le variazioni territoriali delle regioni

LE VARIAZIONI TERRITORIALI
DELLE REGIONI
Michele Borgato
2008
INDICE
INTRODUZIONE
1
CAPITOLO I
L’ ISTITUZIONE DELLE REGIONI E LE VARIAZIONI DEL
TERRITORIO REGIONALE
1- La Regione
5
2- Dal regionalismo alla Regione
8
3- I lavori della seconda Sottocommissione e la relazione
dell’on. Ambrosini
14
4- L’individuazione del territorio delle Regioni
21
5- L’art. 22 del progetto del Comitato per le autonomie locali
25
6- L’art. 23 del progetto del Comitato per le autonomie locali
31
7- La discussione sulle autonomie locali della Commissione
dei 75 riunita in adunanza plenaria
8- Il progetto di Costituzione della Repubblica italiana
36
39
9- La discussione dell’art. 123 del progetto di Costituzione
della Repubblica italiana
40
10- La discussione dell’art. 125 del progetto di Costituzione
della Repubblica italiana
47
11- L’art. 131 della Costituzione della Repubblica italiana
52
12- L’art. 132 della Costituzione della Repubblica italiana
56
13- La genesi della Regione nell’ordinamento italiano
60
CAPITOLO II
IL TERRITORIO DELLA REGIONE
1- Il concetto di territorialità
63
2- I criteri d’individuazione del territorio regionale scelti
dal Costituente e la loro inadeguatezza
67
2.1- Il concetto di regione costituzionale e la sua
proiezione territoriale
69
2.2- Nuovi concetti di regione per una nuova società
italiana
74
2.3- L’idoneità dell’art. 132 Cost. a modificare la Regione
in senso storico ed in senso funzionale
80
3- Variazioni di denominazione delle Regioni
83
4- I confini delle Regioni
87
5- Le variazioni del territorio regionale a seguito di trattati
internazionali
6- La cessione di territorio non abitato e la rettifica dei confini
90
97
CAPITOLO III
IL PROCEDIMENTO DI VARIAZIONE TERRITORIALE
1- Premessa
105
2- L’iniziativa
108
2.1- L’iniziativa del procedimento di variazione
territoriale
2.2- Le ulteriori fasi procedurali dell’atto d’iniziativa
3- Il referendum
108
120
137
3.1- Il referendum nella Costituzione italiana e negli
ordinamenti regionali
137
3.2- La qualificazione giuridica del referendum previsto
dall’art. 132 Cost.
142
3.2.1- Referendum “consultivo” in caso di esito
positivo, “deliberativo” in caso di esito
negativo
142
3.2.2- Referendum “deliberativo” nei casi di fusione
e di creazione, “cumulativo” nel caso di
distacco-aggregazione
151
3.2.3- Referendum come atto d’iniziativa o come
condizione di procedibilità
155
3.2.4- Referendum “deliberativo” in ogni caso e critiche
alle qualificazioni giuridiche precedenti
3.3- Il concetto di popolazioni interessate
157
164
3.4- La votazione, lo scrutinio e la dichiarazione
del risultato del referendum
4- Il procedimento legislativo
175
183
4.1- La fase istruttoria del procedimento legislativo
183
4.2- Il parere dei Consigli regionali
186
4.3- La deliberazione legislativa
188
4.4- La qualificazione giuridica delle leggi di variazione
territoriale e la loro collocazione nel sistema
delle fonti
195
4.4.1- Qualificazione giuridica e collocazione
sistematica della legge costituzionale
di variazione territoriale
197
4.4.2- Qualificazione giuridica e collocazione
sistematica della legge ordinaria
di variazione territoriale
204
4.5- La forma della legge per l’aggregazione ad una
Regione a Statuto speciale
207
CAPITOLO IV
I PROCEDIMENTI DI VARIAZIONE TERRITORIALE DELLE
REGIONI IN CORSO
1- Le variazioni territoriali delle Regioni dal 1948 ad oggi
217
2- I procedimenti di distacco-aggregazione in corso
219
2.1- Dal Veneto al Friuli-Venezia Giulia:
il caso dei Comuni del Portogruarese
222
2.2- Dal Veneto al Trentino-Alto Adige:
il caso dei Comuni bellunesi e vicentini.
In particolare: il referendum cumulativo
e la contiguità territoriale
235
2.3- Dal Piemonte alla Valle d’Aosta:
il caso dei Comuni delle Valli Orco e Soana
249
2.4- Dalle Marche all’Emilia-Romagna:
il caso dei Comuni della Valmarecchia
e della Val Conca
254
2.5- Dalla Campania alla Puglia:
il caso di Savignano Irpino
258
3- Motivazioni sostanziali sottese ai procedimenti
di distacco-aggregazione sinora avviati
261
CAPITOLO V
RECENTI SVILUPPI IN MATERIA DI VARIAZIONI
TERRITORIALI DELLE REGIONI
CENNI DI DIRITTO COMPARATO
1- Progetti di revisione costituzionale dell’art. 132
271
1.1- La fallita riforma costituzionale approvata
nel corso della XIV legislatura
278
1.2- Il disegno di legge costituzionale per la modifica
dell’art. 132, co. 2 Cost. proposto durante la XV
legislatura
282
2- I Fondi per favorire le aree territoriali confinanti
con le Regioni a Statuto speciale
292
2.1- Il Fondo per la valorizzazione e la promozione
delle aree territoriali svantaggiate confinanti
con le Regioni a Statuto speciale
2.2- Gli interventi attuati dalla Regione Veneto
293
299
2.3- L’Intesa tra la Regione Veneto e la Provincia
autonoma di Trento
3- Cenni di diritto comparato
302
306
CONCLUSIONI
315
BIBLIOGRAFIA
323
INTRODUZIONE
Le variazioni territoriali delle Regioni, oggetto di questo studio,
rappresentano una tematica antica e nuova allo stesso tempo. Antica,
in quanto il Costituente fu fautore di una ripartizione regionale che si
fondava essenzialmente su motivi storici e come diretta conseguenza
pensò ad un procedimento per modificare territorialmente tali enti
locali. Antica, perché il procedimento di variazione territoriale delle
Regioni fu inserito nella Costituzione in un apposito articolo, il 132,
che non ha subito nel corso di sessant’anni nessuna modifica
sostanziale, ma semplici specificazioni per renderne più chiaro il
significato (modifica apportata all’art. 132, co. 2 Cost. dalla legge
costituzionale n. 3/2001). Nuova, perché nessun procedimento di
variazione territoriale (a parte il caso particolare dell’istituzione della
Regione Molise nel 1963) è mai stato attivato prima del maggio 2005;
nuova, perché nessun procedimento di variazione territoriale ha finora
concluso il suo iter procedurale. Forse è anche per questo che l’analisi
dell’art. 132 della Carta costituzionale non è mai stato oggetto di
particolare attenzione da parte della dottrina: la maggior parte dei
manuali di diritto costituzionale nemmeno lo citano e, a parte
sporadici casi, non sono state prodotte monografie a riguardo.
La modificazione del territorio regionale è divenuta tematica di
attualità a seguito delle numerose richieste di passaggio ad altre
Regioni che si sono susseguite nel corso dell’ultimo triennio; a seguito
di queste richieste, la dottrina ha iniziato a porre attenzione su un
problema per troppo tempo rimasto ai margini del dibattito
costituzionale; ha iniziato ad analizzare i procedimenti di variazione
territoriale previsti dall’art. 132 della Costituzione, vedendone i pregi
1
ed i limiti, ma soprattutto si è impegnata nel dare spiegazioni a
problemi di coordinamento con la normativa ordinaria di attuazione
(come ad esempio la legge n. 352/1970, attuativa del referendum).
Anche la giurisprudenza costituzionale ha iniziato ad essere investita
dei primi problemi riguardanti l’applicazione dell’art. 132 della
Costituzione ed ha finora prodotto alcune sentenze (sentenze n.
334/2004 e n. 66/2007 della Corte Costituzionale) che contribuiscono
a renderne più agevole l’applicazione.
Una tanto repentina corsa al “cambio di casacca”1, al passaggio da una
Regione ad un’altra (meglio se a Statuto speciale, visti i particolari
benefici finanziari connessi), non può che sollevare numerosi punti
interrogativi. La dottrina più recente ha tentato di dare delle
spiegazioni, per molti versi quasi univoche, che dovrebbero essere di
spunto per il legislatore a prendere provvedimenti. Ma i principi che
regolano la politica, si sa, non sono così lineari come sono quelli che
governano il mondo del diritto, e attualmente a queste istanze non è
ancora stata data una risposta, né nel senso di approvare o meno la
singola richiesta di variazione territoriale, né nel senso di procedere ad
una più ampia riforma del fisco in senso federale, a cui queste
richieste sono in realtà un’alternativa.
Lo scopo di questa ricerca è quindi di approfondire una tematica
antica ed attuale allo stesso tempo: si cercherà, nel corso della
trattazione, di spiegare le origini della ripartizione regionalistica
italiana (l’Italia, come ha affermato giustamente autorevole dottrina, è
1
Questa definizione del procedimento di distacco-aggregazione è usata da: M.
BARBERO, Enti locali “in fuga”: questioni di “forma” e di “sostanza”,
www.federalismi.it, 2007, p. 5.
uno Stato regionale2) e del procedimento di variazione territoriale
pensato dal Costituente per correggere eventuali errori di questa
ripartizione. Si dedicherà però la maggior parte di questo studio
all’analisi dei procedimenti di variazione territoriale previsti dall’art.
132 della Costituzione italiana ed alla normativa ordinaria di
attuazione con cui vanno coordinati, facendo un’analisi “tecnica” delle
varie fasi di questi procedimenti e degli istituti che di volta in volta
verranno messi in luce.
Si concluderà riportando i più recenti casi di procedimenti di
variazioni territoriali in corso, cercando di dare una spiegazione alle
motivazioni che hanno portato ad attivarli; si riferirà infine sulle
“risposte” date dalle istituzioni, sia nazionali che regionali, a queste
richieste.
La tematica è poi localmente molto sentita perché, oltre all’indubbia
attualità, riguarda fortemente il Veneto, la Regione maggiormente
interessata da questa “secessione”3 dei Comuni di confine verso realtà
regionali ad autonomia differenziata.
2
Si fa riferimento alla definizione dello Stato italiano data dall’illustre
costituzionalista L. Carlassare. Sul punto si veda: L. CARLASSARE,
Conversazioni sulla Costituzione, Padova, 1996, pp. 35-37.
3
Questo termine, molto adeguato per descrivere i procedimenti di variazione
territoriale in corso, è stato usato da tutta la dottrina più recente in materia: A.
FERRARA, Questione settentrionale. Dalla grande alla piccola secessione: la
migrazione territoriale dei Comuni come istanza di specializzazione in deroga ai
principi del federalismo fiscale, www.federalismi.it, 2007; M. BARBERO, Come
(non) si risolve la questione delle “secessioni” dei Comuni di confine (e dei
privilegi finanziari delle autonomie speciali), www.federalismi.it, 2008; C.
FRAENKEL-HAEBERLE, La “secessione” dei Comuni: una chimera o una via
percorribile? , www.federalismi.it, 2008.
3
4
CAPITOLO I
L’ ISTITUZIONE DELLE REGIONI E LE VARIAZIONI DEL
TERRITORIO REGIONALE
SOMMARIO: 1. La Regione. – 2. Dal regionalismo alla Regione. – 3. I lavori della seconda
Sottocommissione e la relazione dell’on. Ambrosini. – 4. L’individuazione del territorio delle
Regioni. – 5. L’art. 22 del progetto del Comitato per le autonomie locali. – 6. L’art. 23 del
progetto del Comitato per le autonomie locali. – 7. La discussione sulle autonomie locali della
Commissione dei 75 riunita in adunanza plenaria. – 8. Il progetto di Costituzione della
Repubblica italiana. – 9. La discussione dell’art. 123 del progetto di Costituzione della
Repubblica italiana. – 10. La discussione dell’art. 125 del progetto di Costituzione della
Repubblica italiana. – 11. L’art. 131 della Costituzione della Repubblica italiana. – 12. L’art.
132 della Costituzione della Repubblica italiana. – 13. La genesi della Regione
nell’ordinamento italiano.
1.
La Regione
La Regione è un ente pubblico a rilevanza costituzionale,
rappresentativo di una collettività stanziata su un determinato
territorio, dotato di propri poteri e funzioni e di un ordinamento
autonomo nei limiti prefissati dalla Costituzione e dalle leggi
costituzionali4 (art. 114 Cost.). Le Regioni furono istituite dalla
Costituzione della Repubblica italiana nel 1948.
4
Cfr. T. MARTINES, Diritto costituzionale , Milano, 2000, p. 632.
5
La Regione si differenzia dallo Stato per il fatto che quest’ultimo è un
ente originario, dotato di un popolo, di un territorio e fornito di
sovranità, mentre la prima è un ente derivato, con una propria
popolazione, un territorio ben definito, ma sfornita di sovranità. La
sovranità è la posizione di supremazia di uno Stato tanto all’interno,
quanto nei confronti di ogni ente esterno; la supremazia si concreta
nell’affermazione dell’originarietà dell’ordinamento giuridico statale e
della sua indipendenza. L’originarietà è una caratteristica giuridica
che indica che ogni ordinamento statale, in quanto sovrano, si
autolegittima, cioè trova in sé medesimo la giustificazione giuridica
della sua esistenza e del suo potere. L’indipendenza è una
caratteristica che indica che lo Stato non può essere subordinato ad
altri enti e che nel suo ambito è esclusivo (“ius excludendi omnes
alios”). La supremazia all’interno implica che il potere dello Stato
non subisce limitazioni o condizionamenti, che la sua volontà è
superiore a tutte le altre presenti nell’ordinamento e che è la fonte di
ogni competenza: in quanto tale lo Stato afferma la propria autorità su
tutti gli enti presenti nel suo territorio, che quindi hanno rispetto ad
esso una posizione derivata, come la Regione, appunto5.
La Regione è un ente territoriale perché il territorio ne costituisce un
elemento essenziale, inteso sia come ambito fisico-geografico, sia
come sfera spaziale entro cui essa può esercitare le sue funzioni, ma
soprattutto come centro di riferimento degli interessi della comunità
regionale che in esso trovano la sua localizzazione6.
La dimensione regionale degli interessi della comunità potrebbero non
coincidere del tutto con il territorio dell’ente, nel senso che alcune
5
6
Cfr. F. CUOCOLO, Istituzioni di diritto pubblico, Milano 1998, pp. 78 ss.
Cfr. T. MARTINES, Diritto costituzionale, Milano, 2000, p. 633.
6
aree geografiche potrebbero appartenere, per la loro vocazione
economica, per le loro reali o tendenziali linee di sviluppo, per le
caratteristiche e le tradizioni dei loro abitanti, ad una Regione diversa
da quella nella quale sono state inserite. È pertanto possibile, e per
alcuni aspetti auspicabile, che il territorio di alcune Regioni venga
convenientemente modificato per adeguarlo a quella che è la reale
consistenza e dimensione degli interessi regionali, al fine soprattutto
di consentire un’omogenea e razionale azione programmatrice delle
Regioni stesse: questo lo scopo per cui il Costituente ha inserito nella
Carta costituzionale una serie di procedimenti volti alla modificazione
del territorio regionale (art. 132 Cost.), che sarà l’oggetto di
approfondimento di questa ricerca.
La norma chiave per comprendere il sistema degli enti locali
territoriali è l’art. 5 Cost., in cui si fissano due principi che si
integrano reciprocamente: il principio dell’unità e dell’indivisibilità
della Repubblica, ed il principio delle autonomie locali che la
Repubblica deve riconoscere e promuovere. Il primo principio indica
un limite invalicabile: la Repubblica italiana è uno Stato con una
struttura unitaria, non è una confederazione di Stati. Unitarietà non
significa però centralità, cioè che tutti i poteri e le funzioni siano di
competenza dello Stato. Ecco allora che all’interno di questa struttura
di Stato trovano spazio e ragion d’essere le autonomie locali, enti
locali territoriali autonomi con propri poteri e funzioni, che, come dice
il secondo principio contenuto nell’art. 5 Cost., lo Stato deve
riconoscere e promuovere7.
Si è detto che le Regioni hanno un ordinamento autonomo, cosa che
permette di definirle come autonomie locali. Ma cosa significa
7
Cfr. F. CUOCOLO, Istituzioni di diritto pubblico, Milano 1998, p. 529.
7
autonomia? L’autonomia è una figura comprensiva di vari tipi di
poteri, normativi ed amministrativi. L’autonomia indica la condizione
di relativa indipendenza in cui certi apparati ed enti si trovano rispetto
allo Stato-persona. All’indipendenza corrisponde una sfera di
autodeterminazione,
non
avocabile
dallo
Stato.
La
relativa
indipendenza dell’ente-regione deriva dal fatto che i suoi organi
fondamentali hanno carattere rappresentativo, sono cioè eletti dai
cittadini. Alla rappresentatività si ricollega anche un’autonomia
politica: le Regioni promuovono un proprio indirizzo, volto a
soddisfare gli interessi delle popolazioni locali. Tutto questo per dire
che le Regioni hanno autonomia legislativa, amministrativa,
finanziaria e statutaria.
2.
Dal regionalismo alla Regione
La questione regionale sorse in Italia con l’inizio del
Risorgimento, quando si pose il problema del tipo di struttura da dare
allo Stato dopo la sua unificazione: federalista oppure unitaria8.
Mazzini fu certamente il più grande assertore del principio unitario,
ma sostenne allo stesso tempo la necessità del riconoscimento delle
Regioni. In un famoso articolo scritto nel 1831 intitolato “Dell’unità
d’Italia”, egli definì “la Regione, zona intermedia indispensabile tra la
Nazione ed i Comuni, additata dai caratteri territoriali secondari, dai
dialetti e dal predominio delle attitudini agricole, industriali o
marittime” indicando i vantaggi che sarebbero derivati dalla sua
8
Si veda: SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti
dell’Assemblea Costituente, Roma, pp. 137 ss.
8
istituzione: “farebbe più semplice e spedito d’assai l’andamento, oggi
intricatissimo e lento, della cosa pubblica”9.
Anche Cavour avvertì l’esigenza di riconoscere la Regioni: nel 1860,
quand’egli era Presidente del Consigli dei Ministri, Farini, Ministro
dell’Interno, propose la formazione di una Commissione che avrebbe
dovuto redigere alcuni progetti di legge che avevano come scopo la
riforma dell’ordinamento amministrativo dello Stato. La Commissione
proseguì i suoi lavori anche con Minghetti, nuovo Ministro
dell’Interno, e nel 1861 questi presentò i progetti di legge alla Camera.
Il Regno avrebbe dovuto essere ripartito in Regioni, Province,
Circondari e Comuni. A capo della Regione avrebbe dovuto esserci un
Governatore che avrebbe espletato in loco i servizi politici, di
sicurezza e di amministrazione che erano di competenza del Ministro
dell’Interno, e tutti quegli atti di competenza di altri Ministri che gli
fossero delegati. Si trattava in buona sostanza di un decentramento
burocratico. Alla Regione poi, come ente autarchico, venivano
affidate alcune funzioni, quali: la cura degli istituti d’istruzione
superiore, degli archivi storici, dei lavori pubblici per fiumi e torrenti.
Accanto al Governatore si prevedeva fosse posta una Commissione,
composta di membri eletti dai Consigli provinciali, con poteri
deliberativi su alcune materie. Si trattava quindi di un decentramento
autarchico ed istituzionale. Il Minghetti si era dunque proposto di
realizzare, col riconoscimento delle Regioni, i due classici tipi di
decentramento
amministrativo:
quello
burocratico
e
quello
istituzionale; egli voleva dimostrare che l’unità politica non importava
necessariamente l’unità amministrativa. Sosteneva inoltre che non era
9
Cfr. G. MAZZINI, Scritti politici editi ed inediti, vol. II, Imola, 1907, pp. 302 e
305.
9
opportuno distruggere le abitudini e gli interessi delle popolazioni
delle Regioni, ritenendo invece che queste fossero delle entità naturali,
destinate
a
conservarsi
nella
loro
varietà
ed
a
cooperare
contemporaneamente in armonia con l’unità nazionale. Nonostante tali
progetti si fondassero su un’idea già affermata dal Mazzini e condivisa
anche da Cavour, il Parlamento li respinse.
Da quel momento si affermò in tutta Italia la struttura di Stato unitario
ed accentrato che vigeva in Piemonte.
Il regionalismo sembrava una questione ormai superata, e per
quanto voci autorevoli10 si fossero levate per risollevare il problema,
rimasero inascoltate. Si deve tuttavia segnalare l’adozione di una
misura, seppur limitata temporalmente e circoscritta ad una parte di
territorio, che costituisce certamente un precedente notevole per
quanto riguarda il successivo riconoscimento dei poteri attribuiti
all’ente locale Regione. Un Regio decreto del 1896 istituì per la durata
di un anno un Commissario Civile per la Sicilia; questi era fornito di
poteri considerevoli in materia di: pubblica sicurezza, istruzione
primaria, amministrazione di Province e Comuni, opere pubbliche
comunali e provinciali, tasse e tributi locali, lavoro delle donne e dei
fanciulli, pesi e misure, miniere e cave, foreste. Ciò che conta è poi lo
scopo che indusse il Parlamento ad adottare siffatto provvedimento
legislativo, e cioè col fine di “avvicinare agli amministrati diverse
attribuzioni che spetterebbero al Governo centrale, affidandole ad un
Commissario che possa vedere da vicino i bisogni e provvedervi con
maggior sollecitudine che non possa farlo un Governo lontano e che
10
Gli Autori che si occuparono della questione regionale alla fine dell’Ottocento
furono BERTOLINI, CALENDA, TAVANI e SAREDO.
10
viene distratto da molteplici cure di tutto il Regno”11. In questo
passaggio sono ben descritti i motivi a favore del regionalismo;
purtroppo però, come si è detto questo provvedimento rimase
circoscritto sia nel tempo che nello spazio.
La questione regionalistica venne ripresa al termine della Prima
Guerra Mondiale da movimenti di carattere locale in Sicilia ed in
Sardegna, ed a livello nazionale dal Partito Popolare Italiano di don
Sturzo. Il partito mostrò particolare interesse affinché nelle Terre
Redente si mantenesse l’autonomia regionale esistente. Le Terre
Redente erano quei territori appartenenti all’ex Impero austriaco,
passati all’Italia al termine della Grande Guerra. In queste Regioni
esisteva l’autonomia, come negli altri Regni e Paesi che costituivano
l’Impero austriaco. Nelle Terre Redente furono costituiti due
Commissariati generali Civili, uno a Trento, l’altro a Trieste. Il
legislatore era orientato al riconoscimento regionale di queste terre,
attribuendo loro anche un potere legislativo. Tale indirizzo fu
abbandonato a causa della sempre maggiore influenza esercitata dal
movimento fascista, assolutamente contrario ad ogni idea di
regionalismo, tanto che i due Commissariati generali Civili furono
soppressi nel 1922.
Il movimento regionalista riprese e si rafforzò con la Resistenza
e la questione regionale tornò prepotentemente di scena al termine
della seconda Guerra Mondiale. Il legislatore assecondò le esigenze di
alcune Regioni (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta) per le quali la
riforma della struttura dello Stato appariva urgente: nel 1944 furono
creati gli Alti Commissari per la Sicilia e la Sardegna, affiancati da
una Consulta regionale; nel 1945 si provvide a dare alla Valle d’Aosta
11
Sul punto si veda: SENATO, Leg. XIX, Sess. 1895-1896, Doc. n. 216A, p. 1.
