbiano richiesto entro tre mesi dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. La norma costituzionale in esame non contempla un quorum di partecipazione per la validità del referendum, quindi la consultazione referendaria sarà valida qualunque sia il numero degli elettori che vi abbia partecipato e l’atto da essa risultante produrrà i suoi effetti quando abbia riportato la maggioranza dei voti validi. Potrebbe perciò accadere che la minoranza soccombente a livello locale, associata a settori, anche esigui, che si potrebbero definire “non interessati”, del corpo elettorale nazionale, venga a mutarsi in maggioranza e che la variazione territoriale, deliberata dal corpo elettorale interessato, sia bocciata dalla pronuncia referendaria. La cosa non dovrebbe stupire per due ragioni: la prima è che questa è la normale conseguenza di un procedimento legislativo caratterizzato dal disfavore per la revisione della Costituzione, la quale può essere paralizzata da una minoranza avversa, se il corpo elettorale non riesca ad esprimere una maggioranza omogenea alla deliberazione legislativa; la seconda è che essa costituisce l’esito della diversità delle due valutazioni, locale l’una, nazionale l’altra. Non sembra però opportuno che una legge che si fonda sul referendum territoriale, espressione dell’autoidentificazione territoriale delle popolazioni interessate, che realizza il presupposto istituzionale dell’autonomia regionale, non sia approvata a causa di un referendum nazionale che non può certamente essere espressione della 177 Si veda Capitolo III, p. 138. 190 volontà delle popolazioni interessate. Per dare una risposta a questo quesito, bisogna individuare quale sia la funzione del referendum approvativo. Simile pronuncia referendaria non ha il compito di manifestare in modo espresso il necessario consenso popolare alla deliberazione delle Camere, consenso che invece si considera tacitamente prestato quando la seconda deliberazione legislativa sia stata adottata con la maggioranza dei due terzi (art. 138, co. 3 Cost.) oppure con la maggioranza assoluta ma senza che intervenga la richiesta di referendum (art. 138, co. 2 Cost. interpretato al contrario). Il consenso popolare è il risultato di una finzione giuridica, consistente nell’applicazione del principio maggioritario al rapporto rappresentativo: dalla mancanza di una richiesta referendaria può dedursi soltanto l’assenza di una minoranza qualificata dissenziente rispetto alla deliberazione legislativa, non anche il consenso popolare su di essa. La funzione del referendum approvativo è quella di garantire quelle minoranze che siano qualificate della società politica, delle autonomie locali, dell’opposizione parlamentare. Tale funzione è incompatibile con quella di prestare il consenso popolare alla deliberazione legislativa, sia perché la maggioranza assoluta fa già presumere l’esistenza del consenso, sia perché la minoranza, che è maggioranza nella consultazione referendaria, non può attestare la volontà maggioritaria del corpo elettorale, ma può, al più, confortare la deliberazione legislativa. Da ciò si desume che il referendum approvativo non appartiene, come quello territoriale, alla fase costitutiva del procedimento legislativo, ma a quella integrativa dell’efficacia. 191 Ora, se si può concedere che una minoranza consideri contraria all’interesse nazionale una legge di creazione o di fusione di Regioni, e che tale valutazione sia condivisa dalla minoranza del corpo elettorale nazionale, non si comprende con quale fondamento costituzionale questa minoranza dovrebbe venire tutelata a preferenza di quella che ha attivato il procedimento di variazione territoriale che, attraverso il presupposto dell’autoidentificazione territoriale, costituisce il presupposto costituzionale dell’autonomia regionale e di tale legge. Autorevole dottrina178 ha anzi motivo di ritenere che il disposto combinato degli artt. 5, 132 e 138, co. 2 Cost. vada letto nel senso che, a differenza del procedimento ordinario di revisione costituzionale, qui la garanzia dell’interesse della minoranza territoriale, realizzata dal procedimento di variazione non possa cedere all’interesse della minoranza del corpo elettorale nazionale, ma soltanto, semmai, alla volontà maggioritaria di quest’ultimo, che è la sola in grado di concretare l’interesse generale. In altri termini, il referendum nel procedimento di revisione costituzionale ha il fine di rendere possibile un appello al popolo, che consenta la difesa dei valori costituzionali sottesi alle norme sottoposte a revisione. Nelle leggi di variazione territoriale il valore costituzionale viene conseguito mediante il referendum territoriale e la conforme deliberazione legislativa del Parlamento, che è il giudice dell’interesse generale e nazionale. Da ciò deriva che il procedimento di legislazione costituzionale che contempla il referendum non può trovare applicazione nel procedimento di variazione territoriale: il procedimento di legislazione 178 Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. II, Padova, 1991, p. 104. 192 costituzionale ex art. 132, co. 1 Cost. è un ulteriore, un “altro”, procedimento di legislazione costituzionale oltre a quello ordinario previsto dall’art. 138 Cost. Non tutta la dottrina è però concorde con questa tesi: alcuni179 ritengono che il referendum approvativo debba comunque celebrarsi anche nel caso di una legge di variazione territoriale, senza darne tuttavia un’adeguata motivazione; altri non esprimono nessun tipo di giudizio, sostenendo che “l’assenza di una concreta esperienza di attuazione dell’art. 132, ancora una volta, amplifica ogni difficoltà”180. La prima tesi, quella che ritiene l’art. 138, co. 2 Cost. non applicabile ai procedimenti di variazione territoriale, è quella più condivisibile perché ben argomentata e convincente. Vi sono poi anche altre problematiche, comuni per entrambe le tipologie di leggi di variazione territoriale, sia costituzionali che ordinarie. La prima si riferisce alla seguente questione: il legislatore, in caso di esito positivo della consultazione referendaria, è obbligato a deliberare la legge di variazione territoriale? La risposta è senza dubbio negativa: il Parlamento ha il compito di valutare la congruità della proposta di variazione territoriale in relazione all’interesse nazionale. In tal modo, l’istanza locale di modifica morfologica viene apprezzata dalle Camere nella prospettiva dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica, di cui all’art. 5 Cost., a garanzia del territorio della nazione, del popolo e della Costituzione. Da ciò deriva che il legislatore, tutore degli interessi unitari, conserva la discrezionalità in 179 Cfr. V. FALZONE, F. PALERMO, F. COSENTINO, La Costituzione della Repubblica italiana , Milano, 1976, p. 414. 180 Cfr. L. FERRARO, Commentario alla Costituzione, a cura di R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI, Torino, 2006, p. 2542. 193 merito alla scelta di adottare o meno la proposta di variazione territoriale. Dopo aver risposto a questo primo quesito, ve n’è un secondo non meno importante da esaminare: il legislatore che ritenga opportuna la modificazione territoriale, deve deliberare in senso necessariamente conforme alla pronuncia referendaria o può discostarsi dal contenuto dell’atto risultante dal referendum? La risposta si ricava dopo un’analisi dell’atto risultante dalla consultazione popolare. Il risultato del referendum non è un semplice parere, ma un atto avente valore d’iniziativa181, ribadita da una pronuncia popolare di autoidentificazione territoriale che costituisce il presupposto del riconoscimento costituzionale dell’autonomia regionale. L’iniziativa della legge di variazione territoriale è riservata agli organi rappresentativi delle popolazioni interessate, su cui delibera il corpo elettorale interessato: si prefigura in tal modo il contenuto non modificabile della legge stessa, limitando di conseguenza le scelte d’indirizzo affidate al Parlamento182. Se il legislatore statale non si adeguasse e si spingesse a modificare il contenuto della legge di variazione territoriale, definito nei suoi termini essenziali dalla pronuncia referendaria, ciò sarebbe in contrasto con la riserva d’iniziativa e con la natura del referendum di variazione territoriale. La fase della deliberazione legislativa si conclude con la promulgazione della legge di variazione territoriale. L’art. 46, co. 1 e 3 della l. 352/1970 dispone la menzione dell’esito favorevole del referendum nella formula di 181 promulgazione della legge; Si veda Capitolo III, pp. 157 ss. In questo senso si veda: M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. II, Padova, 1991, p. 108. 182 194 configurandosi la promulgazione come dichiarazione della volontà legislativa, ciò induce a considerare il procedimento di variazione territoriale come un procedimento legislativo unitario183. Per quanto riguarda l’entrata in vigore della legge, vale la pena di ricordare che, comportando essa lo scioglimento dei Consigli regionali interessati, il Parlamento potrebbe ritardarne l’entrata in vigore fino all’avvenuta elezione dei nuovi Consigli regionali184. 4.4- La qualificazione giuridica delle leggi di variazione territoriale e la loro collocazione nel sistema delle fonti Terminata la spiegazione “dinamica” del procedimento legislativo di variazione territoriale, resta un’ultima importante questione da esaminare, e cioè la qualificazione giuridica da dare alla legge di variazione territoriale. La qualificazione giuridica di tali leggi è fondamentale per accertare se e come essa influisca nel sistema costituzionale delle fonti. Le leggi di variazione territoriale (sia quelle costituzionali, sia quelle ordinarie) si caratterizzano per particolarità concernenti sia il procedimento sia il contenuto. Sotto il profilo procedimentale sono leggi in cui: - la fase dell’iniziativa è riservata agli organi rappresentativi delle popolazioni direttamente interessate alla variazione territoriale; 183 Si veda Capitolo III, pp. 106 ss. Sostiene questa tesi: G. D’ORAZIO, In tema di variazioni del territorio regionale in Scritti in onore di Costantino Mortati, Milano, 1977, p. 690. 184 195 - la fase istruttoria è gravata dal parere obbligatorio e non vincolante dei Consigli regionali rappresentanti le popolazioni interessate alla variazione; - la fase costitutiva è segnata dal concorso essenziale della volontà popolare alla formazione del contenuto della deliberazione legislativa. Sotto il profilo contenutistico tali leggi hanno un contenuto che è vincolato alla deliberazione referendaria avente ad oggetto l’autoidentificazione territoriale della comunità regionale, cioè la deliberazione legislativa è vincolata all’accettazione o al rigetto del contenuto dell’atto configurato nell’iniziativa, senza possibilità d’incidervi. Le peculiarità di procedimento e di contenuto delle leggi in esame fanno ritenere che l’art. 132 Cost. ponga delle riserve di legge “rinforzate”, aggiunga cioè alla prescrizione dell’uso della legge costituzionale od ordinaria, l’indicazione per il legislatore di un limite sostantivo, consistente nel mettere a contenuto della propria deliberazione l’atto risultante dal referendum, e vi accompagni la predisposizione del sentiero procedurale specificamente dedicato alla formazione di detto limite. La dottrina non è concorde nel ritenere l’autonomia scientifica della riserva di legge rinforzata. Alcuni185 rilevano che anche le riserve “semplici” siano sottoposte a limiti sostantivi sia generici sia specifici derivanti da altre norme o dal sistema costituzionale e pertanto sarebbe inutile distinguere tra riserve di legge semplici e riserve di legge rinforzate. 185 Cfr. R. BALDUZZI, F. SORRENTINO, Riserva di legge in Enciclopedia del diritto, vol. XL, Milano, 1989, p. 1211. 196 Altri186 invece ritengono che sia proprio la distinzione tra limiti generali e limiti specifici a fondare quella tra i due tipi di riserva, la riserva rinforzata caratterizzandosi per dettare degli ulteriori limiti specifici rispetto a quelli costituzionali generali. L’autonomia concettuale della riserva rinforzata dovrebbe comunque conservarsi per le riserve nelle quali il limite sostantivo specifico costituisce l’esito di un’alterazione morfologica del procedimento legislativo, in quanto tale alterazione è disposta, con ogni evidenza, per concretare quel limite, non potendosi desumere da altra norma o dal sistema costituzionale. Il concetto di riserva di legge rinforzata conduce direttamente al concetto di legge rinforzata, cioè una legge il cui procedimento di formazione contempla un aggravamento rispetto all’ordinario procedimento legislativo: le leggi di variazione territoriale di cui all’art. 132 Cost. possono quindi essere qualificate come leggi, costituzionali o ordinarie, rinforzate. 4.4.1- Qualificazione giuridica e collocazione sistematica della legge costituzionale di variazione territoriale La tipologia normativa della legge costituzionale, ex art. 132, co. 1 Cost., è stata prevista, come si è visto, per due ragioni, una di ordine formale, l’altra di ordine sostanziale. 186 Cfr. G. ZAGREBELSKY, Manuale di diritto costituzionale, vol. I, Torino, 1987, p. 55; su questa teoria concorda anche M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. II, Padova, 1991, p. 111. 197 La prima è determinata da una compenetrazione strutturale tra l’art. 131 Cost. e la norma di revisione: avendo la norma in questione rango costituzionale, la norma che la riforma dovrà essere di pari rango. La motivazione sostanziale del ricorso alla legge costituzionale è rappresentata dalla necessità di dare un esito istituzionale all’autoidentificazione territoriale come comunità regionali delle popolazioni direttamente interessate alla variazione, la quale è in grado d’influire sul procedimento legislativo, nel senso di escluderne la variante che nella fase integrativa dell’efficacia prevede l’eventuale ricorso al referendum approvativo. La circostanza che la legge costituzionale di variazione territoriale, in ragione del suo contenuto specifico, sia caratterizzata anche da questa anomalia procedimentale, implica che essa possa essere considerata “altra” rispetto alla legge ordinaria di revisione costituzionale. In realtà ciò che la contraddistingue è proprio il contenuto “non di revisione”187 che obbliga all’impiego di un procedimento che non contempla il ricorso al referendum ex art. 138 Cost. Alla luce di quanto visto finora, la legge costituzionale di variazione territoriale è: - una legge a contenuto misto; - una legge a procedimento vincolato; - una legge emanata in materia di riserva di legge costituzionale rinforzata; - una legge aggravata rispetto al procedimento legislativo ordinario. Quest’ultimo carattere è il fondamento sia del procedimento superaggravato sia del concetto di legge costituzionale rinforzata. Su 187 Così la definisce Pedrazza Gorlero in: M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. II, Padova, 1991, p. 112. 198 tali nozioni si registrano in dottrina forti divergenze, che provvederemo qui di seguito ad esaminare. Secondo una parte (Zagrebelsky188) il concetto di legge rinforzata si deduce focalizzando l’attenzione sull’efficacia formale della legge. Il criterio gerarchico attribuisce ad ogni forma normativa una particolare efficacia, o forza, detta efficacia formale (dipendente dalla sua forma). Per efficacia formale s’intende, dal punto di vista attivo, la capacità d’innovare rispetto ad altre fonti (attraverso l’abrogazione, la deroga, la modifica), dal punto di vista passivo, la capacità di resistere all’innovazione da parte di altre fonti (cioè alla propria abrogazione, deroga, modifica). La Costituzione ha operato una “relativizzazione” della forza di legge, prevedendo che essa possa realizzarsi in vari modi tra cui leggi maggiormente resistenti all’abrogazione più di quanto non siano le leggi in generale (leggi rinforzate sul lato passivo) e leggi maggiormente efficienti nell’abrogazione di precedenti fonti legislative (leggi rinforzate sul lato attivo). L’art. 132 Cost. appartiene, come si vedrà, alla prima di queste due fattispecie. Secondo altra autorevole dottrina (Paladin189) invece l’aggettivo “rinforzate” non dev’essere preso alla lettera, in quanto si tratta solamente di leggi chiamate a risolvere questioni particolarissime. Secondo altri ancora (Quadri190), la legge rinforzata si differenzia da quella ordinaria perché “non potrebbe essere abrogata o derogata da leggi non emanate in osservanza dei requisiti costituzionali prescritti per la sua emanazione”. 188 Cfr. G. ZAGREBELSKY, Manuale di diritto costituzionale, vol. I, Torino, 1987, pp. 62 ss. 189 Cfr. L. PALADIN, Lezioni di diritto costituzionale, Padova, 1989, pp. 162 ss. 190 Cfr. G. QUADRI, La forza di legge, Milano, 1979, p. 108. 199 La definizione di leggi rinforzate che pare più convincente è quella (data da Crisafulli191) secondo cui queste sono “leggi per la validità delle quali, in ordine a determinati oggetti, si richiedono particolari presupposti ovvero condizioni e modalità di formazione più difficoltose e complesse (aggravate) di quelle in genere prescritte per le leggi del medesimo tipo”. Leggi rinforzate possono essere sia di rango costituzionale, sia ordinario, sia regionale. L’art. 132, co. 1 Cost. appartiene a questa categoria perché “non si accontenta di una legge costituzionale qualsiasi, ma esige la richiesta di un determinato quorum di consigli comunali, l’approvazione della richiesta stessa con referendum popolare ed infine il parere dei consigli regionali interessati”192. La chiave di volta di questa definizione sta nel fatto che le leggi rinforzate “richiedono particolari presupposti ovvero condizioni e modalità di formazione più difficoltose e complesse (aggravate) di quelle in genere prescritte per le leggi del medesimo tipo”, ergo richiedono un procedimento “superaggravato”. Secondo alcuna dottrina (Cicconetti193) il procedimento di formazione delle leggi costituzionali previsto dall’art. 138 Cost. subisce un aggravamento dal punto di vista procedurale rispetto al procedimento legislativo “ordinario” e quindi viene detto “aggravato”. Tale procedimento aggravato viene, in determinate ipotesi, ancor più aggravato dal punto di vista procedurale e quindi è stato definito “superaggravato”. Tale superaggravamento è riscontrabile nell’ipotesi di cui all’art. 132, co. 1 191 Cfr. V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II, Padova, 1993, pp. 239 ss. 192 Cfr. V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II, Padova, 1993, pp. 239 ss. 193 Cfr. S. M. CICCONETTI, La revisione della Costituzione, Padova, 1972, p. 188. 200 Cost. per gli stessi motivi ravvisati dall’Autore precedentemente esaminato (Crisafulli). Parte della dottrina194 ritiene che la legge costituzionale rinforzata non avrebbe alcuna conseguenza sull’efficacia formale dell’atto, ossia su quella particolare efficacia attiva e passiva che deriva dalla forma dell’atto, e perciò non si tradurrebbe in una superiorità gerarchica della legge costituzionale di variazione territoriale rispetto alla legge costituzionale ordinaria: il criterio di sistemazione della legge rinforzata all’interno delle fonti non è la gerarchia, bensì la competenza. La separazione rispetto alle leggi costituzionali ordinarie non è in verticale (gerarchia) ma in orizzontale (competenza). Se non si accettasse questa tesi, si potrebbe giungere al paradosso di ritenere che “una legge costituzionale che stabilisca la fusione tra due regioni dovrebbe dirsi superiore all’art. 132 che tale facoltà le conferisce, così come, ancor più paradossalmente, le leggi di revisione della Costituzione, ed in genere le leggi costituzionali, dovrebbero dirsi superiori alla stessa Costituzione perché essa venne approvata secondo un procedimento meno complesso di quello previsto dall’art. 138”195. A ciò si aggiunge un altro rilievo e cioè che una legge di variazione territoriale “che non assuma 194 le forme ed i contenuti Cfr. G. ZAGREBELSKY, Manuale di diritto costituzionale, vol. I, Torino, 1987, p. 64; L. PALADIN, Lezioni di diritto costituzionale, Padova, 1989, p. 163; S. M. CICCONETTI, La revisione della Costituzione, Padova, 1972, pp. 191 ss. 195 Cfr. S. M. CICCONETTI, La revisione della Costituzione, Padova, 1972, pp. 191 ss. 201 costituzionalmente prescritti è invalida per contrasto con la costituzione (…) essa è invalida (…) perché viola la costituzione”196. La constatazione che una legge costituzionale ordinaria non possa modificare una legge costituzionale rinforzata nulla prova circa l’inferiorità della prima e la superiorità della seconda, ma solo che le materie di competenza sono diverse e che è impossibile che una data materia venga disciplinata da leggi costituzionali approvate senza rispettare gli aggravamenti procedurali previsti, perché ciò sarebbe costituzionalmente illegittimo. Le leggi rinforzate sono sullo stesso piano gerarchico delle altre leggi costituzionali ed il limite che queste ultime incontrano deriva da una specifica riserva di competenza stabilita dall’art. 132, co. 1 Cost. Altri Autori197 sostengono che l’art. 131 Cost. sia dotato, in dipendenza delle previsioni dell’art. 132, co. 1 Cost., di una forza passiva potenziata, rispetto a quella delle norme costituzionali ordinarie, e che sia anch’esso una legge costituzionale rinforzata. Ora, l’art. 131 Cost. non è sottratto a revisione, ma piuttosto è soggetto ad una revisione doppiamente condizionata nel senso che la legge relativa, da una parte è tenuta a seguire il procedimento superaggravato previsto dall’art. 132, co. 1 Cost., dall’altra deve assumere come contenuto quello predeterminato dalla consultazione referendaria. Il rispetto della deliberazione referendaria è conseguenza del principio dell’autodeterminazione popolare per l’identificazione del territorio e della comunità regionale, che si fonda sull’art. 5 Cost. 196 Cfr. G. ZAGREBELSKY, Manuale di diritto costituzionale, vol. I, Torino, 1987, p. 64. 197 Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. II, Padova, 1991, p. 114; V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II, Padova, 1993, p. 240. 202 L’art. 132, co. 1 Cost. è una norma speciale di revisione che si conforma al rispetto di detto principio, apparendo perciò munito di una superiore resistenza all’abrogazione e gerarchicamente sovraordinato rispetto alle altre norme costituzionali; di conseguenza anche l’art. 131 Cost. è dotato di una maggiore forza passiva ed è gerarchicamente sovraordinato. Per questo motivo, come riferisce recente dottrina (Mainardis198) l’art. 132, co. 1 Cost. potrebbe essere derogato attraverso un doppio procedimento di revisione costituzionale, cioè con due leggi costituzionali: la prima andrebbe ad incidere sui limiti sostanziali e procedurali imposti dall’art. 132, co. 1 Cost.; la seconda andrebbe invece a modificare l’elenco delle Regioni quale risulta dall’art. 131 Cost. Autorevole dottrina (Pedrazza Gorlero), pur concordando con questa visione dell’art. 132, co. 1 Cost., fa un’ulteriore considerazione, sostenendo che la categoria concettuale in esame è strutturata in modo da consentire la revisione dell’art. 131 Cost. ed allo stesso tempo da concretizzare il principio dell’autodeterminazione popolare, sottratto a revisione; questi elementi configurano la fattispecie in esame come una variante della forma tipica (o una forma specializzata della stessa fonte). Dal punto di vista procedimentale, l’aggravamento rispetto al procedimento ordinario non è una semplice variante, ma piuttosto un procedimento di legislazione costituzionale “differenziato”. Dal punto di vista del contenuto invece si tratta di un atto complesso eguale, dove la fattispecie complessa dell’atto normativo è il risultato dell’identificazione referendaria della 198 Si veda: C. MAINARDIS, commento all’art. 132 della Costituzione italiana in Commentario breve alla Costituzione, a cura di BARTOLE S., BIN R., Padova, 2008, p. 1142. 203 comunità regionale sommata alla deliberazione legislativa di istituirla in Regione. All’interno dell’atto complesso vi sono quindi differenti volontà: - una referendaria, cui corrisponde la funzione costituzionale di dar voce all’autodeterminazione popolare; - una legislativa, cui corrisponde il compito di istituire l’ente-regione, in rapporto anche agli interessi generali nazionali. In sostanza il procedimento costituzionale di variazione territoriale costituisce uno sviluppo “strumentale” di tale principio: il referendum identifica un gruppo territoriale come comunità regionale, mentre la legge costituzionale, istituendola come Regione, le fa assumere la forma organizzativa idonea alla sua espressione. La legge costituzionale di variazione territoriale palesa qualche difficoltà ad inquadrarsi all’interno di una forma specializzata della stessa fonte perché i caratteri “comunitari” della legge, l’essere cioè deliberata congiuntamente da una comunità territoriale e dal Parlamento, determinano una “particolare qualità”199 di essa a livello costituzionale. Dopo aver analizzato queste autorevoli tesi dottrinarie è possibile esprimere un giudizio sulla legge costituzionale di variazione territoriale. In merito alle tesi che ritengono la legge in questione gerarchicamente sovraordinata rispetto alle leggi costituzionali ordinarie, si deve dare parere contrario: essa è certamente rinforzata sul lato passivo, ma ciò deriva solamente da un diverso procedimento formativo, che non 199 Così la definisce in modo molto appropriato Pedrazza Gorlero; vedi: M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. II, Padova, 1991, pp. 120-121. 204 giustifica una sovraordinazione gerarchica, pericolosa, perché sovvertirebbe il sistema delle fonti. È pienamente condivisibile l’interpretazione di autorevole dottrina (Pedrazza Gorlero) che considera l’ipotesi legislativa in questione un atto qualitativamente particolare. La particolarità è data dalla deliberazione congiunta da parte di una comunità territoriale e del Parlamento, perciò, avendo sostenuto che il referendum territoriale sia deliberativo200, non è possibile non concordare con questa tesi, che considera determinante la volontà del corpo elettorale. 4.4.2- Qualificazione giuridica e collocazione sistematica della legge ordinaria di variazione territoriale Molte delle considerazioni fatte nel paragrafo precedente valgono anche per l’ipotesi di cui al capoverso dell’art. 132 Cost., in particolare per quanto riguarda la morfologia del procedimento legislativo e la natura di atto complesso eguale rivestito dalla legge di variazione territoriale. Più attenuato appare invece il carattere di legge “comunitaria” in quanto la comunità territoriale che chiede di abbandonare un’identità regionale per espanderne un’altra, lo fa ritenendo di partecipare già di quest’ultima e ricerca quindi una più adeguata forma espressiva della propria autonomia. Correlativamente, il giudizio del Parlamento avrà margini più ampi perché dovrà considerare anche gli interessi della Regione a cui si chiede l’aggregazione. 200 Si veda Capitolo III, pp. 157 ss. 205 Anche la legge ordinaria può essere rinforzata201. La collocazione di queste leggi nel sistema delle fonti appare più semplice rispetto all’ipotesi di cui sopra in quanto viene a mancare il dibattito sulla legge di revisione costituzionale ex art. 138 Cost. e le altre leggi di revisione costituzionale poiché la legge ordinaria non può rientrare nelle norme sottratte al procedimento di revisione costituzionale ordinario. Per quanto riguarda la qualificazione giuridica delle leggi ordinarie di variazione territoriale, la letteratura in argomento le ha considerate anch’esse come leggi rinforzate202, altri invece le hanno considerate come fonti atipiche. Il concetto di fonte atipica non è unanimemente definito in dottrina. Alcuni203 ritengono che l’atipicità sia la generica non corrispondenza alla forma-efficacia dell’atto normativo tipico, ed allora atipici si possono considerare tutti gli atti normativi che non ne rivestono la forma o l’efficacia tipica. Inteso in questo senso il carattere dell’atipicità, le leggi rinforzate sono leggi atipiche. Altri204 invece ritengono che l’atipicità sia intesa come scissione tra forma ed efficacia di un atto normativo: atti della stessa forma hanno efficacia differente da quella tipica. In questo senso le leggi di variazione territoriale sono provvedimenti dotati di un’efficacia 201 Si veda Capitolo III, paragrafo 11; G. QUADRI, La forza di legge, Milano, 1979, p. 108; V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II, Padova, 1993, p. 239. 202 Cfr. G. QUADRI, La forza di legge, Milano, 1979, p. 108; G. ZAGREBELSKY, Manuale di diritto costituzionale, vol. I, Torino, 1987, p. 64; V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II, Padova, 1993, p. 239. 203 Cfr. G. ZAGREBELSKY, Manuale di diritto costituzionale, vol. I, Torino, 1987, p. 64. 