11
un ordinamento speciale. Si trattava a quel punto di vedere se e come
adottare il principio regionalistico anche con riferimento alle altre
Regioni.
Subito dopo la caduta del fascismo, la Corona tentò di
riprendere in mano le redini del potere, considerando il ventennio
fascista come una parentesi, un’esperienza oramai conclusa. Tale
tentativo si scontrò ben presto con l’opposizione dei partiti antifascisti,
nel frattempo riorganizzatisi, che non intendevano collaborare col re
Vittorio Emanuele III, gravemente compromesso col fascismo. Nella
primavera del 1944 fu stipulato il ‘patto di Salerno’, un accordo tra il
re e la cosiddetta esarchia, composta dai sei partiti antifascisti (Partito
liberale, Democrazia del lavoro, Democrazia cristiana, Partito
d’azione, Partito socialista e Partito comunista): con esso si stabilì che
l’esarchia entrasse a far parte del nuovo Governo, che il re Vittorio
Emanuele III si ritirasse a vita privata nominando Luogotenente
generale del Regno suo figlio Umberto. Subito dopo, con il decretolegge 25 giugno 1944, n. 151, fu stabilito che dopo la liberazione di
tutto il territorio nazionale, la forma istituzionale dello Stato,
monarchia o repubblica, sarebbe stata scelta dal popolo italiano
mediante l’elezione a suffragio universale di un’apposita Assemblea
Costituente che avrebbe deliberato la nuova Costituzione dello Stato.
La decisione sulla forma istituzionale dello Stato venne poi demandata
direttamente al popolo, a causa della difficoltà delle forze politiche di
impegnarsi su una questione che vedeva gli elettori divisi. Il 2 giugno
1946 si tenne l’elezione dei membri che avrebbero composto
l’Assemblea Costituente e contemporaneamente il referendum sulla
nuova forma istituzionale; fu scelta la repubblica.
12
Per
quanto
riguarda
la
redazione
della
nuova
Carta
Costituzionale, l’Assemblea Costituente formò nel suo seno
un’apposita Commissione (la cosiddetta Commissione dei 75); il
progetto di Costituzione avrebbe poi dovuto essere sottoposto
all’esame ed all’approvazione dell’intera Assemblea Costituente. La
Commissione dei 75 si divise in tre Sottocommissioni, ognuna delle
quali avrebbe affrontato determinati temi: la prima Sottocommissione
si sarebbe occupata dei diritti e dei doveri dei cittadini; la seconda
Sottocommissione dell’ordinamento costituzionale della Repubblica;
la terza Sottocommissione, infine, si sarebbe dovuta occupare dei
diritti e doveri economici e sociali. Le Sottocommissioni si
frazionarono a loro volta in particolari gruppi di lavoro. Apparve
chiaro fin dall’inizio che la questione dell’ordinamento regionale
avrebbe assunto notevole importanza all’interno della nuova
Costituzione: il Ruini, presidente della Commissione dei 75, la definì
come “l’innovazione più profonda introdotta dalla Costituzione”. Essa
fu affrontata da un gruppo di lavoro della seconda Sottocommissione,
in
quanto
la
questione
delle
autonomie
venne
identificata
immediatamente come la questione stessa della struttura dello Stato.
La
Costituzione
della
Repubblica
Italiana
fu
approvata
dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947, promulgata il 27
dicembre 1947, ed entrò in vigore il 1° gennaio 1948. La Regione fu
prevista all’interno della nuova Carta Costituzionale al Titolo V della
Parte II (artt. 114-133), avente ad oggetto gli enti locali territoriali.
Nello specifico al tema delle variazioni territoriali delle Regioni fu
dedicato un apposito articolo, il 132, in cui al primo comma si
prevedevano due ipotesi di variazione territoriale: la fusione di
Regioni esistenti e la creazione di nuove Regioni. Al comma secondo
13
si prevedeva invece la terza ed ultima ipotesi di variazione del
territorio regionale: il distacco di una Provincia e/o di un Comune da
una Regione ed la sua aggregazione ad un’altra Regione.
Il nuovo ordinamento costituzionale rimase però di fatto
largamente incompiuto in quanto le disposizioni organizzative della
Costituzione repubblicana non furono attuate per molto tempo: basti
ricordare, per quanto riguarda il solo ambito di questa ricerca, che la
riforma regionale su tutto il territorio del paese e la legge ordinaria in
materia di referendum videro la luce solamente nel 1970.
3-
I lavori della seconda Sottocommissione e la relazione
dell’on. Ambrosini
Saranno esaminati ora i lavori preparatori della Costituzione al
fine di comprendere meglio la genesi storica e le motivazioni politiche
che hanno portato ai testi degli attuali articoli 131 e 132 della
Costituzione.
La Commissione dei 75 non fu solamente un organo deputato a
stendere un progetto di Costituzione dal punto di vista tecnicogiuridico, ma fu un organo essenzialmente politico, che riproduceva in
nuce e proporzionalmente la composizione partitica dell’Assemblea
Costituente. Questa premessa per comprendere che molte scelte fatte
dai Costituenti furono il frutto di una mediazione tra contrapposte idee
politiche, a volte anche all’interno degli stessi partiti. Inoltre i partiti
inserirono
all’interno
della seconda Sottocommissione
i più
autonomisti fra i propri commissari ritenendo che fossero i più
preparati in materia di autonomie locali, ma ciò fece venir meno quel
proposito di ripartire all’interno delle Sottocommissioni i membri in
14
modo che essi riproducessero gli orientamenti dell’Assemblea con
assoluta fedeltà: questa è la motivazione per cui si vedrà che dal primo
progetto in materia regionale all’approvazione finale della Carta
Costituzionale si perderà qualcosa in termini di autonomia regionale.
Si tenga inoltre presente che nessuna voce si levò in favore
dell’accentramento amministrativo e questo contribuì a creare
un’ampia convergenza sin dai primi dibattiti intorno alla soluzione che
prevedeva l’istituzione delle Regioni12.
La discussione sull’autonomia regionale prese avvio il 26 luglio
1946 e fu introdotta il giorno successivo dalla relazione dell’on.
Ambrosini alla seconda Sottocommissione.
La relazione inquadrava fin da subito tutte le questioni che sarebbero
poi sorte nel corso del dibattito sulle autonomie locali.
Il relatore esordiva dicendo che le autonomie locali avrebbero dovuto
essere istituite per riparare agli inconvenienti dell’accentramento, che
erano:
- la sottrazione degli affari amministrativi a coloro che erano
direttamente interessati e la loro attribuzione ad organi centrali,
lontani e male informati sulle situazioni locali;
- l’accumulazione di pratiche al centro con conseguente ritardo nel
loro svolgimento;
- l’appesantimento del lavoro dei parlamentari, gravati da molte
sollecitazioni e richieste da parte degli elettori.
Per eliminare questi inconvenienti Ambrosini propose di istituire la
Regione, ente locale territoriale, autarchico e fornito di potere
legislativo. Tutte le sue prerogative avrebbero dovute essere garantite
12
Cfr. E. ROTELLI, L’avvento della Regione in Italia, Milano, 1967, pp. 295 ss.
15
in una Carta Costituzionale rigida, perciò non modificabili o
diminuibili con legge ordinaria.
La Regione avrebbe dovuto avere una competenza legislativa così
suddivisa:
-
competenza
legislativa
esclusiva
su
determinate
materie
costituzionalmente previste (ad esempio: agricoltura, pesca, strade,
acquedotti, miniere, turismo);
- facoltà di dettare norme di esecuzione su temi in cui gli organi
legislativi dello Stato avevano stabilito i principi fondamentali;
- potestà legislativa concorrente per materie sulle quali il diritto di
legiferare spettava allo Stato, ma che concedeva alle Regioni fintanto
che egli non decidesse di legiferare.
Alla Regione sarebbe spettato anche il diritto di farsi iniziatrice di
proposte di legge da sottoporre al potere legislativo dello Stato, ove
avesse avvertito determinati bisogni della propria popolazione.
Per quanto riguarda il potere esecutivo, la Regione avrebbe dovuto
esercitare la funzione esecutiva amministrativa su tutte le materie di
sua competenza esclusiva ed anche su quelle proprie dello Stato, che
questi le avesse delegato. Venne prevista una finanza esclusiva
regionale, coordinata con quella statale, in modo da dare all’ente la
possibilità di esercitare le funzioni che gli furono attribuite.
In merito al potere giurisdizionale, Ambrosini disse che non era
possibile attribuire all’ente regionale una funzione giurisdizionale
senza infrangere il sistema generale dell’unità della giurisdizione dello
Stato, ma la Regione avrebbe potuto istituire organi giurisdizionali per
la decisione di ricorsi avverso atti o deliberazioni degli enti locali ed
anche sezioni decentrate dei supremi tribunali dello Stato.
16
Quello che più interessa l’ambito di questa ricerca furono le
considerazioni del relatore in merito al territorio della Regione. Per
quanto riguarda la sua individuazione, egli disse: “In Italia esistono
regioni geograficamente o tradizionalmente determinate; ma bisogna
tener presente la necessità che l’ente regione si istituisca in modo da
essere vitale”13. Per individuare il territorio delle Regioni si proponeva
quindi di utilizzare il criterio storico e in via subordinata il criterio
funzionale. Tutte le considerazioni su questi due criteri saranno svolte
nel proseguio di questo studio. In tema di cambiamenti della struttura
politico-territoriale della Regione, il relatore suggerì che la
competenza spettasse al “potere centrale, naturalmente, sentita la
regione o a richiesta della regione”.
Ambrosini affrontò poi la questione degli organi dell’ente-regione,
che identificò in:
- un Presidente, che rappresentasse la Regione e fosse il capo
dell’amministrazione regionale;
- una Giunta, composta da assessori preposti alle varie materie
dell’amministrazione;
- un’Assemblea regionale, elettiva e dotata di potere legislativo.
Si pose infine il problema sulla necessità o meno che il governo dello
Stato avesse all’interno della Regione un suo rappresentante.
Nella successiva relazione, datata 13 novembre 1946, Ambrosini
espose le conclusioni a cui era giunta la seconda Sottocommissione
dopo la discussione avviata dalla sua prima relazione.
13
Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti
dell’Assemblea Costituente, Seconda Sottocommissione, seduta del 27 luglio
1946, Roma, p. 8.
17
La nuova relazione constava di due parti: la prima, la parte generale,
ripercorreva brevemente i precedenti storici della questione regionale
e ne delineava le possibili soluzioni; la seconda, la parte speciale,
proponeva un progetto di norme nelle quali si concretava una
soluzione di massima a detta questione.
Per quanto riguarda la parte generale (tralasciando i precedenti storici
di cui si è già parlato), si delinearono quattro possibili soluzioni al
problema regionalista: la prima e più radicale proponeva il ricorso al
sistema federale. Il Mortati prospettò uno Stato con forma
presidenziale connesso con un regime di vasto decentramento o un
regime federale. Nessuno dei commissari concordò con questa
soluzione, che prevedeva una netta trasformazione della forma e della
struttura dello Stato. Questi erano preoccupati che il regime
presidenziale potesse condurre facilmente ad una dittatura: il ricordo
del fascismo era ancora troppo forte e si decise di mantenere uno
Stato con forma parlamentare14.
La seconda soluzione prevedeva un decentramento burocratico (o
gerarchico) ed avrebbe comportato il trasferimento di determinate
attribuzioni dello Stato dai suoi organi centrali ad altri suoi organi
locali: tale soluzione avrebbe permesso una migliore conoscenza dei
fatti ed una più rapida soluzione degli affari degli interessati. Anche
questa soluzione fu scartata in quanto non avrebbe soddisfatto in pieno
le aspirazioni del regionalismo perché gli ordini e le direttive
sarebbero venuti comunque dal centro e perché non permetteva di
utilizzare gli uomini più capaci di un determinato territorio, che
14
Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti
dell’Assemblea Costituente, Relazione dell’on. Ambrosini, Seconda
Sottocommissione, seduta del 13 novembre 1946, Roma, pp. 142 ss.
18
avrebbero meglio conosciuto e risolto i problemi dei loro
conterranei15.
La terza soluzione prevedeva un decentramento autarchico (od
istituzionale): si sarebbe dovuto realizzare un trapasso di attribuzioni
dallo Stato a degli enti autarchici che tali attribuzioni facessero
proprie, decidendo liberamente su di esse ed assumendosene la
responsabilità. Questa soluzione compiva un passo decisivo verso il
regionalismo, ma non arrivava a soddisfarlo ancora in pieno perché
non prevedeva alcuna facoltà legislativa16.
L’ultima soluzione prevedeva l’attribuzione di poteri autarchici ed una
potestà legislativa primaria ed integrativa. Dalla potestà legislativa
derivava la capacità di emanare leggi su materie ed entro i limiti
stabiliti dalla Costituzione. Su questo punto si registrarono forti
disparità di vedute da parte dei commissari circa il quantitativo
maggiore o minore di materia da affidare alla competenza legislativa
della Regione. In seguito ancor più forti divergenze si registrarono in
merito al tipo di potestà legislativa da attribuire alle Regioni: primaria
(od esclusiva), integrativa o concorrente. Ambrosini fu un tenace
sostenitore di quest’ultima soluzione e per convincere alcuni
commissari che un ordinamento regionale così concepito non avrebbe
potuto arrecare danno all’unità dello Stato, fece leva sul principio di
sovranità. Lo Stato federale si costituisce in modo pattizio per volontà
di singoli Stati completamente indipendenti che decidono di unirsi tra
loro conferendo alla federazione funzioni e poteri in determinate
15
Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti
dell’Assemblea Costituente, Relazione dell’on. Ambrosini, Seconda
Sottocommissione, seduta del 13 novembre 1946, Roma, p. 144.
16
Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti
dell’Assemblea Costituente, Relazione dell’on. Ambrosini, Seconda
Sottocommissione, seduta del 13 novembre 1946, Roma, p. 144.
19
materie, trattenendo per sé altre materie a titolo originario di sovranità.
Lo Stato organizzato sulla base della autonomie locali è invece
l’esatto opposto: è esso stesso che, in quanto ente sovrano, crea le
Regioni, come enti dotati di autonomia politica di cui stabilisce i
poteri e le funzioni17. La seconda Sottocommissione fu quindi
concorde nell’istituire la Regione, considerandolo un ente autarchico
(cioè con propri fini e con la capacità di perseguirli), un ente
autonomo (cioè con potere legislativo), un ente rappresentativo di
interessi locali su basi elettive, un ente dotato di autonomia
finanziaria.
Su queste basi la seconda Sottocommissione incaricò un proprio
Comitato, il Comitato di redazione per le autonomie locali (detto
Comitato dei 10), di formulare un progetto di ordinamento regionale
che essa avrebbe approvato; il Comitato dei 10 diede a sua volta
incarico all’on. Ambrosini di approntare un primo schema di progetto.
In seguito furono presentati altri due progetti ma il Comitato decise di
procedere nei suoi lavori sulla base del progetto Ambrosini. Il
progetto constava di 24 articoli.
Il primo capo era dedicato alla Regione ed alle sue attribuzioni: si
diceva che il territorio della Repubblica era ripartito in Regioni (art.
1), si delineava la natura giuridica dell’ente regionale come ente
autonomo (art. 2) dotato di potestà legislativa su materie determinate
della Costituzione (artt. 3 e 4). Alla Regione spettava pure
l’amministrazione delle materie di propria competenza ed in quelle
materie di competenza dello Stato che le vengano affidate per
17
Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti
dell’Assemblea Costituente, Relazione dell’on. Ambrosini, Seconda
Sottocommissione, seduta del 13 novembre 1946, Roma, p. 144.
20
l’esecuzione (art. 6). La Regione ha autonomia finanziaria (art. 8). Al
capo II si delineavano gli organi della Regione, Assemblea regionale,
Deputazione (Giunta) e Presidente regionale, ed i loro poteri (artt. 9,
10 e 11). Nel capo III si definivano i rapporti fra Regione e Stato. Nel
capo V si definivano i ruoli degli altri enti locali territoriali, Province
e Comuni. Il capo VI è il più importante ai fini di questa ricerca: in
esso s’individuava il territorio delle Regioni da istituire (art. 22) e si
prevedevano dei procedimenti di variazione del territorio regionale
(art. 23).
4-
L’individuazione del territorio delle Regioni
Il concetto di regione non ha mai sottinteso un’idea
univoca
sull’identificazione del territorio che avrebbe dovuto designarla.
La geografia, con il termine ‘regione’, intende aree territoriali diverse,
a seconda del contesto: regione può essere un intero continente, una
parte di esso, un Paese cui corrisponde uno Stato, una suddivisione
ulteriore al suo interno, come quella che ripartisce l’Italia in tre zone,
nord, centro, sud ed isole. Tali ripartizioni non erano idonee a
concretizzare l’idea di regione del costituente italiano.
All’interno del territorio italiano, i geografi identificavano altri due
tipi di regioni: quelle “maggiori”, tradizionali, che esistevano soltanto
nelle pubblicazioni statistiche dove erano state costruite come
raggruppamenti di province confinanti, e le regioni “minori”, i cui
confini
erano
molto più
netti. Queste ultime
presentavano
l’inconveniente di avere dimensioni territoriali troppo ristrette, molto
spesso simili a quelle delle Province, ente territoriale che il legislatore
voleva abolire (esempi di regioni “maggiori” e di regioni “minori”
21
comprese in queste: il Piemonte e la Valle d’Aosta, la Lombardia e la
Valtellina, la Toscana e la Garfagnana).
Le regioni “maggiori” costituivano dunque il naturale punto di
riferimento di ogni proposta di riforma regionale, per quanto fossero
state poco studiate e i cui confini risultassero tutt’altro che definiti. A
suffragare questa scelta vi era anche una tendenza, diffusa in tutta
l’Europa occidentale, che sosteneva l’istituzione di regioni sempre più
vaste ritenendole più adatte alle nuove esigenze della pianificazione.
I criteri per individuare il territorio delle Regioni ed i
procedimenti di variazione di esso apparvero questioni ben delineate
sin dalla prima relazione dell’on. Ambrosini. In essa si diceva che si
sarebbe dovuto utilizzare il criterio “storico” per la ripartizione
regionale; Ambrosini infatti asseriva che: “in Italia esistono regioni
geograficamente o tradizionalmente determinate”18. Egli riteneva però
che detto criterio andasse integrato con quello “funzionale”, ritenendo
necessario che la Regione fosse istituita in modo da essere un ente
vitale. Entrambi i criteri, secondo Rotelli19, non erano chiari: non era
chiaro per esempio nella definizione del criterio storico se le Regioni
dovessero essere geograficamente determinate, tradizionalmente
determinate, oppure se si designassero modi d’impiego diversi del
criterio storico, a seconda che per l’identificazione degli spazi
regionali il riferimento venisse fatto ad una storicità pura oppure ad
una storicità che poggiava su fattori geografici. Per quanto riguarda
invece il criterio funzionale, esso poggiava sul concetto di vitalità
dell’ente. Vitale è l’ente in cui vi sia un rapporto di strumentalità tra la
18
Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti
dell’Assemblea Costituente, Seconda Sottocommissione, seduta del 27 luglio
1946, Roma, p. 8.
19
Cfr. E. ROTELLI, L’avvento della Regione in Italia , Milano, 1967, pp. 304 ss.
22
dimensione territoriale e l’efficienza dei pubblici servizi: tale
definizione non era univoca tra gli autori e comunque quella data
dall’on. Ambrosini non sembrava sufficiente.
Nella Relazione il padre Costituente prospettava quindi una
ripartizione del territorio sulla base del criterio storico, integrato dal
criterio funzionale in posizione sussidiaria e residuale.
Nessun ruolo veniva invece previsto per le popolazioni interessate: la
loro volontà sarebbe stata richiesta solamente per un’eventuale
rettificazione della ripartizione, successiva all’entrata in vigore della
Costituzione, come chiesto dall’on. Lami Starnuti20. I motivi di
rettificazione avrebbero potuto essere determinati non solamente da
esigenze di ordine funzionale, ma anche fondarsi su motivi di ordine
storico.
Nel dibattito che seguì alla Relazione dell’on. Ambrosini, il primo
punto da chiarire riguardò l’intensità, il grado e le modalità del
decentramento. Solo in seguito fu possibile passare a discuterete
dell’identificazione del territorio della Regione e del ruolo da
assegnare
alle
popolazioni
interessate.
Vi
furono
posizioni
antiregionalistiche, che ritenevano la Regione antistorica, ne
rifiutavano l’istituzione generalizzata e suggerivano che l’istituzione
dell’ente
fosse
fatta
dipendere
da
un
libero
e
spontaneo
raggruppamento di una o più Province, deciso dalle popolazioni
interessate, mediante referendum. Era questa la tesi della “regione
facoltativa”.
20
Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti
dell’Assemblea Costituente, Relazione dell’on. Ambrosini, Seconda
Sottocommissione, seduta del 13 novembre 1946, Roma, p. 152.
23
Dall’altro lato vi furono i sostenitori della creazione della Regione,
divisi tra vere e proprie posizioni federaliste, come l’on. Mortati21, e
posizioni regionaliste più attenuate, che propendevano per l’istituzione
della Regione come ente autarchico autonomo, dotato di potere
legislativo, seppur all’interno dell’indiscutibile unità dello Stato22. In
quest’ultimo gruppo, vi era chi individuava le Regioni sulla base del
criterio storico e chi invece propendeva perché si facesse ricorso alla
volontà delle popolazioni interessate per individuare il territorio
regionale. Col proseguio del dibattito le posizioni si appianarono e
convertirono verso la posizione regionalista. Il territorio della Regione
sarebbe stato individuato sulla sola base del criterio storico, lasciando
alle popolazioni interessate il ruolo circa un’eventuale rettificazione
della ripartizione fatta dal Costituente.
In
merito
alla
funzione
delle
popolazioni
interessate
nell’identificazione del territorio regionale, vi furono delle posizioni
autorevoli, per quanto rimaste minoritarie e dunque disattese. È il caso
di ricordare quella espressa dell’on. Mortati che propose di compiere
una serie di ricerche, prima d’individuare il territorio di una Regione,
volte a cogliere il legame tra la dimensione territoriale dell’ente e la
sua capacità economica, al fine di poter individuare la dimensione
territoriale
compatibile
con
l’autosufficienza
economica.
Di
conseguenza il Mortati riteneva che le popolazioni interessate non
fossero
idonee
ad
individuare
confini
tali
da
garantire
un’autosufficienza economica all’istituenda Regione e che quindi la
scelta sarebbe dovuta spettare al potere centrale. La tesi del Mortati fu
21
Cfr. E. ROTELLI, L’avvento della Regione in Italia, Milano, 1967, p. 306.
Un’autorevole costituzionalista, Carlassare, ha definito l’Italia uno “Stato
regionale”. Sul punto si veda: L. CARLASSARE, Conversazioni sulla
Costituzione, Padova, 1996, pp. 35 ss.
22
24
contrastata dall’on. Conti, il quale riteneva che dall’espressione della
volontà delle popolazioni interessate non potessero che derivare
indicazioni utili di carattere economico e finanziario, funzionali
all’individuazione del territorio. La volontà delle popolazioni
interessate avrebbe dovuto dunque essere tenuta in considerazione fin
dal momento della ripartizione del territorio regionale e non solamente
in sede di successiva rettificazione.
Taluni Costituenti, forse preoccupati che il nesso funzionale così
individuato potesse compromettere il riconoscimento di alcune
situazioni storiche da regionalizzare, lo contrastarono adducendo varie
motivazioni. Fu per questo che la proposta del Mortati rimase
disattesa23.
Tutte le considerazioni sopra esposte confluirono nel Progetto
redatto dal Comitato per le autonomie locali, già esaminato in
precedenza. In particolare l’art. 22 si occupò dell’istituzione delle
Regioni, indicandone il numero e la denominazione; l’art. 23
contemplava invece la possibilità di modificare la ripartizione fatta dal
Costituente.
5-
L’art. 22 del progetto del Comitato per le autonomie locali
L’art. 22 del progetto era così formulato:
“Le Regioni sono costituite secondo la tradizionale ripartizione
geografica dell’Italia. Esse sono: Piemonte; Lombardia; TrentinoAlto Adige; Veneto; Liguria; Emilia; Toscana; Umbria; Marche;
23
Cfr. E. ROTELLI, L’avvento della Regione in Italia, Milano, 1967, p. 350.
25
Lazio; Abruzzi e Molise; Campania; Puglia; Lucania; Calabria;
Sicilia; Sardegna; e in più la Valle d’Aosta” 24.
Il disegno di fondo dei Costituenti fu preciso: restituire un’identità
politico-istituzionale alle grandi comunità territoriali della tradizione
storico-geografica italiana. Il compromesso fra le diverse posizioni
portò a fare delle scelte non più fondate sul criterio storico, ma su
criteri sostanzialmente politici.
L’articolo in questione presentò delle novità positive rispetto alla
discussione preliminare: si indicava un criterio certo di ripartizione: il
criterio storico. Sta scritto infatti nell’art. 22 che le Regioni
s’individuano
secondo
la
tradizionale
ripartizione
geografica
dell’Italia: la suddivisione geografica ha valore solamente nel caso sia
storicamente convalidata. Il criterio geografico non è dotato di
autonomia, ma costituisce un semplice presupposto interno del criterio
storico.
Altra novità positiva riguarda il fatto che nell’art. 22 si formula una
concreta proposta di ripartizione regionale.
Novità negative riguardano invece il fatto che comunque detto articolo
non definisce precisamente ed univocamente il criterio storico e che la
suddivisione territoriale che esso ispira non è definitiva. Infatti il
successivo art. 23 prevede possibilità di rettificare il territorio delle
Regioni individuato dal Costituente. Con l’abbandono del criterio
funzionale per ragioni essenzialmente politiche, la rettificazione si
basava solamente su esigenze di carattere storico. Vi è però una
contraddittorietà di fondo: com’è possibile che vi siano delle Regioni
24
L’enunciazione di questo articolo si riferisce allo schema di Progetto presentato
dall’on. Ambrosini al Comitato per le autonomie locali a seguito della sua
seconda Relazione il 13 novembre 1946.
26
“storiche” ab initio ed aree territoriali che diverranno Regioni
“storiche” solo dopo aver attivato il procedimento di variazione
territoriale di cui all’art. 23? La risposta si trova nel fatto che il
Costituente in questa fase è stato indirizzato da motivi di opportunità
politica più che di coerenza logica. Egli tendeva a creare un’ampia
convergenza da parte di tutte le forze politiche e, come si è visto
sopra, il criterio funzionale era stato avversato da taluni commissari.
Tale tendenza può essere ravvisata anche nel fatto di non aver previsto
fra le diverse variazioni territoriali la “fusione” di Regioni. La fusione,
avendo a suo presupposto l’istituzione vitale dell’ente regionale,
avrebbe legittimato implicitamente il criterio funzionale. Il distaccoaggregazione o la creazione di una nuova Regione, invece,
corrispondono meglio alle esigenze di modificazione dettate dal
criterio storico piuttosto che a quelle ispirate al criterio funzionale, che
richiede per il suo soddisfacimento dimensioni più ampie di quelle
della Regione.
L’art. 22 pone quindi la summa divisio tra Regioni storiche,
elencate in detto articolo, e Regioni nuove, ossia tutte quelle Regioni
che non sono ivi elencate, ma di cui è possibile la costituzione se
sussistano determinati requisiti. Questi requisiti erano, oltre al
fondamento storico, l’accertamento dell’autosufficienza economica e
la volontà delle popolazioni interessate. Per le Regioni storiche questi
requisiti si danno per presupposti. Per le Regioni nuove invece devono
essere verificati: la presenza contemporanea di questi due requisiti non
è in realtà così facile da realizzarsi. Per la prova di resistenza cui è
sottoposta la creazione di nuove Regioni, si potrebbe parlare di una
vera e propria una “probatio diabolica”. Ciò corrispondeva
esattamente alla volontà del legislatore che voleva dare la parvenza di
27
lasciare un margine di autonomia alle popolazioni interessate, che con
la loro volontà avrebbero potuto modificare una partizione del
territorio decisa dallo Stato centrale, ma che concretamente diveniva
molto difficile da realizzarsi. Inoltre, accantonando la decisione su
certe aree regionalizzabili, il legislatore contribuiva a spostare ogni
decisione in tempi in cui presumibilmente le istanze autonomistiche e
regionalistiche sarebbero state meno pressanti. Tutto ciò perché non
considerava positiva un’eccessiva frammentazione del territorio.
La costituzione di Regioni “nuove” rispetto a quelle previste nell’art.
22 venne proposta già nella fase costituente al Comitato dei 10: il
Salento, distaccato dalla Puglia; il Molise, distaccato dagli Abruzzi;
l’Emilia, distaccata dalla Romagna; il Friuli, distaccato dal Veneto. Il
Comitato, in mancanza degli elementi necessari per una decisione
ponderata in merito, si attenne al criterio della tradizionale ripartizione
geografica dell’Italia. Non si pronunciò sulle richieste di costituzione
di suddette Regioni, ma ripropose la questione della loro istituzione
davanti alla Sottocommissione. Quando la seconda Sottocommissione
discusse il progetto del Comitato dei 10, alcuni commissari vollero
fortemente l’istituzione di Regioni che stavano loro a cuore e che
difficilmente si sarebbero realizzate se avessero dovuto rispettare i
requisiti dell’autosufficienza economica e della volontà delle
popolazioni interessate. La coppia di requisiti venne ben presto
scemando, dimostrando ancora una volta come le scelte del
Costituente fossero motivate innanzitutto da ragioni di opportunità
politica. Si riportano qui di seguito alcuni esempi che fanno ben capire
quanto affermato.
L’istituzione delle prime due Regioni nuove, la Regione UmbroSabina ed il Sannio (un’area territoriale che comprendeva l’Abruzzo
28
meridionale, il Molise e la Campania orientale), non poté realizzarsi
perché all’autosufficienza economica di entrambe non si accompagnò
il requisito della volontà popolare.
Nella discussione sull’istituzione della Regione Molise vi fu contrasto
sui parametri sui quali fondare il giudizio di autosufficienza
economica: alcuni ritennero che una situazione regionalizzabile
soddisfacesse detto principio se il carico tributario regionale fosse
superiore alla media nazionale. Altri invece ritennero che vi fosse
autosufficienza economica se la Regione fosse stata in grado di far
fronte ai compiti derivatigli dalla concessione dell’autonomia. Tutti
questi argomenti emarginarono e poco a poco coprirono del tutto il
requisito dell’autonomia economica, dimostrando una volta in più
come i criteri tecnici introdotti dal dibattito costituzionale venissero
strumentalizzati a fini politici. Altra prova della pressione politica che
ruotava attorno alla richiesta della Regione Molise poteva essere
ravvisata nell’esiguità della popolazione di questa Regione, inferiore
alle 500.000 persone richieste nel successivo art. 23 del Progetto per
la creazione di una nuova Regione.
La proposta d’istituzione della Regione Daunia (un’area territoriale
situata nelle Puglia settentrionale) venne respinta sia per la mancanza
dell’autosufficienza economica, sia per la mancanza della volontà
popolare.
Per l’istituzione del Salento (la penisola salentina è situata nella Puglia
meridionale),
il
requisito
dell’autosufficienza
economica
era
documentato alla stessa maniera che per la Daunia, ma in questo caso
la volontà popolare fu favorevole all’istituzione della Regione che
quindi fu inserita nell’art. 22.
29
Nell’istituzione dell’Emilia Appenninica e dell’Emilia e Romagna il
requisito dell’autosufficienza economica non venne ormai più preso in
considerazione e si considerò invece determinante il solo requisito
della volontà popolare, che portava con sé un nuovo dilemma: le
modalità di esternazione della volontà popolare. In questo caso la
volontà espressa dalle Deputazioni provinciali non venne considerata
valida espressione della volontà popolare in quanto questi organi non
erano stati ancora eletti. La volontà delle Deputazioni fu invece stata
considerata valida per l’istituzione della Regione Molise: ecco
l’ennesimo esempio di strumentalizzazione politica.
Anche l’istituzione della Regione Friuli si fondò sul solo requisito
della volontà della popolazione: sarebbe stato del resto molto difficile
dimostrare il requisito dell’autosufficienza economica per una regione
afflitta in maniera cronica dal problema dell’emigrazione.
Al termine della discussione l’articolo in questione venne modificato
con l’aggiunta delle seguenti Regioni: Friuli, Molise, Salento; l’Emilia
fu frazionata in Emilia Appenninica ed Emilia e Romagna25.
Da questi esempi emerge chiaramente che il solo requisito ormai
richiesto per la creazione di una nuova Regione era quello della
volontà della popolazione; si trattava a quel punto di definire le
modalità per l’accertamento della volontà popolare. Le proposte
furono molteplici: referendum approvativo delle decisioni della
Sottocommissione; referendum consultivi; semplici pareri delle
amministrazioni comunali o provinciali; manifestazioni di volontà dei
deputati dell’Assemblea Costituente eletti nei territori interessati. La
decisione finale fu che la volontà popolare si manifestasse nella forma
25
Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. I,
Padova 1979, nota 102, p. 40.
30
di un parere facoltativo e non vincolante espresso dagli organi
rappresentativi delle popolazioni interessate. La strumentalizzazione
politica aveva completato la sua opera: il requisito della volontà
popolare
aveva
avuto
la
funzione
di
svalutare
quello
dell’autosufficienza economica, volontà popolare che venne poi di
fatto svuotata della sua capacità di incidere a seguito delle decisioni
della Sottocommissione.
6-
L’art. 23 del progetto del Comitato per la autonomie locali
L’art. 23 del progetto statuiva che:
“E’ consentito alle popolazioni interessate, mediante deliberazione
della maggioranza dei rispettivi Consigli comunali, di chiedere il
distacco da una Regione e l’aggregazione ad un’altra”.
“E’ consentito inoltre la richiesta dell’erezione di una nuova Regione
quando provenga dai Consigli comunali rappresentanti una
popolazione di almeno 500.000 abitanti”.
“Le modificazioni di cui ai primi due comma sono disposte con legge
dello Stato, previo parere delle Assemblee Regionali interessate” .
Quest’articolo rappresenta lo stadio embrionale dell’art. 132
della Costituzione, al quale si giungerà dopo numerose discussioni.
La norma in questione contempla due sole tipologie di variazione
territoriale: il distacco-aggregazione (co. 1) e la creazione di una
nuova Regione (co. 2). Manca l’ipotesi della fusione di Regioni
esistenti, che invece compare nell’art. 132 Cost. L’omissione è ancora
una volta frutto di una strumentalizzazione politica: il criterio
funzionale era il presupposto della fusione che, come si è visto, fu più
volte avversato ed ostacolato. Il fatto che sia stato poi introdotto nella
31
versione definitiva dell’art. 132, fa ben sperare per il futuro:
un’eventuale modificazione territoriale per fusione recupererebbe quel
criterio funzionale, tanto ingiustamente avversato.
Verrà svolta ora qualche considerazione sull’art. 23 del
Progetto, riservando un’analisi più approfondita sulle tematiche che
esso solleva, quando si andrà ad esaminare dettagliatamente l’art. 132
Cost., oggetto di questo studio.
I procedimenti di variazione territoriale si compongono di tre
fasi: la richiesta di celebrare la consultazione referendaria; il
referendum, per conoscere la volontà delle popolazioni interessate; in
caso di esito positivo del referendum, l’iniziativa di legge e la
conseguente istruttoria del procedimento legislativo.
L’atto che avvia il procedimento era qualificato come
“richiesta” (si veda art. 23, co. 2). Vi furono alcuni commissari che
avrebbero voluto qualificarlo come “proposta” perché ritenevano che
questo termine fosse in grado di porre un obbligo a carico di chi
avrebbe dovuto emettere il provvedimento finale. In realtà né l’uno, né
l’altro, furono in grado di vincolare ad emettere un provvedimento
finale con contenuto conforme ad essi. Titolari dell’iniziativa erano la
maggioranza dei Consigli comunali delle popolazioni interessate,
nell’ipotesi di distacco-aggregazione (co. 1); i Consigli comunali che
rappresentassero una popolazione di almeno 500.000, abitanti
nell’ipotesi di creazione (co. 2).
Nel corso del dibattito emerse la proposta di concedere la titolarità
dell’iniziativa anche allo Stato, quando ritenesse una variazione
territoriale utile agli interessi generali. La proposta fu respinta dalla
Sottocommissione.
32
Nel caso di distacco-aggregazione, vi era un aspetto problematico: il
co. 1 dell’art. 23 attribuiva l’iniziativa alla maggioranza dei Consigli
comunali delle popolazioni interessate e non ai Consigli comunali che
ne rappresentassero la maggioranza. Poteva quindi verificarsi l’ipotesi
che la volontà della maggioranza dei Consigli, minoritaria rispetto alla
volontà delle popolazioni delle zone da aggregare, riuscisse ad
imporre una modificazione territoriale da queste non voluta. Per far
fronte a tale situazione la seconda Sottocommissione, in sede di
discussione del progetto, propose un emendamento all’art. 23: per
aggregare un’area territoriale di una Regione ad un’altra sarebbe stata
necessaria la proposta della maggioranza dei Consigli comunali
compresi in quell’area. La proposta avrebbe poi dovuto essere
sottoposta a referendum della popolazione delle zone da aggregare. In
questo modo si sarebbe tenuto conto delle popolazioni interessate al
mutamento territoriale e si sarebbe offerto loro la possibilità di
esprimere un parere. L’emendamento fu accolto prevedendo che i
Consigli comunali che rappresentassero almeno 1/3 delle popolazioni
interessate potessero chiedere il referendum.
Questo emendamento portava con sé un aspetto problematico: un
referendum di tutta la popolazione della zona da aggregare non era in
grado di attribuire una dislocazione territoriale alla maggioranza.
Poteva accadere che in un Comune la maggioranza degli elettori
fossero contrari alla variazione territoriale, ma rappresentassero una
minoranza nella consultazione complessiva. In questo modo essi
sarebbero stati costretti a subire l’aggregazione ad un’altra Regione
contrariamente alla loro volontà. Per ovviare a questo problema si
sarebbe dovuto prevedere un referendum Comune per Comune e
33
aggregare solamente quei Comuni che avessero risposto positivamente
al quesito referendario.
Per l’ipotesi di creazione di una nuova Regione si è detto che titolari
dell’iniziativa fossero i Consigli comunali che rappresentassero una
popolazione di almeno 500.000 abitanti.
Coordinando questa norma con il precedente emendamento, sorgeva il
seguente dilemma: i Consigli comunali che assumevano l’iniziativa
referendaria dovevano rappresentare almeno 500.000 abitanti, pertanto
la frazione di 1/3 delle popolazioni interessate avrebbe dovuto
corrispondere ad un numero uguale o superiore a 500.000 abitanti?
No, la cosa pare eccessiva. Il numero di 500.000 abitanti si riferisce
solamente al numero minimo di abitanti necessario per dar vita ad una
nuova Regione. Tale numero fu stabilito per limitare il frazionamento
delle Regioni esistenti.
La seconda fase dei procedimenti di variazione territoriale si
concretizzava nel referendum delle popolazioni interessate. L’aspetto
più problematico di questa fase riguardava la qualificazione giuridica
da dare all’atto risultante dal referendum: atto consultivo oppure atto
deliberativo dell’iniziativa? Pareva più adeguata la seconda soluzione:
in caso di esito negativo, i Consigli comunali non potevano presentare
alcuna richiesta.
Nel caso in cui invece il referendum avesse dato esito positivo, i
Consigli comunali non sarebbero stati obbligati a presentare la
richiesta di mutamento territoriale. Se la presentavano però, essa
avrebbe dovuto essere conforme nel contenuto alla decisione
referendaria (fase dell’iniziativa di legge).
34
L’ultimo aspetto da esaminare riguarda la legge di variazione
territoriale. A tal proposito l’art. 23, co. 3 dice che doveva trattarsi di
una legge dello Stato, ma non ne specificava la tipologia.
Per quanto riguarda l’ipotesi della creazione di una nuova Regione
doveva trattarsi di legge costituzionale, in quanto si andava a
modificare l’elencazione delle Regioni prevista dall’art. 22 del
Progetto, che avrebbe avuto rango costituzionale. Si ricordi che le
Regioni influiscono sulla composizione di alcuni organi dello Stato, in
particolare sulla composizione del Senato (art. 57 Cost.).
Nell’ipotesi di distacco-aggregazione la legge di variazione avrebbe
invece
potuto
essere
ordinaria
oppure
costituzionale.
La
Sottocommissione decise che si dovesse procedere anche in questo
caso con legge costituzionale, preoccupata dal fatto che un passaggio
di Comuni in più tempi potesse modificare sostanzialmente le
Regioni.
In entrambi i casi la legge doveva essere preceduta dal parere delle
Assemblee regionali interessate. La funzione era quella di tutelare le
popolazioni non direttamente interessate al mutamento territoriale,
“ma che potrebbero sentirsi danneggiate da questa separazione di una
parte della Regione”26, come affermò l’on. Terracini.
Un’ultima considerazione prima di concludere questa breve analisi
dell’art. 23 del Progetto: si può notare che il ruolo previsto dal
Costituente per le popolazioni interessate fosse molto più ampio ed
incisivo di quanto non fosse stato durante la discussione
sull’inserimento delle Regioni nuove nell’elencazione dell’art. 22 del
Progetto. Ciò è stato previsto in funzione garantistica delle
26
Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti
dell’Assemblea Costituente, Atti della seconda Sottocommissione, Roma, p. 1590.
35
popolazioni interessate, cosa che nella precedente discussione era stata
messa in ombra dalla necessità di raggiungere un compromesso
politico sulle Regioni da istituire.
7-
La discussione sulle autonomie locali della Commissione dei
75 riunita in adunanza plenaria
Il testo del progetto redatto dal Comitato dei 10 fu emendato dopo
essere stato presentato alla seconda Sottocommissione, seguendo le
deliberazioni della stessa.
Gli articoli del progetto del Comitato dei 10 confluirono in un nuovo
progetto, che fu presentato alla Commissione dei 75 riunita in
adunanza plenaria.
La discussione del nuovo progetto segnò un sensibile arretramento
rispetto alle posizioni regionalistiche fino ad allora raggiunte. Nel
corso del dibattito della Commissione dei 75 non emersero posizioni
particolarmente innovative rispetto alle discussioni precedenti. Fu più
che altro la sede dove venne svolto il dibattito che non era più
favorevole come prima alle teorie regionaliste. Come sopra ricordato,
i partiti inserirono all’interno della seconda Sottocommissione i
membri più spiccatamente regionalisti nella convinzione che fossero
anche i più preparati in tema di autonomie locali. Era quindi logico
che
all’interno
della
Commissione
dei
75
le
posizioni
antiregionalistiche fossero molto più accentuate.
Per quanto riguarda la materia di questa ricerca, gli artt. 18 e 20 del
nuovo progetto riguardavano rispettivamente l’elenco delle Regioni da
istituire e la disciplina delle variazioni territoriali delle Regioni.
36
L’art. 18 in particolare riproduceva il testo dell’art. 22 del
progetto del Comitato dei 10, con le modificazioni intervenute dopo le
deliberazioni della seconda Sottocommissione:
“Le Regioni sono: Piemonte; Lombardia; Trentino-Alto Adige;
Veneto; Friuli; Liguria; Emilia Appenninica; Emilia e Romagna;
Toscana; Umbria; Marche; Lazio; Abruzzi; Molise; Campania;
Puglia; Salento;
Lucania; Calabria; Sicilia; Sardegna; Valle
d’Aosta” .
I commissari posero l’accento sulla divisione tra Regioni storiche e
Regioni nuove e criticarono i criteri proposti per individuare queste
ultime. Per quanto riguarda il criterio storico, si disse che era troppo
vago: la tradizionale ripartizione geografica d’Italia non era
unanimemente condivisa.
In merito al requisito della volontà delle popolazioni interessate, si
disse che la procedura adottata per raccogliere la volontà popolare era
inadeguata: non appariva adeguato che questa si manifestasse nella
forma di un parere facoltativo e non vincolante espresso dagli organi
rappresentativi delle popolazioni interessate, soprattutto alla luce del
procedimento referendario, più garantista, previsto per la creazione di
Regioni future.
Si ravvisava poi una carenza di volontà popolare in merito alle
situazioni da regionalizzare. La consultazione delle popolazioni
interessate aveva appena avuto inizio. Le Deputazioni provinciali ed i
Comuni delle Regioni interessate dovevano ancora esprimere un
giudizio sulle decisioni prese dal Costituente. Per questi motivi, per
l’opportunità cioè di attendere i risultati della verifica in corso, l’on.
Moro propose che: “la decisione in merito potrà essere riservata a
quando gli elementi di giudizio saranno in possesso della
37
Commissione che potrà decidere senza basarsi su presunzioni e senza
dar motivo a sospetti di simpatie per una Regione o per l’altra”27.
L’emendamento dell’on. Moro fu approvato e l’adunanza plenaria
decise di sospendere ogni decisione riguardante l’istituzione delle
Regioni “nuove”. L’elencazione continuò a comprendere pertanto 22
Regioni.
L’art. 20 del nuovo progetto aveva ad oggetto i procedimenti di
variazione territoriale delle Regioni.
In esso furono recepite tutte le deliberazioni assunte dalla
seconda Sottocommissione quando andò ad esaminare il progetto del
Comitato dei 10. In particolare:
- fu previsto che 500.000 fosse il numero minimo di abitanti richiesti
per poter creare una nuova Regione e non più il numero su cui contare
i legittimati alla richiesta;
- titolari dell’iniziativa della legge costituzionale non furono più i
Consigli comunali che rappresentassero la maggioranza delle
popolazioni interessate. Allo stesso tempo però non fu chiaro se fosse
il referendum a valere come atto introduttivo del procedimento
legislativo o se invece fosse la richiesta di referendum ad operare
come atto d’iniziativa, in caso di esito positivo del referendum.
La novità più importante introdotta dall’adunanza plenaria riguarda
l’ipotesi di distacco-aggregazione. Per questa tipologia di variazione
territoriale venne previsto l’utilizzo della legge ordinaria e non più di
quella costituzionale. Con tale decisione l’adunanza plenaria
intendeva risolvere un conflitto che era derivato da due distinte
27
Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti
dell’Assemblea Costituente, Commissione per la Costituzione, Adunanza Plenaria,
seduta del 1° febbraio 1947, Roma, p. 282.
38
statuizioni della Sottocommissione. La prima prevedeva, ex art. 23,
co. 3 del progetto, che il distacco-aggregazione fosse adottato con
legge costituzionale. La seconda prevedeva invece che i confini delle
Regioni fossero stabiliti con legge ordinaria. Tale contraddizione
avrebbe potuto portare alla situazione paradossale di doversi ricorrere
alla legge costituzionale per un’aggregazione minima, come quella
indotta dall’aggregazione di un solo Comune. Allo stesso tempo
avrebbe potuto impiegarsi una legge ordinaria per variazioni
territoriali rilevanti, in quanto tutte le variazioni comportano una
modificazione dei confini regionali. Il limite delle statuizioni della
Sottocommissione era quello di non aver previsto una soglia minima
di consistenza demografica al di sopra della quale avrebbe dovuto
utilizzarsi la legge costituzionale, al di sotto della quale avrebbe
potuto impiegarsi invece la legge ordinaria. Lo stesso limite inficia
anche la decisione dell’adunanza plenaria, che è egualmente
contraddittoria.