204 Cfr. A. LA PERGOLA, Costituzione e adattamento dell’ordinamento interno al diritto internazionale, Milano, 1961, pp. 275 ss. 206 superiore rispetto al provvedimento tipico, ma formalmente identificate solo da una variante procedimentale e perciò sono da considerarsi fonti tipiche. Secondo altri205 ancora, la legge rinforzata dev’essere considerata una legge atipica, distinguendosi all’interno della categoria per avere l’atipicità (scissione tra forma ed efficacia) un indice formale nella variante procedimentale. La linea interpretativa da seguire è quella proposta da Crisafulli e da Zagrebelsky che considerano la legge di cui all’art. 132, co. 2 Cost. atipica in quanto la sua forma è aggravata rispetto al procedimento legislativo ordinario. Definito il carattere di atipicità della legge ordinaria di variazione territoriale, si vede ora quale influenza questo abbia nella collocazione sistematica di tale legge. Da una parte pare forzato negare ogni influenza della legge ordinaria di variazione territoriale sulla gerarchia delle fonti, dall’altra sembra eccessivo identificarvi un segno della dilatazione dei gradi gerarchici e dei tipi normativi, posto che la maggiore forza passiva della legge è propria in realtà della norma costituzionale che ne prevede i limiti di forma e di contenuto. La soluzione preferibile, per dirla alla Pedrazza Gorlero, è quella di considerare la legge ordinaria di variazione territoriale una forma specializzata della medesima fonte206 in quanto la legge “concreta due aspetti speciali della gerarchia, uno formale, consistente nell’alterazione del procedimento tipico, ed uno sostanziale, 205 Cfr. V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II, Padova, 1993, p. 195. 206 Si veda Capitolo III, pp. 203 ss. 207 rappresentato dal dover essere il suo contenuto conforme alla deliberazione referendaria” 207. 4.5- La forma della legge per l’aggregazione ad una Regione a Statuto speciale L’aspetto formale-procedurale su cui ora ci si sofferma è stato messo in luce dalla recente sentenza n. 66/2007 della Corte Costituzionale208: la legge ordinaria di modificazione di cui al capoverso dell’art. 132 Cost. vale anche nel caso di modificazioni del territorio di Regioni speciali o, al contrario, in tali casi occorre una legge costituzionale?209 Bisogna innanzitutto dire che il dictum della Consulta non esaurisce tutte le questioni formali che si pongono nel caso di un’aggregazione ad una Regione speciale, perché ciò non era nel petitum del ricorrente. La decisione ha invece il merito di aver messo in luce una questione su cui si è espressa proficuamente la dottrina210. Secondo la Consulta, la circostanza che nei procedimenti di cui all’art. 132, co. 2 Cost. sia coinvolta anche una Regione ad autonomia 207 Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. II, Padova, 1991, p. 124. 208 Sentenza della Corte Costituzionale 9 marzo 2007 n. 66 in Giurisprudenza costituzionale, Milano, 2007. 209 Si veda Capitolo III, pp. 135 ss. 210 Cfr. G. D’ORAZIO, In tema di variazioni del territorio regionale in Scritti in onore di Costantino Mortati, Milano, 1977, pp. 684 ss.; A. D’ATENA, Profili procedurali della migrazione dei Comuni nei territori delle regionali speciali in Giurisprudenza costituzionale, Milano, 2007, pp. 659 ss.; M. MALO, Forma e sostanza in tema di variazioni territoriali regionali (a margine della pronuncia 66/2007 della Corte Costituzionale) in Le Regioni, n. 3-2007, pp. 641 ss.; M. BARBERO, Enti locali “in fuga”: questioni di forma e sostanza, 2007, www.federalismi.it; D. TRABUCCO, Il problema della costituzionalizzazione del territorio delle Regioni a Statuto speciale, 2008, www.forumcostituzionale.it. 208 differenziata non varrebbe a giustificare deroghe alla disciplina generale e non sarebbe dunque richiesto il ricorso al procedimento di revisione dello Statuto speciale. La maggiore difficoltà che si oppone a tale soluzione è costituita dalla presenza, negli Statuti costituzionali, di norme rivolte ad identificare i territori delle rispettive Regioni211: potrebbe quanto meno apparire dubbio che una disciplina di rango costituzionale (qual è la disciplina statuaria speciale) possa essere validamente modificata mediante un procedimento, il quale, sebbene sia aggravato, culmina in un atto legislativo ordinario. La questione ha origine dal fatto che si ritiene che il territorio delle Regioni differenziate sia stato costituzionalizzato mentre quello delle Regioni ordinarie non lo sia stato. Ma è proprio così? Le Regioni a Statuto speciale versano in una condizione qualitativamente differenziata per quanto concerne le variazioni territoriali rispetto alle Regioni ordinarie, tali da richiedere degli aggiustamenti del procedimento contemplato nell’art. 132, co. 2 Cost.? La dottrina non è concorde. Vi è chi212 ritiene che la forma legislativa ordinaria debba necessariamente coordinarsi, in via sistematica, con le disposizioni statutarie, adottate con legge costituzionale ex art. 116 Cost.; da tale coordinamento deriva che la legge statale ordinaria non è idonea ad operare l’aggregazione ad una Regione speciale di un ente minore che si distacchi da una Regione ordinaria, occorrendo una modificazione aggiuntiva dello Statuto speciale: ciò perché la tutela costituzionale investe il territorio della 211 Sul punto si veda: Statuto Valle d’Aosta, art. 1, co. 2; Statuto Trentino-Alto Adige, art. 1, co. 1; Statuto Friuli-Venezia Giulia, art. 2, co. 1; Statuto Sicilia, art. 1; Statuto Sardegna, art. 1. 212 Cfr. G. D’ORAZIO, In tema di variazioni del territorio regionale in Scritti in onore di Costantino Mortati, Milano, 1977, pp. 684 ss. 209 Regione speciale non soltanto globalmente e complessivamente considerato, ma, necessariamente, anche nelle sue singole parti costitutive, in quanto ricompreso nel territorio degli enti locali espressamente indicati. L’inclusione dell’ente nell’elencazione contenuta nello Statuto di una Regione speciale non può essere validamente disposta se non con legge costituzionale (costituzionalizzazione del territorio dell’ente minore). Astrattamente si potrebbe prospettare la piena autonomia dei due momenti, il distacco-aggregazione da un lato, la revisione statutaria dall’altro, ed ipotizzare che le legge ordinaria possa limitarsi a disporre solamente l’aggregazione territoriale dell’ente minore ad una Regione speciale e non anche, contestualmente, non potendolo, la modificazione statutaria. Ciò comporta che il territorio aggregato resti privo di quella garanzia costituzionale che è concessa agli altri enti minori, statutariamente elencati, della stessa Regione speciale aggregante, conservando esso, invece, uno status giuridico diverso, di differenziata tutela, alla stessa stregua dei territori delle Regioni ordinarie. La mancata previsione nella Costituzione, però, di status territoriali graduali e differenziati, oltre la fondamentale distinzione tra territorio delle Regioni speciali e quello delle Regioni ordinarie, nonché l’esigenza dell’omogeneità di trattamento e di tutela nell’ambito di ciascuna delle due categorie, escludono che possa seriamente accogliersi l’ipotesi di una mera aggregazione di un ente minore ad una Regione speciale senza conseguente assimilazione della sua condizione giuridica a quella del restante territorio della stessa Regione. La decisione di effettuare la variazione con legge ordinaria, cui succedessero distinte leggi costituzionali di revisione dello Statuto, 210 sembra essere, pertanto, illegittima213. La forma dell’atto che dispone il distacco-aggregazione e la modifica statutaria dev’essere adeguata alla maggiore potenzialità che ad esso si richiede per produrre validamente anche il secondo effetto: è necessaria, in sostanza, una legge costituzionale. Parte della dottrina più recente214 è allineata a queste posizioni sostenendo che vi siano dei vincoli costituzionali speciali che impongono l’uso della legge costituzionale, anziché della legge ordinaria, per sancire determinate variazioni territoriali. Di conseguenza la norma attuativa (art. 45 co. 4 della l. 352/1970) resta implicitamente derogata di fronte alla particolare esigenza costituzionale. Altra parte215 invece non crede che debba farsi alcuna distinzione tra il territorio delle Regioni ordinarie e quello delle Regioni speciali, in quanto ritiene che: “anche l’originaria estensione territoriale delle Regioni ordinarie sia stata, molto verosimilmente costituzionalizzata. È in particolare, da presumere che, quando l’art. 131 enumera le Regioni, esso non elenchi una serie di nomi senza contenuto (non evochi cioè delle entità prive di uno specifico substrato spaziale), ma faccia riferimento a realtà territoriali, definite (e distinte) – com’è proprio delle entità di questa natura – dai rispettivi confini geografici”. Si continua dicendo che: “in tanto ha senso parlare di variazioni territoriali delle Regioni e disciplinarne il 213 Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le Regioni, le Province, i Comuni in Commentario della Costituzione, tomo III, Bologna-Roma, 1990, nota 24, p. 144. 214 Cfr. M. MALO, Forma e sostanza in tema di variazioni territoriali regionali (a margine della pronuncia 66/2007 della Corte Costituzionale) in Le Regioni, n. 3-2007, Bologna, p. 644. 215 Cfr. A. D’ATENA, Profili procedurali della migrazione dei Comuni nei territori delle regionali speciali in Giurisprudenza costituzionale, Milano, 2007, p. 661. 211 procedimento, in quanto si muova dall’assunto che a ciascuno degli enti elencati nell’art. 131 corrisponda un’estensione spaziale: suscettibile, appunto, di essere variata, con la procedura appositamente prevista”. Si noti poi un dato letterale: nell’elenco di cui all’art. 131 figurano anche le Regioni ad autonomia speciale e da tale dato dovrebbe desumersi che la norma individui l’estensione territoriale anche di queste. Ne deriva che le disposizioni statutarie speciali volte ad identificare i territori delle rispettive Regioni non hanno valore costitutivo, ma meramente ricognitivo216. Date queste premesse risulta che le disposizioni delle Regioni a Statuto speciale non si differenziano in alcun modo dalle corrispondenti disposizioni statutarie ordinarie e che quindi la costituzionalizzazione del rispettivo territorio non sia prerogativa esclusiva delle Regioni differenziate, ma una condizione da esse condivisa con le Regioni ordinarie. Viene a cadere pertanto l’esigenza che le prime siano escluse dalla regola di cui al capoverso dell’art. 132 Cost. che sarà quindi applicabile sia alle Regioni ordinarie che a quelle dotate di autonomia speciale, come ha previsto la sentenza n. 66/2007 della Corte Costituzionale. Sentenziato che l’utilizzo della legge ordinaria è legittimo anche nel caso di aggregazione al territorio delle Regioni ad autonomia differenziata, è possibile comunque avviare il procedimento legislativo costituzionale di revisione statutaria. La soluzione interpretativa da seguire è quella della combinazione tra il procedimento di cui al capoverso dell’art. 132 ed il procedimento di 216 In questo senso è anche: M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. II, Padova, 1991, p. 33. 212 revisione statutaria: per la modificazione del territorio regionale speciale ex art. 132, co. 2 è sufficiente la legge statale ordinaria, ma, come sostiene giustamente la più recente dottrina (Trabucco), “nulla impedisce allo Stato, poi, per conformare l’equilibrio etnico-politicorappresentativo al nuovo assetto territoriale delle Regioni speciali, quale delineato dal risultato favorevole dei referendum accrescitivi, di avviare l’iter di revisione statutaria per l’adeguamento e l’adattabilità della Regione allo stesso”217. In senso contrario a tale soluzione interpretativa non potrebbe invocarsi la mancanza di una previsione normativa della sequenza procedurale di cui si farebbe uso: da un lato infatti la legge sul referendum non fa oggetto di specifica e differenziata disciplina per il distacco dei Comuni da una Regione ordinaria ad una Regione speciale; dall’altro, pur contemplando espressamente l’iniziativa legislativa costituzionale, la riferisce, come si può ricavare dal contesto, solamente al primo comma dell’art. 132 Cost. Sulla stessa linea è anche altra recente dottrina (Motroni218): essa sostiene la tesi di D’Atena, ma individua anche delle argomentazioni nuove che paiono convincenti. Il problema sta tutto nel coordinare il principio di competenza (inteso come “riserva” a favore delle disposizioni degli Statuti speciali rispetto alla norma contenuta nell’art. 132, co. 2 Cost.) con il criterio gerarchico (il principio di competenza si può applicare solamente tra norme pariordinate). Il criterio gerarchico è applicabile se esistono norme, 217 Cfr. D. TRABUCCO, Il problema della costituzionalizzazione del territorio delle Regioni a Statuto speciale, 2008, www.forumcostituzionale.it. 218 Cfr. M. MOTRONI, La migrazione dei Comuni di frontiera verso le Regioni a statuto speciale: la problematica scelta della fonte idonea a produrre l’effetto di variazione territoriale, www.federalismi.it, 2008, pp. 13 ss. 213 all’interno degli Statuti speciali, che siano idonee ad operare sotto la copertura della clausola competenziale contenuta nell’art. 116, co. 1 Cost., come norme attributive di “forme e condizioni particolari di autonomia ”: solo in questo modo le disposizioni statutarie possono derogare alle norme generali contenute nel disposto di cui all’art. 132, co. 2 Cost. Dall’analisi delle singole norme statutarie219 dalle quali si vorrebbe ricavare l’effetto derogatorio (in quanto avrebbero costituzionalizzato il territorio delle Regioni a Statuto speciale) emerge invece che esse si limitano a rinviare a criteri di delimitazione dei territori già fissati nella legislazione ordinaria: queste disposizioni presuppongono l’esistenza di fonti statali che hanno determinato i confini già esistenti e ciò impedisce la loro capacità derogatoria rispetto alla disposizione contenuta nell’art. 132, co. 2 Cost., con la conseguente impossibilità di farne discendere un effetto di costituzionalizzazione dei rispettivi territori. Si tratta di norme meramente descrittive e pertanto le disposizioni statutarie in questione non possono godere della copertura costituzionale accordata dall’art. 116, co. 1 Cost. e, di conseguenza, non sono capaci di privare la norma contenuta nel secondo capoverso dell’art. 132 della competenza che le è propria in via generale. In sostanza la norma di cui all’art. 132, co. 2 Cost. si applica anche alle Regioni a Statuto speciale in quanto il loro territorio non è stato costituzionalizzato. Altra soluzione possibile è quella individuata dal Governo, nell’approntare i disegni di legge costituzionale, a seguito dei recenti esiti referendari favorevoli all’aggregazione di Comuni ad una 219 Cfr.: Statuto della Valle d’Aosta, art. 1, co. 2; Statuto del Trentino-Alto Adige, art. 3; Statuto del Friuli-Venezia Giulia, art. 2; Statuto della Sicilia, art. 1; Statuto della Sardegna, art. 1. 214 Regione speciale220. L’Esecutivo ha precisato che, pur essendo prevista la presentazione alle Camere del disegno di legge ordinaria che sancisce il distacco-aggregazione (in base all’art. 45, co. 4 della l. 352/1970), trattandosi di una variazione che andrebbe ad incidere nel territorio di una Regione ad autonomia differenziata, è apparso imprescindibile procedere mediante lo strumento della legge costituzionale, quale fonte di diritto pariordinata a quella che definisce l’autonomia speciale221. In merito a questa soluzione, la dottrina (D’Atena) rileva giustamente che essa “benché corretta, non sembra costituire una soluzione obbligata (o costituzionalmente necessitata)”222. Concludendo, la soluzione interpretativa evidenziata da D’Atena e Trabucco pare essere la più adeguata in quanto concilia la lettera costituzionale (ribadita oltretutto dalla sentenza 66/2007) con l’esigenza di procedere con legge costituzionale alla revisione dello Statuto speciale e pertanto, anche se in astratto la mancanza di una 220 I disegni di legge costituzionale presentati dal Governo alla Camera dei deputati nel corso della legislatura appena passata (XV) sono i seguenti: atto Camera n. 1427 del 20 luglio 2006 (distacco del comune di Lamon dalla Regione Veneto e sua aggregazione alla Regione Trentino-Alto Adige, ai sensi dell’art. 132, co. 2 Cost.); atto Camera n. 2524 del 17 aprile 2007 (distacco del Comune di Sovramonte dalla Regione Veneto e sua aggregazione alla Regione Trentino-Alto Adige, ai sensi dell’art. 132, co. 2 Cost.); atto Camera n. 2525 del 17 aprile 2007 (distacco del Comune di Noasca dalla Regione Piemonte e sua aggregazione alla Regione Valle d’Aosta, ai sensi dell’art. 132, co. 2 Cost.); atto Camera n. 2526 del 17 aprile 2007 (distacco del Comune di Cinto Caomaggiore dalla Regione Veneto e sua aggregazione alla Regione Trentino-Alto Adige, ai sensi dell’art. 132, co. 2 Cost.); atto Camera n. 2727 del 4 giugno 2007 (distacco del Comune di Carema dalla Regione Piemonte e sua aggregazione alla Regione Valle d’Aosta, ai sensi dell’art. 132, co. 2 Cost.). 221 Cfr. M. MALO, Forma e sostanza in tema di variazioni territoriali regionali (a margine della pronuncia 66/2007 della Corte Costituzionale) in Le Regioni, n. 3-2007, pp. 644 ss. 222 Cfr. A. D’ATENA, Profili procedurali della migrazione dei Comuni nei territori delle regionali speciali in Giurisprudenza costituzionale, Milano, 2007, p. 661. 215 previa disciplina del procedimento da seguire nei casi particolari evidenziati potrebbe essere vista come lesiva del principio di legalità, “tuttavia, la forma costituzionale dell’atto finale sembra idonea a compensare tale carenza”223. Sempre in merito all’argomento di questo paragrafo, è poi opportuno trattare il caso del procedimento di aggregazione alla Provincia di Bolzano. La speciale autonomia della Provincia altoatesina deriva dall’accordo concluso a Parigi il 5 settembre 1946 tra l’Italia e l’Austria (noto come accordo De Gasperi-Gruber), in cui si stabiliva che il nostro Paese avesse sovranità territoriale sull’Alto Adige, ma prevedendo una particolare forma di autonomia per la comunità altoatesina: l’art. 2 dell’accordo prevedeva la concessione di un potere legislativo ed esecutivo autonomo alle popolazioni della Provincia, da esercitarsi nell’ambito di essa. Qualsiasi modificazione del territorio della Provincia di Bolzano potrebbe pertanto configurare una grave violazione dell’accordo di Parigi in quanto esso, assicurando l’autonomia all’area abitata dalle popolazioni altoatesine, vieterebbe indirettamente la dilatazione o la riduzione dell’area territoriale in questione, dotata di speciale autonomia224. L’accordo di Parigi sembra quindi assumere una forza precettiva del tutto peculiare destinata a fondersi con il principio di tutela delle minoranze, sancito dall’art. 6 Cost.: laddove l’autonomia è finalizzata alla tutela delle minoranze linguistiche, il mutamento dei confini e l’innesto di popolazioni appartenenti alla maggioranza nazionale comporta come 223 Cfr. A. D’ATENA, Profili procedurali della migrazione dei Comuni nei territori delle regionali speciali in Giurisprudenza costituzionale, Milano, 2007, p. 661. 224 In questo senso si veda: A. PIZZORUSSO, Le minoranze nel diritto pubblico interno, Milano, 1967, p. 473. 216 conseguenza una diluizione della rappresentatività delle etnie interessate e quindi incide sulla vera e propria ragion d’essere dell’autonomia speciale stessa225. Si ricordi inoltre che l’accordo ha preceduto l’entrata in vigore della Costituzione e che quindi l’Assemblea Costituente si è trovata di fronte ad una scelta già compiuta in merito alla questione altoatesina. La dottrina sostiene che per i procedimenti di aggregazione alla Provincia di Bolzano sia necessario procedere attraverso la forma del negoziato sul piano internazionale, al fine di evitare ricadute per l’Italia per quanto riguarda il mancato rispetto degli obblighi internazionali226. CAPITOLO IV I PROCEDIMENTI DI VARIAZIONE TERRITORIALE DELLE REGIONI IN CORSO SOMMARIO: 1. Le variazioni territoriali delle Regioni dal 1948 ad oggi. – 2. I procedimenti di distacco-aggregazione in corso. – 2.1. Dal Veneto al Friuli-Venezia Giulia: il caso dei Comuni del Portogruarese. – 2.2. Dal Veneto al Trentino-Alto Adige: il caso dei Comuni bellunesi e vicentini. In particolare: il referendum cumulativo e la contiguità territoriale. – 2.3 Dal Piemonte alla Valle d’Aosta: il caso dei Comuni delle Valli Orco e Soana. – 2.4. Dalle Marche all’Emilia-Romagna: il caso dei Comuni della Valmarecchia e della Val Conca. – 2.5. Dalla Campania alla Puglia: il caso di Savignano Irpino. – 3. Motivazioni sostanziali sottese ai procedimenti di distacco-aggregazione sinora avviati. 225 In questo senso si veda anche C. FRAENKEL-HAEBERLE, La “secessione” dei Comuni: una chimera o una via percorribile?, www.federalismi.it, 2008, p. 5. 226 Cfr. M. MOTRONI, La migrazione dei Comuni di frontiera verso le Regioni a statuto speciale: la problematica scelta della fonte idonea a produrre l’effetto di variazione territoriale, www.federalismi.it, 2008, p. 18. 217 1. Le variazioni territoriali delle Regioni dal 1948 ad oggi Nel Capitolo I si è visto che le Regioni ed i relativi procedimenti di modificazione del territorio sono stati introdotti dalla Costituzione repubblicana del 1948227. Si deve dire che l’istituzione dell’ente-regione fu avversato da più parti durante il dibattito in Assemblea Costituente e che la norma che sarebbe poi divenuta l’art. 132 Cost. fu vista con ancor più disfavore da alcune parti politiche che, titolari del potere centrale, temevano di perderlo a livello regionale se si fossero verificate delle modifiche consistenti alla ripartizione territoriale delle Regioni come pensata ed istituita dal potere centrale. È questa una delle spiegazioni profonde dei motivi per cui il procedimento di variazione territoriale delle Regioni fu previsto come “superaggravato”228, per un’esigenza certamente di garanzia, ma anche per renderne molto difficile se non pressoché impossibile la sua attivazione, in modo da lasciare la ripartizione territoriale attuata dal Costituente immutata. Nessuno dei procedimenti di variazione territoriale della Regione previsti dalla Costituzione ha avuto finora229 completa attuazione, anche se è necessario fare una distinzione. Per quanto riguarda il primo comma dell’art. 132 Cost., esso non ha mai nemmeno iniziato l’iter procedurale. L’unica istituzione di una nuova Regione dal 1948 ad oggi è stata quella del Molise 227 Si veda Capitolo I, p. 5. Si veda Capitolo III, p. 200. 229 Settembre 2008. 228 218 avvenuta con la legge costituzionale 27 dicembre 1963, n. 3, durante il periodo di vigenza dell’art. XI delle disposizioni di attuazione della Costituzione, che prevedeva la creazione di nuove Regioni con un procedimento molto meno aggravato di quello previsto dalla norma costituzionale: l’unico onere aggiuntivo previsto per l’iter procedurale costituzionale era quello di sentire le popolazioni interessate. L’art. 132, co. 2 Cost. è invece rimasto per molti anni inattivato, e ciò ha determinato che la letteratura dottrinale in merito si sia posta soltanto problemi di coordinamento con altre norme giuridiche (si veda per esempio la legislazione di attuazione del referendum), mancando sull’argomento decisioni giurisprudenziali che fomentassero il dibattito dottrinale. La situazione è però mutata negli ultimi anni quando un buon numero di Comuni ha avviato il procedimento previsto per l’ipotesi di distacco-aggregazione. 2- I procedimenti di distacco-aggregazione in corso Nel maggio 2005 il Comune di S. Michele al Tagliamento ha celebrato il referendum per deliberare la proposta di distacco dalla Regione Veneto e la sua aggregazione al Friuli-Venezia Giulia; in un primo momento la cosa è sembrata nient’altro che una provocazione, peraltro neppure ben riuscita, considerato il fallimento della consultazione referendaria. Di lì a poco però (ottobre 2005) gli abitanti di un altro Comune veneto, Lamon, hanno approvato a larga maggioranza la proposta referendaria di aggregare il loro Comune al Trentino-Alto Adige, completando la prima fase dell’iter procedurale in questione. Da allora numerosi Comuni hanno avviato il procedimento per cambiare Regione e la questione ha iniziato ad avere un certo peso anche a livello centrale, tanto che il Governo ha 219 predisposto un disegno di legge costituzionale per la modifica del capoverso dell’art. 132, avente come obiettivo l’appesantimento della procedura per il distacco degli enti locali da una Regione ad un’altra. Verranno ora esaminati i singoli casi di variazione territoriale che sono stati ufficialmente avviati nell’arco dell’ultimo triennio, esprimendo una valutazione procedurale e sostanziale. Prima d’iniziare quest’esame, è doveroso ricordare che le prime timide iniziative in materia sono da ricondursi agli inizi degli anni Novanta, e precisamente: - nel 1990, quando era stata attivata iniziativa ufficiale al fine di aggregare alla Regione Molise il Comune di Chieuti, ricompreso nella Regione Puglia, naufragata perché non erano state presentate le deliberazioni “di appoggio”230 alla richiesta di consultazione referendaria (cioè non era stato rispettato il requisito previsto nell’art. 42, co. 2 della l. 352/1970 che esigeva anche il deposito delle deliberazioni di una parte dei Comuni della Regione da cui avviene il distacco e di parte di quelli verso cui avviene l’aggregazione; tali deliberazioni sono state poi dichiarate costituzionalmente illegittime dalla sentenza n. 334/2204 della Corte Costituzionale231); di conseguenza l’Ufficio centrale per il referendum ha dovuto dichiarare illegittima la richiesta232; - nel 1993, quando il Comune di Gallo Matese, facente parte della Regione Campania, aveva chiesto di poter effettuare il referendum per 230 Secondo la terminologia usata da: F. RATTO TRABUCCO, L’odissea davanti all’Ufficio Centrale per il referendum delle prime istanze di distaccoaggregazione di un Comune da una Regione ad un’altra, www.comunichecambianoregione.org, 2007, p. 1. 231 Si veda Capitolo III, paragrafo 3.3. 232 Sul punto si veda : Ordinanza 18 giugno 1991 n. 144 dell’Ufficio centrale per il referendum, che dichiarava l’illegittimità della richiesta del Comune di Chieuti. 220 il distacco da suddetta Regione e la successiva aggregazione alla Regione Molise. Anche in questo caso la richiesta era stata respinta da un’ordinanza dell’Ufficio centrale perché mancante delle deliberazioni di appoggio233. Nella medesima ordinanza, a fronte di un intervento ad adiuvandum nel procedimento sulla legittimità del referendum dell’Unione Comuni italiani per cambiare Regione234 e del Comune di Gosaldo (in Provincia di Belluno) per presunto contrasto degli artt. 42 e 43 della l. 352/1970 con l’art. 132 Cost., l’Ufficio centrale per il referendum aveva affermato di non poter accogliere l’eccezione; l’Ufficio, con riferimento a sé stesso, aveva sostenuto che: “pur agendo con forme giurisdizionali, dal punto di vista sostanziale non ha natura giurisdizionale”. In precedenza però lo stesso Ufficio centrale aveva più volte dichiarato di essere legittimato a sollevare questioni di legittimità costituzionale” e quindi aveva riconosciuto la propria facoltà d’instaurare il giudizio in via incidentale235. Come si vedrà più volte nel corso della trattazione, è abbastanza tipico dell’Ufficio centrale per il referendum pronunciarsi diversamente su questioni simili, procedendo con una logica del caso per caso. Ciò è determinato anche dalla sua composizione236, dove è frequente il ricambio dei membri, legati all’anzianità nella carica di presidente e 233 Sul punto si veda: Ordinanza 29 marzo 1994 n. 75 dell’Ufficio centrale per il referendum, che dichiarava l’illegittimità della richiesta del Comune di Gallo Matese. 234 Si veda Capitolo IV, paragrafo 2.1, in particolare nota n. 241. 235 Si veda ad esempio: ordinanza 25 maggio 1978 dell’Ufficio centrale per il referendum , in Foro italiano , n. 1/1978, pp. 1616 ss. 236 Cfr. F. RATTO TRABUCCO, L’impugnabilità in sede di conflitto di attribuzione delle ordinanze d’illegittimità delle richieste referendarie di variazione territoriale, ex art. 132, co. 2, Cost., per violazione del diritto di autodeterminazione della comunità locale, www.forumcostituzionale.it, 2008, p. 10. 221 consigliere di sezione della Corte di Cassazione: esso è infatti composto dai tre presidenti di sezione della Corte di Cassazione più anziani, nonché dai tre consiglieri più anziani di ciascuna sezione. Il più anziano dei tre presidenti presiede l'Ufficio e gli altri due esercitano le funzioni di vice presidente. Si esamineranno di seguito i più recenti casi in tema di variazioni del territorio regionale ex art. 132, co. 2 Cost. 222 2.1- Dal Veneto al Friuli-Venezia Giulia: il caso dei Comuni del Portogruarese Agli inizi degli anni Novanta, nell’ambito della cosiddetta “questione friulanista”, ha preso vigore il caso di alcuni Comuni, il cosiddetto Mandamento di Portogruaro, situati sulla riva destra del fiume Tagliamento, che delimita fino a Latisana il confine tra la Regione Veneto ed il Friuli-Venezia Giulia. Questi Comuni, a partire dall’epoca napoleonica, per mere ragioni storiche, furono staccati dal Friuli per essere uniti alla Provincia di Venezia237 ed in seguito, in sede costituente, non fu dato adito a quelle istanze che chiedevano la correzione dei confini238. Si ricordi che storicamente il Friuli è sempre stata un’area territoriale del Veneto e che l’istituzione della Regione a Statuto autonomo Friuli-Venezia Giulia è il risultato dell’unione di una parte del Veneto, il Friuli appunto, e di quanto è rimasto sotto la sovranità italiana (dopo il Memorandum d’Intesa con la Jugoslavia siglato a Londra nel 1954) di quella regione conosciuta come Venezia Giulia e Zara239. Con “questione friulanista” s’indica il caso di quei Comuni friulani che, a partire dall’epoca del Costituente, chiedono di 237 Con il Trattato di Campoformio del 1797 si soppresse la Repubblica di Venezia, che fu aggregata all’Austria. Il Cantone di Portogruaro venne staccato dal Friuli ed inserito nel Dipartimento dell’Adriatico, facente capo a Venezia. Le motivazioni che portarono i francesi a compiere tale operazione sono da individuarsi nella volontà di rendere il Dipartimento veneziano meno importante di quelli confinanti, riducendone così l’estensione e la potenza, trasformando l’ex Repubblica Serenissima in una provincia composta solo da costa ed isole, senza alcun retroterra. 