8-
Il progetto di Costituzione della Repubblica italiana
I lavori svolti dalla tre Sottocommissioni confluirono nel progetto di
Costituzione della Repubblica italiana, che doveva essere approvato
dall’Assemblea Costituente.
Il progetto venne presentato alla presidenza dell’Assemblea
Costituente il 31 gennaio 1947; era composto di due parti: la prima,
dedicata ai diritti e ai doveri dei cittadini; la seconda, dedicata
all’ordinamento della Repubblica. L’ordinamento delle autonomie
locali fu collocato al Titolo V della Parte II (artt. 106-125), intitolato:
“le Regioni e i Comuni”. Per quanto riguarda l’oggetto specifico di
39
questo studio, l’art. 123 si occupava di enumerare le Regioni; l’art.
125 trattava i procedimenti di variazione territoriale delle Regioni.
9-
La discussione dell’art. 123 del progetto di Costituzione della
Repubblica italiana
La discussione dell’Assemblea Costituente sul Titolo V fu
caratterizzata dal fatto di riproporre il dibattito sulla questione
regionale, in una sede in cui però le posizioni del regionalismo
moderato e dell’antiregionalismo erano più numerose. Unanimemente
riconosciuta un’esigenza di decentramento, i modi per attuarla
proposti furono i più disparati: dalle tesi federaliste a quelle che
propendevano per un’istituzione facoltativa della Regione. Si levarono
anche tesi antiregionaliste.
Alla fine però, tutto ruotò sempre attorno al medesimo dilemma:
istituzione delle Regioni storiche oppure approvazione anche di
Regioni nuove?
La questione delle circoscrizioni regionali, ai sensi dell’art. 123,
avrebbe dovuto essere discussa il 22 luglio 1947. Si decise però di
sospendere la discussione e la votazione dell’articolo in questione e di
rinviarla a dopo che fosse stata approvata la parte del progetto relativa
al Senato, che doveva essere costituito su base regionale.
La questione della ripartizione del territorio fu esaminata nella seduta
del 29 ottobre 1947.
Questo il testo dell’art. 123 del progetto di Costituzione:
“Le Regioni sono così costituite: Piemonte; Valle d’Aosta;
Lombardia; Trentino-Alto Adige; Veneto; Friuli e Venezia Giulia;
Liguria; Emiliana lunense; Emilia e Romagna; Toscana; Umbria;
40
Marche; Lazio; Abruzzi; Molise; Campania; Puglia; Salento;
Lucania; Calabria; Sicilia; Sardegna” .
“I confini ed i capoluoghi delle Regioni sono stabiliti con legge
della Repubblica” .
Il
Comitato
di
redazione
sottopose
all’attenzione
dell’Assemblea, come base del dibattito, la ripartizione tradizionale in
18 Regioni, proposta a suo tempo dal Comitato dei 10, e non quella
stabilita dalla seconda Sottocommissione e riportata nel testo dell’art.
123, in 22 Regioni. Il fatto sollevò una vivace disputa giuridica sulla
legittimità della scelta del Comitato di redazione: discutibile era il
fatto che il Comitato avesse il potere di modificare la decisione
precedentemente
presa
dalla
seconda
Sottocommissione,
ciò
soprattutto alla luce del fatto che le consultazioni popolari cui era stata
demandata l’approvazione definitiva delle Regioni, erano state
effettuate. Inoltre, se l’Assemblea avesse voluto ritornare alla
ripartizione tradizionale, avrebbe potuto farlo durante la discussione
dell’art. 123. Ma fu proprio questo che l’Assemblea mostrò di non
voler fare.
I grandi partiti temevano di dover giungere alla discussione sulle
singole nuove situazioni regionalizzabili, perché la possibilità che
alcune venissero accolte ed altre respinte, avrebbe avuto delle
conseguenze in termini di costo elettorale. La soluzione che si seguì
può definirsi “salomonica”28, cioè scontentare tutti in egual misura,
lasciando allo stesso tempo intravedere la possibilità di un
riconoscimento futuro. Si decise così un’interpretazione restrittiva del
28
Secondo l’espressione di Ambrosini, in Atti dell’Assemblea Costituente, a cura
della SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Roma,
p. 1707.
41
criterio storico, ripartendo il territorio della Repubblica nelle 18
Regioni tradizionali, ma prevedendo la possibilità di porre degli
emendamenti al nuovo testo dell’art. 123. A tutte queste funzioni
sembrava corrispondere l’ordine del giorno firmato dall’on. Targetti
ed altri.
Formalmente la discussione della seduta del 29 ottobre 1947
ruotò attorno alla contrapposizione fra due ordini del giorno: l’o.d.g.
Targetti ed altri29, che proponeva un’applicazione rigorosa del criterio
storico-tradizionale in conformità alle pubblicazioni statistiche, e
l’o.d.g. De Martino ed altri30, che proponeva di rinviare alla
legislazione ordinaria il compito d’identificare le Regioni. Nella
sostanza, il primo o.d.g. fu assunto come baluardo estremo di difesa
del regionalismo, il secondo invece rappresentò l’ultimo appiglio per
gli antiregionalisti, che sapevano di poter contare anche sull’appoggio
dei regionalisti favorevoli all’istituzione delle Regioni nuove.
L’o.d.g. De Martino proponeva di scindere i due aspetti del problema
regionale, quello attinente al principio dell’autonomia regionale e
quello riguardante la sua concreta attuazione. Le motivazioni di questa
scissione erano ravvisate ne:
- le difficoltà di carattere organizzativo ed economico cui avrebbe dato
luogo l’istituzione immediata dell’ente-regione;
- l’impossibilità di effettuare le complesse valutazioni che erano a
fondamento della ripartizione territoriale;
29
Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti
dell’Assemblea Costituente, Roma, pp. 1682-1683.
30
Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti
dell’Assemblea Costituente, Roma, p. 1682.
42
- l’opportunità di dar modo alle popolazioni interessate di esprimere la
loro volontà sulla Regione di cui dovrebbero far parte attraverso la
consultazione dei loro organi rappresentativi.
Il dibattito sull’o.d.g. De Martino si ridusse essenzialmente al
principio per cui doveva essere la volontà popolare a determinare
l’ambito territoriale delle Regioni e al fatto che la consultazione
indiretta fosse insufficiente, alla luce anche dei risultati modesti e
contraddittori raggiunti fino ad allora dalle consultazioni effettuate in
concreto. Si noti come il principio dell’autodecisione popolare fu
strumentalizzato in senso antiregionalistico.
Critico nei confronti dell’o.d.g. De Martino fu soprattutto l’on.
Piccioni31, il quale sollevò in Assemblea una pregiudiziale,
motivandola con le seguenti considerazioni:
- le motivazioni che avevano spinto l’Assemblea a sospendere ed a
rinviare l’approvazione dell’art. 123 e le motivazioni dell’o.d.g. in
questione che proponevano il rinvio si fondavano su presupposti
completamente diversi;
- era scorretto riconsiderare le deliberazioni già approvate
dall’Assemblea, adducendo l’esigenza di completare un ordinamento
regionale ormai approvato; disse che: “venire a questa tardissima ora,
del nostro esame sull’ordinamento regionale, a dire di nuovo
all’Assemblea Costituente che l’applicazione di quello che abbiamo
per tanti mesi discusso e deliberato, deve essere rinviata alle future
Camere legislative, evidentemente vuol dire un po’ ironizzare – se mi
è lecito dirlo – su quello che è il contenuto del lavoro della nostra
Assemblea”. Aggiunse che riteneva l’o.d.g. in questione l’ultimo
31
Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti
dell’Assemblea Costituente, Roma, p. 1694.
43
tentativo di sabotare, attraverso il rinvio, l’attuazione della riforma
regionale.
Le istanze di Piccioni furono condivise anche da Ambrosini32, che
riteneva la definizione delle circoscrizioni regionali condizione
necessaria per l’attuazione della riforma.
La pregiudiziale di Piccioni venne approvata e così fu superato anche
l’ultimo tentativo di annullare la riforma regionale.
A parere di chi scrive, la critica più consistente all’o.d.g. De
Martino è stata sollevata da un Autore, il Pedrazza Gorlero, in uno
scritto del 197033, dove diceva che elementi costitutivi di un ente
locale sono il territorio e la popolazione. Non sarebbe stato quindi
possibile prevedere l’istituzione degli enti locali senza determinarne
contemporaneamente questi due elementi, come proponeva di fare
l’o.d.g. De Martino.
L’o.d.g. Targetti34 sosteneva un’interpretazione restrittiva del
criterio storico in modo da circoscriverlo per impedire richieste di
istituzione di Regioni nuove. Si ricordi infatti che, a fondamento
dell’istituzione delle Regioni nuove, la seconda Sottocommissione
aveva posto tre criteri: la loro appartenenza ad una ripartizione storica
accettata;
l’autosufficienza
economica
dell’area
territoriale
in
questione; la volontà delle popolazioni interessate. I due ultimi
requisiti erano stati inseriti per limitare il numero di richieste di
erezione di nuove Regioni, che altrimenti fondandosi sul solo criterio
storico, sarebbero state molto più numerose. Nella medesima
32
Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti
dell’Assemblea Costituente, Roma, p. 1699.
33
Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. I,
Padova, 1979, p. 79.
34
Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti
dell’Assemblea Costituente, Roma, pp. 1682 ss.
44
direzione andava anche l’o.d.g. Targetti, che forniva il fondamento per
un ennesimo giro di vite: il criterio su cui fondare la ripartizione
regionale era solamente quello storico, di cui alle pubblicazioni
statistiche. Si trattava di un criterio non scientifico, ma obiettivo, che
aveva il pregio di far coincidere perfettamente la suddivisione
territoriale che ne risultava con quella contenuta nell’elenco di 18
Regioni. Nessun ruolo veniva riservato alla volontà delle popolazioni
interessate, nemmeno nel senso di una correzione “attuale”, anche in
senso storico, del criterio storico adottato. La differenza rispetto al
progetto della seconda Sottocommissione salta all’occhio, soprattutto
alla luce del fatto che in alcuni casi (per esempio il Molise) la volontà
popolare era stata dimostrata dalle indagini condotte.
Il criterio storico-statistico proposto da Targetti nel 1947
sembrò una buona scelta.
Nessuno, allora, fra i cultori delle discipline correlate col tema
regionalistico sarebbe stato in grado di contestarlo. Non gli
economisti, perché non si erano ancora verificate quelle grandi
trasformazioni sociali che avrebbero caratterizzato l’Italia dei decenni
successivi; né gli urbanisti, perché non vi era ancora stata quella
pianificazione economica e territoriale, che in seguito l’avrebbero
fatto apparire inadeguato. Solo i geografi mostrarono interesse: si
disse che era compito della geografia definire e delimitare le singole
Regioni. La Regione, secondo la definizione geografica, era la
localizzazione di un insieme di fenomeni ed aspetti tra loro
spazialmente collegati ed interdipendenti, che adempivano alla
funzione di veri e propri organi nella fisiologia della vita nazionale. La
suddivisione del territorio italiano fatta dai geografi era molto simile a
quella che si stava delineando in seno all’Assemblea Costituente
45
anche senza il loro apporto. Nessun geografo criticò il progetto di
Costituzione né la ripartizione secondo le Regioni tradizionali35.
Le Regioni tradizionali, individuate secondo il criterio storicostatistico, derivano in realtà, come dice Rotelli in un suo scritto del
1967, da un grande “equivoco”36: nel 1864 si definirono dei
raggruppamenti di Province confinanti, con scopi meramente statistici,
che furono chiamate “compartimenti statistici”. Nel 1912 la Direzione
di statistica del Regno ribattezzò i compartimenti “regioni statistiche”.
Durante il periodo fascista, i testi scolastici cominciarono a chiamare
“storiche” le regioni statistiche. Non meno diffuso era allora anche un
altro “equivoco”, confortato dalla geografia: identificare le regioni
storiche con le regioni naturali e ritenere queste ultime delle aree a
struttura economica e sociale solidale. Furono questi i fondamenti
storici su cui si basò l’o.d.g. Targetti.
Anche il criterio statistico fu strumentalizzato per i soliti fini
politici, in modo da far coincidere la ripartizione storico tradizionale
con quella proposta dall’art. 123; a tal proposito si riportano due
esempi chiarificatori:
- il Molise era una Regione storicamente distinta dall’Abruzzo, ma
furono unite per fini statistici. Questo era il senso dell’emendamento
all’o.d.g. Targetti proposto dall’on. Colitto37; si chiedeva di costituire
il Molise come Regione distinta dall’Abruzzo. La proposta non fu
accettata, affermando che l’o.d.g. aveva carattere preclusivo. In realtà
si volle far approvare l’art. 123 così com’era. In questo caso il criterio
statistico sopravanzò quello storico;
35
Cfr. E. ROTELLI, L’avvento della Regione in Italia, Milano, 1967, pp. 364 ss.
Cfr. E. ROTELLI, L’avvento della Regione in Italia, Milano, 1967, pp. 368 ss.
37
Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti
dell’Assemblea Costituente, Roma, pp. 1704 ss.
36
46
- nel caso della Regione Emilia-Romagna, la denominazione statistica
“Emilia” differiva da quella storico-tradizionale “Emilia-Romagna”.
In questo caso si decise di adottare la denominazione storicotradizionale, perché questa veniva utilizzata nel testo dell’art. 123.
Si conclude l’analisi dell’art. 123 riportando un’affermazione
della dottrina più autorevole in materia (Pedrazza Gorlero): “le realtà
regionali da istituire e le denominazioni da attribuire loro non si
desumono
né
dall’applicazione
del
criterio
“storico”,
né
dall’applicazione del criterio “statistico”, ma dall’impiego di un
criterio sostanzialmente “politico”, che utilizza la integrazione dei due
criteri a reciproco “ritaglio”, in modo da far coincidere la ripartizione
“storico-tradizionale” con quella proposta per meri motivi di
opportunità politica, dall’art. 123”38.
10-
La discussione dell’art. 125 del progetto di Costituzione della
Repubblica italiana
L’art. 125 del progetto di Costituzione della Repubblica italiana
prevedeva i procedimenti di variazione territoriale delle Regioni e
riproduceva il testo dell’art. 20 del progetto presentato dalla seconda
Sottocommissione ed approvato con emendamenti dalla Commissione
dei 75 riunita in adunanza plenaria; questa la sua formulazione:
“Si può con legge costituzionale, sentiti i Consigli regionali
interessati, disporre la fusione delle Regioni esistenti e la creazione di
nuove Regioni con un minimo di 500.000 abitanti, quando ne facciano
richiesta tanti Consigli comunali che rappresentino almeno un terzo
38
Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. I,
Padova, 1979, p. 86.
47
delle popolazioni interessate, e la proposta sia approvata per
referendum dalla maggioranza delle popolazioni stesse”.
“Si può, con referendum e legge della Repubblica, sentiti i
Consigli regionali, consentire che i Comuni, i quali ne facciano
richiesta, siano staccati da una Regione ed aggregati ad un’altra”.
Nella discussione in Assemblea furono proposti numerosi
emendamenti a questo articolo. L’emendamento proposto dall’on.
Persico intendeva sopprimere il comma 1 dell’art. 12539. La
motivazione risiedeva nel fatto che la pronuncia referendaria
favorevole di 250.001 elettori (la metà più uno dei 500.000 abitanti
richiesti per la creazione di una nuova Regione) avrebbe portato
all’erezione di una nuova Regione, e ciò poteva portare ad un
frazionamento eccessivo del territorio. L’emendamento fu respinto
perché l’on. Persico aveva commesso il grave errore di identificare il
numero di abitanti con il corpo elettorale interessato.
Altri emendamenti presentati riguardarono l’iniziativa in caso di
creazione di una nuova Regione o di fusione di Regioni. Si propose di
attribuire l’iniziativa anche al Senato, a maggioranza dei 2/3 dei
membri; si propose di elevare a 1/2 o addirittura a 2/3 la frazione di
popolazione che i Consigli comunali dovevano rappresentare per
attivare il procedimento; si propose di mantenere la frazione di 1/3,
calcolandola però sull’intera popolazione della Regione o delle
Regioni interessate. Nessuno di questi però venne approvato.
Altra serie di emendamenti riguardarono la popolazione minima per
costituire una nuova Regione: alcuni volevano abbassarla a 400.000
abitanti, altri innalzarla a 1.000.000 o 1.500.000 o 2.000.000 di
39
Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti
dell’Assemblea Costituente, Roma, p. 2826.
48
abitanti. L’on. Mortati sostenne che 1.500.000 abitanti fosse la
consistenza demografica minima perché la Regione potesse risolvere i
problemi di equilibrio interno di forze ed interessi sociali e venisse ad
assumere nei consessi nazionali il necessario rilievo politico40.
L’Assemblea Costituente decise di elevare il numero minimo di
abitanti a 1.000.000.
Ulteriori emendamenti riguardarono la legge statale di variazione
territoriale: vi è chi avrebbe voluto l’utilizzo della legge ordinaria per
tutti i procedimenti di variazione territoriale e chi invece, al contrario,
avrebbe voluto l’utilizzo della legge costituzionale anche per il
procedimento
di
distacco-aggregazione.
Una
volta
soppresso
dall’Assemblea l’ultimo comma dell’art. 123, il quale prevedeva che
“i confini ed i capoluoghi della Regione sono stabiliti con legge della
Repubblica”, era venuto meno il motivo di conflitto tra questa norma
e la legge costituzionale prevista per l’ipotesi di distaccoaggregazione. Anche questi emendamenti non furono approvati e
continuarono a prevedersi leggi di rango differenziato a seconda della
tipologia di variazione territoriale.
La discussione più importante in merito all’art. 125 riguardò
l’articolo aggiuntivo proposto da Mortati che poi divenne, pur se con
qualche modifica, l’art. XI delle disposizioni transitorie e finali della
Costituzione italiana. Nel testo originario si prevedeva che:
“Fino a cinque anni dopo l’entrata in vigore della presente
Costituzione si potrà procedere, con legge costituzionale, alla
modificazione delle circoscrizioni regionali stabilite dall’art. 123,
anche senza il concorso delle condizioni di cui all’art. 125” .
40
Cfr. SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, Atti
dell’Assemblea Costituente, Roma, p. 2827.
49
Il fondamento logico di questo articolo stava nel fatto che il Mortati
considerava la ripartizione regionale ex art. 123 una ripartizione
provvisoria, che dunque poteva essere rivista nell’immediato futuro
senza l’ingombro di una procedura complessa come quella prevista
all’art. 125. Si ricorda infatti che questi aveva proposto di compiere
delle ricerche nelle aree da regionalizzare41 prima d’istituirvi una
Regione, ma che tale proposta non venne accettata. Questo articolo
mirava a restituire un fondamento di razionalità ad una suddivisione
territoriale fatta senza avere gli elementi conoscitivi necessari ed
indirettamente ad utilizzare quel criterio funzionale di ripartizione
regionale tanto ingiustamente avversato.
La discussione di questo articolo in Assemblea assunse una curvatura
unidirezionale che gli assegnò il compito di soddisfare le richieste di
istituzione di Regioni che il Costituente aveva deciso di non
accogliere. A suffragare questo sospetto vi era poi il fatto che non fu
previsto un minimo di consistenza demografica. Tale articolo era stato
strumentalizzato per consentire l’erezione a Regione del Molise, i cui
sostenitori erano stati i più tenaci durante il dibattito in Assemblea
Costituente. Lo stesso Mortati disse che questo articolo era posto in
deroga limitatamente all’art. 125, co. 1, quindi ai casi di creazione di
nuove Regioni ed a quello di fusione di Regioni, in quanto la
modificazione da farsi con legge costituzionale si riferiva solamente a
questi due procedimenti di variazione territoriale. Il testo dell’articolo
fu poi modificato dal Comitato di redazione in sede di formulazione
definitiva; l’inciso “modificazione delle circoscrizioni regionali
stabilite” fu sostituito con “formare altre regioni, a modificazione
dell’elenco”. Il termine “altre” esprimeva l’aggiunta numerica:
41
Si veda Capitolo I, pp. 24-25.
50
Regioni nuove, cioè altre rispetto a quelle già esistenti. In questo
modo veniva esclusa dalla deroga anche l’ipotesi della fusione.
Alla luce di queste considerazioni, l’articolo in questione venne a
porsi in contraddizione con le finalità iniziali che si era proposto di
avere, cioè consentire una revisione razionale delle circoscrizioni
regionali. La spiegazione consiste nel fatto che il distaccoaggregazione e la fusione sono procedimenti volti ad una
ricomposizione razionale del territorio. La creazione di una nuova
Regione invece provoca solamente un ulteriore frazionamento del
territorio. Si è visto che l’articolo aggiuntivo nella sua formulazione
definitiva si riferisce esclusivamente al procedimento di creazione che
non ha funzione di razionalizzare il territorio, ma di frazionarlo. La
strumentalizzazione anche in questo caso è palese.
Altra modificazione all’articolo aggiuntivo fu quella che pose
l’obbligo, a carico di chi avesse voluto attivare il procedimento
straordinario di revisione territoriale, di avere il consenso delle
popolazioni interessate. Si trattava di un’aggiunta importante perché
restituiva alla volontà popolare il ruolo di primo piano che le era stato
attribuito durante il dibattito regionalistico e tanto ingiustamente
sottratto dalla strumentalizzazione politica.
La formulazione definitiva dell’art. XI delle disposizioni di
attuazione fu la seguente:
“Fino a cinque anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione
si possono con leggi costituzionali, formare altre Regioni a
modificazione dell’elenco di cui all’art. 131, anche senza il concorso
delle condizioni richieste del primo comma dell’articolo 132, fermo
rimanendo tuttavia l’obbligo di sentire le popolazioni interessate” .
51
11-
L’art. 131 della Costituzione della Repubblica italiana
L’art 123 del progetto di Costituzione, dopo la discussione e gli
emendamenti approvati in Assemblea Costituente, divenne l’art. 131
della Costituzione. Questo il testo:
“Sono costituite le seguenti Regioni: Piemonte; Valle d’Aosta;
Lombardia; Trentino-Alto Adige; Veneto; Friuli-Venezia Giulia;
Liguria; Emilia-Romagna; Toscana; Umbria; Marche; Lazio; Abruzzi
e Molise; Campania; Puglia ; Basilicata; Calabria; Sicilia;
Sardegna” .
Si può notare che il testo differisce da quello del progetto per la
modifiche apportate dagli emendamenti su cui si è ampiamente
discusso e per il fatto che è stato abrogato il comma 2, riferito ai
confini ed ai capoluoghi delle Regioni. Tale comma fu soppresso dal
Comitato di redazione perché, avendo previsto la conservazione della
Provincia come ente autonomo e di decentramento regionale, i confini
di ciascuna Regione sono quelli entro cui si trovano le circoscrizioni
delle rispettive Province, secondo la ripartizione del territorio della
Repubblica.
Si noti inoltre che rispetto al testo originario proposto dal
Comitato dei 10, nella redazione definitiva dell’art 131 fu prevista
anche l’istituzione della Regione Friuli-Venezia Giulia.
Il Friuli-Venezia Giulia fu una Regione “costituita solo di nome”42
dall’Assemblea Costituente; se ne spiegano qui di seguito i motivi.
Come si desume dalla denominazione, questa Regione è composta da
due aree territoriali: il Friuli e la Venezia Giulia. La prima era ignota
42
Così la definisce M. PEDRAZZA GORLERO in Le variazioni territoriali delle
Regioni, vol. II, Padova 1991, p. 38. Nessuna definizione pare più appropriata.