238 Si veda: SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti dell’Assemblea Costituente, II Sottocommissione, Discussioni, 18 dicembre 1946, seduta antimeridiana, Roma, p. 756. 239 Si veda Capitolo I, pp. 54 ss. 223 essere riaggregati all’area territoriale a cui sentono di appartenere storicamente. I Comuni del Portogruarese hanno tentato di dare inizio alla procedura di distacco dal Veneto e di aggregazione al Friuli-Venezia Giulia in ragione dell’affinità etnica e culturale con la popolazione friulana. Come si è detto il Friuli era un’area territoriale appartenente storicamente al Veneto, ma con proprie peculiarità: i “secessionisti”240 chiedevano pertanto di potersi riunire a quell’area territoriale che sentivano come più affine sebbene essa fosse andata a costituire una nuova realtà regionale. Nel 1990 si è costituito il “Movimento Provincia di Pordenone Portogruaro” con l’evidente finalità di riunificate i Comuni portogruaresi al Friuli-Venezia Giulia ed in seguito di costituire la Provincia di Pordenone-Portogruaro; ancora prima, nel 1983, il Comune di San Michele al Tagliamento aveva istituito un “Comitato per la friulanità” con il compito di seguire ed istituire tutte le pratiche necessarie per l’aggregazione del Comune al Friuli-Venezia Giulia: questo dimostra come la questione friulanista non si fosse nel tempo mai del tutto sopita. In seguito, nel 1992, è stata costituita l’ “Unione dei Comuni italiani per cambiare Regione”, un’associazione a più ampio spettro, con l’obiettivo di promuovere la semplificazione della procedura di trasferimento di un Comune o di una Provincia da una Regione ad un’altra241. 240 Per usare una termine di C. PAGOTTO, Per promuovere il referendum di passaggio di province e comuni ad altra Regione o Provincia basta il consenso dei “secessionisti”, Corte costituzionale, sent. n. 334/2004, www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2004. 241 L’ “Unione dei Comuni italiani per cambiare regione” è stata costituita il 31 agosto 1992 a Trieste da R. Strumento, Presidente del Movimento Provincia di Pordenone Portogruaro, da G. Camber, parlamentare, e da G. Onagro, Sindaco del Comune di San Michele al Tagliamento. La sede è presso il municipio del Comune di San Michele al Tagliamento. Dell’Unione fanno parte i Comuni di: 224 Malgrado tutte queste iniziative, i comitati locali non sono riusciti ad attivare il procedimento di distacco-aggregazione a causa di quel gravoso onere dettato dalla legge di attuazione del referendum 242 che richiedeva le deliberazioni di appoggio anche di parte dei Comuni della Regione da cui si chiedeva il distacco e di parte di quelli della Regione verso cui si chiedeva l’aggregazione. Così, tra il 1991 ed il 1992, ci si era limitati a realizzare un referendum consultivo autogestito in 8 Comuni del Portogruarese (Annone Veneto, Cinto Caomaggiore, Concordia Sagittaria, Fossalta di Portogruaro, Gruaro, Pramaggiore, San Michele al Tagliamento, Teglio Veneto) avente lo scopo di testare più da vicino la volontà delle popolazioni direttamente interessate alla variazione e, in caso di esito positivo della consultazione, di garantire in un certo qual modo un’ufficialità al risultato raggiunto. Il risultato del referendum era stato ampiamente favorevole alla riunificazione con il Friuli ed il movimento per la questione friulanista ne era uscito rafforzato. In seguito si decise d’intraprendere la difficile strada della modificazione della legge attuattiva del referendum, al fine di adeguarne il contenuto al nuovo testo dell’art. 132, co. 2 Cost. quale risultante dalla riforma del Titolo V della Costituzione del 2001. Nel corso della XIV legislatura243 la Camera dei deputati ha esaminato ben quattro proposte di legge244 Cinto Caomaggiore (VE), Colle Santa Lucia (BL), Gallo Matese (CE), Gosaldo (BL), Livinallongo del Col di Lana (BL), Novafeltria (PU), San Leo (PU), San Michele al Tagliamento (VE). Ad essi si aggiungono il Comune di Varmo (UD), la Provincia di Pordenone, quella di Udine ed una serie di associazioni e comitati in qualità di sostenitori. www.comunichecambianoregione.org. 242 Si veda art. 42, co. 2 della l. 352/1970. 243 La XIV legislatura è iniziata il 30 maggio 2001 e si è conclusa il 27 aprile 2006. 244 Le proposte di legge erano le seguenti: Atto Camera n. 1852 d’iniziativa del deputato Fontanini; Atto Camera n. 2085 d’iniziativa del deputato Foti; Atto 225 volte a modificare la l. 352/1970; il testo unificato di queste proposte di legge245 è stato approvato dalla Camera il 6 marzo 2006 e prevedeva che fosse eliminato l’obbligo delle delibere, specificando che l’area coinvolta nel referendum fosse solamente quella del Comune interessato al passaggio di Regione. Una volta giunto al Senato però, l’iter legislativo è stato bloccato nella Commissione Affari Costituzionali, a causa delle forti pressioni dei senatori veneti che conoscevano le mire dei Comuni del Portogruarese; la Commissione ha licenziato un disegno di legge con un testo ampiamente modificato per l’Assemblea, che, peraltro, non ne ha mai nemmeno iniziato l’esame. Tuttavia, con la pronuncia della Consulta n. 334/2004246, derivante proprio dal ricorso del Comune di San Michele al Tagliamento, situato nel Portogruarese, sono stati rimossi quegli ostacoli presenti nella normativa di attuazione del referendum 247 , semplificando notevolmente la procedura di attivazione della consultazione referendaria e raggiungendo il medesimo scopo che non era stato ottenuto con i disegni di legge appena visti. A seguito di detta pronuncia si è registrata una forte “effervescenza”248 di istanze volte al Camera n. 2357 d’iniziativa del deputato Illy; Atto Camera n. 3275 d’iniziativa del deputato Moretti. 245 Si trattava dell’Atto Camera n. 1852-2085-2357-3275-A, recante “Modifiche alla legge 25 maggio 1970, n. 352, in materia di referendum per il distacco di comuni e province da una Regione e per l’aggregazione ad altra Regione”. Come si può notare il testo era il risultato dell’unificazione della quattro proposte di legge di cui alla nota precedente. 246 Sul punto si veda: Sentenza 28 ottobre 2004 n. 334 della Corte Costituzionale in Giurisprudenza costituzionale n. 6/2004, pp. 3775 ss. 247 Sul punto si vedano le deliberazioni di appoggio prescritte nel testo originario dell’art. 42, co. 2 della l. 352/1970 e dichiarate costituzionalmente illegittime dalla sentenza n. 334/2004. 248 Per usare un termine, che mi pare molto appropriato, di F. RATTO TRABUCCO, Il distacco-aggregazione dei comuni da una Regione all’altra: 226 distacco di Comuni da una Regione ed aggregazione ad un’altra, soprattutto a Statuto speciale. Il Comune di San Michele al Tagliamento è stato il primo in Italia a riuscire ad attivare la procedura di cui all’art. 132, co. 2 Cost. (come si è visto sopra i Comuni di Chieuti e di Gallo Matese non vi riuscirono249); l’attivazione della procedura per chiedere il distacco dal Veneto e la successiva aggregazione al Friuli-Venezia Giulia è stata però tutt’altro che semplice. Con la deliberazione consiliare del 2 ottobre 2002, n. 53, il Comune di San Michele al Tagliamento aveva chiesto di poter effettuare il referendum per il distacco dalla Regione Veneto e l’aggregazione alla Regione Friuli-Venezia Giulia, sollevando contemporaneamente la questione di legittimità costituzionale in merito alle norme della l. 352/1970 che prevedevano le deliberazioni di appoggio. L’Ufficio centrale per il referendum, chiamato a pronunciarsi in merito a quest’ultima questione, con l’ordinanza del 26 novembre 2002 dichiarava manifestamente infondata la dedotta questione di legittimità costituzionale poiché “la Costituzione, nel disciplinare l’istituto del referendum, lascia al legislatore ordinario ampi margini di discrezionalità con riguardo alla regolamentazione del rito di avvio e di svolgimento delle consultazioni referendarie, sicché le disposizioni da detto legislatore adottate al riguardo non possono essere sospettate di illegittimità costituzionale quando non risulti che esse siano suscettibili di importare irragionevoli e non facilmente superabili ostacoli alla promozione ed al corso delle iniziative referendarie”, ed escludendo ovvero il revival dell’autodeterminazione delle comunità locali in Nuova rassegna di legislazione, dottrina, giurisprudenza, n. 1/2008, Firenze, p. 43. 249 Si veda Capitolo IV, pp. 217 ss. 227 che la modifica dell’art. 132, co. 2 Cost., intervenuta con la l.c. 3 del 2001, “abbia potuto comportare una abrogazione della disposizione dell’art. 42 della l. 25.5.1970, n. 352”, per cui “non risultano ravvisabili quella incompatibilità fra i due testi legislativi ovvero quella integrale nuova regolamentazione di materia disciplinata da norme precedenti che, a termini dell’art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale, sono richieste affinché possa configurarsi l’abrogazione tacita di una legge”, senza minimamente soffermarsi sul concetto di “popolazioni interessate” al referendum e sull’assenza di particolari ulteriori oneri, come previsto dall’art. 132, co. 2 Cost. L’Ufficio per dimostrare che non poteva in nessun modo dubitarsi della ragionevolezza dell’art. 42, co. 2 della legge n. 352 del 1970, ha sostenuto che la disposizione in esame configurerebbe “un ostacolo (…) agevolmente superabile alla promozione del referendum (…), posto che quando questa dovesse rivelarsi fornita di una qualche giustificazione e di una adeguata rispondenza ad esigenze ed interessi diffusi nel corpo sociale, sarebbe sicuramente facile per i promotori procurarsi il consenso degli enti rappresentativi di almeno un terzo delle popolazioni” delle Regioni interessate. Con la medesima ordinanza, l’Ufficio centrale ordinava il deposito entro tre mesi delle “deliberazioni dei comuni della Regione FriuliVenezia Giulia destinate a corredare la delibata richiesta di referendum”, senza peraltro immotivatamente prevedere la possibilità di depositare anche delibere provinciali “di appoggio”, in aperta violazione dell’art. 42, co. 2 della l. 352/1970 che prevedeva testualmente che la richiesta referendaria fosse corredata delle deliberazioni “di tanti consigli provinciali o di tanti consigli comunali 228 che rappresentino almeno un terzo della popolazione della Regione alla quale si propone che le Province o i Comuni siano aggregati”. Il 29 gennaio 2003 il delegato del Comune di San Michele al Tagliamento ha deposito nella cancelleria dell’Ufficio centrale per il referendum le delibere di appoggio di Comuni e Province della Regione di aggregazione. L’Ufficio centrale, con l’ordinanza del 13 febbraio 2003, prendeva atto del deposito delle delibere dei Comuni della Regione Friuli-Venezia Giulia, peraltro escludendo ancora incomprensibilmente dal computo quelle provinciali, ma allo stesso tempo eccepiva l’ “omessa (…) produzione delle delibere dei consigli di comuni della regione Veneto, dalla quale si chiedeva il distacco”. Tuttavia, ancora una volta erano escluse dal computo, senza motivazione alcuna, le delibere provinciali, violando così palesemente il disposto dell’art. 42, co. 2. della l. 352/1970. Il delegato, sebbene gli fosse stata concessa una proroga per il termine ultimo di consegna delle delibere di appoggio del Veneto, non è riuscito a presentarne un numero sufficiente, ai sensi dell’art. 42, co. 2 della l. 352/1970. In data 26 marzo 2003 il delegato del Comune di San Michele al Tagliamento ha depositato presso la Corte Costituzionale il ricorso per conflitto di attribuzione contro il Parlamento per il mancato adeguamento della l. 352/1970 al testo dell’art. 132, co. 2 Cost., chiedendo alla Consulta di sollevare avanti a sé la relativa questione di legittimità costituzionale. La Corte Costituzionale, con l’ordinanza del 13 novembre 2003 n. 343, ha dichiarato inammissibile il conflitto di attribuzione sollevato dal delegato del Comune di San Michele al Tagliamento contro il Parlamento poiché sussisteva un giudizio a quo in cui sollevare la questione di legittimità costituzionale, aggiungendo però il rilievo che “nonostante la pur significativa riforma dell’art. 132, secondo comma, 229 della Costituzione introdotta dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, l’Ufficio centrale per il referendum ha ritenuto di affermare la manifesta infondatezza della proposta questione di legittimità costituzionale”, prendendo così implicitamente posizione a favore dell’illegittimità costituzionale delle norme citate e quindi, di fatto, criticando l’ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum del 26 novembre 2002 che aveva inspiegabilmente rigettato l’eccezione d’incostituzionalità sollevata dal delegato comunale. A seguito dell’ordinanza della Consulta, l’Ufficio centrale per il referendum con l’ordinanza del 19 gennaio 2004 n. 14, è tornato sui suoi passi ed ha ritenuto questa volta rilevante ai fini della legittimità della richiesta referendaria e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionalmente originariamente sollevata dal delegato comunale circa l’art. 42, co. 2, della l. 352/1970 che attribuiva “un ruolo nella promozione dell’iniziativa referendaria a soggetti diversi dal comune che chiede la variazione territoriale”, rimettendone così la relativa decisione alla Corte Costituzionale250. La Corte Costituzionale con la sentenza del 10 novembre 2004, n. 334251, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 42, co. 2, della l. 352/1970, circa le deliberazioni “di appoggio”, ritenendo che tale norma “già appariva non conforme all’originaria formulazione del capoverso dell’art. 132 Cost., (…) in quanto accordava (e vincolava) l’iniziativa referendaria ad organi non previsti”, smentendo così l’ordinanza di rimessione dell’Ufficio centrale che rinveniva solamente la “sopravvenuta incompatibilità” della norma all’art. 132, 250 Si veda Capitolo III, pp. 167 ss. Sul punto si veda: Sentenza della Corte Costituzionale 10 novembre 2004 n. 334 in Giurisprudenza costituzionale, n. 6/2004, Milano. 251 230 co. 2 Cost., novellato nel 2001. Inoltre, sanciva che il referendum “si riferisce soltanto ai cittadini degli enti locali direttamente coinvolti nel distacco-aggregazione” e non delle due Regioni coinvolte nel procedimento, come prevedeva l’art. 44, co. 3 della l. 352/1970. In seguito, l’Ufficio centrale per il referendum, con l’ordinanza del 10 dicembre 2004, prendeva atto della succitata sentenza della Corte Costituzionale e dichiarava legittima la richiesta di referendum per il distacco del Comune di San Michele al Tagliamento dalla Regione Veneto e l’aggregazione alla Regione Friuli-Venezia Giulia. Il 29-30 maggio 2005 si è svolta la consultazione referendaria nel Comune veneto; tuttavia, a fronte di un’elevata partecipazione (circa il 60% degli aventi diritto), non è stato raggiunto il quorum prescritto per il referendum territoriale che esige la maggioranza assoluta degli iscritti alle liste elettorali252: nel Comune di San Michele al Tagliamento i voti favorevoli sono stati invece soltanto il 45%. L’Ufficio centrale per il referendum con verbale del 6 giugno 2005 ha dichiarato respinta la proposta referendaria e in conformità all’art. 45, co. 3 della l. 352/1970. Occorre ricordare che dall’insuccesso della consultazione deriva l’impossibilità di rinnovare la medesima richiesta di referendum prima che siano trascorsi 5 anni, come prescritto dall’art. 45, co. 5 della l. 352/1970. Secondo certa dottrina “questo non escluderebbe però l’ammissibilità della riproposizione prima del termine di una richiesta referendaria “cumulativa”, cioè per il distacco-aggregazione di più comuni fra cui quello già interessato alla consultazione”253. A parere 252 Si veda Capitolo III, pp. 170 ss. Cfr. F. RATTO TRABUCCO, Il distacco-aggregazione dei comuni da una Regione all’altra: ovvero il revival dell’autodeterminazione delle comunità locali 253 231 di chi scrive tale soluzione non solo sarebbe elusiva della lettera della legge di attuazione del referendum, ma sarebbe pure illegittima in quanto il referendum cumulativo è un istituto di dubbia costituzionalità. Sul punto si tornerà in seguito254. Dopo San Michele al Tagliamento, un altro Comune veneto ha provato ad attivare il procedimento di distacco-aggregazione: si tratta di Cinto Caomaggiore, che con deliberazione consiliare del 21 febbraio 2005, depositata nella cancelleria dell’Ufficio centrale per il referendum il 21 settembre 2005, ha chiesto di poter effettuare la consultazione referendaria per il distacco dalla Regione Veneto e l’aggregazione alla Regione Friuli-Venezia Giulia. L’Ufficio centrale, con l’ordinanza del 18 ottobre 2005 n. 245, si era pronunciato sulla richiesta, dichiarandola inammissibile, dal momento che l’art. 42, co. 3 della l. 352/1970 prescrive che le delibere dei Comuni richiedenti la variazione territoriale devono essere adottate non oltre tre mesi prima della data del rispettivo deposito, ritenendo detto termine “perentorio”. La definizione del termine in questione come perentorio contraddiceva una precedente ordinanza dello stesso Ufficio centrale (ordinanza del 13 febbraio 2003) che, in merito alla procedura avviata dal Comune di San Michele al Tagliamento, definiva i termini del procedimento referendario di cui all’art. 132 Cost. come “ordinatori”, vista l’assenza di una specifica disposizione in senso contrario. È l’ennesimo caso di pronunce contraddittorie che contraddistinguono l’Ufficio centrale per il referendum. in Nuova rassegna di legislazione, dottrina, giurisprudenza, n. 1/2008, Firenze, p. 51. 254 Si veda Capitolo IV, paragrafo 2.2. 232 Il Comune di Cinto Caomaggiore, a seguito della decisione, ha formulato una nuova richiesta di consultazione referendaria con deliberazione del Consiglio comunale del 31 ottobre 2005 n. 45, questa volta prontamente depositata nella cancelleria dell’Ufficio centrale. L’Ufficio centrale con l’ordinanza del 29 novembre 2005 ha dichiarato la legittimità costituzionale della richiesta di referendum, indetto per il 26-27 marzo 2006. Nelle stesse date altri tre Comuni del Portogruarese hanno tenuto dei referendum ex art. 132, co. 2 Cost.: Gruaro, Pramaggiore e Teglio Veneto, anch’essi compresi nella Regione Veneto, ma popolati da genti friulane. I risultati delle consultazioni nei quattro Comuni sono stati però diversificati: solo Cinto Caomaggiore è riuscito a raggiungere l’ostico quorum stabilito per il referendum territoriale255, mentre Gruaro256, Pramaggiore257 e Teglio Veneto258 lo hanno mancato a causa della presenza nelle liste elettorali di molti cittadini residenti all’estero. In merito ai referendum di questi quattro Comuni del Portogruarese è doveroso ricordare che la votazione è stata viziata anche dall’invio delle cartoline di avviso agli elettori residenti all’estero ben oltre i termini di legge stabiliti: l’art. 6, co. 1 della legge 7 febbraio 1979, n. 40 prescrive che: “entro il ventesimo giorno successivo a quello della 255 Nel Comune di Cinto Caomaggiore si sono recati alle urne il 65,3% degli elettori; i voti favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali sono stati il 59,7%. 256 Nel Comune di Gruaro si sono recati alle urne il 53,3% degli elettori; i voti favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali sono stati il 45,9%. 257 Nel Comune di Pramaggiore si sono recati alle urne il 53,3% degli elettori; i voti favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali sono stati il 44,5%. 258 Nel Comune di Teglio Veneto si sono recati alle urne il 50,6% degli elettori; i voti favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali sono stati il 43,4%. 233 pubblicazione del decreto di convocazione dei comizi (…) è spedita agli elettori residenti all’estero una cartolina avviso recante l’indicazione della data della votazione”. Nel caso della consultazione referendaria svoltasi nel Portogruarese, le cartoline avviso sono state trasmesse ai Comuni interessati solamente il 20 marzo 2006, cioè cinque giorni prima del voto, ragion per cui nella stragrande maggioranza dei casi non sono potute giungere a destinazione prima della consultazione. Il grave ritardo era da addebitarsi all’Istituto Poligrafico Zecca dello Stato, che aveva il compito di stampare dette cartoline, e al Ministero dell’Interno, che per il tramite della Prefettura di Venezia doveva consegnarle ai singoli Comuni. A seguito di questo fatto i Comuni di Gruaro, Pramaggiore e Teglio Veneto hanno presentato un ricorso al T.A.R. del Lazio (che è tuttora pendente) contro il provvedimento dell’Ufficio centrale per il referendum del 12 aprile 2006, che rigettava le contestazioni proposte dai tre delegati dei Comuni in questione, proclamando il risultato della consultazione nel senso del rigetto della proposta referendaria. Non è da escludersi un eventuale annullamento del referendum con successiva ripetizione del voto. La Regione Veneto è apertamente contraria a qualsiasi distacco dei Comuni del Portogruarese ed il Consiglio regionale per ostacolare l’iter procedurale di distacco-aggregazione tergiversa nell’adozione del parere richiesto. Al contrario la Regione Friuli-Venezia Giulia sostiene la causa di riaggregazione del Comune di Cinto Caomaggiore al Friuli ed auspica la riunificazione di tutte le genti friulane: per 234 questo motivo il Consiglio regionale ha prontamente espresso parere favorevole all’ingresso di Cinto Caomaggiore nel suo territorio259. Per quanto riguarda l’iter legislativo parlamentare, si deve dire che il Ministro dell’Interno ha provveduto a presentare il disegno di legge per la variazione territoriale del Comune di Cinto Caomaggiore260 con forte ritardo rispetto ai termini previsti dall’art. 45, co. 4 della l. 352/1970, con un ritardo cioè di oltre 60 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del verbale che indica il risultato positivo del referendum. Pur non appartenendo all’area del Portogruarese, si ricorda qui brevemente un altro caso di ente locale che ha chiesto di passare dal Veneto al Friuli-Venezia Giulia: si tratta del Comune di Sappada il quale, a seguito dell’istanza rivolta dal 30% dei cittadini iscritti nelle liste elettorali, ha deliberato la richiesta di consultazione referendaria ex art. 132, co. 2 Cost. Lo Statuto comunale di Sappada prevede infatti che il referendum su materie d’interesse locale possa essere deliberato direttamente dal Consiglio comunale, a maggioranza dei 2/3 dei consiglieri assegnati oppure a seguito della richiesta di almeno il 30% dei cittadini iscritti nelle liste elettorali comunali261. La consultazione referendaria nel Comune di Sappada si è svolta il 910 marzo 2008 ed il corpo elettole ha espresso a larga maggioranza parere favorevole al passaggio al Friuli-Venezia Giulia262. 259 Si veda: seduta del Consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia del 21 novembre 2006. 260 Cfr. Atto Camera n. 2526, presentato il 17 aprile 2007, recante “Distacco del Comune di Cinto Caomaggiore dalla Regione Veneto e sua aggregazione alla Regione Friuli-Venezia Giulia ai sensi dell’art. 132, secondo comma, della Costituzione”. 261 Si veda: art. 61, co. 4 dello Statuto comunale di Sappada. 262 Nel Comune di Sappada i voti favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali sono stati il 71,72%. 235 Sappada, Comune oggi compreso nella Provincia di Belluno, rientra nell’area linguistica friulana e costituisce un’isola germanofona in territorio veneto priva di un’adeguata tutela; all’interno della Regione a Statuto speciale Friuli-Venezia Giulia troverebbe di certo una più congrua protezione, come già avviene per la minoranza slovena presente in questa Regione. Da ultimo si ricorda che anche il Comune di Meduna di Livenza, attualmente in provincia di Treviso, ha deliberato la richiesta di referendum per il passaggio alla Provincia di Pordenone; la consultazione referendaria avrà luogo il 30 novembre-1 dicembre 2008263. Il Comune già in passato ha fatto parte del Patriarcato del Friuli e pertanto il comitato si propone la riunificazione di Meduna al territorio friulano264. 2.2- Dal Veneto al Trentino-Alto Adige: il caso dei Comuni bellunesi e vicentini. In particolare: il referendum cumulativo e la contiguità territoriale Il primo caso di consultazione per la modifica dei confini regionali con esito positivo (si ricordi infatti che San Michele al Tagliamento fu il primo Comune in Italia a riuscire ad attivare il procedimento di cui all’art. 132, co. 2 Cost., ma il risultato del referendum fu negativo265) è stato quello del Comune veneto di 263 Il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto per indire il referendum per il distacco del Comune di Meduna dal Veneto e l’aggregazione al Friuli-Venezia Giulia in data 11 settembre 2008. 264 Fonte: www.comunichecambianoregione.org. 265 Si veda il paragrafo precedente. 236 Lamon che ha chiesto di potersi unire al Trentino-Alto Adige266 per ragioni storico-geografiche, socio-economiche ed etnico-culturali. Lamon costituisce un’enclave trentina in territorio veneto per la sua particolare collocazione geografica: è infatti l’unico Comune veneto posto oltre al torrente Cismone, cosa che ha impedito la comunicazione con la pianura bellunese a valle, inducendo la popolazione ad avere costanti rapporti con la vicina Provincia di Trento piuttosto che con quella di Belluno, determinando delle affinità e dei rapporti più intensi con le popolazioni trentine piuttosto che con quelle venete. Il referendum si è tenuto in data 30-31 ottobre 2005 ed ha dato esito positivo al passaggio del Comune di Lamon alla Regione TrentinoAlto Adige267. Successivamente, sempre nel Bellunese, anche il Comune di Sovramonte ha chiesto di essere staccato dalla Regione Veneto per potersi aggregare al Trentino-Alto Adige268; le ragioni sono molto simili a quelle che hanno motivato la richiesta del Comune di Lamon: il Comune di Sovramonte esiste solo sulla carta, essendo formato dalle cinque frazioni di Aune, Faller, Servo, Surriva e Zorzoi, le cui popolazioni sono legate per ragioni storico-geografiche con le popolazioni e con i centri trentini di Lavarone e Luserna, piuttosto che con il Veneto che, tra l’altro, non riconosce nemmeno la loro specificità. 266 Si veda la deliberazione del Consiglio comunale di Lamon dell’8 marzo 2005, n. 6. La richiesta è stata approvata dall’Ufficio centrale per il referendum con l’ordinanza del 3 maggio 2005 in cui se ne è dichiarata la legittimità. 267 Nel Comune di Lamon si sono recati alle urne il 61,6% degli elettori; i voti favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali sono stati il 57,2%. 268 Si veda la deliberazione del Consiglio comunale di Sovramonte dell’10 marzo 2006, n. 6. La richiesta è stata approvata dall’Ufficio centrale per il referendum con l’ordinanza del 12 aprile 2006 in cui se ne è dichiarata la legittimità. 237 La consultazione referendaria a Sovramonte si è tenuta l’8-9 ottobre 2006 ed il risultato è stato pressoché plebiscitario a favore del passaggio al Trentino-Alto Adige269. Dopo queste prime limitate richieste di passaggio al TrentinoAlto Adige, ve ne sono state altre, molto più ampie per l’estensione del territorio e per il numero delle popolazioni interessate, che hanno interessato non solo la Provincia di Belluno ma anche quella di Vicenza. Nell’alto vicentino gli otto Comuni dell’Altopiano di Asiago (Asiago, Conco, Enego, Foza, Gallio, Lusiana, Roana, Rotzo)270 hanno chiesto di passare alla Regione Trentino-Alto Adige per gli stretti legami di carattere socio-economico e culturale con l’attigua Provincia di Trento. Per favorire questo passaggio si è costituito un apposito “Comitato per il passaggio dei sette Comuni alla provincia autonoma di Trento”, il quale ha fatto svolgere dei referendum consultivi nei tre Comuni di Conco, Enego e Lusiana, allo scopo di tastare il polso alla popolazione locale, che hanno registrato una percentuale di voti favorevoli al passaggio alla Regione autonoma superiore al 90%. Sulla spinta si ciò, gli otto Comuni hanno attivato il procedimento di cui all’art. 132, co. 2 Cost.271; la peculiarità di questa richiesta stava 269 Nel Comune di Sovramonte si sono recati alle urne il 67,9% degli elettori; i voti favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali sono stati il 64,7%. 270 L’Altopiano di Asiago è comunemente conosciuto come “dei Sette Comuni”: la denominazione risale all’epoca feudale e comprende la lista dei comuni sopra elencati con la successiva aggiunta di Conco, che fu elevato a Comune da semplice contrada solamente nel 1796. I Sette Comuni diedero vita ad una libera confederazione nell’ambito della Repubblica di Venezia, la “Spettabile Reggenza dei Sette Comuni”, che durò fino al 1807 con il passaggio all’Impero Asburgico. Attualmente questa confederazione persiste sotto forma di Comunità montana. 