52
alla ripartizione statistica, l’area territoriale Friuli appartiene
storicamente alla Regione Veneto. Il Friuli circoscrive una zona
formata dalla Provincia di Udine e da territori limitrofi, e la Provincia
di Udine appartiene al Veneto “statistico”. Con il d.P.R. 6 febbraio
1948 n. 30 si ripartì il territorio delle Regioni in collegi uninominali a
fini elettorali e sotto la Regione Veneto furono comprese tutte le
Province appartenenti al Veneto “statistico”, con esclusione della
Provincia di Udine. Si deve quindi desumere che la Provincia di Udine
appartenga ad un’altra Regione, il Friuli appunto.
La seconda parte della denominazione poneva problemi ancora più
seri. La Venezia Giulia apparteneva alla regione statistica Venezia
Giulia e Zara, che, al momento della redazione della Carta
Costituzionale, non era nella disponibilità dello Stato italiano, a causa
degli eventi internazionali che interessarono la Venezia Giulia al
termine del secondo conflitto mondiale. Va ricordato infatti che il
Trattato di pace tra l’Italia e le potenze vincitrici aveva previsto la
costituzione del “territorio libero di Trieste” ai margini orientali del
Paese, che in realtà non trovò mai concreta attuazione. Continuò su di
esso un regime di amministrazione militare, con una divisione tra una
zona A (comprendente la città di Trieste ed i suoi dintorni) affidata
alle forze armate anglo-americane ed una zona B (comprendente la
parte residua) affidata alle forze armate jugoslave. Constatata
l’impossibilità di rendere operante la clausola del Trattato di pace
relativa al territorio libero di Trieste, l’Italia, la Jugoslavia, la Gran
Bretagna e gli Stati Uniti siglarono a Londra il 5 ottobre 1954 un
Memorandum d’Intesa in cui fu previsto di assegnare la zona A
all’Italia e la zona B alla Jugoslavia. Fu così che la porzione della
53
Venezia Giulia assegnata all’Italia andò formare, insieme con il Friuli,
la Regione Friuli-Venezia Giulia.
Il testo originario dell’art. 131 fu in seguito modificato con la
legge costituzionale 27 dicembre 1963, n. 3, avente ad oggetto
l’istituzione della Regione Molise.
L’istituzione del Molise avvenne a seguito del procedimento di
creazione di una nuova Regione durante il periodo di vigenza dell’art.
XI delle disposizioni di attuazione della Costituzione: come si è visto,
l’articolo in questione permetteva, entro il termine di 5 anni
dall’entrata in vigore della Costituzione, di istituire una nuova
Regione, evitando il complesso procedimento previsto dall’art. 132,
co. 1, fermo comunque l’ obbligo di sentire le popolazioni interessate.
La norma in questione costituiva una deroga all’art. 132, co. 1;
pertanto se l’art. 132, co. 1
prevedeva l’uso del referendum per
sentire le popolazioni interessate, anche l’art. XI avrebbe dovuto
impiegare tale mezzo. Ciò comportava però che nel termine di 5 anni
previsto per la vigenza dell’art. XI, fosse approvata la legge attuativa
del referendum, cosa che non avvenne.
Inoltre il termine previsto dall’art. XI era spirato senza che la Regione
venisse istituita.
Il termine di 5 anni era da ritenersi perentorio, ma avrebbe potuto
essere prorogato con legge costituzionale. Si decise invece di
prorogare il termine di altri 5 anni con legge ordinaria, la legge n. 62
del 10 febbraio 1953 (la cosiddetta legge Scelba sulla costituzione e
sul funzionamento degli organi regionali), giustificata dal fatto che la
procedura non aveva potuto essere attivata in tempo utile perché non
era stata emanata la legge sul referendum, né era stato attuato
l’ordinamento regionale. Inoltre l’art. 73 di tale legge prevedeva che
54
l’obbligo di sentire le popolazioni interessate potesse essere assolto
anziché col referendum, con i pareri dei Consigli comunali e dei
Commissari prefettizi delle popolazioni interessate. Tale articolo era
incostituzionale sotto molteplici punti di vista, in quanto:
- aveva previsto una consultazione indiretta;
- aveva previsto la richiesta di creazione di una nuova Regione da
parte dei Comuni interessati, cosa prevista nell’art. 132, comma 1, ma
non nell’art. XI;
- aveva considerato popolazioni interessate, sia quelle direttamente
interessate alla variazione territoriale, sia quelle indirettamente
interessate.
L’art. 73 inoltre, essendo sopravvenuto a termine ormai scaduto,
presupponeva la vigenza dell’art. XI: era dunque possibile prorogare
nuovamente la scadenza di detto articolo delle disposizioni di
attuazione, purché entro il termine di scadenza della legge n. 62/1953
e ciò avvenisse con legge costituzionale. Ciò avvenne con la legge
costituzionale 18 marzo 1963 n. 1 che fissò la scadenza della
disposizione di attuazione al 31 dicembre 1964. In merito a tale
articolo sorsero delle dispute dottrinali: vi fu
chi, come Mortati,
sostenne che l’art. 73, pur essendo incostituzionale, presupponeva la
vigenza dell’art. XI, e dunque potesse venire prorogato. E vi fu chi,
come Crisafulli, considerò l’art. 73 privo di ogni possibilità di
applicazione: il temine previsto dall’art. XI doveva ritenersi perentorio
e dunque prorogabile solo con legge costituzionale. La prima teoria
viene sostenuta anche da Pedrazza Gorlero, la seconda da Bassanini43.
A parere di scrive, sembra sia più condivisibile la teoria del Crisafulli
piuttosto che quella del Mortati: l’art. 73 era da considerarsi
43
Cfr. F. BASSANINI, L’attuazione delle Regioni, Firenze, 1970, p. 83.
55
incostituzionale e pertanto privo di ogni efficacia. Per questo motivo
non poteva mantenere in vita l’art. XI delle disposizioni di attuazione.
La Regione Molise fu istituita con la legge costituzionale 27
dicembre 1963 n. 3, entro il termine previsto dalla legge costituzionale
sopra citata.
Il testo dell’art. 131 della Costituzione fu così modificato: invece che
prevedere la Regione “Abruzzi e Molise” furono previste due Regioni
distinte “Abruzzi” e “Molise” .
L’art. 131 Cost. ricopre un ruolo fondamentale all’interno delle
norme previste nel Titolo V, Parte II della Costituzione in quanto
rappresenta il presupposto d’efficacia delle stesse44.
12-
L’art. 132 della Costituzione della Repubblica italiana
L’art. 132 della Costituzione prevede i procedimenti di
variazione territoriale delle Regioni e, come specificato da recente
dottrina, ha una posizione “servente” rispetto alla disposizione
costituzionale che lo precede45.
Esso originariamente riprendeva il testo dell’art. 125 del progetto di
Costituzione, e, a parte delle lievi modifiche di forma, fu modificato
sostanzialmente solamente nella parte in cui prevedeva che la Regione
istituenda avesse una consistenza demografica di 1.000.000 di abitanti
e non solo di 500.000, come invece previsto nel progetto.
Questo il testo dell’art. 132 Cost.:
44
In questo senso si veda: C. MAINARDIS, commento all’art. 132 della
Costituzione italiana in Commentario breve alla Costituzione, a cura di
BARTOLE S., BIN R., Padova, 2008, p. 1142.
45
In questo senso si veda: MAINARDIS C., commento all’art. 132 della
Costituzione italiana in Commentario breve alla Costituzione, a cura di
BARTOLE S., BIN R., Padova, 2008, p. 1141.
56
“Si può con legge costituzionale, sentiti i Consigli regionali,
disporre la fusione di Regioni esistenti o la creazione di nuove
Regioni con un minimo di un milione d’abitanti, quando ne facciano
richiesta tanti Consigli comunali che rappresentino almeno un terzo
delle popolazioni interessate, e la proposta sia approvata per
referendum dalla maggioranza delle popolazioni stesse”.
“Si può, con referendum e con legge della Repubblica, sentiti i
Consigli regionali, consentire che Province e Comuni, che ne
facciano richiesta, siano staccati da una Regione ed aggregati ad
un’altra”.
Il requisito del numero minimo di abitanti per la creazione di
una nuova Regione è ancor oggi oggetto di dibattito in dottrina, nel
senso che non vi è univocità di vedute in merito al fatto se il minimo
di popolazione attenga solamente alla Regione “creata” o se debba
essere esteso anche alla Regione “restante”46. Autorevole dottrina
(Pedrazza Gorlero47) sostiene che il requisito non riguardi anche le
Regioni “restanti” e ciò per tre motivi:
- un argomento letterale: il termine “nuove” nel sistema delle
variazioni territoriali delle Regioni non designa realtà istituzionali
genericamente nuove rispetto al quelle precedenti, ma sta ad indicare
solamente l’aggiunta numerica di un di un ente locale rispetto a quelli
precedentemente individuati. Sta ad indicare cioè “altre” Regioni
rispetto a quelle precedentemente esistenti;
- un argomento storico: il Costituente ha istituito le Regioni di cui
all’art. 131 Cost. derogando al minimo di popolazione che invece ha
46
La questione viene trattata più approfonditamente nel Capitolo III, pp. 122 ss.
Si veda: M. PEDRAZZA GORLERO, commento all’art. 132 Cost., in
Commentario della Costituzione a cura di G. BRANCA, A. PIZZORUSSO, tomo
III, Bologna-Roma, 1990, p. 158 ss.
47
57
prescritto per la creazione di quelle nuove. La Regione “restante”
continuerebbe pertanto a vivere per decisione del Costituente;
- un argomento funzionale, secondo cui il limite minimo di
popolazione sarebbe stato formulato al solo scopo di servire da remora
al formarsi di nuove Regioni, non già per ottenere che tutte le Regioni
italiane fossero costituite da una popolazione superiore al milione di
abitanti.
Tutte queste conclusioni paiono pienamente condivisibili, anche
perché il dettato costituzionale non parla di Regioni “restanti” a
seguito del procedimento di creazione e dunque non è possibile
applicare a queste nessun requisito.
Una questione simile, su cui però la dottrina48 ha posto scarsa
attenzione, è la seguente: il requisito minimo di 1.000.000 di abitanti è
richiesto solo per la creazione o anche per la fusione?
Anche nel caso di fusione di Regioni esistenti si può dire che l’ente
territoriale risultante sia “nuovo”, ma non è necessario in questo caso
il requisito del minimo di 1.000.000 di abitanti; ciò per tre motivi:
- un motivo storico: la fusione non è prevista fin dall’inizio come
ipotesi di variazione territoriale, ma emerge solamente nel corso del
dibattito in Sottocommissione, che individua la fusione per
incorporazione come una sottofattispecie dell’ipotesi di distaccoaggregazione49. Quest’ultima ipotesi non richiede il requisito di un
numero minimo di abitanti per poter essere attivata ergo si desume
che la stessa cosa valga anche per l’ipotesi di fusione;
48
Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol.
II, Padova 1991, pp. 41 ss.; R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI,
Commentario alla Costituzione , Torino, 2006, p. 2534.
49
Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO in Commentario alla Costituzione , tomo III,
Bologna-Roma, 1991, p. 130.
58
- un motivo sostanziale: presupposto della fusione è un riordino in
senso funzionale del territorio, volto alla riduzione del numero degli
enti-regione; tale riordino mira ad una ricomposizione del territorio e
non ad un frazionamento come nel caso della creazione di una nuova
Regione50. La fusione di Regioni esistenti sarà quindi sempre
auspicabile;
- un motivo letterale: dice il primo comma dell’art. 132 Cost. che: “Si
può (…) disporre la fusione delle Regioni esistenti e la creazione di
nuove Regioni con un minimo di un milione di abitanti”, il requisito
del milione di abitanti si riferisce solamente alla seconda ipotesi. Se si
fosse voluto riferirlo anche alla prima si sarebbe dovuta aggiungere
una virgola tra “Regioni” e “con un minimo” di modo da far
diventare l’ultimo inciso una frase subordinata riferita ad entrambe le
ipotesi.
Il comma 2 di questo articolo è stato modificato a seguito della
legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che ha portato la seguente
modifica al testo:
“Si può, con l’approvazione della maggioranza delle popolazioni
della Provincia o della Province interessate e del Comune o dei
Comuni interessati espressa mediante referendum” .
La modifica costituzionale, con questa precisazione, definisce il
concetto di “popolazioni interessate alla variazione territoriale”. Per
quanto la lettera costituzionale non appaia certo cristallina (anzi, in un
recente disegno di legge costituzionale è stata definita “ambigua e
lacunosa”51), ciononostante ha avuto un ruolo d’indubbia importanza
50
Si veda Capitolo I, p. 51.
Sul punto si veda: Atti della Camera dei deputati, XV legislatura, atto n. 2523
del 17 aprile 2007, p. 3.
51
59
nella definizione del concetto di popolazioni interessate. La sentenza
n. 334/2004 della Corte Costituzionale ha infatti ritenuto che
l’innovazione costituzionale “inequivocamente si riferisce soltanto ai
cittadini degli enti locali direttamente coinvolti nel distaccoaggregazione”, con ciò affermando che le popolazioni di cui sopra
siano solamente gruppi di cittadini direttamente coinvolti nella
variazione territoriale.
Anche la dottrina ha espresso le prime opinioni a riguardo,
producendo dei commenti sia a favore, sia contro l’innovazione
attuata dalla riforma del 200152.
La nozione di popolazioni interessate sarà oggetto di approfondimento
nel corso di questo studio, quando si andrà ad esaminare nel dettaglio
il procedimento di variazione territoriale (Capitolo III).
Altre novità non ve ne sono, a parte il fatto che la legge ha introdotto
un’evidente asimmetria tra il co. 1 ed il co. 2 dell’art. 132: nel primo
caso la richiesta di modifica è affidata unicamente ai Consigli
comunali, il comma successivo invece estende tale facoltà, seppur in
una fattispecie diversa, anche alle Province.
13-
La genesi della Regione nell’ordinamento italiano
Si presenta qui di seguito uno schema che riassume i passaggi salienti
fin qui esaminati, al fine di ricostruire la genesi della Regione
nell’ordinamento italiano:
52
Cfr. R. PINARDI, L’iniziativa del referendum per il distacco-aggregazione
dopo la riforma del titolo V in Giurisprudenza costituzionale , Milano, n. 6/2004,
pp. 3782 ss.; T. GIUPPONI, Le “popolazioni interessate” e i referendum per le
variazioni territoriali, ex artt. 132 e 133 Cost.: territorio che vai, interesse che
trovi in Le Regioni, Bologna, n. 3/2005, pp. 416 ss.
60
- i cittadini italiani il 2 giugno 1946 eleggono a suffragio universale i
membri dell’ Assemblea Costituente;
- l’Assemblea Costituente incarica una Commissione composta da 75
dei suoi membri ( la Commissione dei 75 ) di redigere un progetto di
Costituzione;
- la Commissione dei 75 si suddivide in 3 Sottocommissioni, ognuna
delle quali si occupa di determinate tematiche. La seconda
Sottocommissione si occupa, tra le altre cose, anche delle autonomie
locali;
- la seconda Sottocommissione nomina il Comitato di redazione per le
autonomie locali, composto da 10 dei suoi membri (il Comitato dei
10), col compito di redigere un progetto avente ad oggetto le
autonomie locali;
- il progetto elaborato dal Comitato dei 10 viene presentato alla
seconda
Sottocommissione
che lo discute
e propone degli
emendamenti;
- la seconda Sottocommissione redige un nuovo progetto, sulla base
del testo del progetto del Comitato dei 10 emendato, e lo presenta alla
Commissione dei 75 riunita in adunanza plenaria;
- la Commissione dei 75 riunita in adunanza plenaria apporta delle
modifiche al testo presentatole;
- i lavori delle tre Sottocommissioni in cui si era diviso il Comitato
dei 75 confluirono nel progetto di Costituzione della Repubblica
italiana. Il testo viene
approvato, con opportune modifiche
dall’Assemblea Costituente. Le Regioni istituite sono elencate nell’art.
131 della Costituzione, mentre i procedimenti di variazione territoriale
sono previsti dal successivo art. 132 Cost.
61
62
CAPITOLO II
IL TERRITORIO DELLA REGIONE
SOMMARIO: 1. Il concetto di territorialità. – 2. I criteri d’individuazione del territorio regionale
scelti dal Costituente e la loro inadeguatezza. – 2.1. Il concetto di regione costituzionale e la
sua proiezione territoriale. – 2.2. Nuovi concetti di regione per una nuova società italiana. –
2.3. L’idoneità dell’art. 132 Cost. a modificare la Regione in senso storico ed in senso
funzionale. – 3. Variazioni di denominazione delle Regioni. 4. I confini delle Regioni. – 5. Le
variazioni del territorio regionale a seguito di trattati internazionali. – 6.
La cessione di
territorio non abitato e la rettifica dei confini.
1.
Il concetto di territorialità
I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono i
soli enti locali territoriali conosciuti dal nostro ordinamento giuridico
(art. 114 Cost.). Se infatti gravi dispute possono sorgere in merito alla
differenziazione degli enti locali territoriali rispetto agli altri enti
pubblici, non vi sono dubbi circa gli enti ai quali attribuire tale
qualifica, che sono solamente quelli sopra citati. Gli Autori sono
infatti concordi nell’ammettere che accanto allo Stato, ente territoriale
per eccellenza, vi siano delle persone giuridiche (il Comune, la
Provincia e la Regione) esplicanti la loro attività entro una determinata
63
circoscrizione territoriale, che hanno in comune con esso il vincolo di
necessaria connessione con un determinato territorio, cioè il carattere
della territorialità.
Il territorio non costituisce unicamente un ambito spaziale al cui
interno l’ente esercita le competenze che gli sono proprie bensì un
centro di riferimento di interessi generali che hanno nel territorio
stesso il luogo e la fonte della loro emersione. Il collegamento tra
territorio ed interessi è talmente stretto, inscindibile, da connotare
l’intero ordinamento a cui si riferisce: questo è il motivo per cui sul
medesimo territorio, fisicamente inteso, possono operare enti diversi,
ciascuno portatore di interessi suoi propri, in ragione delle competenze
agli stessi riconosciute. Nell’accezione oggettivo-funzionale, la stessa
porzione di spazio fisico può rilevare come territorio ora di questo, ora
di quell’ente (Stato, Regione, Comune).
Quando però si tratta di definire concretamente il concetto di
territorialità, la diversità e l’incertezza delle interpretazioni proposte
dai vari Autori lascia intendere che tale concetto sia stato più intuito
che spiegato.
In tutto il movimento dottrinale che fa capo a Santi Romano, si
ritiene che il territorio per gli enti locali sia solo un limite spaziale alla
loro potestà; per gli enti locali territoriali esso è invece un elemento
essenziale della struttura degli enti stessi. Il territorio per questi enti
non è solamente un elemento costitutivo, ma è anche oggetto di uno
jus in personam, cioè di un diritto che si pone come fondamento
diretto od indiretto di poteri autonomi, cioè quelli che permettono di
esercitare l’imperium su chiunque si trovi nel territorio e quelli
tendenti a tutelare l’integrità territoriale di fronte alle pretese degli
64
enti contermini che avessero per scopo il loro ingrandimento
territoriale.
Alla tesi del Romano sono state successivamente contrapposte
altre teorie. Gli Autori che ritengono errato configurare il territorio
come elemento costitutivo del Comune, della Provincia e della
Regione hanno a loro volta dato differenti interpretazioni del concetto
di territorialità.
Alcuni53 sostengono che la connessione ente-territorio (la territorialità)
sia un presupposto indefettibile solamente per gli enti locali
territoriali, mentre gli enti locali possono esistere indipendentemente
dalla presenza del territorio.
Altri Autori54 affermano che la territorialità sia una conseguenza della
natura politica di questi enti: essi possono vincolare sia i propri
appartenenti, sia soggetti estranei, in ragione del semplice contatto di
questi col loro territorio. Ciò deriva della constatazione del fatto che
soggezione dell’ente locale territoriale su un soggetto si realizza
indipendentemente dall’appartenenza di questo all’ente.
Queste due teorie prestano il fianco ad alcune critiche, sintomo
dell’incertezza delle interpretazioni proposte dagli Autori.
Per quanto riguarda la prima, si dice che il territorio non è un
presupposto essenziale dei soli enti locali territoriali, ma che esso è
indefettibile anche per tutti gli altri enti locali: non appare infatti
ipotizzabile un ente avulso dal territorio nel quale agisce od individua
i destinatari della propria attività.
53
Cfr. U. FORTI, La funzione giuridica del territorio comunale in Studi di diritto
pubblico, vol. II, Roma, 1937, pp. 268 ss.
54
Cfr. R. ALESSI, Intorno alla nozione di ente territoriale in Rivista trimestrale
di diritto pubblico, Milano, 1960, pp. 290 ss.
65
Per quanto riguarda la seconda tesi, quella che ritiene che il territorio
sia il momento di collegamento della potestà degli enti locali
territoriali con i soggetti, cioè una conseguenza, a questi si obietta che
questo fenomeno si riscontra anche nei confronti di enti che territoriali
non sono.
La definizione che pare più adeguata sul concetto di
territorialità è quella data dal Masucci55. Nel tentativo d’individuare
un carattere peculiare degli enti locali territoriali, al fine di definire il
concetto di territorialità, egli sostiene che il territorio è l’elemento che
permette d’individuare (cioè il principium individuationis) gli
appartenenti a tali enti.
L’appartenenza ricorre
solamente se la persona fa parte
dell’organizzazione dell’ente, e si ricava dal dettato normativo ( d.P.R.
31 gennaio 1958 n. 136, art. 1): fanno parte del Comune (e di
conseguenza anche della Provincia e della Regione) coloro che sono
residenti nel territorio dell’ente, cioè quelli che hanno in questo la loro
dimora abituale. Il mero fatto dello stanziamento nel territorio
determina l’appartenenza all’ente ed infatti la dichiarazione fatta dal
privato di essere residente nel territorio, se disgiunta dall’effettivo
stanziamento, non fa acquistare la residenza, mentre se una persona
abita stabilmente in un territorio anche se non ha fatto tale
dichiarazione, appartiene comunque all’ente.
L’appartenenza è diversa dalla soggezione presente nella concezione
del Romano: questa ricorre quando l’ente esercita sul soggetto il suo
imperium,
la
prima
invece
quando
il
soggetto
fa
parte
dell’organizzazione dell’ente.
55
Cfr. A. MASUCCI, Enti locali territoriali in Enciclopedia del diritto, Milano,
1965, p. 977.
66
Al fine di suffragare questa concezione si fanno alcuni esempi: le
camere di commercio sono enti locali; ad esse si appartiene per il fatto
di essere in collegamento con i fini istituzionali dell’ente. L’essere
residente in questo o quel Comune rileva solo indirettamente al fine
d’individuare a quale degli enti, localmente distribuiti, bisogna
appartenere. È proprio la diversità del criterio d’individuazione a
contraddistinguere gli enti locali territoriali dagli altri enti locali,
diversità che si traduce poi anche nelle diverse finalità cui tendono
questi enti. Le camere di commercio, per continuare con l’esempio,
curano gli interessi di una determinata categoria di persone; i Comuni,
le Province e le Regioni curano gli interessi di interi gruppi sociali.
La necessaria connessione che intercorre tra l’ente locale
territoriale ed il suo territorio si può ricavare anche dal dettato
costituzionale. In particolare, nei procedimenti di variazione
territoriale di Comuni, Province e Regioni (artt. 133 e 132 Cost.) è
previsto che i mutamenti siano subordinati al parere favorevole delle
popolazioni interessate, cioè di quelle appartenenti al territorio da
modificare. Non è difficile notare che il territorio sia il principium in
base
al
quale
s’individuano
le
popolazioni
interessate
alla
modificazione.