271 La richiesta all’Ufficio centrale per il referendum è stata formulata con le deliberazioni dei Consigli comunali interessati, adottate in tempi diversi. Si veda, 238 nel fatto che gli enti locali hanno chiesto di celebrare un referendum “cumulativo”272 o “unitario”273. Il referendum celebrato il 6-7 maggio 2007 presso tutti gli otto Comuni dell’Altopiano di Asiago aveva due particolarità: - il quesito referendario era formulato cumulativamente, cioè era uguale per tutti gli otto Comuni interessati; - il quorum su cui sono stati calcolati i voti favorevoli, è stato cumulativo, è stato cioè calcolato sulla sommatoria dei votanti degli otto Comuni e non sulla base di ogni singolo Comune. Il quesito referendario era così formulato: “Volete voi che il territorio dei Comuni di Asiago, Conco, Enego, Foza, Gallio, Lusiana, Roana, Rotzo, sia separato dalla Regione Veneto per entrare a far parte della Regione Trentino-Alto Adige?” A parere di chi scrive, la dichiarazione di legittimità dell’Ufficio centrale per il referendum si era attenuta esattamente a quanto prevede la legge di attuazione del referendum n. 352/1970: nell’ultimo inciso dell’art. 41 è prevista come possibile la formulazione di un quesito referendario in cui siano riportati i nomi di più Comuni e quindi unico per più di essi274. ad esempio, la deliberazione del Consiglio comunale di Gallio del 25 maggio 2006, che è stata la prima. La richiesta è stata approvata con l’ordinanza del 6 dicembre 2006, che ne ha dichiarato la legittimità. 272 Secondo la definizione di F. RATTO TRABUCCO, Il distacco-aggregazione dei comuni da una Regione all’altra: ovvero il revival dell’autodeterminazione delle comunità locali in Nuova rassegna di legislazione, dottrina, giurisprudenza, n. 1-2008, Firenze, p. 48. 273 Secondo la definizione di D. TRABUCCO, Alcuni problemi legati alle variazioni territoriali ex art. 132, 2° comma, Cost., www.forumcostituzionale.it, 2008, p. 2. 274 In questo senso si è espresso anche l’illustre costituzionalista De Martin; per un approfondimento si veda: G.C. DE MARTIN, De Martin: legittimo il quesito unitario ma la conta va fatta Comune per Comune (intervista) in L’Amico del Popolo del 13 ottobre 2007, n. 47. 239 La formulazione di questa norma non può che suscitare qualche perplessità in quanto frustra il carattere di autoidentificazione territoriale sotteso alla consultazione referendaria: come può, ad esempio, un cittadino di Asiago esprimere un deliberazione anche in merito alla variazione territoriale del Comune di Enego senza intrattenere con esso nessun rapporto, nel caso concreto determinato dalla residenza? La soluzione interpretativa da adottare sarebbe quella di considerare il quesito referendario come cumulativo, ma il voto dell’elettore riferito solamente al Comune di residenza, quasi che gli altri nomi dei Comuni non fossero scritti nella scheda elettorale. Auspicabile sarebbe un intervento della Consulta che dichiarasse l’illegittimità dell’art. 41 della l. 352/1970 nella parte in cui prevede che il quesito referendario possa contenere il nome di più Comuni. Per quanto riguarda invece il calcolo del quorum, è da ritenersi che sia illegittimo calcolarlo cumulativamente, come sommatoria dei votanti dei Comuni, piuttosto che sulla base degli iscritti nelle liste elettorali di ciascun Comune. Questo perché il Comune è l’ente locale minimo avente una propria autonomia: calcolare il quorum non tenendo presente questo fatto potrebbe portare ad esiti lesivi della libertà di autoidentificazione territoriale delle popolazioni interessate residenti in un determinato Comune e ciò perché qualora questo si esprimesse contrariamente al quesito referendario ma si trovasse ad essere minoranza rispetto alla consultazione referendaria cumulativa e complessiva, la sua volontà verrebbe scalzata dalla volontà maggioritaria degli altri Comuni, e ciò non è ammissibile per un ente autonomo. La cosa è accaduta nella consultazione referendaria in questione con riferimento al Comune di Enego, dove, per l’elevata 240 presenza di elettori residenti all’estero non è stato possibile raggiungere il quorum richiesto per il referendum territoriale; il fatto che la maggioranza assoluta dei voti fosse calcolata sul totale degli iscritti delle liste elettorali di tutti e otto i Comuni ha consentito di raggiungere egualmente lo scopo della consultazione. Quest’interpretazione è suffragata anche da autorevole dottrina (De Martin275), che sostiene la legittimità del referendum cumulativo, in quanto “l’articolo 41 (della l. 352/1970) legittima formalmente l’ipotesi di un quesito congiunto”. Il fatto che il quesito referendario possa essere congiunto non comporta che anche il conteggio debba essere congiunto, infatti “la valutazione dell’esito (del referendum) deve avvenire Comune per Comune”: la ratio dell’art. 132, co. 2 Cost. è infatti molto chiara nel senso che ciascuna comunità comunale decide per sé se dare seguito o meno alla richiesta di distaccoaggregazione. In questo modo il quorum per l’approvazione del quesito referendario è calcolato sulla base degli abitanti di ciascun singolo Comune. Il problema viene ravvisato in un vuoto normativo nelle procedure di verifica del risultato della consultazione referendaria cumulativa. I problemi sollevati dal referendum cumulativo dividono anche la più recente dottrina. Secondo una parte (Ratto Trabucco276), il referendum cumulativo sarebbe legittimo in quanto, quando si parla di comunità 275 Sul punto si veda: G.C. DE MARTIN, De Martin: legittimo il quesito unitario ma la conta va fatta Comune per Comune (intervista) in L’Amico del Popolo del 13 ottobre 2007, n. 47. 276 Cfr. F. RATTO TRABUCCO, Il distacco-aggregazione dei comuni da una Regione all’altra: ovvero il revival dell’autodeterminazione delle comunità locali in Nuova rassegna di legislazione, dottrina, giurisprudenza, n. 1-2008, Firenze, 241 intenzionata a cambiare Regione, non sempre si deve far riferimento ad un solo Comune, ad una sola entità amministrativa, ma si può comprendere la popolazione che risiede in un’area più vasta, che abbraccia diversi Comuni. Secondo altra parte della dottrina (Trabucco277) invece, il referendum cumulativo sarebbe illegittimo: si ritiene infatti che le deliberazioni pronunciate dai Consigli comunali, quali atti prodromici alla richiesta referendaria, debbano essere singole e distinte, come statuito dalla sentenza 334/2004278; di conseguenza, anche il risultato che quelle deliberazioni determinano deve essere un distinto referendum, cioè un referendum per ogni singola amministrazione comunale. Il dato è avvalorato sia da un’interpretazione letterale del disposto costituzionale da parte della Consulta, sia da autorevoli interpretazioni dottrinali279 allorché ritengono che la mancata distinzione tra singole aree frustri l’effettuazione del riscontro referendario, si corre cioè il rischio che il riscontro dell’interesse diretto alla variazione territoriale venga vanificato dal computo dei voti espressi, verificato mediante sommatoria degli stessi. L’elemento di novità introdotto dall’interpretazione in esame riguarda un’analisi sul controllo effettuato dall’Ufficio centrale per il pp. 48 ss.; Consultazione congiunta perfettamente legittima da Il Gazzettino del 18 ottobre 2007, www.amiscdladinia.info. 277 Cfr. D. TRABUCCO, Alcuni problemi legati alle variazioni territoriali ex art. 132, 2° comma, Cost., www.forumcostituzionale.it, 2008, p. 2; D. TRABUCCO, I. MEGALI, E’ costituzionale la proposta di un quesito referendario unico per i Comuni di Cortina d’Ampezzo, Livinallongo e Colle Santa Lucia che intendono passare dalla regione Veneto alla Provincia autonoma di Bolzano/Bozen?, www.federalismi.it, 2008. 278 Si veda: Sentenza 28 ottobre 2004 n. 334 della Corte Costituzionale in Giurisprudenza costituzionale n. 6/2004, pp. 3775 ss. 279 Sul punto si veda: M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. II, Padova, 1991, pp. 74 ss. 242 referendum. Si ritiene infatti che l’art. 43, co. 1 della l. 352/1970 sia formulato in forma generica, cosa che consentirebbe un duplice controllo sulle deliberazioni dei Consigli comunali: da una parte un controllo sostanziale, concernente il fatto che la consultazione referendaria debba necessariamente riferirsi ad un’ipotesi di distaccoaggregazione (“la richiesta di referendum sia conforme alle norme dell’articolo 132 della Carta costituzionale e della legge”), l’altra formale, riguardante il numero minimo prescritto delle deliberazioni depositate (“verificando in particolare che sia raggiunto il numero minimo prescritto delle deliberazioni depositate”). Ora, dato che il controllo sostanziale sulla forma con cui viene presentato all’elettore il quesito referendario rientra tra le verifiche che devono essere effettuate dall’Ufficio centrale, Trabucco ritiene che l’ordinanza che dà il via libera al referendum cumulativo abbia “tralasciato quel controllo formale-sostanziale relativo al modo di presentazione del referendum al cittadino”280 e la cosa sarebbe illegittima tanto che si potrebbe ipotizzare contro l’ordinanza dell’Ufficio centrale un ricorso alla Corte Costituzionale da parte della Regione Veneto per conflitto di attribuzioni, in quanto parte lesa a seguito dell’adozione di un atto dello Stato centrale frutto di un illegittimo esercizio di un potere. Questa soluzione interpretativa, per quanto originale, appare molto convincente. Una questione che è interessante approfondire e che assume particolare rilievo in caso di consultazioni referendarie cumulative è quella della contiguità territoriale tra l’ente aggregante e l’ente aggregato. La questione riguarda i territori di un ente regionale che 280 Cfr. D. TRABUCCO, Alcuni problemi legati alle variazioni territoriali ex art. 132, 2° comma, Cost., www.forumcostituzionale.it, 2008, p. 3. 243 chiedano di essere aggregati ad un’altra Regione: essi devono essere contermini, cioè devono confinare direttamente col territorio della Regione di aggregazione o possono essere solamente vicini ad essa, senza esserne contermini? È cioè possibile l’aggregazione quando un ente confina non con la Regione di aggregazione, ma solamente con il territorio di altri enti che abbiano chiesto a loro volta di passare ad una Regione con la quale confinino direttamente? La questione non è di poco conto: nel caso degli otto Comuni dell’Altopiano di Asiago, solo due di essi, Asiago e Rotzo, confinano con la Regione ad autonomia speciale. Si potrebbe rispondere anche che l’art. 132, co. 2 Cost. non si sia occupato direttamente della questione perché il procedimento da esso previsto281 permetterebbe al Parlamento di non approvare la richiesta di passaggio, in quanto non ha senso il passaggio di un ente locale con una Regione con cui non confini282. In questa sede si vuole però analizzare la questione, senza usare come “scudo” la procedura garantistica prevista dal Costituente. Di primo acchito parrebbe che la condizione indispensabile per poter chiedere l’aggregazione ad altra Regione sia che l’ente locale che chiede l’aggregazione debba essere contermine, cioè debba essere direttamente confinante con l’ente a cui si chiede il passaggio, pena la creazione di “isole territoriali”, cioè enti locali appartenenti ad una Regione il cui territorio sia inglobato nel territorio di un’altra Regione. Esaminando la questione più nel dettaglio, si giunge a ritenere che è opportuno consentire il passaggio di quegli enti locali che non siano 281 Si veda a tal proposito il Capitolo III. In questo senso si veda articolo Colle Santa Lucia tenta il “salto” anche se non confina con l’Alto Adige in L’Amico del Popolo dell’1 settembre 2007, n. 40, p. 4. 282 244 direttamente confinanti con la Regione di aggregazione (sono cioè vicini ma non contermini), ma ciò solamente nel caso in cui gli enti locali che con essa confinino direttamente abbiano chiesto contemporaneamente di aggregarsi alla stessa e le loro richieste siano state approvate (è una conditio sine qua non). In questo modo il confine regionale verrebbe a mutare e di conseguenza anche i primi sarebbero direttamente confinanti con la Regione a cui chiedono l’aggregazione, legittimandoli a proporre la richiesta di distaccoaggregazione. Il problema si sposterebbe quindi da una questione “spaziale”, cioè il fatto che i territori siano contermini, ad una “temporale”, e cioè attendere che il confine regionale sia modificato per poi iniziare il procedimento ex art. 132, co. 2 Cost. La questione “temporale” non è determinante per il procedimento in questione nel senso che non è richiesto che il territorio dell’ente aggregante sia confinante con quello aggregato nel momento in cui inizia il procedimento di variazione territoriale. È possibile quindi ammettere che degli enti locali passino “in blocco” ad altra Regione, anche se qualcuno di essi non confini direttamente con la stessa. La questione del referendum cumulativo interessa anche le consultazioni referendarie svoltesi nei tre Comuni ampezzani di Colle Santa Lucia, Cortina d’Ampezzo e Livinallongo del Col di Lana283. Questi Comuni dell’alto bellunese hanno manifestato l’intenzione di chiedere l’aggregazione al Trentino-Alto Adige284 per ragioni etniche 283 Se il procedimento di variazione territoriale di questi tre Comuni fosse approvato dal Parlamento, essi andrebbero ad aggregarsi alla Provincia autonoma di Bolzano, con le conseguenze si cui si è trattato al Capitolo III, pp. 215 ss. 284 La richiesta all’Ufficio centrale per il referendum è stata formulata con deliberazione del Consiglio comunale di Colle Santa Lucia del 20 aprile 2007, n. 245 e storiche: le unioni culturali ladine presenti in questi in questi territori rivendicano la riunificazione all’Alto Adige poiché sono state parte dell’Impero austro-ungarico dal 1541 al 1918; nel 1923, a seguito della Prima Guerra Mondiale i tre Comuni furono staccati d’imperio dalla Provincia di Trento ed aggregati forzatamente a quella di Belluno, dopo aver fatto parte per quattro secoli del Capitanato d’Ampezzo, la più piccola tra le circoscrizioni amministrative del Tirolo. Attualmente costituiscono l’unico caso di comunità ladine non ricomprese nel territorio del Trentino-Alto Adige. La consultazione referendaria nei tre Comuni ladini si è svolta in data 28-29 ottobre 2007 ed ha avuto esito positivo: è infatti stata approvata l’aggregazione alla Regione Trentino-Alto Adige285, anche se, come detto, è stato dato il via libera alla celebrazione di un referendum cumulativo che, a parere di chi scrive, denota dei margini d’illegittimità costituzionale. Le consultazioni referendarie nell’Ampezzano meritano particolare attenzione in quanto il loro caso ha fomentato il dibattito dottrinale circa la legittimità o meno del quesito unitario in caso ex art. 41 della l. 352/1970, cosa che non era avvenuta qualche mese prima quando a votare per il passaggio di Regione erano andati i cittadini dell’Altopiano di Asiago. Anche per queste richieste di passaggio si pone poi la questione della contiguità territoriale: il Comune di Colle Santa Lucia infatti non 14, del Consiglio comunale di Cortina d’Ampezzo del 5 aprile 2007, n. 36, del Consiglio comunale di Livinallongo del Col di Lana del 19 aprile 2007, n. 31. La richiesta è state approvata dall’Ufficio centrale per il referendum con l’ordinanza del 17 maggio 2007, dove se ne è dichiarata la legittimità. 285 Nei Comuni di Colle Santa Lucia, Cortina d’Ampezzo, Livinallongo del Col di Lana i voti favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali dei tre Comuni sono stati il 56,34%. 246 confina direttamente con la Regione di aggregazione: valgono in questo caso le considerazioni fatte per i Comuni dell’Altopiano di Asiago. L’ultimo caso di referendum territoriale celebrato per chiedere l’approvazione al passaggio al Trentino Alto-Adige di un Comune veneto è stato quello di Pedemonte286. Il Comune di Pedemonte ha fatto parte della Provincia di Trento sino al 1929 quando d’imperio è stato aggregato alla Provincia di Vicenza insieme al Comune di Casotto. Quest’ultimo nel 1940 fu privato dell’autonomia comunale ed aggregato al Comune di Pedemonte. Il referendum territoriale si è svolto in data 9-10 marzo 2008 ed ha approvato la proposta di distacco-aggregazione287. Circa la posizione delle due Regioni interessate alla revisione dei confini, occorre ricordare che sono a tratti divergenti: la Regione di aggregazione, il Trentino-Alto Adige, ha manifestato freddezza all’ipotesi di qualsiasi aggregazione al suo territorio, a parte il caso dei tre Comuni dell’Ampezzano. A conferma di ciò, si ricordi a titolo esemplificativo che il Consiglio regionale del Trentino-Alto Adige ha espresso parere negativo in merito all’aggregazione del Comune di Lamon288. La Regione Veneto si è sempre dichiarata contraria a qualsiasi ipotesi di distacco e come nel caso di quei Comuni veneti che hanno chiesto il 286 La richiesta all’Ufficio centrale per il referendum è stata formulata con deliberazione del Consiglio comunale Pedemonte il 13 giugno 2007, n. 15. 287 Nel Comune di Pedemonte i voti favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali sono stati il 51,04%. 288 Il Consiglio regionale del Trentino-Alto Adige nella seduta del 16 gennaio 2007 ha approvato la proposta di parere negativo all’aggregazione di Lamon formulata il 16 dicembre 2006 dalla I Commissione legislativa del Consiglio regionale. 247 passaggio al Friuli-Venezia Giulia289 e per ostacolare l’iter procedurale di distacco-aggregazione persiste in un atteggiamento volontariamente ostruzionistico, tergiversando nell’adozione dei pareri richiesti. Per quanto riguarda il procedimento legislativo parlamentare, i disegni di legge sono stati presentati al Parlamento con forte ritardo rispetto ai termini previsti dalla legge di attuazione del referendum (art. 45, co. 4 della l. 352/1970)290. Merita un esame più dettagliato la proposta legislativa relativa al Comune di Lamon, che risulta ad uno stadio d’esame più avanzato rispetto alle restanti. La proposta in questione si limita a sancire lo spostamento di Regione di Lamon, senza soffermarsi sugli adempimenti conseguenti, lasciati alla Regione Trentino-Alto Adige, chiamata ad adottare la disciplina di dettaglio291. L’autonomia speciale della Regione trentina si fonda su specifici obblighi internazionali292 e quindi qualsiasi ridefinizione della stessa non può prescindere da un coinvolgimento della stessa o della Provincia autonoma di Trento che acquisterebbe il Comune. 289 Si veda Capitolo IV, paragrafo 2.1. Cfr., per esempio: Atto Camera n. 1427, presentato il 20 luglio 2006, recante “Distacco del Comune di Lamon dalla Regione Veneto e sua aggregazione alla Regione Trentino-Alto Adige ai sensi dell’art. 132, secondo comma, della Costituzione”; Atto Camera n. 2524, presentato il 17 aprile 2007, recante “Distacco del Comune di Sovramonte dalla Regione Veneto e sua aggregazione alla Regione Trentino-Alto Adige ai sensi dell’art. 132, secondo comma, della Costituzione”. 291 Cfr. art. 4, n. 3) dello Statuto del Trentino-Alto Adige, la Regione ha potestà di emanare norme legislative relativamente all’ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni. 292 Questi obblighi internazionali derivano dalla massiccia presenza di minoranze linguistiche di origine tedesca nel territorio della Regione, che devono essere tutelate. Sul punto si veda Capitolo III, pp. 215 ss. 290 248 Per quanto riguarda l’iter parlamentare del provvedimento, va ricordato che in data 20 luglio 2006 il Ministro dell’Interno ed il Ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie locali hanno presentato in Parlamento un disegno di legge costituzionale per il distacco del Comune di Lamon dal Veneto e la sua aggregazione al Trentino-Alto Adige; la scelta di ricorrere al disegno di legge costituzionale è stata ritenuta imprescindibile, “trattandosi, nel caso specifico, di variazione che andrebbe ad incidere anche sul territorio di una regione ad autonomia differenziata”293. Secondo la dottrina la scelta operata in sede parlamentare non appare condivisibile, in quanto aggraverebbe “ulteriormente il procedimento di distacco- aggregazione, attraverso il ricorso al procedimento di revisione costituzionale”294. Sulla questione è intervenuta successivamente un’autorevole pronuncia della Corte Costituzionale, la sentenza 9 marzo 2007, n. 66295, la quale ha stabilito che l’aggregazione ad una Regione a Statuto speciale debba avvenire comunque con legge ordinaria, secondo quanto prescritto dal secondo comma dell’art. 132, che si riferisce a tutte le Regioni indicate nell’art. 131 Cost. Il 26 luglio 2007 la Commissione bilancio della Camera ha espresso parere negativo sul disegno di legge in argomento adducendo l’insorgenza di effetti finanziari negativi per gli enti locali interessati, da una parte per la Provincia di Trento a causa della struttura demografica lamonese caratterizzata da un’elevata popolazione 293 Vedi relazione di accompagnamento al d.d.l. costituzionale, atto Camera n. 1427. 294 Cfr. M. MOTRONI, La migrazione dei Comuni di frontiera verso le Regioni a statuto speciale: la problematica scelta della fonte idonea a produrre l’effetto di variazione territoriale, www.federalismi.it, 2008, p. 11. 295 Cfr. sentenza della Corte Costituzionale 9 marzo 2007 n. 66 in Giurisprudenza costituzionale, Milano, 2007. Sulla Sentenza della Corte Costituzionale si è ampiamente discusso nel Capitolo III, paragrafo 4.5. 249 anziana, dall’altra anche per la Regione Veneto a fronte di minori introiti IRAP. La Commissione Affari costituzionali ha invece espresso parere favorevole sul provvedimento. L’applicazione della norma di cui all’art. 132, co. 2 Cost. crea però non poche preoccupazioni nelle istituzioni centrali: il legislatore nazionale teme che l’approvazione della proposta di legge sollevata da Lamon possa creare un pericoloso precedente e che ad esso segua una serie di richieste di cambio di Regione che andrebbe a toccare la delicata questione dei confini regionali. Alcuni politici sono poi giunti a palesare una disgregazione del Veneto a seguito delle numerose richieste di distacco provenienti da questa Regione che, dopo l’esempio di Lamon, potrebbero avere un importante precedente su cui poggiar le loro pretese. Ciò che pare assurdo, o quanto meno paradossale, è il fatto che il legislatore nazionale abbia modificato in senso più favorevole l’art. 132, co. 2 Cost. con la legge costituzionale n. 3/2001 ed ora sia lui stesso ad aver timore di applicare tale norma. In ultimo si ricorda che anche due Comuni della Regione Lombardia hanno richiesto di poter aggregarsi al Trentino-Alto Adige: si tratta dei Comuni di Valvestino (BS) e Magasa (BS)296. I due Comuni hanno fatto parte della Provincia di Trento fino al 1918 ed i rispettivi comitati referendari si propongono la riunificazione alla provincia dolomitica. 2.3- Dal Piemonte alla Valle d’Aosta: il caso dei Comuni delle Valli Orco e Soana 296 Fonte: www.comunichecambianoregione.org. 250 La volontà di ricongiungersi a Regioni limitrofe non ha riguardato solamente Comuni veneti, ma ha toccato anche alcuni Comuni piemontesi che hanno chiesto l’aggregazione alla Regione Valle d’Aosta. Nel corso del 2005 si è costituito il “Comitato promotore per la riannessione delle Valli Orco e Soana alla Valle d’Aosta”297. Le Valli di Orco e Soana comprendono sei Comuni (Ceresole Reale, Locana, Noasca, Ribordone, Ronco Cavanese, Valprato Soana) situati nella zona nord-occidentale della Provincia di Torino al confine con la Regione Valle d’Aosta; essi erano parte integrante della Provincia di Aosta fino al riordino territoriale avvenuto alla fine del secondo conflitto mondiale, a seguito del quale fu soppressa la Provincia di Aosta e fu decisa d’imperio l’aggregazione alla Provincia di Torino di quei Comuni che, pur appartenendo alla prima, non si ritenne appartenessero al territorio della Vallée. Scopo di questo riordino territoriale era la presunta salvaguardia delle peculiari condizioni geografiche dell’area valdostana. La richiesta di passare alla Valle è stata invocata da questi Comuni non solo per ragioni storiche, ma anche economiche: la mancata crescita economica di questi enti locali è imputata infatti alla disattenzione da parte della Regione Piemonte verso di loro; il passaggio alla Valle d’Aosta consentirebbe di avere una maggiore attenzione, dal momento che le istituzioni regionali valdostane devono far fronte ad un’area territoriale molto meno vasta e variegata rispetto a quella piemontese. 297 Il Comitato in questione è stato costituito il 16 novembre 2005 nel Comune piemontese di Ronco Cavanese; il suo sito internet è: www.andiamoinvallee.com. 251 Il primo Comune piemontese ad attivare il procedimento di distacco-aggregazione ex art. 132, co. 2 Cost. è stato quello di Noasca298, situato in alta Valle Orco, la cui popolazione ha espresso a forte maggioranza299 la volontà di passare alla Valle d’Aosta a seguito della consultazione referendaria tenutasi nei giorni 8-9 ottobre 2006. Successivamente anche gli altri Comuni delle Valli Orco e Soana hanno manifestato l’intenzione di attivare il procedimento di distacco-aggregazione, ma senza giungere finora a nessun risultato concreto. Singolare è la situazione del Comune di Ronco Canavese, il cui Consiglio comunale aveva dapprima adottato l’atto di richiesta del referendum per il passaggio alla Regione Valle d’Aosta, ma dopo soli due giorni ha revocato la relativa deliberazione. Il secondo caso di Comune piemontese che ha chiesto il passaggio alla Valle è stato quello di Carema300. Il suo territorio non si trova nelle Valli Orco e Soana, ma come per i Comuni di queste valli il suo legame col territorio valdostano è di natura storica: sino al riordino territoriale di queste zone, conseguente alla Seconda Guerra Mondiale, il Comune di Carema faceva parte della Valle; inoltre nel 1929 a questo Comune furono sottratte d’imperio alcune frazioni che furono aggregate al confinante Comune di Pont-Sant-Martin301, che da 298 La richiesta all’Ufficio centrale per il referendum è stata formulata con deliberazione del Consiglio comunale Noasca il 27 gennaio 2006, n. 2; l’Ufficio centrale ha dichiarato la legittimità del referendum con ordinanza del 12 aprile 2006. 299 Nel Comune di Noasca si sono recati alle urne il 67,7% degli elettori; i voti favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali sono stati il 52,7%. 300 La richiesta all’Ufficio centrale per il referendum è stata formulata con deliberazione del Consiglio comunale Carema il 30 giugno 2006, n. 21; l’Ufficio centrale ha dichiarato la legittimità del referendum con ordinanza del 28 settembre 2006. 301 Con R.D. 7 marzo 1929, n. 442, senza alcuna consultazione popolare, furono sottratte al Comune di Carema otto sue frazioni (Boschetto, Cappella Ferrata, 252 sempre è ricompreso nella Regione valdostana. Motivi di affinità fra Carema e l’area valdostana possono poi essere ravvisati dal punto di vista socio-culturale e dei costumi tipici. Il referendum nel Comune di Carema si è tenuto nei giorni 18-19 marzo 2007 ed ha registrato un importante consenso favorevole al passaggio alla Vallée 302. Per quanto riguarda il parere delle Regioni interessate, bisogna registrare un sostanziale disaccordo di entrambe verso qualsiasi ipotesi di revisione dei confini regionali. Nello specifico, la Regione Piemonte ritiene che nel caso dell’istanza di Noasca le motivazioni sottostanti alla richiesta siano discutibili ed espressione più di una generale protesta dei piccoli Comuni di montagna per la situazione di disattenzione alle loro istanze da parte di quelle Regioni ampie e morfologicamente variegate (come il Piemonte o il Veneto), che non di una reale affinità con l’area territoriale valdostana. Per questi motivi non pare disposta a concedere parere favorevole alle istanze di Noasca o Carema. La Regione Valle d’Aosta si è invece mossa su due fronti: da una parte ha sollevato problemi concreti, legati, per esempio, al collegamento viario con i due Comuni in questione (che però non sussistono nel caso di Carema), cosa che farebbe sostenere che i legami tra il territorio di distacco e quello di aggregazione non siano poi così stretti; dall’altra ha attivato il canale giurisdizionale a tutela dell’integrità del suo territorio. La Regione Valle d’Aosta ha infatti Ivery, Maddalena, Marchetto, Prati Nuovi, Sarous, Stigliano). Al termine del secondo conflitto mondiale il Comune di Carema avanzò una richiesta volta a riacquistare i territori in questione, che però andò evasa. 302 Nel Comune di Carema si sono recati alle urne il 76,1% degli elettori; i voti favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali sono stati il 68,1%. 253 sollevato davanti alla Corte Costituzionale due ricorsi per conflitto di attribuzione nei confronti degli atti prodromici alla celebrazione del referendum, al fine di far dichiarare che non spetta allo Stato attivare il procedimento di modifica del territorio valdostano ex art. 132, co. 2 Cost., in quanto il territorio della Regione a Statuto speciale sarebbe stato costituzionalizzato e pertanto si dovrebbe seguire la procedura di cui all’art. 50 dello Statuto regionale valdostano per eseguire qualsiasi revisione di esso. Quest’ultima norma prevede che si utilizzi la legge costituzionale per la revisione dello Statuto regionale, e quindi anche nel caso di modifica del territorio costituzionalizzato della Regione speciale, e non la semplice legge ordinaria, come previsto dal capoverso dell’art. 132 Cost. per l’ipotesi di distacco-aggregazione. La Consulta si è pronunciata sulla questione con la sentenza 9 marzo 2007, n. 66303 (su cui si è già ampiamente trattato nel corso di questo studio304), ed ha rigettato nel merito il ricorso dell’Amministrazione regionale valdostana ribadendo che la procedura di cui all’art. 132, co. 1 e 2 Cost. si applica indistintamente a tutte le Regioni, siano esse a Statuto ordinario o speciale; pertanto gli atti prodromici alla consultazione referendaria noaschina sono perfettamente validi. Per quanto riguarda l’iter parlamentare delle proposte di passaggio alla Valle d’Aosta dei Comuni di Noasca e Carema, anche in questo caso bisogna dire che il Ministro dell’Interno non ha rispettato i termini di legge stabiliti305. 303 Sentenza della Corte Costituzionale 9 marzo 2007 n. 66 in Giurisprudenza costituzionale, Milano, 2007. 304 In particolare si veda Capitolo III, paragrafo 4.5. 305 Cfr. Atto Camera n. 2525, presentato il 17 aprile 2007, recante “Distacco del Comune di Noasca dalla Regione Piemonte e sua aggregazione alla Regione Valle d’Aosta ai sensi dell’art. 132, secondo comma, della Costituzione”; Atto Camera n. 2727, presentato il 4 giugno 2007, recante “Distacco del Comune di Carema 254 2.4- Dalle Marche all’Emilia-Romagna: il caso dei Comuni della Valmarecchia e della Val Conca Il recente fenomeno delle richieste di distacco-aggregazione non interessa solamente enti locali di Regioni ordinarie “in fuga” verso quelle a Statuto speciale (notoriamente connotate da regimi fiscali più favorevoli), ma vi è anche una fuga verso altre Regioni ordinarie: è il caso del comprensorio dei sette Comuni dell’Alta Valmarecchia (Casteldelci, Maiolo, Novafeltria, Pennabilli, Sant’Agata Feltria, San Leo, Talamello), attualmente collocati nella Regione Marche, ma che chiedono di essere aggregati all’Emilia-Romagna. L’Alta Valmarecchia è oggi ricompresa nella Provincia di Pesaro-Urbino, nella Regione Marche, ma costituisce il naturale entroterra riminese; da sempre i Comuni di quest’area sono legati alla Romagna ed alla Provincia di Rimini in particolare, sia dal punto di vista economico, sia da quello della rete infrastrutturale. Dal punto di vista morfologico, poi, la parte restante della vallata è compresa nella Provincia di Rimini. Si ricordi inoltre che questi Comuni sono stati staccati dalla Legazione pontificia della Romagna nel 1816 ed aggregati a quella di Urbino con lo scopo di controllare meglio le propensioni risorgimentali di questa zona. dalla Regione Piemonte e sua aggregazione alla Regione Valle d’Aosta ai sensi dell’art. 132, secondo comma, della Costituzione”. 255 Il caso dei Comuni dell’Alta Valmarecchia ha costituito il primo caso in Italia di referendum territoriale cumulativo306, in quanto la consultazione referendaria da essi richiesta307 era rivolta al distacco dell’intero comprensorio e non alla separazione individuale dei singoli Comuni. L’iniziativa era stata preventivamente concertata tra i sette Comuni ed avvantaggiata dal fatto che essi sono riuniti nella Comunità montana dell’Alta Valmarecchia. Secondo parte della più recente dottrina (Ratto Trabucco308), il fatto che i sette Comuni in questione siano riuniti in una Comunità montana legittimerebbe l’unicità del referendum. È da ritenersi che simile interpretazione sia costituzionalmente illegittima in quanto nella lettera del capoverso dell’art. 132 Cost. si prevede che enti interessati alla variazione siano solo le Province ed i Comuni e non anche le Comunità montane: queste infatti pur essendo unioni di Comuni montani e parzialmente montani309, e pur potendo essere considerate a tutti gli effetti enti 306 Si veda Capitolo IV, paragrafo 2.2. La richiesta all’Ufficio centrale per il referendum è stata formulata con singole deliberazioni dei Consigli comunali dell’Alta Valmarecchia; in particolare: deliberazione del Consiglio comunale di Casteldelci del 31 marzo 2006, n. 10; deliberazione del Consiglio comunale di Maiolo del 4 aprile 2006, n. 12; deliberazione del Consiglio comunale di Novafeltria del 27 marzo 2006, n. 22; deliberazione del Consiglio comunale di Pennabilli del 30 marzo 2006, n. 19; deliberazione del Consiglio comunale di San Leo del 31 marzo 2006, n. 9; deliberazione del Consiglio comunale di Sant’Agata Feltria del 30 marzo 2006, n. 14; deliberazione del Consiglio comunale di Talamello del 27 marzo 2006, n. 17. L’Ufficio centrale ha dichiarato la legittimità della richiesta di referendum con l’ordinanza del 27 giugno 2006. 308 Cfr. F. RATTO TRABUCCO, Il distacco-aggregazione dei comuni da una Regione all’altra: ovvero il revival dell’autodeterminazione delle comunità locali in Nuova rassegna di legislazione, dottrina, giurisprudenza, n. 1/2008, Firenze, p. 58. 309 Si veda la definizione di Comunità Montana secondo l’art. 12, co. 1 in T.U. D. lgs. n. 267/2000. 307 256 locali310, non possono essere titolari della potestà conferita dall’art. 132, co. 2 Cost. La questione si risolve indagando in profondità sulla ratio del dettato costituzionale: con esso si vuole permettere ad una comunità locale di decidere a quale Regione appartenere se sussistano determinati requisiti; considerare un’unione di comunità locali alla stregua di un singolo soggetto è sbagliato in quanto non si riuscirebbe a carpire la volontà di quel singolo, come invece previsto dal capoverso dell’art. 132 Cost. La consultazione referendaria si è svolta nei giorni 17-18 dicembre 2006 contemporaneamente in tutti i Comuni valmarecchiesi, esprimendo una forte maggioranza a favore del passaggio alla Regione Emilia-Romagna311. È il caso di ricordare che dai risultati disaggregati per Comune emerge che in tutti e sette gli enti locali è stato raggiunto il quorum approvativo previsto per il referendum territoriale dall’art. 45, co. 2 della l. 352/1970 e che pertanto il raggiungimento del quorum complessivo non è stato facilitato da compensazioni di quorum tra un Comune e l’altro. La cosa contribuisce a ristabilire una qualche parvenza di legittimità ad una consultazione referendaria che altrimenti sarebbe stata da considerarsi illegittima. A seguito del netto risultato referendario, il Consiglio della Comunità montana dell’Alta Valmarecchia ha approvato in data 20 dicembre 2006 un ordine del giorno in cui invita tutte le istituzioni locali e 310 Cfr. A. BALDAN, La natura giuridica delle Comunità Montane e la potestà legislativa regionale in materia, www.forumcostituzionale.it, 2008, p. 1. 311 Il risultato “aggregato” della consultazione referendaria ha dato il seguente responso: elettori dei sette Comuni recatisi alle urne: 67,5%; voti favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali dei sette Comuni: 56,1%. 257 nazionali ad operare affinché l’iter legislativo sia concluso nel più breve tempo possibile. Dopo i Comuni valmarecchiesi, che in un certo qual modo hanno avuto la funzione di “apripista”, anche i Comuni della Val Conca hanno deciso di attivare il procedimento per il distacco dalle Marche e l’aggregazione all’Emilia-Romagna. Le motivazioni sottese a questa richiesta sono le medesime viste nel caso appena descritto: i Comuni in questione sono di fatto romagnoli, ma per una serie di vicende storiche si sono trovati ricompresi nella Regione Marche a cui non sentono di appartenere. I primi due Comuni della Val Conca ad attivare il procedimento ex art. 132, co. 2 Cost. sono stati Montecopiolo312 e Sassofeltrio313; la consultazione referendaria nei due Comuni si è tenuta il 24-25 giugno 2007 ed in entrambi i casi è stato approvato il distacco dalle Marche e l’aggregazione all’Emilia-Romagna314. Altri due Comuni della Val Conca hanno attivato l’iter procedurale di distacco-aggregazione, ma con esiti diversi da quelli appena visti. Si tratta dei Comuni di Monte Grimano Terme315 e di Mercatino 312 La richiesta all’Ufficio centrale per il referendum è stata formulata con deliberazione del Consiglio comunale Montecopiolo l’1 marzo 2007, n. 7; l’Ufficio centrale ha dichiarato la legittimità del referendum con ordinanza del 28 marzo 2007. 313 La richiesta all’Ufficio centrale per il referendum è stata formulata con deliberazione del Consiglio comunale Sassofeltrio il 17 marzo 2007, n. 21; l’Ufficio centrale ha dichiarato la legittimità del referendum con ordinanza del 28 marzo 2007. 314 Nel Comune di Montecopiolo i voti favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali sono stati il 57,9%; nel Comune di Sassofeltrio i voti favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali sono stati il 50,6%. 315 La richiesta all’Ufficio centrale per il referendum è stata formulata con deliberazione del Consiglio comunale Monte Grimano Terme il 2 luglio 2007, n. 19. 258 Conca316, le cui consultazioni referendarie, svoltesi il 9-10 marzo 2008, hanno respinto la proposta di aggregazione all’EmiliaRomagna317. Per quanto riguarda la posizione delle due Regioni interessate, sia la Regione Marche, sia la Regione Emilia-Romagna si sono impegnate ad emettere i pareri necessari alla prosecuzione dell’iter legislativo in tempi rapidi. In merito alla presentazione al Parlamento della proposta sottoposta a referendum, anche in questo caso non sono stati rispettati i termini di legge318. Un ultimo appunto: la spinta “secessionista” determinata dall’attivazione dei procedimenti di distacco-aggregazione sopra esaminati è parte di un progetto più ampio, avente lo scopo di giungere alla creazione della Regione Romagna, staccata dall’Emilia. La nuova Regione sarebbe composta delle tre Province di Ravenna, Forlì-Cesena e Rimini; il requisito del numero minimo di un milione di abitanti prescritto dall’art. 132, co. 1 Cost. sarebbe raggiunto proprio grazie all’aggregazione alla Provincia di Rimini dei Comuni della Valmarecchia e della Val Conca. 316 La richiesta all’Ufficio centrale per il referendum è stata formulata con deliberazione del Consiglio comunale Mercatino Conca il 19 settembre 2007, n. 39. 317 Nel Comune di Monte Grimano Terme i voti favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali sono stati il 42,76%; nel Comune di Mercatino Conca i voti favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali sono stati il 49,11%. La proposta di distacco dalla Regione Marche e l’aggregazione alla Regione Emilia-Romagna è stata quindi respinta. 318 Cfr. Atto Camera n. 2527, presentato il 17 aprile 2007, recante “Distacco dei Comuni di Casteldelci, Maiolo, Novafeltria, Pennabilli, Sant’Agata Feltria, San Leo, Talamello dalla Regione Marche e loro aggregazione alla Regione EmiliaRomagna ai sensi dell’art. 132, secondo comma, della Costituzione”. 259 2.5- Dalla Campania alla Puglia: il caso di Savignano Irpino Il Comune di Savignano Irpino è situato nell’Alta Irpinia, territorialmente contigua alla Regione Puglia. Savignano dal punto di vista storico ha fatto parte della Provincia di Capitanata (coincidente all’incirca con l’attuale Provincia di Foggia, situata nella Regione Puglia) per circa sessant’anni all’inizio dell’Ottocento; geograficamente parlando però, il centro ha un’omogeneità territoriale più con l’area della Capitanata che con quella irpina. Sussistono inoltre dei legami di carattere economico e soprattutto degli elementi di natura etnico-linguistica tali da legare Savignano più al foggiano che alla Provincia di Avellino, di cui fa parte. Tuttavia, malgrado anche l’amministrazione comunale nella sua richiesta di referendum abbia dato delle motivazioni di carattere territoriale ed infrastrutturale319, la vera ragione della richiesta di passaggio alla Regione Puglia deve ravvisarsi in un segnale di protesta di carattere ambientale verso la Regione Campania, la quale ha deciso di realizzare una discarica di rifiuti nel territorio del Comune di Savignano Irpino. Com’è risaputo, la Campania si trova da decenni a dover fronteggiare un’emergenza legata allo smaltimento dei rifiuti; con l’ordinanza del 23 gennaio 2006 n. 19, adottata dall’Alto Commissario per l’emergenza rifiuti in Campania, su indicazione della Provincia di Avellino, è stato individuato nelle vicinanze del Comune in questione un sito da adibire a discarica. Il Comitato che guida la protesta contro la discarica ha deciso, tra le altre iniziative, di 319 La richiesta all’Ufficio centrale per il referendum è stata formulata con deliberazione del Consiglio comunale Savignano Irpino il 13 settembre 2005, n. 26; l’Ufficio centrale per il referendum ha dichiarato la legittimità della richiesta con l’ordinanza del 13 gennaio 2006. 260 chiedere il distacco dalla Regione Campania di modo che, con il passaggio ad altra Regione (si ricordi infatti che lo smaltimento dei rifiuti è materia di competenza regionale), la discarica non possa più essere realizzata. La consultazione referendaria si è svolta l’11-12 giugno 2006, ma la chiamata alle urne ha registrato un esito negativo320 per l’assenza di un fronte compatto al passaggio alla Regione Puglia. Al di là delle motivazioni ambientali, contro la proposta di aggregazione ha giocato contro il timore degli anziani circa presunte difficoltà di collegamento con il nuovo capoluogo provinciale; occorre ricordare infatti che Savignano Irpino dista settanta chilometri da Avellino e solo quarantasette da Foggia, ciononostante la strada statale n. 90 “delle Puglie”, che collega il Comune con il capoluogo della Capitanata, è impraticabile per un ampio movimento franoso che costringe ad itinerari alternativi di lunga e difficile percorrenza. A queste difficoltà di ordine infrastrutturale si somma anche il fatto che molti residenti iscritti nelle liste elettorali non dimorano effettivamente nel territorio comunale, cosa che come si è visto rende difficile il raggiungimento del quorum referendario previsto dall’art. 45, co. 2 della l. 352/1970. Si consideri poi il fatto che anche se la consultazione avesse dato esito positivo, i vantaggi per Savignano non sarebbero stati immediati e pertanto, in attesa della definizione del procedimento legislativo parlamentare, il Comune avrebbe continuato a far parte della Campania, con la conseguenza che il sito di stoccaggio dei rifiuti avrebbe potuto essere comunque realizzato. 320 Nel Comune di Savignano Irpino si sono recati alle urne il 48,3% degli aventi diritto al voto; i voti favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali sono stati il 39,3%. 261 Il caso di Savignano è degno di nota anche per il fatto di essere stato il primo Comune meridionale ad aver attivato il procedimento di distacco-aggregazione, seppur con esito negativo. In passato altri Comuni del Sud avevano manifestato la volontà di mutare Regione senza tuttavia riuscire ad attivare il procedimento di cui al capoverso dell’art. 132 Cost.: si ricordino ad esempio i Comuni di Chieuti e Gallo Matese321. 3- Motivazioni sostanziali sottese ai procedimenti di distaccoaggregazione sinora avviati Esaminate nel dettaglio le vicende dei Comuni che hanno richiesto di aggregarsi ad altra Regione, è opportuno ora capire le motivazioni sostanziali sottese a tali scelte, ricordando sin da subito che non esiste una risposta univoca, ma che la commistione di elementi che può portare a simile scelta è varia e variamente “miscelata”. Sul tema si è espressa anche la più recente dottrina che in merito ha visioni molto diverse. Da una parte vi è chi (Ratto Trabucco) ritiene che dietro a tutte le richieste vi sia comunque una connotazione non solo economica, ma anche e soprattutto storico-culturale, a cui si aggiunge naturalmente una continuità geografica tra il territorio aggregante e quello aggregato. Dall’altra vi è molta della più recente dottrina (Barbero, Ferrara, Fraenkel-Haeberle, Malo, Motroni) che ritiene, seppur con spiegazioni 321 Si veda Capitolo IV, pp. 219 ss. 262 leggermente differenti, che le motivazioni sostanziali sottese ai procedimenti di distacco-aggregazione in corso siano essenzialmente di ordine economico-finanziario. Con riferimento alle prima tesi, a coloro che sostengono che dietro le richieste vi siano solo motivi di interesse economico, determinate dal passaggio a Regioni ad autonomia speciale, si risponde piccatamente che: “dietro il dileggio giornalistico e di una parte della dottrina per le comunità locali che intendono aggregarsi a regioni autonome, si nasconde spesso la totale ignoranza delle connotazioni storico-culturali delle realtà in esame”322. Non bisogna comunque dimenticare che il trattamento fiscale differenziato a favore delle Regioni ad autonomia speciale323 gioca comunque un ruolo importante in queste scelte tanto che gli amministratori delle Regioni ordinarie che subiscono il distacco ritengono che esso sia da imputarsi all’irrisolta questione del federalismo fiscale ancora inattuato. È possibile inoltre dare una spiegazione politica: il passaggio è volto a dimostrare l’incapacità di determinati sistemi politici regionali. In questo senso le istanze di distacco-aggregazione sono da leggersi come processi centrifughi che riguardano la società, la politica, le istituzioni, per cui si sceglie di passare sotto l’amministrazione di un’altra Regione (non necessariamente a Statuto speciale, come 322 Cfr. F. RATTO TRABUCCO, Il distacco-aggregazione dei comuni da una Regione all’altra: ovvero il revival dell’autodeterminazione delle comunità locali in Nuova rassegna di legislazione, dottrina, giurisprudenza, n. 1-2008, Firenze, p. 67. 323 Si ricordi che le Regioni a Statuto speciale: 1) non concorrono, se non marginalmente, al pagamento degli interessi sul debito pubblico, né al finanziamento al sistema previdenziale; 2) non concorrono alla perequazione interregionale; 3) ricevono risorse in corrispondenza di competenze tuttora esercitate dallo stato. In questo senso si veda: P. GIARDA, Le regole del federalismo fiscale nell’art. 119: un economista di fronte alla nuova Costituzione in Le Regioni n. 6/2001, Bologna. 263 dimostra il caso dei Comuni dell’Alta Valmarecchia e della Val Conca) dove ci sono più vantaggi e più risorse e ciò al fine di rivendicare determinate prerogative da parte degli enti locali, soprattutto se di ridotte dimensioni. Il problema va comunque affrontato in nuce per evitare il moltiplicarsi delle richieste di passaggio ad altra Regione, ma soprattutto per dare una risposta a quelle specificità territoriali (come le aree alpine del Bellunese) che risultano essere fortemente penalizzate dalla normativa attuale. La cosa non appare comunque facile: vi è un’oggettiva difficoltà nel cancellare sessant’anni di privilegi a favore delle realtà regionali ad autonomia speciale, date dalle maggiori risorse determinate dal fatto di trattenere totalmente o parzialmente il gettito dei tributi erariali percepiti sul territorio. Il legislatore si trova tra “l’incudine” di dover attuare il federalismo fiscale ed “il martello” di dover dar seguito a proposte che provengono dal corpo elettorale e da cui difficilmente potrà discostarsi. Ciò che è certo è che a queste “motivazioni” più o meno velate egli dovrà dare quanto prima una risposta. La parte più consistente della recente dottrina, come detto, non concorda con quest’analisi dei fatti e sostiene invece che l’unica vera spiegazione di questi processi sia principalmente (se non esclusivamente) di ordine economico-finanziario. Secondo alcuni (Barbero) “i tentativi compiuti da un numero sempre crescente di Comuni e Province di annettersi a Regioni speciali (specialmente, per non dire esclusivamente al nord) riflettono perlopiù (per non dire esclusivamente) considerazioni di ordine economico-finanziario. Gli Enti locali appartenenti a tali Regioni (…) beneficiano di un notevole surplus di risorse disponibili rispetto a 264 quelli appartenenti alle Regioni ordinarie. Da qui (…) l’aspirazione del tutto legittima (…) di «cambiare casacca»”324. Da un'altra parte si sostiene che: “numerosi Comuni (…) hanno avviato la procedura di distacco-aggregazione prevista dall’art. 132, comma 2, Cost. con l’obiettivo di entrare nell’ambita (in quanto lucrosa) orbita della specialità”325. Da parte loro, le Regioni ad autonomia speciale non hanno dimostrato una particolare “ospitalità” nei confronti di quegli enti locali, seppur affini storicamente, culturalmente e territorialmente, che hanno richiesto l’aggregazione; anche qui la motivazione è prettamente economica, determinata dal timore di dover dividere anche con altri enti locali le risorse finanziarie. Si è posta pertanto la questione se le “anomalie” presenti nel sistema finanziario di tali Regioni siano ancora giustificabili. La risposta non può che essere negativa. La questione della “fuga” degli enti locali verso altre Regioni si ritiene abbia una sola e possibile soluzione: la “riforma dell’ordinamento finanziario delle Regioni speciali, la cui situazione di sostanziale privilegio costituisce anche una pericolosa «tentazione»”326. Simile spiegazione è ribadita anche da altri (FraenkelHaeberle), sostenendo che i “Comuni ubicati in Regioni ordinarie, attratti sia dalla maggiore disponibilità di risorse economiche, sia dai vantaggi in termini di efficienza della gestione dei servizi offerti dal 324 Cfr. M. BARBERO, Enti locali “in fuga”: questioni di “forma” e di “sostanza”, www.federalismi.it, 2007, p. 5. 325 Cfr. M. BARBERO, Come (non) si risolve la questione delle “secessioni” dei Comuni di confine (e dei privilegi finanziari delle autonomie speciali), www.federalismi.it, 2008, p. 1. 326 Cfr. M. BARBERO, Enti locali “in fuga”: questioni di “forma” e di “sostanza”, www.federalismi.it, 2007, p. 7. 265 regime autonomistico, (richiedono) di aggregarsi soprattutto a Regioni (Province) ad autonomia speciale”327. Sul fatto che la motivazione delle recenti richieste di distaccoaggregazione sia essenzialmente di ordine economico, concordano anche altri (Ferrara), che però individuano la fonte del problema nella poco incisiva riforma attuata con la legge costituzionale n. 3/2001. A seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, la nuova formulazione dell’art. 116, co. 3 Cost. prevede che anche le Regioni ordinarie possano chiedere “ulteriori forme e condizioni di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’art. 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l) (…) n) e s)” ma pur sempre nel rispetto dei principi del federalismo fiscale, che vincolano, tra l’altro, alla perequazione nazionale per i territori con minore capacità fiscale per abitante (art. 119, co. 3 Cost.). Quest’ultimo inciso distingue nettamente le Regioni ordinarie da quelle speciali che sono esentate dalla perequazione nazionale, potendo tenere per sé gran parte della ricchezza prodotta sul territorio. Pertanto, l’art. 116, co. 3 Cost., da una parte permette alle Regioni ordinarie di scegliere sulla carta tra un’ampia serie di competenze dettate dalla devolution e fornisce le risorse necessarie a finanziarle, dall’altra chiude la porta a forme di specializzazione per le Regioni ordinarie. È proprio questo il nocciolo del problema: le Regioni ordinarie, sebbene possano avere una serie più ampia di competenze dopo la riforma costituzionale del 2001 sono tenute comunque a finanziare la perequazione nazionale, mentre le Regioni 327 Cfr. C. FRAENKEL-HAEBERLE, La “secessione” dei Comuni: una chimera o una via percorribile?, www.federalismi.it, 2008, p. 2. 266 speciali continuano a rimanerne escluse328. È da chiedersi se le numerose richieste di Comuni che intendono cambiare Regione per essere annessi al territorio di quelle speciali non debbano essere valutate come “un’altra diversa possibilità di specializzazione, per quelle aree del Paese in cui questo è concretamente possibile e conveniente, in elusione alle norme costituzionali” e ciò sebbene “una regione di diritto comune (…) potrebbe ottenere ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, ma sempre nel rigoroso principio della perequazione nazionale. La corsa dei comuni alla specializzazione è dunque soluzione concretamente disponibile e anche assai vantaggiosa”329. Riassumendo la tesi esaminata, si può dire che: sebbene l’art. 116, co. 3 Cost. abbia ampliato le forme di specializzazione per le Regioni ordinarie, tuttavia quelle speciali si trovano comunque in una situazione più favorevole determinata dal fatto di non dover contribuire alla perequazione nazionale. Questa maggiore ricchezza attira i Comuni delle vicine Regioni ordinarie, che, in elusione alla norma di cui all’art. 132, co. 2 Cost., chiedono di aggregarsi a quelle ad autonomia differenziata solamente per motivi d’interesse economico. Viste le reali motivazioni sostanziali che spingono alcuni enti locali a chiedere la variazione di Regione, vi 328 La necessità che anche le Regioni ad autonomia speciale partecipino alla perequazione è presente nel disegno di legge delega recante “Disposizioni di attuazione dell’art. 119 della Costituzione”, approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri il 3 agosto 2007; l’art. 18 (coordinamento della finanza delle Regioni a statuto speciale e delle province autonome) dispone al co. 1 che le autonomie speciali “concorrono agli obiettivi di perequazione e solidarietà e a diritti e ai doveri da essi derivanti”. Per un approfondimento sul disegno di legge delega: E. JORIO, La perequazione nel ddl delega di attuazione del federalismo fiscale licenziato dal Governo il 3 agosto 2007, www.federalismi.it, 2007. 329 Cfr. A. FERRARA, Questione settentrionale. Dalla grande alla piccola secessione: la migrazione territoriale dei Comuni come istanza di specializzazione in deroga ai principi del federalismo fiscale, www.federalismi.it, 2007, pp. 2 ss. 267 sarebbe “l’onere da parte del Parlamento di dover dire anche degli scomodi no a qualche comunità locale in cerca di schei e non della propria identità storico-culturale”330. Altri (Malo331) sostengono poi il fatto che le richieste sono motivate da pulsioni meramente egoistiche, per entrare a far parte di Regioni con maggiori disponibilità finanziarie, ma si aggiunge che in realtà la censura nasconderebbe il timore del ceto politico di perdere la propria posizione di potere a fronte di uno sviluppo del senso di autodeterminazione delle popolazioni locali. Si nasconderebbe inoltre l’opportunità di tracciare confini regionali più coerenti alla cultura e alle tradizioni locali (come nel caso dei ladini dell’Ampezzano o dei romagnoli dell’Alta Valmarecchia), ma si teme che in questo modo l’incremento dei fenomeni di distacco-aggregazione possa portare alla dissoluzione di intere realtà regionali (come il Veneto, “minacciato” ad ovest dalla “fuga” verso il Trentino-Alto Adige e ad est da quella verso il Friuli-Venezia Giulia). La soluzione del problema potrebbe essere la costituzione di entità regionali territorialmente più ampie con poteri largamente autonomi: in questo modo si potrebbe dar vita, ad esempio al Triveneto, che farebbe sfumare le spinte secessioniste dei Comuni veneti verso le Regioni speciali limitrofe. Una simile formazione andrebbe nella direzione dell’affermazione del sistema federale, conciliando la tradizione storica con rinnovate esigenze economiche e sociali. 330 Cfr. A. FERRARA, Questione settentrionale. Dalla grande alla piccola secessione: la migrazione territoriale dei Comuni come istanza di specializzazione in deroga ai principi del federalismo fiscale, www.federalismi.it, 2007, p. 7. 331 Cfr. M. MALO, Forma e sostanza in tema di variazioni territoriali delle Regioni (a margine della pronuncia 66/2007 della Corte Costituzionale) in Le Regioni n. 3/2007, Bologna, pp. 646 ss. 268 Sulla stessa linea, ma in toni più concilianti, vi è chi (Motroni) sostiene che: “alla base del dilagare delle recenti e numerose richieste di variazione territoriale proposte dai singoli comuni, si pongono una serie di elementi giustificativi di diversa natura, come il risalente “equivoco” delle regioni storiche e le più recenti rivendicazioni nel senso di una maggiore autonomia fiscale e finanziaria rispetto al potere centrale”332. Le motivazioni sostanziali sottese alle variazioni territoriali sono dunque due: una storica, l’altra riguardante l’autonomia finanziaria; la motivazione storica, in realtà, “tende ad assumere una funzione di copertura rispetto a quello che costituisce un vero e proprio motivo latente, di ben più ampia importanza, ovvero la questione della titolarità di risorse fiscali proprie”333. Dopo aver esaminato i singoli casi della variazioni territoriali in corso e le motivazioni ad esse sottese, si ritiene, come detto all’inizio di questo paragrafo, che la risposta da dare ad esse non sia univoca, ma frutto di una serie di elementi, variamente “miscelati”. Sicuramente la maggiore disponibilità finanziaria delle Regioni ad autonomia differenziata è il principale ed il più valido motivo per chiedere il passaggio334; se la cosa però può essere vera per il Comune 332 Cfr. M. MOTRONI, La migrazione dei Comuni di frontiera verso le Regioni a statuto speciale: la problematica scelta della fonte idonea a produrre l’effetto di variazione territoriale, www.federalismi.it, 2008, p. 3. 333 Cfr. M. MOTRONI, La migrazione dei Comuni di frontiera verso le Regioni a statuto speciale: la problematica scelta della fonte idonea a produrre l’effetto di variazione territoriale, www.federalismi.it, 2008, p. 3. 334 A tal proposito si riporta il caso del Comune veneto di Meduna che ha chiesto di celebrare il referendum per aggregarsi alla Regione Friuli-Venezia Giulia: il decreto per indire la consultazione referendaria è stato approvato dal Consiglio dei Ministri durante la seduta dell’11 settembre 2008; nella stessa data è stata approvata dallo stesso in via preliminare anche la bozza di disegno di leggedelega in materia di federalismo fiscale. Saputa la notizia, il sindaco di Meduna ha dichiarato: “(…) non ha senso parlare di andarcene quando arriva il federalismo”. La motivazione che aveva spinto il Comune trevigiano ad attivare il procedimento 269 di Lamon, un po’ meno lo è per un Comune come Cortina d’Ampezzo335, che gode comunque di una certa disponibilità finanziaria, dovuta al turismo elitario. La motivazione di un ricongiungimento tra aree territoriali dovuto a motivi storici è marginale (come nel caso dei ladini dell’Ampezzano, delle popolazioni del Portogruarese e di quelle dell’Alta Valmarecchia), anche se si vuole far apparire che la tradizione storicoculturale sia motivo di aggregazione molto forte. La conclusione a cui si perviene è che le richieste di aggregazione ad altra Regione siano motivate si da ragioni di ordine economicofinanziario e marginalmente anche di ordine storico, ma che siano soprattutto il sintomo di una protesta, che interessa in maniera particolare le aree di montagna, contro le istituzioni regionali che si occupano davvero troppo poco di queste zone ed allo stesso tempo siano un modo per avere l’attenzione dello Stato centrale che da troppo tempo promette e non attua il federalismo fiscale. ex art. 132, co. 2 Cost. non ha bisogno di ulteriori commenti. Fonte: “Un nuovo referendum per passare al Friuli” (articolo) in Il Padova del 12 settembre 2008, p. 29. 