2-
I criteri d’individuazione del territorio regionale scelti dal
Costituente e la loro inadeguatezza
L’aver analizzato il concetto di territorialità non è stato inutile,
in quanto ha permesso di comprendere meglio il legame tra l’enteregione ed il suo territorio. Prima di approfondire lo studio sui
procedimenti di variazione territoriale, è però opportuno dare un
67
giudizio sulle motivazioni e sui criteri che hanno guidato il
Costituente nella ripartizione del territorio italiano.
È opinione corrente tra gli studiosi che la ripartizione territoriale
effettuata dal Costituente utilizzando il criterio storico, integrato e
ritagliato da quello statistico, sia oltre che scientificamente errata
anche inadeguata a corrispondere ai caratteri della società italiana
coeva e ad assecondare le trasformazioni economiche e sociali che il
Paese avrebbe conosciuto negli anni subito successivi all’entrata in
vigore della Costituzione. Talune aree geografiche presentano infatti
una vocazione economica e caratteri complessivamente omogenei pur
essendo ripartite tra più Regioni. Al contrario, vi sono dei casi in cui
una stessa Regione presenta al suo interno delle aree disomogenee. La
cosa può apparire insensata, ed infatti lo è, soprattutto considerati i
risvolti concreti che porta con sé. Tale ripartizione incide
pesantemente sulla soddisfazione degli interessi della comunità
regionale.
Considerando
infatti
l’ambito
di
operatività
della
legislazione regionale, le leggi di una Regione finiscono per trattare in
modo eguale situazioni oggettivamente diverse, mentre aree territoriali
simili, appartenenti a Regioni diverse, sono trattate con una disciplina
diversa, quando invece richiederebbero di essere trattate allo stesso
modo. Vi è quindi una complessiva irragionevolezza delle discipline
normative conseguente alla mancata armonizzazione interna ed al
rapporto tra territorio ed interessi.
Nel tentare di dare un giudizio, si condurranno due tipi
d’indagine, una concettuale e l’altra metodologica:
- dal punto di vista concettuale, quale che sia il concetto di regione dal
quale si muove, il territorio dev’essere funzionale al tipo di regione
che si vuole istituire: per poter giudicare inadeguate le dimensioni
68
territoriali delle regioni costituzionali, bisogna innanzitutto accertare
se esse siano funzionali al tipo di regione al quale attengono;
- dal punto di vista metodologico, il giudizio sulla ripartizione non può
limitarsi al solo art. 131, ma deve estendersi anche agli artt. 132 ed XI.
Questi tre articoli fanno parte di un disegno complessivo del
legislatore: egli era consapevole fin da subito dell’inadeguatezza della
ripartizione fatta e per questo furono previsti degli strumenti giuridici
idonei a modificarla. Il giudizio di inadeguatezza potrà quindi
pronunciarsi solamente se la disciplina strumentale venga considerata
inidonea a trasferire in nuove realtà istituzionali le aree territoriali che
chiedono la variazione.
2.1- Il concetto di regione costituzionale e la sua proiezione
territoriale
Il concetto di “regione costituzionale”, ossia il concetto di
regione adottato dal Costituente, non è di agevole definizione in base
agli elementi onomastici e definitori da esso forniti. L’unico punto
fermo riguarda l’impiego del criterio storico-tradizionale che presiede
alla ripartizione statistica. Si tratta però di un’affermazione poco
illuminante.
Il concetto di regione storica fu oggetto di definizioni molto generiche
che gli conferirono l’attitudine ad individuare concretamente una
Regione sulla base della corrispondenza di un determinato ambiente
con un certo complesso di dati storici scelti con criteri non univoci:
ciò lo rese suscettibile di un’applicazione elastica ed arbitraria.
69
Il concetto di regione statistica fu proposto ed impiegato a fini
meramente statistici, senza la pretesa di assurgere a criterio atto ad
individuare le circoscrizioni regionali.
L’infecondità delle analisi terminologiche delle definizioni di
regione proposte non deve tuttavia trarre in inganno. I Costituenti,
quando discutevano sulla regione, ne avevano ben chiaro un concetto,
che potremmo definire “reale” di regione costituzionale, costante
attraverso tutte le accezioni del termine. Per regione reale s’intendeva
un ente dotato del carattere dell’omogeneità sotto il profilo ambientale
e dell’uniformità sotto il profilo istituzionale.
Omogeneità sotto il profilo ambientale significa dal punto di vista
geografico, storico-tradizionale ed etnico-linguistico, come quella
sottesa alla suddivisione storico-tradizionale nell’art. 131. Omogeneità
presunta per le Regioni storiche e da accertarsi attraverso la
consultazione delle popolazioni interessate per le Regioni nuove,
perché altrimenti non sarebbe riconoscibile.
Uniformità sotto il profilo istituzionale significa non aver lasciato
libera l’organizzazione regionale, ma aver condizionato l’esercizio dei
poteri normativi delle Regioni al rispetto della legislazione statale “di
principio” nelle materie di competenza regionale; aver concesso
l’autonomia normativa ed amministrativa in materie che per quantità e
qualità sono compatibili con un ambito territoriale di medie
dimensioni, come quello regionale.
Il criterio che lega i diversi livelli di omogeneità e di uniformità
è essenzialmente di natura politica. L’obiettivo politico fu l’erosione
dell’accentramento statale, la creazione di un ente politico che fosse in
grado di ergersi a contrappeso di natura garantistica nei confronti dello
Stato e dei gruppi politici che l’avevano egemonizzato, attraverso la
70
restituzione di identità politica alle grandi comunità territoriali della
tradizione storica italiana. A queste considerazioni si pervenne anche a
seguito di una motivazione storica: durante l’approvazione del Titolo
V vi fu una crisi di Governo che pose i partiti di sinistra fuori dalla
formazione diretta dell’indirizzo politico statale56. Questo portò ad una
vera e propria conventio ad excludendum: il partito Comunista sarebbe
rimasto fuori dalla guida del Paese, ma avrebbe potuto dettare la linea
politica in alcune Regioni spiccatamente di sinistra, constatata la
disomogeneità politica italiana. Si ricordino inoltre le varie istanze
sorte durante il dibattito regionalistico a favore o contro l’istituzione
della Regione.
La collocazione della regione costituzionale, tra il modello
garantistico, in cui i poteri locali possono esistere con una propria
azione politica senza soccombere al potere centrale, ed il modello
democratico pluralistico, il quale comporta un riparto delle attività di
pubblico potere fra più figure soggettive indipendenti, è sintomo del
dibattito politico. In quel clima politico, l’autonomia regionale si pose
in termini di garanzia per quelle forze politiche escluse dalla direzione
politica dello Stato, come condizione prima e minima per la
realizzazione del pluralismo democratico.
La contaminazione tra motivi garantistici e partecipativi nella
costruzione regionalistica del Costituente, porta a dire che il concetto
di regione costituzionale è sostanzialmente un concetto politico.
Il concetto di regione costituzionale è strumentale ad
individuare un’area territoriale omogenea nella quale dislocare l’enteregione progettato. Fra i possibili criteri di relazione tra un ente ed il
56
Cfr. E. ROTELLI, L’avvento della Regione in Italia, Milano, 1967, pp. 314 ss.
71
suo territorio, il legislatore scelse quello dell’omogeneità storica. La
scelta fu motivata da due ordini di ragioni:
- una valutazione di ordine storico-politico. Tale costante aveva
mantenuto inalterata lungo la storia del Paese l’individualità delle
comunità locali dalle quali proveniva la richiesta di erezione in
Regioni;
- una ragione di efficienza politica, in quanto era necessario
individuare il livello territoriale al quale la comunità riconoscesse di
essere tale, cioè l’ambito territoriale entro il quale operassero fattori
aggreganti che dessero la consapevolezza di appartenere ad una
comunità.
Una precisazione: l’espressione omogeneità di carattere storico integra
caratteri propriamente storici di un’area territoriale, ma non solo. In
essa si considerano ricompresi anche quegli elementi di natura
geografica, etnica, linguistica, tradizionale ed economica che pur
appartenendo a diverse nozioni scientifiche di regione, tuttavia si sono
storicizzati in una determinata dimensione territoriale, generando nei
gruppi entro essa ricompresi la convinzione di costituire un’entità
storicamente omogenea. E ciò spiega pure l’incertezza concettuale e
terminologica del Costituente nel definire la regione costituzionale
come regione storica.
Alla luce di questa analisi, è pienamente condivisibile il pensiero di
autorevole dottrina (Pedrazza Gorlero), secondo cui si ritiene che: “la
scelta di un’area territoriale omogenea dal punto di vista storico sia
stata in larga misura la più adatta al fine di localizzare un ente dotato
di autonomia” e che “vi sia corrispondenza tra gli elementi
72
istituzionali e territoriali che entrano a comporre il concetto di regione
costituzionale”57.
Queste considerazioni permettono di comprendere meglio le
motivazioni che spinsero il Costituente a non considerare il requisito
dell’autosufficienza economica come criterio fondante l’istituzione
della Regioni58. Si trattava infatti di un criterio che, inteso nella sua
accezione di complementarietà economica di zone diverse comprese
in aree territoriali regionalizzabili, venne percepito dal Costituente e
dalla realtà socio-politica che esso esprimeva, come un elemento di
differenziazione piuttosto che di omogeneizzazione delle situazioni
regionalizzabili, e che fu pertanto ritenuto inidoneo a concretare una
situazione territoriale omogenea.
In conclusione è possibile formulare un giudizio di adeguatezza
del modello di regione costituzionale rispetto alla realtà politica,
culturale, economica e sociale nella quale il Costituente si trovò ad
operare. L’intento che mosse il legislatore fu primariamente quello di
costituire un ente politicamente efficiente; da questo punto di vista il
disegno regionalistico fu adeguato, nei suoi profili territoriali ed
istituzionali, alla realtà politica dell’epoca. Il Costituente si muoveva
in una realtà economico-sociale prevalentemente agraria e pertanto la
concezione di ente che ne derivò fu quella di una regione omogenea
dal punto di vista dei caratteri fisici, corrispondente alla proiezione
geografica di una società agraria. Il fatto di essersi mosso in una
società agraria e la volontà di istituire un ente politicamente efficiente,
indusse il Costituente non solo a lasciare in ombra gli aspetti
57
Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol.
I, Padova, 1979, p. 130.
58
Si veda Capitolo I, pp. 24 ss.
73
economici della costruzione regionalistica, ma anche, quando furono
presi in considerazione, ad assumerne una visione statica, alla cui
realizzazione ritenne sufficiente l’estensione territoriale determinata
dall’art. 131 della Costituzione. I problemi indotti dall’incipiente
industrializzazione ed urbanizzazione non furono avvertiti dal
Costituente come basilari nella costruzione dell’ente-regione.
A suffragare questo giudizio vi è anche un dato legislativo: il
Costituente era consapevole della provvisorietà della ripartizione
effettuata e per questo predispose dei procedimenti di variazione
territoriale adeguati sia rispetto alla realtà a lui coeva (l’art. XI della
disposizioni di attuazione), sia rispetto alla realtà futura (il
procedimento aggravato di cui all’art. 132 Cost.).
2.2- Nuovi concetti di regione per una nuova società italiana
La trasformazione della società italiana da essenzialmente
agricola a prevalentemente industriale, con gli squilibri economicosociali che ne sono derivati e che solo una coerente programmazione
economica e territoriale è in grado di superare, ha imposto anche nel
nostro Paese la dimensione regionale come la più adatta a consentire il
coordinamento tra le due programmazioni. Questo fu da stimolo per
gli studiosi di geografia economica ed urbanistica ad attuare una
profonda revisione dei criteri e dei metodi di identificazione degli
spazi regionali, il cui approdo fu la formulazione di nuovi concetti di
regione, idonei per strutture, funzioni e dimensioni a realizzare una
più equilibrata organizzazione del territorio. Le nuove teorie
dimostrarono l’inadeguatezza della suddivisione regionale risultante
dall’art. 131 Cost.
74
La contraddizione sorge quando, pur non essendo mancati né il
tempo né gli strumenti giuridici per correggere quest’aspetto della
costruzione regionalistica secondo le esigenze fatte palesi dalla nuova
realtà e secondo le indicazioni provenienti dalla riflessione scientifica,
le circoscrizioni territoriali rimangono invariate.
Si esamineranno di seguito brevemente queste nuove concezioni
geografiche e l’individuazione del territorio della regione da esse
proposta.
Il concetto di regione storica posto dal Costituente a
fondamento della ripartizione territoriale adottata, trovava il proprio
corrispondente scientifico nel concetto di regione naturale. Con questo
concetto la geografia definiva un’area territoriale individuata da un
complesso di caratteri fisici omogenei, che ben si adattava ad una
società prettamente agraria.
Nello stesso periodo in cui il Costituente si accingeva ad erigere
le Regioni secondo il criterio storico, la scienza geografica rivedeva
profondamente i metodi con i quali procedeva alla determinazione del
concetto di regione e proponeva il nuovo concetto di regione
antropogeografica: la regione si caratterizzava per essere la risultante
di un complesso organico di più regioni naturali, corrispondente ad
una localizzazione territoriale degli interessi collettivi, il cui elemento
di coesione era essenzialmente di natura economica. In termini più
semplici, si riconobbe l’influenza unificatrice delle città e che il
fattore aggregante era di tipo economico e non più morfologico.
La regione antropogeografica non influenzò le scelte del Costituente
perché alla sua formulazione concettuale non seguirono coerenti
proposte di suddivisione territoriale su base antropogeografica. La
ripartizione antropogeografica comunque non sarebbe stata adeguata a
75
rappresentare l’articolata e mutevole realtà geografica coeva: essa
infatti si basava sulla concezione che esistesse un rapporto causale
uomo-natura, non idoneo ad individuare le nuove realtà regionali in
una società industrializzata ed urbana dove esse venivano istituite allo
scopo di intervenire sul territorio per eliminare gli squilibri
economico-sociali.
Furono proprio i fenomeni di industrializzazione e di
urbanizzazione, con gli squilibri di cui furono portatori, a determinare
quel rovesciamento di canoni metodologici che segneranno il
passaggio da una geografia agraria, descrittiva di unità di paesaggio,
ad una geografia attiva, che si proponeva di individuare i criteri per
una più moderna ed equilibrata organizzazione e ripartizione del
territorio. Si fece strada così il concetto di regione funzionale.
La regione funzionale rappresenta il risultato dell’azione di un centro
coordinatore, la metropoli regionale, per ciò che riguarda la vitalità
economica e demografica, le istituzioni sociali e culturali, gli
insediamenti e la viabilità, azione che il centro può esercitare solo
mediante un’armatura di vari centri medi a lui fortemente connessi, e a
cui a loro volta si legano gruppi di centri minori. La metropoli
regionale, è polo di sviluppo industriale, ma soprattutto terziario,
centro di servizi rari, a cui si annodano in ordine gerarchizzato
secondo la dotazione funzionale di ciascuno degli altri centri, che
formano l’armatura urbana della regione. I servizi rari sono i più
costosi e per essere redditizi abbisognano di una clientela numerosa e
dunque di una zona di distribuzione più estesa, per questo sono
raggruppati nella metropoli regionale.
L’area di influenza della metropoli regionale individua lo spazio e
quindi la regione funzionale.
76
La regione funzionale è una realtà, non un’entità intellettuale. Per
arrivare alla sua teorizzazione sono stati impiegati degli apparati
metodologici che possono rivelarsi utili per definire i piani di
intervento e di organizzazione del territorio.
Anche gli urbanisti si sono occupati di sviluppare un concetto di
regione che avesse come scopo il riequilibrio territoriale. Fu teorizzato
così il concetto di città-regione.
La regione funzionale e la città-regione sono anche regioni per
il programma: la loro funzione è quella di consentire interventi
economici complessi ed integrati quali sono quelli presupposti da un
programma di sviluppo economico e sono pure uno strumento di
organizzazione e di riequilibrio territoriali. Quindi la regione
funzionale come regione per il programma.
Per questo è possibile dire che la questione della suddivisione
territoriale delle regioni, non è solamente una questione di dimensioni
territoriali e di confini, ma riguarda soprattutto le strutture regionali,
urbanistiche ed economiche. È da giudicarsi dunque inadeguata la
ripartizione regionale attuata dal Costituente nell’art. 131 Cost., in
quanto non corrispondente alle esigenze di programmazione
economica e territoriale.
Se la proiezione territoriale della regione costituzionale attuata
dal Costituente è inadeguata, i nuovi modelli di Regione sono adatti ad
assumere dimensioni più idonee alle funzioni previste.
Se il disegno costituzionale non ha configurato la Regione come
soggetto di programmazione economica e territoriale, non significa
che ne abbia escluso una soggettività programmatoria nelle materie
attribuite alla sua competenza.
77
Quest’interpretazione del disegno costituzionale si consolidò ed
ampliò nel momento in cui le Regioni andarono ad approvare i loro
Statuti, rivendicando la programmazione come strumento per la
realizzazione delle loro finalità ed assumendo così in pieno il ruolo di
soggetti della programmazione.
Se
le
Regioni
identificarono
se
stesse
come
soggetti
di
programmazione territoriale, lo stesso non fu per lo Stato. L’autorità
centrale, al momento di trasferire le funzioni statali alle Regioni
(decreti legislativi delegati del gennaio 1972, attuativi dell’art. 17
della legge n. 281/1970), indispensabili a renderne operanti i poteri e
quindi la soggettività programmatoria, adottò un’interpretazione
restrittiva in merito. Si attuò un trasferimento frammentario e
disorganico delle funzioni statali, ritagliando funzioni da mantenere
allo Stato anche all’interno delle materie di competenza regionale ai
sensi dell’art. 117 Cost., precludendo in molti settori ogni serio
tentativo regionale di programmazione. A ciò si aggiunse anche una
ridotta autonomia finanziaria.
Le funzioni e l’autonomia finanziaria dell’ente sono gli elementi che
contribuiscono a disegnarne l’ambito territoriale e si può ritenere
adeguato il limite territoriale tracciato dal Costituente, considerate le
limitate funzioni ad esso trasferite.
Dall’evoluzione della costruzione regionalistica emergono tuttavia
alcuni elementi che fanno pensare ad un recupero da parte delle
Regioni del loro ruolo di soggetti di programmazione territoriale ed
economica e ad un possibile interesse per la variazione delle loro
circoscrizioni regionali; si può fare un esempio: il d.P.R. n. 616/1977
(attuativo dell’art. 1 della legge n. 382/1975), prevedeva all’art. 8,
comma 1 che: “Le regioni, per le attività ed i servizi che interessano i
78
territori finitimi, possono addivenire ad intese e costituire uffici o
gestioni comuni, anche in forma consortile”. Si prevedeva quindi
l’istituzione di un consorzio, un comprensorio di Regioni come
soggetto di programmazione territoriale e socio-economica, il cui
ambito coincide con la dimensione territoriale ottimale per lo
svolgimento delle funzioni che gli sono attribuite. Difficile non vedere
in questo ente le caratteristiche della definizione data sopra di regione
funzionale per il programma.
La soggettività programmatoria delle Regioni inizia però ad
affievolirsi, seguendo le sorti della programmazione economica
nazionale che viene abbandonata come fenomeno politicamente e
giuridicamente unitario, frazionandosi nei diversi piani di settore. La
stessa programmazione regionale si trasforma in un aggregato di
programmi settoriali. Sul piano scientifico viene superata la necessità
di coincidenza fra gli ambiti territoriali della regione costituzionale e
della regione economica. Si consolida inoltre la radice garantistica del
regionalismo italiano, che sostiene il principio di autoconservazione
della Regione, invocando confini regionali immutabili, e si alimenta
della non ancora superata dimensione organizzativa provinciale dei
partiti e di leggi elettorali che in essa si rispecchiano.
D’altra parte la ricerca geografica, che aveva esercitato la pressione
culturale più forte per la modificazione delle circoscrizioni regionali,
imbocca sentieri metodologici entro i quali perde d’interesse il
problema classico della delimitazione dello spazio regionale: essendo
la regione una classe areale che designa una superficie di territorio
dotato di una qualche coerenza statisticamente provata, si possono
avere tante regioni quante sono le coerenze esibite. Si ravvisa il
79
carattere dell’indefinibilità di un luogo secondo una sola delimitazione
territoriale.
In questo clima si consolida la concezione della regione
sistematica; essa è un insieme di elementi, umani e fisici,
interconnessi e mossi da uno stesso processo, il quale è aperto alle
relazioni esterne e si oppone a comportamenti degradativi. L’elemento
fondamentale di questa costruzione scientifica è il processo: esso
muove e cementa la struttura, cioè la rete degli elementi interagenti
localizzati sul territorio, e la proietta lungo una traiettoria temporale
lungo la quale si dispiega il conseguimento dei fini. Il carattere
oggettivo e la dimensione diacronica di questo sistema territoriale
dinamico ne postulano la delimitazione spaziale. La regione
sistematica giustifica la concettuale aspazialità dei suoi confini,
concedendosi allo spazio soltanto in segmenti temporali. La regione è
la proiezione spaziale dello Stato del sistema nell’unità di tempo
considerata. Il concetto di regione sistematica giustifica e da forma
geografica all’imprecisione dei limiti regionali.
Alla luce delle considerazioni svolte si può concludere che la
ripartizione attuata dall’art. 131 Cost. è inadeguata al concetto di
regione per il programma, ma che il modello reale di regione che
risulta dal disegno costituzionale, statutario e dalle successive
trasformazioni, non sia inadatto ad evolvere verso il modello di
regione per il programma e quindi verso nuove dimensioni territoriali.
Tuttavia, considerato il concetto di regione sistematica, che postula
una delimitazione dei confini territoriali delle Regioni, la ripartizione
resta quella che è perché non c’è ragione per mutarla.
80
2.3- L’idoneità dell’art. 132 Cost. a modificare la Regione in senso
storico ed in senso funzionale
Conclusa l’indagine concettuale sul modello di regione per il
programma ed espresso un giudizio sulla sua adeguatezza a
concretizzare le funzioni previste per l’ente-regione, ci si occuperà ora
dell’aspetto metodologico e si verificherà se i procedimenti di
variazione territoriale previsti dall’art. 132 Cost. siano adeguati a
corrispondere all’esigenza di rettificare in senso storico la
suddivisione storica adottata dal Costituente ed alla necessità di
consentire
le
modificazioni
territoriali
rese
indispensabili
dall’evoluzione del modello regione storica verso i nuovi modelli di
regione elaborati per fronteggiare il processo d’industrializzazione ed
urbanizzazione intervenuto nel Paese dopo l’entrata in vigore della
Costituzione.
La creazione di una nuova Regione ed il distacco-aggregazione
rendono possibile una rettificazione in senso storico della ripartizione
territoriale ed i relativi procedimenti previsti nell’art. 132 Cost. sono
adeguati a dare voce a quelle realtà storiche che non furono ascoltate
dal Costituente solamente per motivi politici. In particolare l’ipotesi
della creazione si rivela adatta allo scopo di soddisfare le richieste
d’istituzione di nuove Regioni che il Costituente aveva rinviato per
ragioni di natura politica.
La fusione di Regioni permette invece le modificazioni
territoriali richieste dal modello di regione costituzionale verso i nuovi
modelli di regione, più adeguati alle esigenze della società attuale.
Attenzione particolare è bene porre sul requisito della volontà
popolare: esso è idoneo sia a provare la storicità di un’area
81
regionalizzabile, altrimenti non accertabile, sia a provare la percezione
del passaggio dai vecchi ai nuovi fattori di coesione regionale.
La volontà popolare è il requisito che ha suscitato maggior perplessità.
Si ritiene che le collettività regionali non siano idonee ad identificare
il limite territoriale delle Regioni, perché portatrici d’interessi
particolaristici; solo lo Stato sarebbe in grado di operare una
ripartizione funzionale del territorio. A questa critica si risponde
dicendo che l’art. 132 ha previsto che la decisione sulla modificazione
del territorio si dividesse su due livelli: una decisione di primo livello
spetta alle popolazioni interessate, le quali si esprimono con
referendum. Si è visto che alla radice del concetto di regione
funzionale stanno gli interessi collettivi di una comunità territoriale, e
che la regione costituisce la proiezione territoriale di tale comunità.
Escludere la volontà popolare dai procedimenti d’identificazione delle
nuove circoscrizioni territoriali, significa entrare in contraddizione con
il modello di regione funzionale: solo il consenso può provare che la
collettività regionale ha superato, non necessariamente disperdendoli,
i vecchi motivi di coesione, e legittimato la nuova dimensione
territoriale come misura dei nuovi interessi e della nuova identità.
Allo Stato viene assegnata una decisione di secondo livello: ad esso
spetta la valutazione della rispondenza degli interessi delle collettività
regionali a quelli della collettività nazionale.
La soluzione approntata dall’art. 132 Cost., a parere di chi scrive,
sembra complessivamente equilibrata, in quanto da il giusto peso ai
vari soggetti, portatori di interessi diversi, ma comunque tutti
determinanti nella definizione del territorio regionale.
Concludendo, si può affermare che la ripartizione regionale di
cui all’art. 131 Cost. ed il criterio storico ad essa sotteso siano
82
inadeguati a corrispondere ai caratteri dell’attuale società italiana.
Allo stesso tempo si ritiene che i procedimenti di variazione
territoriale previsti dall’art. 132 Cost. siano idonei a favorire una
rettificazione in senso funzionale del territorio regionale, che meglio
corrisponde alle esigenze attuali della società italiana, siano cioè
idonee, come riferito da autorevole dottrina, a “non cristallizzare
l’assetto territoriale quale stabilito dal Costituente”59.
3-
Variazioni di denominazione delle Regioni
La denominazione geografica di un ente locale territoriale
corrisponde solitamente ad un territorio ben definito e circoscritto.
Tuttavia anche la denominazione di una Regione può variare.
Ciò può verificarsi in due ipotesi:
- la variazione di denominazione consegua e si accompagni ad una
variazione territoriale di fusione e di creazione. In questo caso si può
far uso del procedimento di cui all’art. 132, co. 1 Cost. anche se non
viene espressamente previsto. Ciò si giustifica per ragioni di economia
degli atti giuridici, la cui ratio è la seguente: poiché alle popolazioni
interessate ed ai Consigli regionali è riconosciuta nel procedimento
l’attitudine ad identificare la nuova area territoriale regionalizzabile,
conseguentemente
si riconosce pure la capacità di esprimersi sul
59
Sul concetto di “non cristallizzazione” del territorio regionale si veda: M.
BERTOLISSI, commento all’art. 132 della Costituzione italiana in Commentario
breve alla Costituzione, a cura di CRISAFULLI V., PALADIN L., Padova, 1990,
p. 770; E. GIZZI, Manuale di diritto regionale, 6a ed., Milano, 1991, p. 67; C.
MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, 9a ed., Padova, 1976, pp. 892 ss.
83
nome
nel
quale la
nuova identità regionale
si
manifesta.
L’affermazione è supportabile anche con un argomento letterale e
sistematico: l’art. 41 della legge 25 maggio 1970, n. 352, in tema di
referendum per la modificazione territoriale delle Regioni ex art. 132,
prevede, tra i requisiti da sottoporre a referendum, che “Può essere
inserita l’indicazione del nome della nuova regione della quale si
proponga la costituzione per fusione o per separazione”. Ciò dimostra
che le popolazioni interessate possono esprimere la loro volontà sul
tema in esame;
- il mutamento di denominazione sia indipendente dalla variazione
territoriale. In questo caso si pone il problema del procedimento da
adottare per deliberarlo, visto che tale mutamento è privo della
copertura rappresentata dal principio di economia degli atti giuridici, e
si apre un’alternativa: si ritiene che la denominazione sia un elemento
costitutivo dell’ente, ed allora si ricorre al procedimento previsto
dall’art. 132, co. 1; si ritiene che la denominazione sia la semplice
designazione delle comunità regionali ed allora s’impiega la legge
statale ordinaria.
È preferibile dar seguito alla prima ipotesi per due motivi: la
denominazione storica è stata usata dal Costituente per identificare le
aree territoriali da costituire in Regioni; essa ha il pregio di rendere
giuridicamente
omogenee
le
due
ipotesi
di
variazione
di
denominazione prese in considerazione. A favore di questa scelta
interpretativa sta pure un argomento sistematico: il mutamento di
denominazione di un Comune deve essere statuito con legge regionale
previa consultazione referendaria delle popolazioni interessate (art.
133, co. 2) che è un procedimento strutturalmente analogo a quello
84
previsto dall’art. 132. E’ evidente che una simile scelta favorisce
l’omogeneità del sistema.
Non può inoltre condividersi la tesi secondo la quale, al di fuori di
variazioni contestuali territoriali e di denominazione, si dovesse far
ricorso, per il mutamento di denominazione, al procedimento di
revisione costituzionale ordinario e non a quello aggravato previsto
dall’art. 132, co. 1, ciò perché non sembra potersi eludere il
collegamento giuridico tra volontà regionale e legge di variazione
della denominazione. Il procedimento di revisione costituzionale
ordinario può contenere una manifestazione giuridicamente rilevante
della volontà regionale in ordine alla variazione territoriale alla sola
condizione che la relativa iniziativa legislativa sia esercitata dal
Consiglio regionale interessato. A tale affermazione si oppone che un
simile collegamento tra volontà regionale e legge di variazione
territoriale è qualitativamente diverso da quello previsto dall’art. 132,
co. 1 Cost. e che, quand’anche lo si considerasse idoneo, tale
procedimento configurerebbe la fattispecie della legge ad iniziativa
riservata, diversa ed in contrasto con la riserva prevista nell’articolo in
questione.
L’unico esempio di variazione di denominazione non
contestuale alla variazione territoriale che è possibile portare, è quello
riferentesi alla creazione della Regione Molise. Come si è
precedentemente visto, la legge costituzionale n. 3 del 1963 frazionò
la Regione Abruzzi e Molise nelle due distinte Regioni Abruzzi e
Molise. Il problema sorge sulla denominazione Abruzzi: essa traeva
origine dal raggruppamento in un unico ente locale tra l’Abruzzo
Ulteriore I (L’Aquila), l’Abruzzo Ulteriore II (Teramo) e l’Abruzzo
Citeriore (Chieti).
85
La denominazione, conservata dalla norma di revisione, fu poi
modificata in “Abruzzo” dall’art. 1 dello Statuto60. Il problema è certo
marginale, ma è interessante affrontarlo perché riflette uno scambio
usuale di denominazione. Alla luce di quanto sopra detto in merito al
procedimento di variazione di denominazione, si può ravvisare
l’illegittimità costituzionale dello Statuto e della legge statale61 di
approvazione nella parte in cui hanno sostituito la denominazione
originaria di “Abruzzi” con quella di “Abruzzo” perché questi atti non
hanno seguito il procedimento di cui all’art. 132, co. 1 Cost.
Per dovere di approfondimento si ricorda anche che vi sono dei
casi in cui le denominazioni delle Regioni, individuate sulla base del
criterio statistico, divergono da quelle poi adottate dal Costituente. È
il caso del Trentino-Alto Adige, denominato nelle pubblicazioni
statistiche Venezia Tridentina; dell’Emilia-Romagna, denominata
solamente Emilia; della Basilicata, conosciuta statisticamente come
Lucania ed infine della Puglia e della Calabria, denominate
statisticamente Puglie e Calabrie. Ora, tali variazioni di denominazioni
non sono state attuate seguendo il procedimento sopra descritto, in
quanto la variazione fu determinata dal Costituente prima dell’entrata
in vigore della Carta costituzionale repubblicana. Era interessante
comunque riportare anche questi esempi al fine di comprendere come
60
Lo Statuto della Regione Abruzzo è stato approvato con la legge 22 luglio
1971, n. 840. La medesima denominazione “Abruzzo” compare anche all’art. 1
del nuovo Statuto della Regione Abruzzo, approvato in seconda deliberazione il
12 settembre 2006 ed entrato in vigore l’11 gennaio 2007.
61
La nuova formulazione dell’art. 123, co. 2 Cost. prevede che gli Statuti delle
Regioni ad ordinamento ordinario siano approvati con legge regionale e non più
con legge statale. L’articolo in questione è stato così modificato con la legge
costituzionale 22 novembre 1999, n. 1 recante “Disposizioni concernenti
l’elezione diretta del presidente della Giunta regionale e l’autonomia statutaria
delle Regioni”.
86
la variazione di denominazione delle Regioni si sia verificata secondo
differenti modalità.
4-
I confini delle Regioni
I confini del territorio delle Regioni costituzionali sono quelli
disegnati dalle circoscrizioni provinciali comprese sotto le rispettive
denominazioni statistiche. Questo fu il criterio scelto dal Costituente
per individuare il territorio regionale ed i suoi confini62. Non si
ritornerà su di esso, in quanto è stato già ampiamente discusso, ma è
opportuno soffermarsi ora a dimostrare che in alcuni casi tale
soluzione interpretativa è inutile.
Nel caso della Sicilia e della Sardegna i confini erano stati
stabiliti dal Costituente prima dell’entrata in vigore della Costituzione.
Nel caso della Regione Sicilia, per esempio, lo Statuto fu approvato
con il r.d.l. 15 maggio 1946 n. 455, e all’art. 1 si prevedeva che: “La
Sicilia, con le isole Eolie, Egadi, Pelagie, Ustica e Pantelleria, è
costituita in Regione autonoma”.
Nel caso della Valle d’Aosta la costruzione interpretativa
risultava inapplicabile sia perché questa Regione non esisteva nella
regionalizzazione statistica, sia perché l’atto normativo statale con il
quale fu istituito l’ordinamento amministrativo della circoscrizione
autonoma Valle d’Aosta, approvato anteriormente alla Costituzione,
ne delineava già il territorio menzionando ciascuna delle circoscrizioni
dei Comuni raggruppati nella Valle.
Il Costituente aveva sicuramente presenti questi atti normativi
che delimitavano i confini regionali già prima che egli definisse il
62
Cfr. o.d.g. Targetti. Si veda Capitolo I, pp. 41, 44 ss.
87
criterio di ripartizione storico-statistico e da cui si discostavano,
rendendolo inutile. Si tratta ora di vedere se il meccanismo
interpretativo sia capace d’individuare sempre i confini delle Regioni
per le quali manchino atti normativi di definizione territoriale anteriori
alla Costituzione. La risposta non può essere che negativa. Pur
essendo vero che tale criterio è idoneo a risolvere la maggior parte dei
casi concreti, vi sono delle ipotesi a cui non è in grado di dare
soluzione. Si riportano di seguito alcuni casi.
Nel caso del Piemonte, la regione statistica comprendeva anche
il territorio della Valle d’Aosta: ciò portava pertanto ad una
divergenza tra la denominazione della Regione ed il suo ambito
territoriale. La soluzione al dilemma fu offerta dallo stesso
Costituente, attraverso la sottrazione al Piemonte statistico della Valle
d’Aosta, già eretta in Regione autonoma, territorialmente delimitata.
In questo modo si ristabilì l’omogeneità tra la denominazione della
Regione ed il suo ambito territoriale.
Altro caso da prendere in considerazione è quello del Veneto, di
cui, seppur sotto un altro angolo visuale, si è già discusso63. Il Veneto
statistico comprendeva anche la Provincia di Udine; seguendo la
teoria della regione costituzionale invece, questa Provincia venne fatta
rientrare nella Regione Friuli-Venezia Giulia. Non è possibile operare
in questo caso una sottrazione come nel caso precedente perché il
Friuli non compariva nella ripartizione statistica ad individuare la
Provincia di Udine. Per individuare i confini del Veneto si utilizzò un
altro criterio: si fece ricorso al d.P.R. 6 febbraio 1948, n. 30 il quale,
ripartendo il territorio delle Regioni in collegi uninominali a fini
elettorali, sotto la Regione Veneto comprese collegi appartenenti a
63
Si veda Capitolo I, pp. 52 ss.
88
tutte le Province venete statistiche ad eccezione di quella di Udine. In
questa parte il citato decreto presidenziale assume, pertanto, funzione
integrativa del criterio statistico.
Il caso più complicato è tuttavia quello del Friuli-Venezia
Giulia, in cui non combaciano né la denominazione statistica, né il
territorio. Come già visto64, la prima parte della denominazione, Friuli,
era ignota alla ripartizione statistica; la seconda, Venezia Giulia,
corrisponde ad una regione statistica in cui una parte del territorio è
ora sotto la sovranità di un altro Stato in virtù di accordi
internazionali. Il problema del Friuli si risolve allo stesso modo del
Veneto, del quale rappresenta l’esatto opposto: la circostanza che la
Regione costituzionale è, per la Provincia di Udine, inclusa nel Veneto
statistico, viene superata facendo riferimento al menzionato d.P.R.
30/1948, il quale, sotto la denominazione costituzionale FriuliVenezia Giulia, ricomprende tra l’altro tutti i Comuni appartenenti alla
Provincia di Udine. Il problema della Venezia Giulia si risolve invece
considerando facenti parte della Regione i territori della regione
statistica attualmente sotto la sovranità dello Stato italiano.
Molto più semplice la soluzione del caso dell’individuazione
dei confini del Molise: la ripartizione statistica non fornisce il criterio
di riconoscimento del territorio di detta Regione; il relativo ambito
territoriale si ottiene sottraendo dalla precedente Regione Abruzzi e
Molise i territori delle Province di Campobasso e di Isernia, che
formano il territorio della nuova Regione, come indicato nell’art. 2
dello Statuto65.
64
Si veda Capitolo I, pp. 52 ss.
Lo Statuto della Regione Molise è stato approvato con la legge n. 347 del 22
maggio 1971.
65
89
È pertanto solo parzialmente esatta l’affermazione secondo la
quale i confini territoriali delle Regioni sono individuati rinviando alla
compartimentazione statistica. In realtà i rinvii sono stati vari:
- alla regionalizzazione statistica, comprese le modificazioni introdotte
dallo stesso Costituente;
- ad atti di definizione legislativa del territorio regionale anteriori alla
Costituzione;
- ad atti legislativi di definizione territoriale successivi all’entrata in
vigore della Costituzione.
È importante, da ultimo, una precisazione di carattere
legislativo: gli Statuti regionali, ordinari e speciali, che provvedono
all’individuazione del proprio ambito territoriale assumono una
valenza meramente ricognitiva; le Regioni sono istituite infatti
nell’art. 131 Cost., che perciò ha valore costitutivo66.
5-
Le variazioni del territorio regionale a seguito di trattati
internazionali
La Costituzione italiana riconosce la possibilità di apportate
variazioni al territorio dello Stato (art. 80 Cost.) a seguito della ratifica
di trattati internazionali. Ogni variazione che il territorio dello Stato
subisce per effetto di detti trattati si riflette in una correlativa
variazione del territorio di una Regione, se questa è posta ai confini e
ad immediato contatto con un altro Stato.
66
Cfr. C. MAINARDIS, commento all’art. 132 della Costituzione italiana in
Commentario breve alla Costituzione, a cura di BARTOLE S., BIN R., Padova,
2008, p. 1142; si veda anche Capitolo III, p. 211.
90
Per quanto riguarda l’oggetto di questa ricerca, si deve
verificare se la Regione debba accettare passivamente la decisione
dell’autorità centrale o se invece possa avere voce in merito.
Negli Stati a struttura federale è regola di applicazione
pressoché generale che la competenza legislativa in materia di rapporti
internazionali spetti esclusivamente allo Stato federale. In taluni Stati
federali l’interesse dello Stato membro interessato è riconosciuto non
in via assoluta, cioè non in ogni caso in cui il territorio di questo fosse
oggetto di mutamento, ma solamente nel caso in cui il mutamento
importasse il distacco di nuclei abitativi e non assumesse il più
modesto rilievo di rettifica di confine.
Negli Stati aventi struttura unitaria, come quello italiano,
invece, è prevista l’esclusività della competenza statale nell’accennato
settore. Ciò comporta che la Regione non possa far valere alcun
interesse diretto, che sia giuridicamente protetto, nella materia in
esame.
In tempi passati ci si era chiesti se alla seduta del Consiglio dei
Ministri nella quale si procede alla deliberazione inerente stipulazione
del
trattato
o
all’iniziativa
legislativa
rivolta
ad
ottenere
l’autorizzazione parlamentare alla ratifica, avesse titolo di partecipare
il Presidente della Regione a Statuto speciale. La sua partecipazione
era prevista come necessaria dagli Statuti di Sardegna, Valle d’Aosta e
Friuli-Venezia
Giulia
per
le
materie
che
riguardassero
“particolarmente” 67 la Regione. Una conclusione negativa in merito si
67
Sul punto si veda l’art. 47 dello Statuto della Sardegna, art. 44, u.c. dello
Statuto della Valle d’Aosta, art. 44 dello Statuto del Friuli-Venezia Giulia.
91
desume sia dalla giurisprudenza68 sia, in via indiretta, da argomenti
letterali; in particolare:
- nella Costituzione italiana non è previsto che la validità della
cessione internazionale di territorio sia condizionata al consenso delle
popolazioni interessate, cosa che era prevista invece nelle Costituzioni
di altri Stati a struttura unitaria69, ergo la competenza in materia è
esclusivamente statale e non è sottoposta a condizioni di
ammissibilità;
- la procedura disposta dall’art. 132 Cost. italiana è speciale: innova la
fase
dell’iniziativa
legislativa, stabilendone
le
condizioni
di
ammissibilità. La sua evidente inapplicabilità alla fattispecie in esame
conferma che nella variazione di territorio nazionale ex art. 80 Cost.
non sussistono interessi sostanziali direttamente e giuridicamente
garantiti alla Regione. Né avrebbe peraltro senso chiedere per la non
facoltativa, ma dovuta variazione del territorio regionale la procedura
aggravata di cui all’art. 132 Cost.
L’argomento più forte a sostegno della tesi negativa si ricava
individuando quale sia il soggetto che ha interesse alla ratifica del
trattato
internazionale;
viene
individuato nell’intera
comunità
nazionale.
Il fatto che la variazione ex art. 80 Cost. modifichi indirettamente,
come conseguenza dell’osservanza da parte dello Stato di impegni
internazionalmente assunti, uno degli elementi costitutivi dell’ente
autonomo e produca i suoi effetti sul territorio di questo, non
costituisce elemento idoneo a qualificare l’interesse come regionale.
68
Sul punto si veda la Sentenza Corte Costituzionale n. 151 del 1974. Nel
giudizio, relativo alla Regione Trentino-Alto Adige, si ritenne che l’intervento del
Presidente della Regione “…non può considerarsi prescritto…”.
69
Si vedano le Costituzioni francesi del 1946 (art. 47) e del 1958 (art. 53).
92
Pertanto la natura esclusivamente statuale ed unitaria dell’interesse
perseguito esclude la anzidetta partecipazione del Presidente
regionale. Quand’anche il Governo invitasse alla riunione il
Presidente
della
Regione,
la
partecipazione
di
quest’ultimo
esaurirebbe la sua portata su un piano meramente formale.
L’unica manifestazione di attività regionale nella materia in esame
può essere svolta nella forma generica e libera di un voto consultivo.
Alcuni Statuti di Regioni ad ordinamento speciale richiedono
che nel corso del procedimento diretto alla loro revisione sia udito, in
talune ipotesi, il parere della Regione70; la cosa è opportuna in quanto
l’assunzione dell’iniziativa legislativa a questo fine da parte del
Governo presenta per l’ente-regione un interesse tale da giustificare e
legittimare la partecipazione del Presidente della Regione interessata
alla seduta del Consiglio dei Ministri. La peculiarità della fattispecie
di revisione statutaria qui in esame (cioè a seguito di variazione
territoriale della Regione in conformità ad un trattato internazionale)
rende tuttavia dubbia la configurabilità di un interesse sostanziale
facente capo alla Regione e di conseguenza carente di legittimazione
la sua partecipazione in tale procedimento. La cosa si desume dai
seguenti elementi:
- nelle ipotesi di fusione, creazione e distacco-aggregazione è
riconosciuto un interesse regionale; nulla è invece stabilito per
l’ipotesi di variazione territoriale come conseguenza di un trattato
internazionale;
- l’iniziativa del Governo tesa alla revisione dello Statuto regionale ha
carattere vincolato: non solo non può decidere l’an, ma nemmeno il
70
Sul punto si veda lo Statuto della Regione Sardegna, art. 54.
93
quantum della variazione territoriale. Per questo motivo un’eventuale
parere della Regione in merito sarebbe superfluo oltre che inutile;
- l’osservanza degli obblighi internazionali assunti dallo Stato esclude
un interesse particolare dell’ente-regione in questa materia.
È pur vero che un difetto di competenza della Regione in una materia
non compresa tra quelle enumerate non esclude la sussistenza di un
interesse dell’ente; tale interesse può manifestarsi con l’esercizio del
potere regionale di iniziativa delle leggi statali o con il potere del
Consiglio regionale di inviare voti alle Camere. A queste deduzioni si
risponde dicendo che nella materia de qua la Regione non può
esercitare il potere d’iniziativa legislativa; per l’altro aspetto, la
genericità e la non vincolatività del voto impediscono che l’interesse
regionale da esso espresso rientri tra quelli qualificati per i quali è
disposta la partecipazione alle sedute del Consiglio dei Ministri.
Per questi motivi la forma procedurale prestabilita da alcuni Statuti
speciali per esprimere quel preteso interesse sul piano operativo (cioè
la partecipazione alla seduta del Consiglio dei Ministri) si riduce ad
una mera formalità, si da privare di ogni ratio la sua applicazione.
Dette conclusioni valgono a maggior ragione per Regioni a
Statuto ordinario, in ordine alle quali nessuna disposizione statutaria
prevede un’analoga partecipazione al Consiglio dei Ministri. In questa
materia, si ritiene che il Governo abbia facoltà di richiedere pareri ai
Consigli regionali e che possa invitare il Presidente della Regione ad
esprimere un voto consultivo in seno al Consiglio dei Ministri. Si
tratta però come detto di una facoltà eventuale.
Altra questione da analizzare riguarda l’esecuzione del trattato
nell’ordinamento interno. È risaputo che lo Statuto delle Regioni
ordinarie viene approvato con legge regionale (art. 123, co. 2 Cost.)
94
mentre lo Statuto delle Regioni ad autonomia speciale viene approvato
con legge costituzionale (art. 116, co. 1 Cost.). Il problema sorge
quando si deve adeguare lo Statuto speciale alla nuova situazione
internazionale dello Stato: l’esecuzione del trattato internazionale non
può validamente aver luogo se non mediante l’adozione di un atto che
sia idoneo, per forma ed efficacia, a produrre la necessaria
modificazione del testo normativo statutario.