335 Sulla stessa linea è anche C. FRAENKEL-HAEBERLE, La “secessione” dei Comuni: una chimera o una via percorribile?, www.federalismi.it, 2008, p. 8. 270 271 CAPITOLO V RECENTI SVILUPPI IN MATERIA DI VARIAZIONI TERRITORIALI DELLE REGIONI CENNI DI DIRITTO COMPARATO SOMMARIO: 1. Progetti di revisione costituzionale dell’art. 132. – 1.1. La fallita riforma costituzionale approvata nel corso della XIV legislatura. – 1.2. Il disegno di legge costituzionale per la modifica dell’art. 132, co. 2 Cost. proposto durante la XV legislatura. – 2. I Fondi per favorire le aree territoriali confinanti con le Regioni a Statuto speciale. – 2.1. Il Fondo per la valorizzazione e la promozione delle aree territoriali svantaggiate confinanti con le Regioni a Statuto speciale. – 2.3. Gli interventi attuati dalla Regione Veneto. – 2.3. L’Intesa tra la Regione Veneto e la Provincia autonoma di Trento. – 3. Cenni di diritto comparato. 1- Progetti di revisione costituzionale dell’art. 132 A partire dalla metà degli anni Novanta si è intensificato il dibattito, politico e dottrinario, sulla revisione costituzionale della nostra Carta fondamentale e di conseguenza si è discusso anche sul tema delle modifiche morfologiche delle Regioni. Per quanto riguarda le proposte provenienti dal mondo politico vale la pena di ricordare il progetto di riforma della Lega Nord presentato durante l’Assemblea federale tenutasi a Genova il 6 novembre 1994. Questo progetto prevedeva una riforma sostanziale della forma dello Stato italiano in senso federale, che avrebbe dovuto 272 essere composto da nove Stati, venti Regioni336, oltre alle Province, i Comuni ed il distretto federale di Roma (art. 6): cinque dovevano essere quindi i livelli di governo a competenza territoriale differenziata, cosa che non favoriva di certo la semplificazione organizzativa del nostro Paese. Il progetto era molto articolato, ma sul tema delle variazioni territoriali inaspettatamente “moderato”, considerate le posizioni della Lega Nord. Le norme che riguardavamo l’istituzione, la soppressione di Stati e Regioni e la modificazione dei loro territori erano molto simili a quelle previste dall’art. 132 della Costituzione: si prevedeva infatti che la fusione delle Regioni esistenti e la creazione di nuove Regioni con un minimo di un milione di abitanti fosse disposta con legge della Federazione, approvata dai due rami del Parlamento federale a maggioranza assoluta dei componenti e che fossero sentiti i Consigli regionali337. La norma sulle modificazioni territoriali delle Regioni desta stupore perché, dato che esse sono interne agli Stati, ci si sarebbe aspettato si distinguesse a seconda che i mutamenti territoriali riguardassero un singolo Stato o più Stati: la competenza legislativa nel primo caso avrebbe dovuto essere del singolo Stato, nel secondo caso di quello federale. In merito alle variazioni territoriali degli Stati come tali il progetto non diceva nulla. 336 In particolare: Lombardia, Sicilia e Sardegna avrebbero dovuto costituire ciascuna uno Stato; un quarto Stato sarebbe stato formato da Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria; un quinto da Veneto, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia; un sesto da Abruzzi, Molise, Basilicata, Puglia; un settimo da Campania e Calabria; gli ultimo due sarebbero derivati dalla divisione della Regione EmilaRomagna: da una parte vi sarebbe stato l’accorpamento dell’Emilia con la Toscana, dall’altro della Romagna con l’Umbria, le Marche ed il Lazio. In merito si veda: F. PIZZETTI, Federalismo, regionalismo e riforma dello Stato , Torino, 1996, pp. 121 ss. 337 Cfr. F. PIZZETTI, Federalismo, regionalismo e riforma dello Stato, Torino, 1996, p. 128. 273 Il progetto della Lega Nord è stato in seguito modificato e presentato nel corso della XII legislatura338 (il 18 gennaio 1995), come disegno di legge costituzionale339. Un modello di Stato federale ancor più accentuato era stato presentato nello stesso anno (dicembre 1994) da Miglio, il quale proponeva una divisione dello Stato in tre Cantoni, la Repubblica Padana, la Repubblica dell’Etruria e la Repubblica del Sud, organizzate su base regionale, come nel progetto appena visto. Continuavano ad esistere le Regioni a Statuto speciale, le quali erano accorpate all’Unione Italiana da un’autonoma adesione. In questo modello scomparivano le Province, mentre restavano i Comuni. Altro progetto era stato formulato dal Comitato di studio delle riforme istituzionali, elettorali e costituzionali, generalmente conosciuto come Commissione Speroni; questa era stata nominata il 14 luglio 1994 con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri e la sua funzione è indicata chiaramente nella denominazione stessa. Il progetto di legge, frutto dei lavori della Commissione, è stato presentato al Senato in data 21 febbraio 1995340. In tema di variazioni territoriali, la Commissione Speroni proponeva di ricomprendere sotto l’unica locuzione “modifica dei confini territoriali” le tre ipotesi di variazione (fusione, creazione e distacco- 338 La XII legislatura è iniziata il 15 aprile 1994 e si è conclusa l’8 maggio 1996. Sul punto si veda: XII legislatura, Atto Senato n. 1304. Il d.d.l. costituzionale era stato firmato dai senatori Speroni, Tabladini ed altri. 340 Sul punto si veda: XII legislatura, Atto Senato n. 1403. Si faccia attenzione a distinguere questo progetto di legge con il precedente d.d.l. costituzionale, che ha come primo firmatario proprio il sen. Speroni presentato al Senato solo un mese prima. Si veda la nota precedente. 339 274 aggregazione) e che in caso di creazione di una nuova Regione fosse elevato il numero minimo di abitanti a quattro milioni341. Altro progetto ancora è stato proposto, nel corso della XIII legislatura342, dalla Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, presieduta dall’on. D’Alema. Questa si era occupata della riforma dell’art. 132 Cost., continuando a prevedere tre distinte ipotesi di variazione del territorio regionale, seppur con qualche modifica rispetto al testo originario; questo il testo dell’art. 63343, licenziato dalla Commissione bicamerale in tema di modificazioni territoriali: “Con legge costituzionale, sentite le rispettive Assemblee regionali e con l’approvazione della maggioranza della popolazione di ciascuna delle Regioni interessate espressa mediante referendum, si può disporre la fusione di Regioni esistenti. Con legge costituzionale, sentita l’Assemblea regionale e con l’approvazione della maggioranza della Regione interessata espressa mediante referendum, si può modificare la denominazione delle Regioni esistenti e si possono creare nuove Regioni, con popolazione rispettivamente non inferiore ad un milione di abitanti. Con legge approvata dalle due Camere, sentite le rispettive Assemblee regionali e con l’approvazione della maggioranza delle popolazioni dei Comuni interessati espressa mediante referendum, si può 341 Cfr. L. FERRARO, commento all’art. 132 della Costituzione italiana, in Commentario alla Costituzione, a cura di BIFULCO R., CELOTTO A., OLIVETTI M., Torino, 2006, pp. 2546 ss. 342 La XIII legislatura è iniziata il 9 maggio 1996 e si è conclusa il 29 maggio 2001. 343 Il testo dell’art. 63 è consultabile su: www.camera.it/parlam/bicam/rifcost/docapp/relass7.htm. 275 consentire che Comuni che ne facciano richiesta siano staccati da una Regione ed aggregati ad un’altra” Si può notare, dopo una lettura sinottica del testo in questione con l’art. 132 Cost., che nelle prime due ipotesi di variazione è scomparsa l’iniziativa dei Consigli comunali, mentre nel caso di distaccoaggregazione la stessa viene affidata solamente ai Comuni e non anche alle Province. Com’è risaputo, la Commissione bicamerale per le riforme costituzionali è stata sciolta e questa proposta non ha avuto seguito. A seguito di minuziose ricerche, anche la Fondazione Agnelli aveva avanzato un progetto di revisione della Carta costituzionale; si erano individuati due criteri che avrebbero dovuto essere posti a fondamento di un ridisegno morfologico del territorio regionale: - il primo criterio postulava l’autonomia finanziaria come fondamento dell’autogoverno regionale; - il secondo suggeriva di prendere in considerazione quelle dimensioni territoriali che potessero favorire progetti di sviluppo economico. Per quanto riguarda il primo di questi due aspetti, lo studio aveva evidenziato che vi era una correlazione tra grado di autosufficienza e posizione geografica della Regione, una correlazione tra autosufficienza e situazione di “specialità” di una Regione ed una correlazione negativa tra grado di autosufficienza di una Regione e le sue dimensioni demografiche tali da far rilevare che le Regioni con meno di un milione di abitanti non fossero in grado di raggiungere un corretto equilibrio finanziario. In merito al secondo si rilevava invece che le nuove aree regionali avrebbero dovuto essere omogenee dal punto di vista economico e che per la loro ridefinizione si sarebbe dovuto considerare il ruolo 276 svolto dalle metropoli, viste le funzioni centrali che esse svolgono a favore del territorio su cui si esprime il loro effetto di dominanza. Il progetto proposto era quindi particolarmente attento ai profili economici e ne derivava la proposta di aggregare quelle realtà territoriali non in grado di sostenersi finanziariamente: il territorio dello Stato avrebbe dovuto essere ripartito in dodici Regioni (mesoregioni)344; avrebbero dovuto essere cancellate le Regioni a Statuto speciale perché “la tutela delle specialità culturali non può reggersi su “speciali” trattamenti finanziari e fiscali”345, ma soprattutto sarebbe stato finalmente messo da parte il criterio di ripartizione storico-statistico individuato dal Costituente in quanto i “criteri di razionalità economica possono suggerire ridisegni che non necessariamente trovano riscontro nell’identità storica di alcune attuali regioni”346. Le ricerche della Fondazione giungevano alla conclusione che ad “un nuovo “regionalismo” di stampo federalista si possa accompagnare una nuova “regionalizzazione”, ossia una nuova articolazione politicoterritoriale dello spazio nazionale”347, che era tanto necessaria in quanto la nuova ripartizione territoriale delle Regioni avrebbe realizzato anche alcuni equilibri istituzionali; infatti “la problematica della taglia delle dimensionale delle regioni (…) non riguarda soltanto l’ambito degli equilibri fiscale, ma anche la stessa natura dei rapporti politici che si possono instaurare in una federazione”348. 344 In questo senso si veda: M. PACINI (a cura di), “Un federalismo di valori ”, Torino, 1996, pp. 134 ss. 345 Cfr. M. PACINI (a cura di), “Un federalismo di valori ”, Torino, 1996, p. 151. 346 Cfr. M. PACINI (a cura di), “Un federalismo di valori ”, Torino, 1996, p. 151. 347 Cfr. M. PACINI (a cura di), “Un federalismo di valori ”, Torino, 1996, p. 171. 348 Cfr. M. PACINI (a cura di), “Un federalismo di valori ”, Torino, 1996, p. 172. 277 Nello specifico si prevedeva una fase di transizione durante la quale venivano facilitati i riaccorpamenti territoriali, seguita dall’introduzione del federalismo fiscale; in questo modo, qualora la modifica sperimentale fosse apparsa convincente, si sarebbe potuto procedere alla riaggregazione attraverso un rinnovato iter fissato in eventuali disposizioni transitorie in deroga all’art. 132 Cost. In questi stessi anni anche la dottrina si è occupata della questione della revisione della Costituzione. In particolare, con riferimento all’art. 132 Cost., vi sono state due tesi contrapposte: da una parte si proponeva di abrogare o sospendere l’art. 132 Cost., attraverso l’ordinario procedimento di revisione costituzionale, al fine di predisporre una rinnovata suddivisione del territorio della Repubblica349; dall’altra vi era chi non era d’accordo con questa tesi in quanto un unico referendum nazionale ex art. 138 Cost. sarebbe andato a surrogare le diverse consultazioni locali di cui all’art. 132 Cost., violando così il principio di autoidentificazione delle popolazioni interessate alla consultazione referendaria, intrinseco ai procedimenti di variazione territoriale350. Verranno ora esaminati i due più recenti progetti di modifica dell’art. 132 Cost., che, data la loro importanza, meritano dei paragrafi dedicati. 349 In questo senso si veda: G. BOLOGNETTI, “La Costituzione e l’ipotesi federalista ”, in Corriere giuridico n. 6/1994, Milano, p. 660. 350 In questo senso si veda: A. FERRARA, “Quali Regioni per la Repubblica? ” in Diritto e società n. 3/1995, Padova, pp. 325 ss. 278 1.1- La fallita riforma costituzionale approvata nel corso della XIV legislatura Tutti i progetti di revisione dell’art. 132 Cost. presentati nel paragrafo precedente sono rimasti tali, nel senso cioè che non hanno avuto un seguito legislativo; l’unica riforma della Parte II della Costituzione ad essere approvata in via definitiva dalle due Camere (novembre 2005) 351, è stato il progetto di riforma costituzionale della XIV legislatura, che però in seguito è stato respinto dal referendum costituzionale del 25-26 giugno 2006352. Con riferimento alla materia oggetto di questo studio, si ricorda che il progetto, all’art. 48, modificava l’art. 131 Cost., sostituendo le denominazioni “Valle d’Aosta” e “Trentino-Alto Adige” rispettivamente con “Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste” e “Trentino-Alto Adige-Südtirol”, il cui scopo era quello di evidenziare nell’elencazione delle Regioni il richiamo a particolari identità, anche linguistiche. Per quanto riguarda invece la tematica della variazione del territorio regionale, il legislatore di revisione aveva statuito una soluzione temporanea, in deroga all’art. 132 Cost.; all’interno delle disposizioni transitorie, con l’art. 53, co. 13 si stabiliva che: “Nei cinque anni successivi alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale si possono, con leggi costituzionali, formare nuove Regioni con un minimo di un milione di abitanti, a 351 Sul punto si veda: XIV legislatura, Atto Camera n. 4862, Atto Senato n. 2544. La legge costituzionale di riforma della Parte II della Costituzione è stata definitivamente approvata in quarta lettura dal Senato il 16 novembre 2005 e pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 269 del 18 novembre 2005. 352 Questi i risultati della consultazione referendaria: votanti: 53,7 %; si: 38,3 %; no: 61,7 % (fonte: Ministero dell’Interno). 279 modificazione dell’elenco di cui all’articolo 131 della Costituzione, come modificato dalla presente legge costituzionale, senza il concorso delle condizioni richieste dal primo comma dell’articolo 132 della Costituzione, fermo restando l’obbligo di sentire le popolazioni interessate”. La norma in questione configurava una sospensione dell’art. 132 per i cinque anni successivi all’entrata in vigore della stessa e molto verosimilmente lo scopo del legislatore era quello di “allentare, seppur solo temporaneamente, il complesso procedimento di variazione territoriale delle Regioni”353, evitando il procedimento “superaggravato” di cui all’art. 132 Cost. che, data la complessità, aveva costituito un deterrente a qualsivoglia tipologia di mutamento territoriale. Non si può non notare la somiglianza di questa norma con l’art. XI delle disposizioni di attuazione della Costituzione italiana354, che aveva sospeso l’entrata in vigore dell’art. 132 Cost. per consentire di regionalizzare aree le cui istanze non erano state accolte dall’Assemblea Costituente. La somiglianza finisce qui in quanto, mentre l’art. XI aveva lo scopo di rimediare ad errori di valutazione fatti dal Costituente in tema di ripartizione del territorio per mancanza di elementi sufficienti su cui fondare le proprie decisioni, l’art. 53, co. 13 non potrebbe fondarsi sulle stesse spiegazioni. Data la vigenza da oltre sessant’anni dell’art. 132 Cost. non si spiegherebbe il motivo di una disposizione transitoria per attenuarne gli effetti: se si vuole procedere ad una variazione territoriale, si deve attivare il 353 Cfr. L. FERRARO, commento all’art. 132 della Costituzione italiana, in Commentario alla Costituzione, a cura di BIFULCO R., CELOTTO A., OLIVETTI M., Torino, 2006, p. 2545. 354 Vedi Capitolo I, pp. 54 ss. 280 procedimento di cui all’art. 132 Cost.; se il legislatore ritiene invece che il procedimento “superaggravato” sia troppo complesso ed impedisca di fatto qualsiasi variazione, allora non si capisce perché non abbia provveduto a rivederlo, rendendolo meno complesso con una soluzione definitiva anziché valida solamente per un quinquennio355. Sul punto la dottrina356 rileva che la norma in questione omette due passaggi fondamentali del procedimento di variazione territoriale e cioè l’iniziativa dei Consigli comunali rappresentativi delle popolazioni interessate e l’obbligo di sentire i Consigli regionali; appare infatti poco opportuno prevedere che si possa procedere a delle variazioni territoriali senza il concorso delle condizioni richieste dall’art. 132, co. 1 Cost. perché ciò porterebbe ad affidare al Parlamento nazionale l’iniziativa di attivare il procedimento di variazione, segnando così “una lesione della trama ascensionale che governa l’intero articolo in commento (…) disattendendo così il principio informatore dell’art. 5 Cost., che implica appunto l’iniziativa dei Consigli comunali”357. In questo modo sarebbe rovesciata la dinamica del procedimento di cui all’art. 132 Cost., in una logica discensionale in cui le scelte sulla variazione sarebbero spettate allo Stato centrale e non più alle popolazioni interessate, la cui consultazione avrebbe assunto il ruolo di mera certificazione, 355 In questo senso si veda: L. FERRARO, commento all’art. 132 della Costituzione italiana, in Commentario alla Costituzione, a cura di BIFULCO R., CELOTTO A., OLIVETTI M., Torino, 2006, p. 2545. 356 Si veda: L. FERRARO, commento all’art. 132 della Costituzione italiana, in Commentario alla Costituzione, a cura di BIFULCO R., CELOTTO A., OLIVETTI M., Torino, 2006, p. 2545. 357 Cfr. L. FERRARO, commento all’art. 132 della Costituzione italiana, in Commentario alla Costituzione, a cura di BIFULCO R., CELOTTO A., OLIVETTI M., Torino, 2006, p. 2545. 281 snaturando e depotenziando la forza giuridica del popolo sovrano, nella sua frazione più vicina alla decisione da assumere. Il successivo co. 14 dell’art. 53 del progetto di riforma costituzionale indicava con precisione quali fossero le popolazioni interessate, prevedendo che: “Le popolazioni interessate di cui al comma 13 sono costituite dai cittadini residenti nei Comuni o nelle Province di cui si propone il distacco dalla Regione”. Con questo inciso veniva di fatto evidenziata la seconda deroga all’art. 132 prospettata dal precedente co. 13 e cioè l’assenza del parere dei Consigli regionali interessati. A prima vista il principio ispiratore di questa norma è ravvisabile nel concetto di popolazioni direttamente interessate alla variazione territoriale, individuato nella sentenza 334/2004 della Corte Costituzionale358, ma se si analizzano i due contesti normativi (quello dell’art. 132 Cost. come specificato dalla sentenza 334/2004 e l’art. 53, co. 14 del progetto) si vedrà che così non è. Il giudice delle leggi enuclea il criterio identificativo delle popolazioni direttamente interessate, dando per presupposto che gli interessi delle popolazioni indirettamente interessate dalla variazione territoriale siano tutelati dal parere obbligatorio delle Assemblee regionali; al contrario nell’art. 53, co. 14 delle disposizioni di transizione, tale strumento di garanzia non è più previsto, in ragione della sospensione operata dal co. 13: di conseguenza le popolazioni indirettamente interessate non sono in nessun modo tutelate. Il medesimo criterio, impiegato all’interno di contesti normativi differenti, genera effetti 358 Si veda: Sentenza della Corte Costituzionale 10 novembre 2004 n. 334 in Le Regioni n. 3/2005. Si veda Capitolo III, pp. 169 ss. 282 distorsivi, perché le popolazioni direttamente interessate sarebbero irragionevolmente privilegiate rispetto alle altre. In merito alle motivazioni sostanziali sottese a questo progetto, la dottrina conclude che: “la significativa riduzione delle misure di garanzia (…) faceva in definitiva paventare una possibile operazione di scomposizione-ricomposizione dei territori regionali funzionale alla c.d. devolution, che, infatti, rappresentava una delle proposte qualificanti del Progetto medesimo. Si sarebbe potuto, cioè, assegnare per tale via ad alcuni territori la possibilità di godere di regimi giuridici differenziati e più favorevoli, che verosimilmente sarebbero stati il prodotto della specifica attribuzione di nuove materie alla potestà legislativa esclusiva delle Regioni”359. 1.2- Il disegno di legge costituzionale per la modifica dell’art. 132, co. 2 proposto durante la XV legislatura A seguito delle sempre più frequenti richieste di distaccoaggregazione avutesi nell’ultimo triennio, il Governo precedente360 aveva approntato due soluzioni per arginare la questione: - da una parte aveva predisposto un disegno di legge costituzionale (poi naufragato con la fine anticipata della legislatura) di modifica del secondo comma dell’art. 132 Cost., al fine di individuare esattamente la sfera delle popolazioni interessate alla variazione territoriale; 359 Cfr. L. FERRARO, commento all’art. 132 della Costituzione italiana, in Commentario alla Costituzione, a cura di BIFULCO R., CELOTTO A., OLIVETTI M., Torino, 2006, p. 2546. 360 Ci si riferisce all’Esecutivo guidato da Romano Prodi (Governo Prodi II, dal 17 maggio 2006 al 6 maggio 2008). 283 - dall’altra ha istituito un “Fondo per la valorizzazione e la promozione delle aree territoriali svantaggiate confinanti con le Regioni a Statuto speciale” (detto “Fondo Letta”) con lo scopo di appianare la disparità di trattamento finanziario tra quei Comuni che si trovano in una Regione a Statuto speciale e quelli con essi confinanti che si trovano in una Regione a Statuto ordinario: la ratio del provvedimento è quella di placare le spinte secessioniste dei Comuni “di confine”. Durante la seduta del 30 marzo 2007 il Consiglio dei Ministri aveva approvato un disegno di legge costituzionale per la modifica del capoverso dell’art. 132 Cost. Il disegno è stato presentato alla Camera dei deputati il 17 aprile 2007 (Atto Camera n. 2523)361 per essere discusso in aula ma, come detto sopra, la fine anticipata della legislatura non ne ha permesso l’esame parlamentare. Dalla relazione che ha accompagnato il d.d.l. in aula si evince che lo scopo della modifica era quello di individuare esattamente la sfera della popolazioni interessate chiamate ad esprimersi in merito alla proposta di distacco-aggregazione, dal momento che il farraginoso e complesso sistema normativo individuato dalla legge 352/1970, ed in particolare dall’art. 42, ha impedito de facto il compimento di qualsiasi procedimento di modifica dei confini regionali, mortificando sul nascere ogni autonoma iniziativa degli enti locali. Oltre a ciò, si deve dire anche che la modifica al secondo comma dell’art. 132 Cost., approvata in occasione della modifica del Titolo V della Costituzione, e volta a circoscrivere l’ambito della consultazione referendaria unicamente alle popolazioni che intendono distaccarsi, ha una formulazione ambigua e lacunosa che ha determinato notevoli 361 Si veda il sito web: www.camera.it. 284 difficoltà interpretative circa l’ambito di applicazione. In soccorso è venuta la sentenza n. 334 del 2004 della Corte Costituzionale362, la quale ha specificato che, secondo la novella del 2001, popolazioni interessate dalla consultazione referendaria siano unicamente quelle che intendono distaccarsi dalla Regione, cioè le popolazioni direttamente interessate. La pronuncia della Consulta non è tuttavia stata esente da critiche soprattutto da parte di quei territori (acquirenti) nei quali dovrebbe svolgersi il processo di aggregazione che non potevano esprimersi in merito al procedimento, se non attraverso i pareri non vincolanti delle Regioni perchè ciò, a parere del precedente Governo, mortificava eccessivamente le esigenze dell’ente territoriale di aggregazione. Per ovviare a questi due ordini di problemi, la proposta di ulteriore modifica all’art. 132, co. 2 Cost. si proponeva di specificare in concreto quali dovessero essere le popolazioni interessate che sono chiamate ad esprimersi sull’ipotesi di distacco-aggregazione, e cioè la popolazione locale dell’ente che richiede il distacco o l’aggregazione, prevedendo in caso di esito positivo di questa consultazione, che si debba sottoporre la richiesta di variazione territoriale all’ulteriore vaglio referendario delle popolazioni che, in qualche misura, subiscono effetti di qualche natura da siffatto processo: per quanto riguarda il distacco di Province, si tratta della popolazione delle due Regioni interessate; in merito al distacco di Comuni, si tratta invece della popolazione delle due Province (rispettivamente cedente ed acquirente) delle due Regioni coinvolte nel processo. 362 Si veda: Sentenza 28 ottobre 2004 n. 334 della Corte Costituzionale in Giurisprudenza costituzionale n. 6/2004. 285 Erano state previste quindi due fasi: un prima fase, da svolgersi unicamente presso la popolazione locale strettamente interessata dalla modificazione territoriale, che si poneva in termini pregiudiziali rispetto ad una seconda, di portata più ampia, da svolgersi presso le popolazioni controinteressate degli enti locali cedenti ed aggreganti. Lo scopo era quello di evitare che il desiderio di variazione fosse avvertito soltanto dagli organi rappresentativi dell’ente e non anche dai suoi stessi rappresentati e che si determinasse uno spreco di risorse, soprattutto finanziarie, derivante dall’attivazione di un procedimento assai complesso quale è quello del referendum che dovrebbe tenersi, in due Regioni o in due Province, prima ancora di conoscere la volontà della popolazione che richiede il passaggio. L’obiettivo della modifica era dunque quello di differenziare in ogni stato e grado popolazioni e correlate aree d’interesse, graduando i relativi strumenti di garanzia ed evitando, al tempo stesso, la loro duplicazione: secondo il Governo appariva tautologico, ripetitivo e scarsamente incline al rispetto di taluni interessi consentire che la medesima entità, che intende distaccarsi, eserciti sia il potere d’impulso (con la richiesta degli organi rappresentativi), sia quello di consultazione (attraverso il referendum). Il rischio che si può correre in una simile situazione era quello di vedere snaturata la configurazione geografica, sociale e culturale del territorio cedente o di quello acquirente a seguito di una modifica non adeguatamente ponderata. Per ovviare a questi inconvenienti la modifica introduce una procedura tripartita, configurando tre livelli d’interesse connessi ad altrettanti strumenti di garanzia: 286 - una richiesta di distacco, riservata ai soli enti interessati e alle popolazioni locali di riferimento, che al riguardo esprimono una valutazione preliminare di opportunità; - un referendum, riservato alle popolazioni delle due Province o delle due Regioni interessate dal distacco o dall’aggregazione (popolazioni controinteressate); - un procedimento legislativo statale. Si noti la netta differenza di struttura e di funzioni tra la richiesta di distacco, da riservare al solo ente interessato e alla sua popolazione, ed il referendum, diretto ad integrare il processo di autoidentificazione territoriale e perciò riservato anche alle popolazioni controinteressate dalla richiesta di modificazione territoriale. L’intervento cercava di segnare una netta differenza rispetto alla novella del 2001, in cui si confondevano le due fasi della richiesta e della consultazione, specificando che la richiesta è logicamente limitabile alle popolazioni interessate in senso stretto, ossia a quelle che chiedono la variazione territoriale, mentre il referendum aveva la funzione di valutare gli orientamenti delle popolazioni coinvolte nel procedimento complessivo, con la conseguenza di poter essere esteso anche a quei soggetti che subiscono effetti significativi dalla variazione territoriale. L’idea di fondo sottesa alla modifica consisteva nel fatto che le variazioni territoriali delle Regioni dovevano essere il frutto di fenomeni giuridici volontari, non falsati da una variazione richiesta a seconda delle convenienze delle popolazioni che passano ad altra Regione per meri motivi economici. Dal punto di vista giuridico si noti poi che l’aggregazione costituisce una forma di “annessione” che presuppone quindi un accordo tra due 287 entità distinte, cioè l’incontro di due volontà, cosa che non è prevista nell’attuale formulazione dell’art. 132, co. 2 Cost.; di conseguenza questa convergenza di volontà non può che essere riservata tanto ai soggetti che richiedono per sé il distacco, tanto a quelli che lo subiscono. Conseguenza positiva della modifica è anche il fatto che l’emersione d’interessi locali contrapposti già in sede referendaria bloccherebbe fin da subito il procedimento, con un beneficio indubbio anche per l’attività parlamentare, che non dovrebbe più compiere tutta quella serie di valutazioni derivanti dal fatto di dover ponderare la proposta, approvata con referendum, il parere dei Consigli regionali delle Regioni coinvolte ed anche l’opportunità della variazione nell’ottica dell’interesse generale del Paese. Per tutti questi motivi sono stati previsti due livelli “ottimali” di popolazioni effettivamente e sostanzialmente interessate dalla variazione territoriale: - nel caso di passaggio ad altra Regione di un’intera Provincia si considerano interessate le popolazioni di entrambe le Regioni; - nel caso di passaggio ad altra Regione di un Comune il livello ottimale è costituito dai territori delle due Province di provenienza e di destinazione. Il testo del d.d.l. costituzionale era il seguente: “Il secondo comma dell’art. 132 della Costituzione è sostituito dal seguente: «Si può con legge della Repubblica, sentiti i Consigli regionali interessati, consentire che Province e Comuni siano staccati da una Regione e aggregati ad un’altra. La relativa iniziativa è preceduta dalla richiesta della Provincia o del Comune, previa approvazione delle rispettive popolazioni secondo le norme dei propri Statuti. Per il 288 passaggio di una Provincia ad un’altra Regione, la richiesta dev’essere inoltre approvata, mediante referendum, dalla maggioranza delle popolazioni di ciascuna delle Regioni interessate. Per il passaggio di uno o più Comuni da una Provincia ad un’altra appartenente a diversa Regione, la richiesta dev’essere invece approvata, mediante referendum, dalla maggioranza delle popolazioni di ciascuna delle due Province interessate»”. Sul testo si era espressa favorevolmente anche la Conferenza unificata Stato-Regioni in data 8 marzo 2007 con la raccomandazione di prevedere nella norma in questione anche il caso di modifiche territoriali relative alle Regioni a Statuto speciale. Il d.d.l. ha suscitato forti perplessità in quanto rappresenta un’involuzione rispetto alla facilitazione apportata nel procedimento di distacco-aggregazione con la riforma costituzionale del 2001 e la successiva precisazione avutasi con la sentenza 334/2004. La dottrina si è dimostrata quasi all’unanimità contraria alla modifica costituzionale in questione, in certi casi criticandola senza mezzi termini. Da una parte vi è chi (Ratto Trabucco363) cerca di analizzare le ragioni che hanno spinto il legislatore a proporre tale modifica: quella “ufficiale” viene ravvisata nell’opportunità di tutelare in maniera più adeguata i diritti delle popolazioni controinteressate alla variazione territoriale, cosa che il testo di legge vigente non assicura. La critica sul punto è pienamente condivisibile: da un lato s’introduce un referendum nella Provincia o nella Regione di distacco ed in quella di 363 Cfr. F. RATTO TRABUCCO, Riforma del procedimento di distaccoaggregazione di Comuni da una Regione all’altra: un attacco alle autonomie locali che grida vendetta, www.forumcostituzionale.it, 2008. 289 aggregazione, dall’altro si continua a prevedere il parere dei Consigli regionali, con un’inutile duplicazione degli strumenti di tutela che in un certo senso sminuisce il valore della pronuncia popolare. A tal proposito si precisa che il referendum nell’ente locale da cui si chiede il distacco dovrebbe avere un mero valore consultivo, incapace di bloccare l’intero procedimento, mentre appare molto più logico acquisire il consenso dell’ente locale di aggregazione. La seconda osservazione sul disegno di legge non appare pienamente condivisibile: si critica il fatto che il legislatore non abbia preso in considerazione la possibilità di mutare “l’abnorme quorum del voto favorevole della maggioranza degli iscritti nelle liste elettorali al fine dell’approvazione del quesito di variazione territoriale (…) sia in rapporto alla disciplina prevista per le altre tipologie di referendum previste in costituzione (…), sia circa la normativa dettata dalla legge n. 459 del 2001 per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti all’estero”364. Come si è sostenuto in precedenza365, simili considerazioni possono essere accettabili in merito al voto degli italiani residenti all’estero, non per quanto riguarda il quorum sui generis prescritto per il referendum territoriale dall’art. 45, co. 2 della l. 352/1970. La critica si fa più decisa quando si “scovano” le ragioni “reali” del d.d.l. I parlamentari italiani vengono accusati di non conoscere la storia e pertanto di non essere in grado di comprendere il presente; se infatti sapessero che la perimetrazione delle Regioni imposta dal Costituente era artificiale e che alcune variazioni territoriali furono 364 Cfr. F. RATTO TRABUCCO, Riforma del procedimento di distaccoaggregazione di Comuni da una Regione all’altra: un attacco alle autonomie locali che grida vendetta, www.forumcostituzionale.it, 2008, pp. 1 ss. 365 Si veda Capitolo III, paragrafo 3.4, in particolare p. 181. 290 imposte negli anni solamente per mere ragioni politiche, allora si potrebbe comprendere il motivo delle recenti richieste di distaccoaggregazione. In realtà il sistema centralista persiste nel coartare in forma sempre più subdola lo spazio d’azione dell’ente locale, mortificando il diritto di autoidentificazione delle comunità locali. La motivazione reale dell’avversione delle oligarchie partitiche verso qualsiasi forma di variazione territoriale è determinata anche e soprattutto dal timore che una riperimetrazione dei confini regionali comporterebbe una consequenziale nuova perimetrazione anche dei collegi elettorali, con la possibilità di registrare una diminuzione dei consensi in sede elettorale. Con la predisposizione di una modifica costituzionale come quella in esame, il legislatore ha voluto solo marginalmente tutelare le popolazioni controinteressate, il vero scopo essendo quello di rendere più difficoltosa una variazione territoriale che potesse arrecare danno alla “casta” politica. Nello stesso senso, anche se molto più pacata, è altra recente dottrina (Malo), la quale sostiene che: “più che come mezzo per esprimere una convergente volontà, il voto referendario delle popolazioni diverse da quella direttamente investita dal distaccoaggregazione si prospetta come un insormontabile potere di veto, che tende a soffocare «il principio di autodeterminazione delle autonomie locali»”366. Altri (Motroni) fanno invece una critica più velata, sostenendo che “il Parlamento nazionale, oltre a valutare l’opportunità politica 366 Cfr. M. MALO, Forma e sostanza in tema di variazioni territoriali delle Regioni (a margine della pronuncia 66/2007 della Corte Costituzionale) in Le Regioni n. 3/2007, Bologna, p. 650. 291 dell’operazione (…), dovrà garantire la “genuinità” complessiva dell’operazione, al fine di evitare che la nobile questione dell’autodeterminazione dell’autonomia locale non dissimuli l’esistenza di progetti politici occulti (…). Tale compito pare razionalmente perseguibile attraverso attente valutazioni politiche e non facendo ricorso ad illogici aggravamenti delle procedure appositamente previste dalla Costituzione”367. Sul d.d.l. si è soffermata anche altra recente dottrina (Ferrara368), che lo critica nel punto in cui prevede che la richiesta del Comune o della Provincia non debba essere più necessariamente appoggiata dall’approvazione della maggioranza delle popolazioni direttamente interessate espressa mediante referendum: si ritiene infatti che ciò servirebbe soltanto a ridurre il rilievo costituzionale e l’impatto politico della consultazione referendaria. Una seconda critica riguarda il fatto che la richiesta di variazione territoriale non debba essere necessariamente appoggiata dalla maggioranza delle popolazioni di ciascuna delle Province o delle Regioni interessate: si ritiene infatti paradossale che si chieda il consenso della maggioranza assoluta delle popolazioni residenti nell’intera Provincia o Regione, in quanto il grado d’interesse di queste è senz’altro minore, non essendo direttamente coinvolte dal trasferimento. 367 Cfr. M. MOTRONI, La migrazione dei Comuni di frontiera verso le Regioni a statuto speciale: la problematica scelta della fonte idonea a produrre l’effetto di variazione territoriale, www.federalismi.it, 2008, pp. 19 ss. 368 Cfr. A. FERRARA, Questione settentrionale. Dalla grande alla piccola secessione: la migrazione territoriale dei Comuni come istanza di specializzazione in deroga ai principi del federalismo fiscale, www.federalismi.it, 2007, p. 6. 292 Concludendo si ritiene che le critiche dottrinali sopra esposte siano tutte condivisibili, ma quella che coglie meglio nel segno è senza dubbio quella (di Ratto Trabucco) che vede in questo d.d.l. l’ennesimo tentativo da parte del potere centrale di frustrare il diritto di autodeterminazione delle popolazioni locali. Può essere illuminante riportare sulla questione un inciso di Fraenkel-Haeberle, la quale afferma che: “il problema delle blindature statutarie e della sacralità degli equilibri etnici, dopo essere stato scacciato dalla porta principale si sia ripresentato da quella di servizio”369. 2- I Fondi per favorire le aree territoriali confinanti con le Regioni a Statuto speciale Nel corso dello scorso anno (2007) si sono registrati degli interventi provenienti da istituzioni diverse, ma volti tutti a favorire quelle aree territoriali, ricomprese all’interno di Regioni a Statuto ordinario confinanti col territorio di Regioni a Statuto speciale attraverso l’istituzione di specifici Fondi. Il primo intervento è stato attuato dal Governo, attraverso l’istituzione del Fondo per la valorizzazione e la promozione delle aree territoriali svantaggiate confinanti con le Regioni a Statuto speciale (il cosiddetto “Fondo Letta”); altri interventi sono stati attuati dalla Regione Veneto, da sola, con la legge regionale n. 30/2007, con cui ha istituito dei Fondi per interventi in particolari aree, o di concerto con la Provincia autonoma di Trento, con cui ha siglato un’Intesa volta alla cooperazione dei territori confinanti, anch’essa istitutiva di un Fondo per l’attuazione 369 Cfr. C. FRAENKEL-HAEBERLE, La “secessione” dei Comuni: una chimera o una via percorribile?, www.federalismi.it, 2008, p. 5. 293 degli interventi previsti dall’Intesa (l’Intesa è stata ratificata da parte del Veneto con la legge regionale n. 31/2007). Nel caso specifico, le aree territoriali svantaggiate poste al confine tra Veneto e Trentino-Alto Adige, possono contare attualmente su cospicui finanziamenti così suddivisi: quota parte dei 45 milioni di euro stanziati col Fondo governativo, 9 milioni di euro stanziati dalla Regione Veneto ed altri 12 quali frutto dell’Intesa tra Veneto e Trento. A questi si aggiungono i fondi europei dedicati alla cooperazione tranfrontaliera370. Si può dire che, se alcuni Comuni avevano chiesto di cambiare Regione solamente per motivi finanziari, di certo tali motivazioni dovrebbero attenuarsi a seguito di questi interventi. Si esamineranno ora nel dettaglio i singoli Fondi. 2.1- Il Fondo per la valorizzazione e la promozione delle aree territoriali svantaggiate confinanti con le Regioni a Statuto speciale Il precedente Governo ha disposto (ed attuato) una seconda misura (dopo il d.d.l. per la modifica dell’art. 132, co. 2 Cost.) per arginare le spinte secessioniste dei Comuni “di confine” e risolvere, almeno in parte, la questione delle disparità di trattamento finanziario tra Regioni ordinarie e Regioni a Statuto speciale: è stato istituito un 370 Sul tema si veda: Parte (ricchissima) l’intesa per i comuni di confine in www.anordest.it. 294 Fondo per la valorizzazione e la promozione delle aree territoriali svantaggiate confinanti con le Regioni a Statuto speciale371. Il Fondo è stato istituito dall’art. 6, co. 7 del decreto-legge 2 luglio 2007, n. 81 (convertito dalla legge 3 agosto 2007, n. 127), poi sostituito dall’art. 35 del decreto-legge 1 ottobre 2007, n. 159 (convertito dalla legge 29 novembre 2007, n. 222), il quale prevede quanto segue: “All’articolo 6 del decreto-legge 2 luglio 2007, n. 81, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2007, n. 127, il comma 7 è sostituito dal seguente: «È istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri il Fondo per la valorizzazione e la promozione delle aree territoriali svantaggiate confinanti con le Regioni a Statuto speciale, con una dotazione di 25 milioni di euro per l'anno 2007. Le modalità di erogazione del predetto fondo sono stabilite con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per gli affari regionali e le autonomie locali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze. Il Dipartimento per gli affari regionali provvede a finanziare, in applicazione dei criteri stabiliti con il predetto decreto del Presidente del Consiglio e sentite le regioni interessate, specifici progetti finalizzati allo sviluppo economico e sociale dei territori dei Comuni confinanti con le regioni a statuto speciale. Tra i criteri di valutazione dovrà avere particolare importanza la caratteristica sovracomunale dei progetti». 371 Sul punto si veda: M. BARBERO, Come (non) si risolve la questione delle “secessioni” dei Comuni di confine (e dei privilegi finanziari delle autonomie speciali), www.federalismi.it, 2008, pp. 2 ss. 295 «All’onere derivante dal presente articolo, pari a 5 milioni di euro per il 2007, si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2007-2009, nell’ambito dell’unità previsionale di base di parte corrente «Fondo speciale» dello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per l'anno 2007, allo scopo parzialmente utilizzando l'accantonamento relativo al medesimo Ministero». Lo scopo del Fondo, come stabilisce il primo comma, è il finanziamento di progetti finalizzati allo sviluppo economico e sociale dei territori dei Comuni “di confine”, su proposta degli stessi Comuni. Le modalità di erogazione del Fondo sono state dettate dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri il 28 dicembre 2007. Si riassumono qui di seguito brevemente i contenuti della disciplina di attuazione. Beneficiari possibili del Fondo sono quei Comuni la cui superficie è contigua al confine delle Regioni a Statuto speciale (Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia). A ciascuna “macroarea” è stata assegnata una quota fissa (pari al 5% del Fondo) ed una quota variabile, calcolata in base alla superficie, al numero ed alla popolazione dei Comuni confinanti (pari al 20% per la Valle d’Aosta, al 30% per il Friuli-Venezia Giulia ed al 50% per il TrentinoAlto Adige). Un successivo decreto del Ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie locali del 3 marzo 2008 ha definito le modalità concrete delle risorse ed ha stilato l’elenco dei Comuni appartenenti alle tre macroaree previste. È possibile dar vita ad aggregazioni temporanee di Comuni: la stessa legge istitutiva del Fondo prevede che vi possano essere progetti a carattere “sovracomunale”. L’aggregazione 296 può designare un “capofila” e possono rientrare in essa anche Comuni diversi da quelli dell’elenco, purché il numero di questi ultimi non superi il 30% del totale dei Comuni presenti nell’aggregazione. Sono finanziabili “specifici progetti finalizzati allo sviluppo economico e sociale dei territori dei Comuni confinanti con le Regioni a Statuto speciale”, che devono rientrare nelle seguenti materie: - servizi socio-sanitari, di assistenza sociale, scolastici, di trasporto, di raccolta differenziata e smaltimento dei rifiuti, di telecomunicazione; - interventi di miglioramento della viabilità comunale, di diffusione dell’informatizzazione, dell’e-governement ; - misure per la valorizzazione e la salvaguardia dell’ambiente e la promozione dell’uso di energie alternative, di promozione del turismo, del settore primario, dell’artigianato tradizionale, del commercio di prodotti di prima necessità, di realizzazione di sportelli unici. Come si vede, le finalità del Fondo si possono riassumere nello sviluppo economico e sociale dei territori in questione (ex art. 119, co. 5 Cost.), attraverso la realizzazione di infrastrutture o l’organizzazione ed il potenziamento di servizi relativi alle funzioni di competenza dei Comuni. Il limite massimo di finanziamento per ciascun progetto non può superare i 300.000 euro, elevabili a 1.500.000 euro nell’ipotesi di progetti a valenza sovracomunale. I progetti sono valutati secondo una serie di parametri: - svantaggio relativo dell’area cui il progetto afferisce, misurato mediante indicatori rappresentativi delle condizioni geo-morfologiche, socio-demografiche ed economiche dei territori interessati; - valenza sovracomunale del progetto; 297 - polifunzionalità dell’intervento, cioè la capacità di conseguire obiettivi riconducibili a più ambiti dell’intervento; - cofinanziamento da parte di soggetti pubblici o privati di entità complessivamente non inferiore al 10% del valore dichiarato del progetto; - continuità degli effetti nel tempo dell’azione proposta. Il bando per l’erogazione dei contributi è stato emanato in data 25 marzo 2008 dal Dipartimento per gli Affari Regionali della Presidenza del Consiglio dei Ministri ed ha specificato i suddetti parametri di valutazione, assegnando a ciascuno un punteggio sulla base del quale verranno redatte tre distinte graduatorie di merito per ciascuna delle tre macroaree. Allo scopo è stata istituita un’apposita Commissione di valutazione, composta da politici e tecnici di provenienza statale, senza quindi coinvolgere gli enti locali. A questi ultimi è stato riservato il ruolo successivo di monitorare e valutare la conformità degli interventi realizzati rispetto ai progetti approvati e finanziati. L’istituzione del Fondo è stata oggetto di critica da parte della dottrina372. Sotto il profilo della legittimità costituzionale la disciplina relativa al Fondo non pare coerente con l’art. 119, co. 5 Cost. così come interpretato dalla Corte Costituzionale: gli interventi finanziari previsti dal comma 5 riguardano materie nelle quali lo Stato non ha competenza esclusiva, cioè materie in regime di competenza concorrente o di competenza esclusiva regionale. Secondo la Corte Costituzionale, “l’esigenza di rispettare il riparto costituzionale delle 372 Cfr. M. BARBERO, Come (non) si risolve la questione delle “secessioni” dei Comuni di confine (e dei privilegi finanziari delle autonomie speciali), www.federalismi.it, 2008, pp. 4 ss. 298 competenze legislative tra Stato e Regioni comporta (…) che, quando tali finanziamenti riguardino ambiti di competenza delle Regioni, queste siano chiamate ad esercitare compiti di programmazione e di riparto dei fondi all’interno del proprio territorio”373. Se così non fosse il ricorso ai finanziamenti potrebbe divenire uno strumento d’indiretta ed indebita ingerenza dello Stato nell’esercizio di funzioni degli enti locali. Dal bando per l’erogazione dei Fondi, si desume invece che le Regioni non sono coinvolte nelle procedure di programmazione ed erogazione dei Fondi, se non marginalmente ed a posteriori; ciò sarebbe costituzionalmente illegittimo secondo l’interpretazione data dalla Consulta dell’art. 119, co. 5 Cost. Sotto il profilo dell’opportunità politica l’istituzione del Fondo è ancor più criticabile, in quanto esso rappresenta un modesto surrogato di una più complessiva riforma che dovrà portare all’eliminazione dei privilegi finanziari delle Regioni a Statuto speciale, ormai anacronistici. Malgrado queste critiche, bisogna tuttavia dare atto al precedente Governo di aver almeno tentato di dare delle risposte, seppur insufficienti, alle istanze secessioniste dei Comuni “di confine”: - con l’art. 1, co. 661 della legge n. 296 del 2006 (legge finanziaria per il 2007), in cui aveva previsto che: “le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano concorrono al riequilibrio della finanza pubblica (…) anche con misure finalizzate a 373 Si veda: Sentenza della Corte Costituzionale 16 gennaio 2004, n. 16 in Le Regioni n. 4/2004, p. 1024; per un approfondimento sul tema si veda: C. SALAZAR, L’art. 119 Cost., tra (in)attuazione e”flessibilizzazione” (in margine a Corte Cost. sentt. nn. 16 e 49 del 2004) in Le Regioni n. 4/2004, pp. 1026 ss. 299 produrre un risparmio per il bilancio dello Stato”: si era previsto quindi che anche le Regioni a Statuto speciale iniziassero a contribuire alla perequazione statale374, in attuazione dell’art. 119, co. 3 Cost., come novellato dalla riforma del Titolo V. - con l’art. 18, co. 1 del disegno di legge delega licenziato dal Consiglio dei Ministri il 3 agosto 2007 sull’attuazione dell’art. 119 della Costituzione (attuazione del federalismo fiscale), in cui si prevedeva che “le regioni a statuto speciale e le province autonome concorrono agli obiettivi di perequazione e solidarietà e ai diritti e doveri da essi derivanti”: anche qui si prevedeva che le Regioni a Statuto speciale contribuissero alla perequazione statale; - con l’art. 35 della legge 29 novembre 2007, n. 222, istitutivo del Fondo per la valorizzazione e la promozione delle aree territoriali svantaggiate confinanti con le Regioni a Statuto speciale. La questione della secessione dei Comuni di confine è passata all’attuale Governo375, che in un modo o nell’altro dovrà risolverla per dare una risposta ad istanze per troppo tempo rimaste inascoltate e che ancora oggi, malgrado gli interventi attuati, sono disattese. 2.2- Gli interventi attuati dalla Regione Veneto La Regione Veneto è attualmente l’area maggiormente interessata dai procedimenti di distacco ex art. 132, co. 2 Cost.; per far fronte a questa situazione e per dare una risposta alle genti di montagna che lamentano uno scarso interesse della Regione nei loro 374 Si veda Capitolo V, paragrafo 1.2. Ci si riferisce all’Esecutivo guidato da Silvio Berlusconi (Governo Berlusconi IV, dall’8 maggio 2008). 375 300 confronti, l’ente locale ha provveduto, con la legge regionale 26 ottobre 2007, n. 30, recante “Interventi regionali a favore dei Comuni ricadenti nelle aree svantaggiate di montagna e nell’area del Veneto orientale”376, ad attuare una serie di interventi a favore di queste popolazioni. Come sostiene il dettato legislativo, la Regione Veneto “promuove interventi” volti al “miglioramento della qualità della vita dei cittadini residenti” in determinate aree svantaggiate, così individuate: - i Comuni ricadenti nelle aree svantaggiate di montagna (art. 1, co. 1) il cui territorio sia ricompreso nell’ambito di una Comunità montana (art. 2, co. 2). Tra questi è data priorità ai Comuni con popolazione non superiore ai cinquemila abitanti o a frazioni di Comuni con meno di cinquecento abitanti, che presentino situazioni di disagio economico (art. 2, co. 1 lett. a). I criteri per l’attuazione degli interventi sono stabiliti in base a (art. 3, co. 2): a) l’indice di spopolamento, mettendo in rapporto i due ultimi censimenti; b) l’indice di abbandono del territorio agricolo; c) l’indice di anzianità della popolazione. Per questi Comuni è inoltre prevista una “capillare copertura dei territori (…) (da parte) dei medici di medicina generale” e un “adeguato servizio di consegna a domicilio dei medicinali” (art. 4); - i Comuni ubicati nell’area del Veneto orientale (art. 1, co. 1), individuata dall’art. 1, co. 2 della legge regionale n. 16/1993377, con 376 Si veda la legge 26 ottobre 2007, n. 30 su BUR n. 94/2007. Si veda la legge regionale 22 giugno 1993, n. 16 (in BUR n. 53/1993) recante “Iniziative per il decentramento amministrativo e per lo sviluppo economico e 377 301 popolazione non superiore a cinquemila abitanti, che presentino situazioni di disagio economico dovute alla sfavorevole contiguità territoriale con Regioni a Statuto speciale (art. 2, co. 1 lett. b). In questo caso i criteri di attuazione degli interventi sono individuati dalla Giunta regionale (art. 3, co. 1). All’art. 6 è previsto che in fase di prima applicazione siano destinatari dei finanziamenti solamente i Comuni direttamente confinanti con la Regione a Statuto speciale; - i Comuni della Provincia di Treviso con meno di cinquemila abitanti, confinanti con la Regione Friuli-Venezia Giulia, ad esclusione dei Comuni che fanno parte delle Comunità montane (art. 1, co. 1)378. Gli interventi a favore di questi Comuni tengono conto anche di altri interventi, attuati a seguito delle Intese della Regione Veneto con le Regioni a Statuto speciale (art. 5, co. 1)379; infatti, se “gli interventi da realizzare ricadono nell’ambito di applicazione delle Intese, gli stessi sono gestiti dall’organo comune di gestione previsto dalle Intese stesse” (art. 5, co. 3). La copertura finanziaria per realizzare gli interventi in questione è assicurata da un Fondo, costituito con prelevamenti dal bilancio della Regione: sociale del Veneto orientale. All’ 1, co. 2 si prevede che: “Ai fini della presente legge l'area del Veneto orientale comprende i Comuni di: Annone Veneto, Caorle, Ceggia, Cinto Caomaggiore, Concordia Sagittaria, Eraclea, Fossalta di Piave, Fossalta di Portogruaro, Gruaro, Jesolo, Meolo, Musile di Piave, Noventa di Piave, Portogruaro, Pramaggiore, S. Donà di Piave, S. Michele al Tagliamento, S. Stino di Livenza, Teglio Veneto, Torre di Mosto”. 378 Il comma 1 dell’art 1 della legge regionale 30/2007 è stato così modificato, inserendo anche quest’ultimo gruppo di Comuni, dal comma 1 dell’art. 81 della legge regionale 27 febbraio 2008, n. 1. 379 Si fa riferimento, ad esempio, all’Intesa tra la Regione Veneto e la Provincia autonoma di Trento, sottoscritta a Recoaro Terme il 4 luglio 2007. Quest’Intesa sarà trattata approfonditamente nel proseguio di questo paragrafo. 302 - per i Comuni ricadenti nelle aree svantaggiate di montagna viene previsto un prelevamento dal bilancio regionale (per gli esercizi 2007, 2008 e 2009) pari a 9.000.000 di euro (art. 7, co. 1). Per le spese di gestione di questi enti locali, derivanti dall’attuazione degli interventi in questione, è previsto un ulteriore prelevamento dal bilancio regionale (art. 7, co. 3); - per i Comuni del Veneto orientale si provvede con un prelevamento dal bilancio regionale (per gli esercizi 2007, 2008 e 2009) pari a 2.000.000 di euro (art. 7, co. 2). 2.3- L’Intesa tra la Regione Veneto e la Provincia autonoma di Trento Un ulteriore intervento attuato dalla Regione Veneto nel corso del 2007 a favore delle popolazioni di montagna è stata l’Intesa con la Provincia autonoma di Trento, sottoscritta dal Presidente del Veneto Galan e dal Presidente della Provincia di Trento Dellai in data 4 luglio 2007 a Recoaro Terme (VI). Scopo dell’Intesa è quello di migliorare l’esercizio delle funzioni amministrative di competenza dei due enti, soprattutto in materia di sviluppo locale, sanità, cultura, alta formazione, istruzione e formazione, infrastrutture e reti di trasporto (art. 1). L’accordo si fonda sulla constatazione che tra popolazioni venete e trentine confinanti esiste un “profondo legame storicamente comprovato”380 e che ciò può portare a “realizzare processi di collaborazione territoriale”381 nell’ambito delle materie appena elencate. L’ambito di applicazione dell’Intesa viene definito al co. 2, 380 381 Si veda la premessa dell’Intesa. Si veda la premessa dell’Intesa. 303 in cui si elencano i trentadue Comuni veneti ed i ventinove Comuni trentini, interessati da essa e sono ricompresi anche quei Comuni “diversi da quelli confinanti, purché a questi ultimi funzionalmente collegati per il perseguimento delle specifiche finalità degli interventi medesimi” (art. 8, co. 4). Obiettivo dell’accordo è “costituire un modello innovativo di cooperazione interregionale, particolarmente orientato alle risoluzione delle problematiche incontrate dalle popolazioni di confine” e finalizzato a promuovere lo sviluppo del territorio, a gestire in maniera più efficace i servizi, a scambiare competenze d’interesse comune, a migliorare le competenze professionali di tutti quei soggetti coinvolti nella promozione del territorio (art. 3). Per realizzare questi obiettivi, l’Intesa propone di incrementare tutti quegli strumenti operativi già utilizzati, favorire forme associative, mettere a disposizione risorse finanziarie, sviluppare la rete infrastrutturale (art. 4). Il raggiungimento degli obiettivi di cui al co. 2 è perseguito da un comune organismo di natura politico-amministrativa, la Commissione per la gestione dell’Intesa (art. 4). La Commissione è composta dai Presidenti della Regione e della Provincia (o da loro delegati) e dagli Assessori di riferimento per le materie oggetto dell’Intesa. I membri veneti della Commissione sono stati nominati con decreto della Giunta regionale l’11 dicembre 2007, mentre la componente trentina è stata nominata il 14 dicembre 2007. La prima riunione della Commissione si è svolta in data 18 dicembre 2007 a Venezia. La presidenza della Commissione è ricoperta, a rotazione, da un rappresentante delle due Amministrazioni contraenti (art. 4, co. 6): attualmente è questa 304 funzione è ricoperta dal Presidente della Regione Veneto Giancarlo Galan. La Commissione adotta un Programma triennale contenente “linee d’indirizzo, direttive e priorità per l’adozione delle misure d’integrazione territoriale” (art. 5, co. 2); il Programma viene attuato con un Piano annuale contenente gli interventi da realizzare e le relative risorse finanziarie (art. 5, co. 4). Il Programma è stato approvato dalla Commissione in data 18 giugno 2008, che lo ha poi trasmesso alle due Amministrazioni che dovevano approvarlo nei successivi trenta giorni (art. 5, co. 5): il Programma è stato approvato all’unanimità dalla Giunta regionale veneta il 24 giugno 2008 e da quella provinciale trentina il 30 giugno 2008. La Commissione, per la gestione dell’Intesa, si avvale di un Gruppo Tecnico avente competenze giuridico-amministrative e tecnicoeconomiche: esso è composto da personale competente, appartenente in misura paritetica alle due Amministrazioni contraenti (art. 7, co. 1). I componenti del Gruppo Tecnico sono stati nominati dalla Regione Veneto e dalla Provincia autonoma di Trento contemporaneamente alla Commissione (quindi rispettivamente l’11 ed il 14 dicembre 2008). Le funzioni principali del Gruppo Tecnico consistono in: - raccogliere ed elaborare le proposte provenienti dagli enti locali (art. 7, co. 1); - presentare “proposte di sviluppo, valorizzazione e integrazione territoriale” alla Commissione (art. 7, co. 3). Per la realizzazione degli interventi in questione è stata prevista l’istituzione di un apposito Fondo382 (artt. 8 e 9), alimentato mediate 382 Il Fondo in questione è denominato “Fondo regionale per l’attuazione degli interventi previsti dall’Intesa tra la Regione del Veneto e la Provincia autonoma di 305 prelevamenti dal bilancio dei due enti locali contraenti; la sua consistenza è decisa annualmente: per ciascuno dei primi due anni sono stati messi a disposizione 12 milioni di euro (10 milioni dalla Provincia autonoma di Trento383 e 2 milioni dalla Regione Veneto384). I progetti dei Comuni che intendono concorrere a questi finanziamenti devono essere presentati entro l’1 settembre 2008. L’Intesa è stata ratificata dal Consiglio regionale veneto con la legge regionale 26 ottobre 2007, n. 31385 e dal Consiglio provinciale di Trento con la legge provinciale 16 novembre 2007, n. 21386. Come previsto dall’art. 11 dell’Intesa, questa comincia a produrre i suoi effetti decorsi quindici giorni dall’entrata in vigore dell’ultima legge regionale o provinciale di ratifica. A seguito di questi due interventi della Regione Veneto si può sostenere che, se le consultazioni referendarie per chiedere il cambio di Regione attivate negli ultimi tre anni avevano lo scopo di protestare contro un atteggiamento di sostanziale indifferenza della classe politica regionale verso particolari situazioni di disagio di alcune aree territoriali, lo scopo è stato raggiunto, in quanto ora le popolazioni di queste aree hanno dato visibilità ai loro problemi. In qualche maniera, con l’istituzione dei due Fondi, si è anche cercato di appianare le divergenze di ordine finanziario tra Regioni ordinarie e Trento per favorire la cooperazione tra territori confinanti” dall’art. 3, co. 1 della legge regionale n. 31/2007. 383 Si veda l’art. 3, co. 1 della legge della Provincia autonoma di Trento del 16 novembre 2007, n. 31. 384 Si veda l’art. 3, co. 2 della legge della Regione Veneto del 26 ottobre 2007, n. 31. 385 Si veda la legge regionale 26 ottobre 2007, n. 31 in BUR del Veneto n. 94/2007. 386 Si veda la legge provinciale 16 novembre 2007, n. 21 in BUR del TrentinoAlto Adige n. 48/2007. 306 quelle ad autonomia differenziata, sopprimendo almeno in parte le velleità migratorie di certi Comuni secessionisti. Quello che non si è riusciti a fare, con questi due interventi, è dare una risposta definitiva ai problemi strutturali che affliggono le zone di montagna. L’istituzione di questi fondi, seppur encomiabile, serve solamente a tamponare, non a risolvere definitivamente il problema. Innanzitutto la natura stessa dei Fondi è incerta: essi sono ricavati dal bilancio regionale (o provinciale), ma cosa succederebbe se cambiasse l’ “umore” della maggioranza politica regionale, e dai bilanci non si ricavassero più o si ricavassero meno somme da destinare a questi Fondi? Semplice: non sarebbe più possibile attuare interventi a favore delle aree di montagna. Quello che le genti di montagna chiedono, seppur in forma provocatoria con le richieste di passaggio alle Regioni ad autonomia differenziata, è che siano attuati degli interventi strutturati e definitivi. La richiesta potrà essere esaudita solamente con una riforma strutturale anche del regime fiscale dello Stato, permettendo a ciascun territorio di trattenere la maggior parte dei contributi che in quell’area vengono prodotti, affinché questi possano essere gestiti dagli amministratori locali per far fronte ai problemi specifici delle popolazioni che in quei territori vi risiedono. In altre parole, si auspica l’introduzione del federalismo fiscale. 3- Cenni di diritto comparato Dopo aver analizzato dettagliatamente i procedimenti di variazione territoriale nell’ambito dell’ordinamento italiano, può 307 risultare interessante vedere come sia sviluppata la tematica all’interno di altri ordinamenti, in un’ottica comparatistica. Nell’ambito della Comunità europea, il processo d’integrazione tra gli Stati appartenenti non ha apportato particolari contributi al tema della variazione territoriale regionale in ragione del principio del disinteresse comunitario nei riguardi dell’organizzazione interna di ciascuno Stato membro387. In materia l’unico riferimento si rinviene nella Carta europea dell’autonomia locale (sottoscritta a Strasburgo il 15 ottobre 1985), la quale, all’art. 5 prescrive che: “Per ogni modifica dei limiti locali territoriali, le collettività locali interessate dovranno essere preliminarmente consultate, eventualmente mediante referendum, qualora ciò sia consentito dalla legge”. La disposizione normativa è alquanto generale, ma, ciononostante si possono riscontrare alcuni punti di convergenza con il dettato legislativo dell’art. 132 della Costituzione italiana, in particolare per quanto riguarda l’individuazione delle popolazioni interessate alla variazione e la conseguente necessità di raccogliere il loro parere mediante referendum. Comparando questa norma con l’art. 132 Cost. si può notare che i punti salienti che caratterizzano il procedimento di variazione territoriale italiano, cioè la partecipazione attiva delle popolazioni locali nella scelta di variazione, siano apprezzate anche in sede comunitaria. 387 Cfr. L. FERRARO, commento all’art. 132 della Costituzione italiana, in Commentario alla Costituzione, a cura di BIFULCO R., CELOTTO A., OLIVETTI M., Torino, 2006, p. 2542. 308 Una riflessione più profonda sulla questione è stata avviata dalla dottrina388, la quale ha ravvisato nell’ordinamento italiano una sostanziale incongruità tra i principi sostenuti nella Costituzione repubblicana e la loro concreta attuazione per mezzo della legislazione ordinaria. Se infatti l’art. 5 della Costituzione, che è la norma fondante in tema di autonomie locali, e l’art. 132 Cost., che è una sua diretta emanazione, sono in linea con quanto stabilito dalla Carta europea, lo stesso non può dirsi della normativa di attuazione (vedi ad esempio la legge 352/1970, attuattiva del referendum) che di fatto frustra i poteri reali delle autonomie locali. L’art. 5 Cost. statuisce che: “La Repubblica, una ed indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento” ed è perfettamente in sintonia con la quanto affermato nel preambolo della Carta, in cui si sostiene che: “gli Stati membri del Consiglio d’Europa (…) convinti che l’esistenza di collettività locali investite di responsabilità effettive consente un’amministrazione efficace e vicina al cittadino; consapevoli del fatto che la difesa ed il rafforzamento dell’autonomia locale nei vari Paesi europei rappresenti un importante contributo all’edificazione di un’Europa fondata sui principi della democrazia e del decentramento del potere; affermando che ciò presuppone l’esistenza di collettività locali dotate di organi decisionali democraticamente costituiti, che beneficino di 388 Cfr. G. C. DE MARTIN, Carta europea dell’autonomia locale e limiti dell’ordinamento italiano in Rivista trimestrale di diritto pubblico, Milano, 1988, pp. 386 ss. 309 una vasta autonomia per quanto riguarda le loro competenze, le modalità d’esercizio delle stesse, ed i mezzi necessari all’espletamento dei loro compiti istituzionali”. Ratio comune alle due norme è che lo Stato democratico si fonda su un potere diffuso ed articolato (quasi una sovranità) in capo alle collettività che compongono lo Stato. In base a queste due norme si prefigura un “sistema che parte dal basso, dalle collettività più prossime ai cittadini (…) promuovendo le autonomie e la democrazia sostanziale mediante l’adeguamento costante dei principi e dei metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”389. Le norme di attuazione invece contrastano con questi principi: un esempio su tutti è quello dell’art. 42, co. 2 della l. 352/1970, dichiarato in parte illegittimo dalla sentenza 334/2004 della Corte Costituzionale perché “l’onerosità del procedimento strutturato dalla norma di legge attuattiva si palesa eccessiva (in quanto non necessitata) rispetto alla determinazione ricavabile dalla nuova previsione costituzionale, e si risolve nella frustrazione del diritto di autodeterminazione dell’autonomia locale”390. Dopo queste considerazioni, si esamineranno ora profili più squisitamente comparatistici391. L’art. 131 Cost., che contiene l’elencazione delle Regioni italiane, ha degli omologhi nelle Carte costituzionali di altri Paesi europei, in particolare negli Stati a struttura federale; si veda ad 389 Cfr. G. C. DE MARTIN, Carta europea dell’autonomia locale e limiti dell’ordinamento italiano in Rivista trimestrale di diritto pubblico, Milano, 1988, p. 387. 390 Si veda: Sentenza 10 novembre 2004, n. 334 in Quaderni regionali n. 3/2005, p. 218. 391 Cfr. L. FERRARO, commento all’art. 132 della Costituzione italiana, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI, Torino, 2006, pp. 2543 ss. 310 esempio la Costituzione austriaca, che all’art. 2, co. 2 individua i propri Lander; la Legge Fondamentale tedesca, che li elenca nel Preambolo, indicando la particolare importanza che assumono le popolazioni locali per l’ “unità e la libertà della Germania”; la Costituzione belga che all’art. 2 individua le tre Comunità, all’art. 3 le tre Regioni, all’art. 4 le quattro Regioni linguistiche che compongono il Paese; la Costituzione svizzera all’art. 1 elenca i propri Cantoni; simili elencazioni sono presenti anche nelle Carte costituzionali di Portogallo, all’art. 5, co. 1, ed in quella della Lettonia, all’art. 3. La Costituzione francese all’art. 72, 3 indica invece le popolazioni d’oltremare. Un caso particolare nel panorama europeo è rappresentato dalla Spagna, la quale nella propria Carta costituzionale non procede all’individuazione degli enti sub-statali in ragione di quel principio tale per cui sono i territori che hanno la facoltà di costituirsi in Comunidad Autònomas: l’art. 147, co. 2, lett. A) e B) della Costituzione spagnola assegna agli Statuti di autonomia il compito di fissare, tra i suoi contenuti necessari, sia “la denominazione delle Comunità”, sia “la delimitazione del suo territorio”. Per quanto riguarda invece la norma sulla variazione territoriale delle Regioni, si può notare che vi sono varie previsioni normative, nelle esperienze di altri Stati europei e non, con punti di convergenza con l’art. 132 della Costituzione italiana. Sotto il profilo della tipologia di legge richiesta per la variazione territoriale, come nell’art. 132, co. 1 della nostra Carta costituzionale è previsto che nelle ipotesi di fusione tra Regioni o di creazione di una nuova Regione si ricorra alla legge costituzionale in quanto si va a modificare una norma di pari rango (l’art. 131 Cost.), allo stesso modo nelle Costituzioni svizzera (art. 53) ed austriaca (art. 311 3, co. 2) è previsto l’utilizzo della legge costituzionale perché si va ad intaccare l’elencazione degli enti sub-statali presenti in Costituzione. In Belgio invece, in casi simili non si richiede l’utilizzo di una legge costituzionale, ma viene prevista una legge ordinaria aggravata sotto il profilo delle maggioranze richieste, determinata dal fatto che si va ad intaccare l’area territoriale di uno dei quattro gruppi linguistici presenti in questo Paese (art. 4, co. 3). Considerando ora l’aggettivo “interessato”, riferito agli enti locali che avanzano la richiesta (Province e Comuni), esso è presente nel medesimo significato anche nella Costituzione svizzera (art. 53, co. 2 e 3), francese (art. 72-1, co. 3) e tedesca (art. 29, co. 3). Quest’ultima individua i Lander “interessati” in quelli “dai cui territori, o da parti dei cui territori, deve essere tratto un nuovo Land avente nuovi confini”. A differenza che nella Costituzione italiana, in vari Paesi europei sono previste forme di cooperazione “in orizzontale”, cioè tra le aree territoriali interessate dalla modificazione: la cosa è prevista nella Costituzione svizzera (per le sole rettifiche di confine) (art. 53, co. 4), in quella tedesca (art. 29, co. 7) ed in quella spagnola. In quest’ultima, in virtù del principio di autodeterminazione delle Comunidad Autònomas, non vengono disciplinate le variazioni territoriali, che sono di competenza delle singole Comunidad, che procedono attraverso la revisione dei loro Statuti (art. 147, co. 3 e 152, co. 2), nella prospettiva della cooperazione tra Comunidad Autònomas contigue (art. 145, co. 2). Per quanto riguarda la possibilità di sondare la volontà delle popolazioni interessate mediante consultazione popolare o referendum (presente in tutte le ipotesi di variazione territoriale del nostro 312 ordinamento) è significativo rammentare che la Costituzione svizzera, per modificare il numero dei Cantoni, richiede il “consenso del Popolo” interessato, oltre che quello dei Cantoni interessati “nonché quello del Popolo svizzero e dei Cantoni (art. 53, co. 2), prevedendo in tal modo la consultazione di tutte le popolazioni, sia direttamente interessate, sia controinteressate dalla modificazione numerica. Per le semplici modifiche territoriali del territorio svizzero è invece richiesta solamente la consultazione della frazione di popolo interessata oltre che quella dei Cantoni coinvolti nella modifica (art. 53, co. 3). La Costituzione francese prevede invece la possibilità di “consultare gli elettori iscritti nelle collettività interessate”, “laddove si preveda di creare una collettività territoriale dotata di uno statuto particolare” (art. 72, co. 1 e 3); nello stesso articolo si dispone il ricorso alla “consultazione degli elettori”, nella diversa ipotesi della modifica dei confini. La consultazione delle popolazioni interessate mediante referendum è prevista anche nella Legge Fondamentale tedesca. Nell’art. 29, co. 1 si dà risalto al fatto che i Lander devono avere una grandezza ed una capacità funzionale tali da poter adempiere con efficienza ai loro compiti, nel rispetto dei valori di solidarietà regionale e dei vincoli storici e culturali del territorio. All’art. 29, co. 2 si prevede che i provvedimenti di variazione territoriale “sono adottati con legge federale che (…) necessità di una conferma con referendum popolare. Devono (inoltre) essere sentiti i Lander interessati”. Il successivo co. 3 dell’art. 29 prevede la possibilità di ricorrere al referendum popolare (di cui al co. 2) nelle ipotesi d’istituzione di un nuovo Land oppure nell’ipotesi di variazione dei suoi confini, a patto che vi sia il consenso della maggioranza delle popolazioni del territorio interessato. Non si procederà invece a consultazione 313 referendaria quando vi sia una maggioranza avversa nel territorio del Land interessato; tale ipotesi può però venir sovvertita nel caso in cui si registri nella porzione di territorio da modificare una maggioranza pari ai 2/3 della popolazione favorevole alla modifica; tale maggioranza potrebbe però venire scalzata da una maggioranza di 2/3 della popolazione residente nell’intero territorio dei Lander interessati dalla modifica, contraria alla variazione. La norma in questione ha un carattere decisamente garantista, tentando di coniugare le possibili istanze delle differenti popolazioni. Passando ora all’esperienza statunitense, è interessante notare che l’art. IV, sez. 3 della Costituzione degli Stati Uniti d’America riserva il pieno potere di disporre del territorio al Congresso che può decidere, unitamente al consenso “dei legislativi degli Stati interessati”, la riunione di due o più Stati già esistenti; per quanto riguarda invece l’annessione agli USA di nuovi Stati, il Congresso può decidere da solo. Si noti come nella Carta costituzionale degli Stati Uniti non sia previsto nessun tipo di coinvolgimento diretto della popolazione interessata alla variazione. 314 315 CONCLUSIONI Lo studio compiuto, per quanto specifico e circostanziato alla materia della variazione territoriale delle Regioni, rientra nel più ampio dibattito sull’ente-regione e pertanto le conclusioni riportate di seguito non saranno circoscritte alla tematica finora descritta, ma a più ampio spettro, comprendendo per forza di cose un giudizio complessivo sul sistema regionale italiano. Il procedimento di variazione territoriale delle Regioni ha come scopo finale la modificazione dell’ente regionale e di conseguenza, per poterlo giudicare idoneo o meno allo scopo cui era stato pensato, bisogna prima dare un giudizio su tale ente così come istituito dal Costituente. Come si è visto, la ripartizione storico-statistica su cui si fonda l’ordinamento regionale italiano, oltre che essere priva di scientificità, era già considerata obsoleta e sorpassata da molti Costituenti, e fu accettata solamente per motivi prettamente politici, in quanto costituiva il miglior punto d’equilibrio tra le diverse visioni delle varie forze politiche presenti in Assemblea Costituente. Da quella scelta sono passati più di sessant’anni, e sono stati anni in cui l’Italia ha cambiato completamente fisionomia dal punto di vista non solo economico, ma soprattutto sociale e culturale. La ripartizione pensata dal Costituente è inadeguata ad assecondare le esigenze di un moderno Stato che è divenuto uno dei principali protagonisti del panorama internazionale. I criteri su cui si fonda la ripartizione territoriale di cui all’art. 131 Cost. non sono in grado di dare forma al tessuto sociale italiano ormai da qualche decennio, in quanto i nuovi fattori aggreganti di una comunità, identificativi di un ente locale territoriale, 316 sono di ordine economico. Le comuni radici storico-culturali sono la base da cui partire; la soggettività economico-programmatoria dell’ente locale i nuovi criteri che ne definiscono l’estensione territoriale. Ciononostante l’art. 132 Cost., a cui il Costituente aveva affidato il pur encomiabile scopo di modificare la ripartizione regionale, correggendo eventuali situazioni dubbie che non aveva avuto tempo di esaminare, può essere considerato ancor oggi attuale ed idoneo al fine a cui era stato pensato. Da parte loro, le forze politiche centrali nulla hanno fatto per correggere la ripartizione, preoccupate dal fatto che qualsiasi mutamento degli equilibri raggiunti avrebbe potuto portare ad una perdita dal punto di vista del consenso elettorale. La ripartizione territoriale della Repubblica col tempo si è stabilizzata ed ogni correzione è divenuta sempre più difficile. La dottrina giuridica poi, pur suggerendo nuovi concetti di Regione, non si è altrettanto spesa per far passare il concetto che le popolazioni stanziate su una determinata area territoriale si autoidentificano con essa e che, di conseguenza, devono avere una peso fondamentale per quanto riguarda qualsiasi mutazione; anzi, uno dei dibattiti che ha maggiormente diviso la dottrina riguarda la natura giuridica della consultazione referendaria nel procedimento di variazione territoriale ex art. 132 Cost. Come si è visto molti Autori considerano il referendum svolto presso le popolazioni interessate meramente consultivo, sminuendo la volontà di queste di fronte alle decisioni del potere centrale, che non era certamente favorevole all’idea di variare il territorio dello Stato. Agli occhi di chi scrive ciò pare quasi assurdo: come si può così miopi 317 e non vedere che la ratio sottesa ai procedimenti ex art. 132 Cost. era quella di dare una collocazione territoriale più opportuna a popolazioni che non l’avevano? Le popolazioni interessate siano almeno lasciate libere di esprimere una volontà vincolante per il legislatore; nel caso in cui ciò andasse contro gli interessi unitari dello Stato, il Parlamento potrebbe sempre fare a meno di approvare la legge di variazione. Sempre in merito all’istituto referendario, una questione ancor più grave, sollevata molto di recente, è il caso dei referendum cumulativi che hanno suscitato alcuni problemi di ordine costituzionale, nonostante l’apparente linearità dell’art. 132, co. 2 Cost. Celebrare un unico referendum coinvolgente più amministrazioni comunali può essere possibile; è incostituzionale invece procedere ad un conteggio unico dei voti perché ciò sarebbe in contrasto con la ratio dell’art. 132 Cost.: “ciascun Comune decide per sé”, direbbe un illustre costituzionalista392. Facendo ora qualche considerazione sulle singole ipotesi di variazione territoriale, si ritiene che i procedimenti di creazione o di fusione non siano mai stati attivati non solo perché il procedimento superaggravato previsto ne rendeva realmente difficile l’attuazione, ma soprattutto perché esso non era in grado di soddisfare concretamente le esigenze delle popolazioni interessate alla modifica. Comunque sia, si ritiene un fatto positivo che il procedimento per la creazione di una nuova Regione (a parte il caso eccezionale del Molise) non sia mai stato attivato: gli enti regionali italiani sono fin 392 Sul punto si veda: DE MARTIN G. C., De Martin: legittimo il quesito unitario ma la conta va fatta Comune per Comune (intervista) in L’Amico del Popolo del 13 ottobre 2007, n. 47. 318 troppo numerosi e sarebbe invece opportuna una loro riduzione, da attuarsi con l’accorpamento tramite la fusione di Regioni che prese singolarmente siano considerate poco efficienti dal punto di vista amministrativo ed economico. La cosa è però difficilmente realizzabile: per quale motivo una Regione dovrebbe fondersi con un’altra, vedendo così diminuire il proprio apparato burocratico, la propria classe politica, la propria forza ed il proprio peso a livello non solo locale, ma soprattutto nazionale? Per un encomiabile motivo di efficienza degli apparati dell’ente e di conseguenza del sistema? Pare difficilmente realizzabile anche se sarebbe auspicabile. Opportuna sarebbe una ripartizione del territorio regionale completamente rivista, creando enti di una maggior dimensione e che si fondassero su criteri completamente diversi, più attuali e moderni di quelli usati dal Costituente: la Regione dovrebbe essere un ente che innanzitutto occupa una superficie territoriale omogenea, non dal punto di vista morfologico, ma da quello economico e sociale; un ente in cui il collante siano anche i comuni trascorsi storici, ma soprattutto quelli di ordine economico. Come s’intuisce però la creazione di un ente siffatto dovrebbe essere decisa dall’alto, perché le popolazioni locali, motivate da un certo campanilismo, difficilmente rinuncerebbero alla loro “indipendenza”. Per quanto riguarda il procedimento di distacco-aggregazione, le considerazioni che si possono fare sono le medesime, anche perché la maggior parte delle sue recenti attivazioni, hanno come motivazione la ricerca di una situazione tributaria e fiscale agevolata, piuttosto che il ricongiungimento per motivi storici-culturali a Regioni sentite come più affini. Ad ogni procedimento di distacco aggregazione sinora attivato è sempre sottesa in maniera più o meno marginale una 319 motivazione storica, ma viene scontato chiedersi come mai tutti questi Comuni si siamo mossi solamente nell’ultimo triennio. Forse perché la sentenza n. 334/2004 ha facilitato il procedimento? Questa spiegazione può essere in parte vera ma allo stesso tempo è anche riduttiva. In realtà la frustrazione delle attese federaliste e l’intoccabilità degli ambiti competenziali e finanziari delle Regioni ad autonomia differenziata hanno determinato nel corso degli ultimi anni il sorgere di una “questione settentrionale”. Per superare questi problemi, visto che dallo Stato centrale non arrivava alcuna risposta, alcune popolazioni locali hanno deciso di “far da sé”, trovando degli escamotages che consentissero loro di avere tutti quei benefici, portati dal federalismo fiscale, pur senza la sua effettiva istituzione. La soluzione si è intravista chiedendo il passaggio a Regioni ad autonomia speciale, aventi una situazione finanziaria agevolata rispetto alle Regioni ordinarie; il mezzo per realizzare ciò è stato l’attivazione dell’art. 132, co. 2 Cost. In quest’ottica, tutte le istanze sono da vedersi come il sintomo di una protesta contro l’autorità centrale, miope verso i problemi di alcune comunità, residenti soprattutto in zone di montagna ed al confine con Regioni a Statuto speciale. Come si è visto le Regioni “di migrazione” non sono favorevoli alla perdita di una parte del proprio territorio; soprattutto il Veneto, la Regione maggiormente interessata da queste istanze, per scongiurare ciò ha usato il metodo del bastone e della carota: tergiversando dapprima nel dare il proprio parere obbligatorio sulle richieste di distacco, rallentando i procedimenti in corso, istituendo poi dei Fondi a vantaggio di quelle aree territoriali da dove venivano le richieste di 320 distacco. Questa soluzione non risolve tuttavia il problema in quanto è temporanea e non strutturale: l’entità del Fondo viene decisa per brevi periodi; per il triennio 2008-2010 essa è consistente, ma cosa succederebbe se per gli anni successivi non si potessero erogare somme di tale entità? Si ritornerebbe alla situazione in cui gli enti locali chiederebbero di passare alla Regione Trentino-Alto Adige per avere una maggiore disponibilità finanziaria. Per dare una soluzione definitiva al problema bisognerebbe attuare una riforma strutturale della finanza statale, in modo che i tributi non vadano più allo Stato centrale che poi li ridistribuisce, ma restino all’ente dove sono raccolti, di modo che quelle aree territoriali disagiate siano in grado di far fronte da sole alle loro esigenze ora inascoltate, e non siano più attirate verso le Regioni a Statuto speciale. Non bisogna però dimenticare che la Repubblica italiana è uno Stato a struttura unitaria e quindi è necessario anche stabilire che l’ente regionale eroghi una quota delle proprie entrate allo Stato centrale, per premettere il suo funzionamento e per scopi solidaristici, come aiuto verso le Regioni a basso livello contributivo: in questo modo si potrebbe realizzare il federalismo fiscale, continuando a conservare la struttura unitaria del nostro Stato. Ci sono però anche altre interessanti proposte per tentare di fermare la “migrazione” dei Comuni di confine. La Regione Veneto, come si è detto, è quella maggiormente colpita da questi fenomeni; per arginare il problema, che interessa soprattutto la Provincia di Belluno, nella proposta di revisione dello Statuto regionale era stato inserito l’art. 25, co. 3 in cui si proponeva d’istituire una particolare autonomia 321 per detta Provincia, essendo “tranfrontaliera e interamente montana, abitata da significative minoranze linguistiche”393. La proposta, seppur motivata, non ha trovato però il favore del Presidente della Regione Veneto Galan394, che l’ha ritenuta discriminatoria per le altre genti della montagna veneta. A seguito della presa di posizione del Governatore, è stato presentato un nuovo testo che mira a “conferire forme e condizioni particolari di autonomia amministrativa e finanziaria agli enti locali il cui territorio sia tutto o in parte montano”, eliminando quindi ogni esplicito riferimento alla Provincia di Belluno395. A parere di chi scrive il problema è ben più vasto ed inizia ad interessare un numero sempre più consistente di Regioni; provvedimenti locali, come quello appena visto, sono certamente apprezzabili ma non rappresentano la soluzione definitiva del problema. L’unica via possibile è una riforma federalista della finanza statale: se si riuscisse a far ciò molto probabilmente si vedrebbe il numero delle richieste di distacco-aggregazione diminuire drasticamente, rimanendo solamente quelle istanze che sono effettivamente motivate da ragioni di correzione dei confini regionali; ciò riporterebbe l’art. 132, co. 2 Cost. alla sua funzione originaria e cioè quella di permettere l’autoidentificazione di una popolazione con un territorio. 393 Sul punto si veda l’art. 25, co. 3 della proposta di revisione dello Statuto della Regione Veneto, presentato alla Presidenza del Consiglio regionale il 13 luglio 2006 e trasmesso alla Commissione per lo Statuto e per il regolamento del Consiglio ed ai Consiglieri regionali il 19 luglio 2006. 394 Sul punto si veda l’intervista al Presidente Galan apparsa su Il Padova del 1° settembre 2008, p. 26. 395 In merito a ciò si veda: Nella bozza del nuovo Statuto regionale tolti i riferimenti diretti al Bellunese (articolo) in L’Amico del Popolo del 13 settembre 2008. 322 323 BIBLIOGRAFIA BALDAN A., La natura giuridica delle Comunità Montane e la potestà legislativa regionale in materia in www.forumcostituzionale.it, 2008. 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