Vi possono essere distinte ipotesi
di atti o di procedimenti di
adattamento del diritto interno al trattato: quello considerato ordinario,
che prevede che si adotti un atto di legislazione successivo e distinto
dalla legge ordinaria di autorizzazione alla ratifica, che direttamente
formula la norma da immettere nell’ordinamento interno; quello
considerato speciale, che ricorre ad un ordine di esecuzione inserito
nella stessa legge di autorizzazione. In entrambi i casi, per poter
produrre l’effetto normativo indirettamente derivante dal trattato e
consistente nell’abrogazione in parte qua della disposizione
costituzionale e statutaria, occorre che le leggi modificative siano
approvate secondo la procedura dell’art. 138 Cost., integrata e
rafforzata con le variazioni previste nei singoli Statuti speciali.
L’ordine di esecuzione, se da un lato ha il vantaggio che la stessa
legge di autorizzazione sia adottata nelle forme costituzionali e quindi
renda più agevole la successiva esecuzione all’interno, dall’altro
comporta degli aggravamenti procedurali che rendono più difficile la
ratifica del trattato, cioè l’assunzione dell’impegno da parte dello
Stato. La forma dell’ordine di esecuzione varia in relazione al grado
di potenzialità giuridica che esso deve assumere dell’interno
dell’ordinamento per produrre gli effetti voluti: legge ordinaria, legge
costituzionale o decreto.
95
La ratifica stessa del trattato internazionale non potrebbe aver
validamente luogo nell’ordinamento internazionale se essa non fosse
altresì valida nell’ordinamento interno, secondo il principio per cui il
primo ordinamento rinvia al secondo per ciò che attiene alle
condizioni di validità dell’atto.
Si può tuttavia ipotizzare che proprio per il fatto che la modificazione
interna non costituisce l’oggetto diretto del trattato, ma solo un effetto
indirettamente derivante da quello, la modificazione non debba
necessariamente aver luogo in modo espresso e formale, ma si
verifichi per caducazione automatica ed implicita della parte di
disposizione statutaria nella quale si fa menzione del territorio in
questione, applicando il criterio per il quale cessante ratione legis,
cessat et ipsa lex .
A parere di chi scrive tale ipotesi non può essere accettata: le cinque
Regioni a Statuto speciale delimitano nei loro Statuti l’estensione del
territorio regionale con sufficiente certezza, pur seguendo criteri
diversi e con varia formulazione. Si fanno di seguito alcuni esempi:
- lo Statuto del Trentino-Alto Adige e quello del Friuli-Venezia Giulia
rispettivamente agli artt. 1 e 2 elencano Province e Comuni che
compongono il territorio regionale;
- lo Statuto della Regione Sicilia indica nominativamente le isole
minori che con la maggiore fanno parte della Regione (art. 1);
- lo Statuto della Regione Sardegna invece indica in modo generico
l’isola maggiore e le sue isole minori con riferimento alla loro
posizione geografica (art. 1);
- lo Statuto della Valle d’Aosta indica anch’essa nominativamente i
Comuni che ne compongono il territorio regionale (art. 1, co. 2).
96
Per questi motivi, per il fatto cioè che lo Statuto indica così
precisamente il territorio della Regione, è necessario che la
modificazione sia attuata in modo espresso e formale: espresso, nel
senso che si deve indicare precisamente il nome dell’ente locale
minore che entra a far parte o che viene sottratto dal territorio
regionale in seguito alla ratifica di un trattato internazionale. Formale
perché, essendo gli Statuti delle Regioni ad autonomia speciale
approvati con legge costituzionale, è
necessario
attivare il
procedimento revisione costituzionale di cui all’art. 138 Cost. Anche
in questo caso la Regione interessata non può vantare alcun interesse
in sede di revisione71, e l’atto si riduce ad una mera formalità ma che
si ritiene, comunque, debba essere svolta e non possa darsi per
implicita.
6-
La cessione di territorio non abitato e la rettifica dei confini
Questa ricerca ha avuto sinora a presupposto che la variazione
del territorio di una Regione si concreti nel distacco di un intero
Comune o di un’intera Provincia, cioè di uno degli enti minori in cui è
ripartito l’ente-regione. È tuttavia possibile configurare altre figure di
modificazione territoriale, come la cessione di territorio non abitato o
la mera rettifica di confine.
Lo Statuto albertino all’art. 5 prevedeva che si distinguesse
l’ipotesi
della
variazione
territoriale
dalla
fattispecie
della
determinazione più esatta dei confini già fissati in un precedente
trattato internazionale e l’ipotesi della delimitazione di confini che
71
Le stesse deduzioni valgono per l’aggregazione ad una Regione a Statuto
speciale; sul punto si veda Capitolo III, paragrafo 4.5.
97
avesse per effetto una variazione territoriale da quella che invece si
riducesse ad una pura e semplice delimitazione di confini. Vari esempi
di natura storico-comparatistica configurano autonomamente tale
fattispecie sia per quanto riguarda la regolamentazione internazionale,
sia per l’esecuzione all’interno dello Stato, nel senso che le forme per
essa richieste sono distinte da quelle più rigorose previste per le vere e
proprie cessioni di territorio in virtù di trattati internazionali. Secondo
l’interpretazione data dell’art. 5 dello Statuto albertino, un atto che
implicasse una minima perdita di territorio, senza insediamenti di
popolazione, che non toccasse il diritto all’esistenza della Regione, né
che arrecasse sostanziali modificazioni alla sua struttura, poteva essere
validamente disposto senza l’impiego delle forme altrimenti
necessarie per la revisione dello Statuto nel caso opposto.
Alcuni Autori72 sono concordi nel ritenere che la distinzione
concettuale e giuridica operata dallo Statuto albertino sia tuttora da
accogliere in relazione all’art. 80 Cost., che nulla prevede in
proposito, ed auspicano che nel dettato costituzionale rientri una
distinzione simile.
Conseguenze sono che debba farsi rientrare nell’oggetto e nella
previsione della statuizione costituzionale l’atto che importi effettiva
variazione, ciascun altro restando invece sul piano della mera
dichiarazione o fissazione di uno stato di diritto già esistente; nel
primo caso è indispensabile l’autorizzazione legislativa alla ratifica,
mentre per gli altri tale autorizzazione è da escludere in quanto non
integrano la fattispecie costituzionale prevista.
72
Sul punto si veda in particolare: G. D’ORAZIO, In tema di variazioni del
territorio regionale in Scritti in onore di Costantino Mortati, Milano, 1977, pp.
704 ss.
98
Spetta agli organi legislativi e politici apprezzare in fatto se sussista
un certo grado d’innovazione sostanziale, anche minima, all’elemento
territoriale. Da tale valutazione dipende l’impiego delle forme previste
dall’art. 80 Cost. per quei mutamenti che possano qualificarsi come
variazioni territoriali.
Questione a questa correlata riguarda la contestazione dei
confini tra Regioni. La giurisprudenza costituzionale si è espressa
raramente su tali questioni: con le sentenze 743/1988 e 55/1993 la
Corte Costituzionale ha statuito che la contestazione dei confini delle
Regioni non rientrino nelle ipotesi normative di cui all’art. 132 Cost.
Per quanto riguarda la prima di queste due sentenze, la
situazione venutasi a creare era la seguente: il Presidente della
Repubblica in data 29 marzo 1982 aveva rettificato con decreto i
confini tra il Comune di Rocca Pietore ed il Comune di Canazei,
dietro richiesta di quest’ultimo ed in ottemperanza all’art. 267 del r.d.
383/1934. La cosa comportava anche la modifica dei confini tra la
Regione Veneto, dove si trova il Comune di Rocca Pietore, e la
Regione Trentino, dove si trova quello di Canazei. La Regione Veneto
sollevò il conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato contro la
decisione (ex art. 134 n. 2 Cost.) ritenendola lesiva delle sue
attribuzioni per due motivi:
- perché toccava il territorio regionale, che è un elemento costitutivo
dell’ente-regione assistito da garanzia costituzionale; in questo caso
esso sarebbe stato modificato eludendo la procedura superaggravata
prevista dall’art. 132 Cost.;
- perché sottraeva ingiustamente a detta Regione una parte del suo
territorio.
99
In particolare l’art. 267 del r.d. 383/1934 (testo unico legge comunale
provinciale) prevedeva che: “i ricorsi per contestazioni di confini fra
comuni o province sono decisi con decreto reale, udito il consiglio di
Stato.
Contro il provvedimento è ammesso il ricorso, anche in merito, al
consiglio di Stato in sede giurisdizionale, ovvero il ricorso
straordinario al Re”.
Con l’avvento dell’ordinamento repubblicano questo potere spettante
al Re passò al Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente
del Consiglio dei Ministri. Per dovere di cronaca si ricorda che l’art.
267 fu abrogato dalla l. 265/1999 e che il t.u.l.c.p. fu interamente
abrogato dall’art. 274 del t.u. enti locali, approvato con d. lgs.
267/2000. L’art. 267 del r.d. 383/1934 avrebbe dovuto considerarsi
implicitamente abrogato in virtù del nuovo rapporto Stato-Regioni
sancito nella Carta costituzionale.
Contro il ricorso si costituì, tra gli altri enti, anche la Provincia di
Trento che ritenne il ricorso infondato per motivi di merito: esso
infatti muoveva da premesse giuridiche inesatte, dalla confusione, in
particolare, tra procedimento di modifica delle circoscrizioni
regionali, disciplinato dall’art. 132 Cost., e procedimento di rettifica
dei confini. L’accertamento dei confini non avrebbe potuto essere
censurato per violazione dell’art. 132 Cost., che attiene al diverso
problema della modifica dei medesimi.
La Corte costituzionale rigettò il ricorso per conflitto di attribuzione
proposto dalla Regione Veneto contro lo Stato e dichiarò la
permanenza in vigore dell’art. 267 sopra citato.
La medesima questione fu oggetto di un’altra sentenza della
Corte costituzionale, la n. 55 del 1993. Il T.A.R. del Lazio aveva
100
sollevato questione di legittimità costituzionale (ex art. 134 n. 1
Cost.), in riferimento agli artt. 5, 132 e 134 Cost., dell’art. 267 del r.d.
383/1934, in quanto prevedeva che i ricorsi per la contestazione dei
confini tra Comuni e Province di Regioni diverse fossero decisi con
atto di competenza governativa. Il Comune di Rocca Pietore aveva
impugnato davanti al T.A.R. del Lazio il d.P.R. del 29 marzo 1982 (si
veda sopra), deducendo che con il trasferimento alle Regioni delle
competenze in materia di circoscrizioni comunali sarebbe venuta
meno la competenza statale prevista dall’art. 267 r.d. 383/1934. Il
T.A.R. del Lazio a sua volta deduceva che l’art. 267 consentiva di
risolvere con un provvedimento amministrativo (ecco spiegata la
ragione del ricorso al T.A.R.) le contestazioni di confine insorte tra
Comuni di Regioni diverse, ma che la vicenda influiva pure
direttamente sulla consistenza del territorio di due Regioni contermini
garantita dall’art. 132 Cost., che impone l’emanazione di una legge (e
non di un atto amministrativo) per le variazioni del territorio
regionale. La norma ordinaria, secondo il giudice a quo, avrebbe
inciso direttamente sullo stesso principio dell’autonomia degli enti
locali, il cui valore e riconoscimento si trovavano solennemente
riaffermati nell’art. 5 Cost.73.
L’avvocatura dello Stato74 dedusse, per contro, che l’art. 132 Cost.
prevede soltanto casi di modificazione dei confini regionali, mentre
73
Si veda Capitolo I, par. 1.
La difesa in giudizio delle amministrazioni statali spetta all’avvocatura dello
Stato. E’ composta da legali che forniscono consulenza legale alle
amministrazioni statali e provvedono, appunto, alla loro difesa in giudizio.
L’avvocatura è incardinata presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, ma
svolge le proprie funzioni in modo indipendente; ne è a capo l’avvocato generale
dello Stato. Esistono delle sedi periferiche, dette avvocature distrettuali, presso
ciascuna sede di Corte d’appello.
74
101
resta estranea alla previsione della norma, e quindi alla riserva di
legge, l’ipotesi del semplice accertamento del preesistente confine.
La Corte, premettendo che né l’art. 132, né l’art. 134 Cost. nulla
dispongono in materia di contestazione di confini tra Regioni, asseriva
che l’art. 267 r.d. 383/1934, viceversa, ha continuato e regolare i
ricorsi per contestazione di confini tra Comuni (e Province)
appartenenti a Regioni diverse. Le differenze tra le fattispecie di cui
all’art. 132 Cost. e la previsione di cui all’art. 267 r.d. 383/1934 erano
evidenti. Le ipotesi di modificazione territoriale ex art. 132 Cost.
operavano in funzione dell’assetto degli interessi, competenze o
potestà, determinato dalla nuova configurazione istituzionale e
strutturale degli enti locali che ne erano titolari: situazioni del tutto
differenziate dalla semplice riconduzione territoriale del confine al suo
titolo costitutivo (ex art. 267). Nessun contrasto poteva esservi
pertanto fra l’art. 267 r.d. 383/1934 e gli artt. 132 e 134 Cost.,
disciplinando questi ultimi materia diversa da quella oggetto della
norma impugnata.
La Corte Costituzionale dichiarò non fondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 267 r.d. 383/1967, sollevata in
riferimento agli artt. 5, 132 e 134 Cost. dal T.A.R. del Lazio.
Della questione si occupò anche la dottrina75 sostenendo che era
esatta l’affermazione della Corte Costituzionale, e cioè che la
Costituzione non detta una disciplina ad hoc in ordine alla
contestazione di confini tra Regioni, ma non anche se si intendesse
75
Sul punto si veda: M. PEDRAZZA GORLERO, Recenti sviluppi della
giurisprudenza costituzionale in tema di variazioni territoriali delle Regioni e dei
Comuni in rivista Le Regioni, 1993, nota 1, pp. 1400 ss.
102
sostenere che non esistono principi costituzionali in grado di risolvere
il problema in modo soddisfacente.
Il dato assiomatico, negato dalla Consulta, da cui si parte è il seguente:
la decisione di una contestazione di confini, anche se meramente
ricognitiva degli stessi, può indurre una, sia pur minima, variazione
territoriale del Comune e delle Regioni interessate. Ciò perché, pur
potendosi distinguere, come la Corte esattamente fa, tra costituzione,
modificazione ed accertamento di un confine territoriale, ed anche
ammettere
che
la
decisione
sulla
lite
confinaria
riconduca
semplicemente il confine al suo titolo costitutivo, non si può
disconoscere che alla
reinterpretazione
del titolo
costitutivo
effettuatane dall’autorità che decide il conflitto possa seguire una
concreta modificazione del confine contestato. Osservato da questo
punto di vista, non pare controvertibile che le variazioni confinarie
delle Regioni, in quanto variazioni territoriali, rientrino tra quelle
disciplinate dalle norme costituzionali. Oltre a ciò si deve convenire
sul fatto che l’art. 132 Cost. ha ad oggetto principalmente le
modificazioni del territorio regionale sul quale insistono le
popolazioni interessate alla decisione di variazione (il cui contenuto
anzi esse concorrono a formare), mentre ad una decisione di una
contestazione di confini sono normalmente estranei gruppi di
popolazioni direttamente toccati dalla variazione territoriale. La
circostanza tuttavia che, da un lato, gruppi siffatti, per quanto esigui,
possano esistere, e, dall’altro, che la decisione debba essere statale,
non essendo nella competenza della Regione la soluzione di un
conflitto riguardante il proprio e l’altrui confine, fa ritenere che, per
dirimere controversie attinenti ai confini regionali, si debba adottare il
103
procedimento disposto per il distacco-aggregazione di un Comune da
una Regione all’altra.
Si avrà così l’iniziativa dei Consigli dei Comuni in conflitto o anche di
uno solo i essi, il parere obbligatorio dei Consigli delle Regioni
interessate, il referendum delle popolazioni direttamente interessate
(ovviamente solo se l’area territoriale non sia priva di copertura
umana), ed infine la legge statale ordinaria.
La costruzione della Corte Costituzionale in merito alla contestazione
di confini può quindi riguardare solo aree territoriali prive di copertura
umana, ma non potrebbe reggere ad una contestazione di confini la cui
decisione comportasse una variazione territoriale comprendente un
gruppo di popolazione, la quale, anche se derivante da una mera
riconduzione di un confine al suo titolo costitutivo, non potrebbe
essere deliberata che con il procedimento previsto dall’art. 132, co. 2
Cost.76 Resterebbe però da spiegare la ragione di una procedura
differente nei due casi, dal momento che il collegamento tra necessità
di celebrare il referendum ed esistenza di gruppi di popolazione è in
grado di soddisfare pienamente la differenza tra le due ipotesi.
A parere di chi scrive la soluzione auspicabile, come si è già
detto sopra77, sarebbe quella d’inserire nella Carta Costituzionale una
norma che preveda l’ipotesi della contestazione di confini,
diversificandola da quella delle variazioni territoriali di cui all’art. 132
Cost., disponendo inoltre procedimenti differenziati perché diverse
sono le esigenze che queste ipotesi mirano a soddisfare.
76
In questo senso si veda: L. FERRARO, commento all’art. 132 della
Costituzione italiana, in Commentario alla Costituzione, a cura di BIFULCO R.,
CELOTTO A., OLIVETTI M., Torino, 2006, p. 2537.
77
Si veda Capitolo II, p. 98.
104
CAPITOLO III
IL PROCEDIMENTO DI VARIAZIONE TERRITORIALE
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. L’iniziativa. – 2.1. L’iniziativa del procedimento di variazione
territoriale. – 2.2. Le ulteriori fasi procedurali dell’atto d’iniziativa. – 3. Il referendum. – 3.1.
Il referendum nella Costituzione italiana e negli ordinamenti regionali. – 3.2.
La
qualificazione giuridica del referendum previsto dall’art. 132 Cost. – 3.2.1. Referendum
“consultivo” in caso di esito positivo, “deliberativo” in caso di esito negativo. – 3.2.2.
Referendum “deliberativo” nei casi di fusione e di creazione, “cumulativo” nel caso di
distacco-aggregazione. – 3.2.3. Referendum come atto d’iniziativa o come condizione di
procedibilità. – 3.2.4. Referendum “deliberativo” in ogni caso precedenti. – 3.3. Il concetto di
popolazioni interessate. – 3.4. La votazione, lo scrutinio e la dichiarazione del risultato del
referendum. – 4. Il procedimento legislativo. – 4.1. La fase istruttoria del procedimento
legislativo. – 4.2. Il parere dei Consigli regionali. – 4.3. La deliberazione legislativa. – 4.4. La
qualificazione giuridica delle leggi di variazione territoriale e la loro collocazione nel sistema
delle fonti. – 4.4.1. Qualificazione giuridica e collocazione sistematica della legge
costituzionale di variazione territoriale. – 4.4.2. Qualificazione giuridica e collocazione
sistematica della legge ordinaria di variazione territoriale. – 4.5. La forma della legge per
l’aggregazione ad una Regione a Statuto speciale.
1.
Premessa
L’art. 132 Cost. prevede i procedimenti idonei ad attuare le
variazioni territoriali delle Regioni. Come detto nell’introduzione,
l’articolo in questione, dopo aver svolto la funzione politica di rendere
accettabile la ripartizione storico-statistica accolta nell’art. 131 Cost.,
non ha mai ricevuto concreta applicazione. L’unica modificazione
territoriale finora intervenuta è stata l’istituzione della Regione
105
Molise, deliberata con il procedimento contemplato nell’ XI
disposizione di attuazione. Il successivo consolidamento della
ripartizione storica ha tolto interesse all’art. 132 Cost., confinandolo
nelle zone grigie dell’ordinamento, dove l’idoneità funzionale del
congegno normativo convive con la sua concreta inattivazione (come
sostiene Pedrazza Gorlero).
Tale articolo non riesce quindi a rivelare appieno l’uso al quale era
stato destinato, mancandone esempi concreti adatti a dimostrarne
l’idoneità.
Come si è visto, i procedimenti di variazione territoriale sono
tre: la fusione di Regioni esistenti, la creazione di una nuova Regione
ed il distacco del territorio da una Regione e la sua aggregazione ad
un’altra. I procedimenti presentano molti elementi in comune, tali da
giustificare la riduzione ad un unico procedimento entro il quale si
faranno notare le eventuali differenze.
Una questione che investe la configurazione complessiva del
procedimento è l’alternativa se considerarlo un procedimento unitario,
di legislazione costituzionale od ordinaria, aggravato da forme di
consultazione degli organi rappresentativi e d’intervento del corpo
elettorale,
interessati
alla
variazione
territoriale,
oppure
un
procedimento duale, articolato in un subprocedimento di democrazia
diretta ed in un procedimento legislativo, del quale quello referendario
costituisce il necessario presupposto.
La formulazione testuale degli antecedenti normativi dell’art. 132
Cost. sembra accreditare la concezione unitaria del procedimento in
questione: si tratta di un procedimento legislativo unitario che è
possibile definire, come si vedrà nel corso della trattazione,
“superaggravato”. Durante la discussione dell’art. 23 del Comitato per
106
le autonomie locali78 sorse la questione se la richiesta degli organi
rappresentativi delle popolazioni interessate alla variazione territoriale
introducesse il referendum o il procedimento legislativo. In
quest’ultimo caso il referendum sarebbe stato da considerare come un
subprocedimento,
presupposto
necessario
del
procedimento
legislativo, configurante quindi una concezione duale. La seconda
Sottocommissione risolse la questione nel senso di ritenere che la fase
dell’iniziativa si aprisse con la richiesta che avviava il procedimento
referendario, che quindi costituiva un unicum con l’eventuale
procedimento legislativo. In sostanza, alla richiesta degli organi
rappresentativi è demandato il compito di promuovere il referendum
capace di evidenziare integralmente l’area dell’interesse e di
assicurare il consenso necessario alla formazione del contenuto
dell’eventuale deliberazione legislativa.
Alla luce di tutto ciò, il procedimento unitario di variazione
territoriale si compone delle seguenti fasi:
- l’iniziativa, riservata agli organi rappresentativi delle popolazioni
interessate alla variazione territoriale;
- il referendum, espressivo della volontà delle popolazioni interessate;
- il procedimento legislativo statale, comprendente a sua volta:
- i pareri dei Consigli regionali a tutela delle popolazioni
indirettamente interessate o controinteressate;
- l’eventuale approvazione di una legge statale, costituzionale od
ordinaria, che certifichi l’avvenuta variazione territoriale.
78
Si veda Capitolo I, paragrafo 6.
107
2-
L’iniziativa
2.1- L’iniziativa del procedimento di variazione territoriale
La fase dell’iniziativa si apre con la richiesta degli organi
rappresentativi degli enti comunali e provinciali interessati, richiesta
che avvia anche il procedimento referendario. Secondo la concezione
unitaria, scompare ogni riferimento ad un’iniziativa referendaria
distinta
dall’iniziativa
legislativa:
il
legislatore
d’attuazione,
prescrivendo che il procedimento di variazione territoriale sia
introdotto dalla richiesta di referendum, ha escluso la possibilità che
l’iniziativa di legge venga esercitata dagli organi rappresentativi delle
popolazioni
interessate.
Saranno
analizzati
ora
gli
aspetti
procedimentali dell’iniziativa, ponendo particolare attenzione sul
rapporto tra la norma costituzionale e la legislazione di attuazione, con
la riserva di dare una qualificazione giuridica al referendum
“territoriale”79 e di definire il concetto di popolazioni interessate80 nel
corso della trattazione.
Facendo un’analisi esegetica della disposizione costituzionale,
la “richiesta” appare rivolta sia ad ottenere il provvedimento di
variazione territoriale, sia ad attivare il procedimento che gli è
strutturale, e perciò il subprocedimento presupposto.
Quest’intreccio di competenze tra gli organi rappresentativi e l’istituto
referendario ed i motivi sostanziali ad essi sottesi potrebbero ben
spiegarsi così: “si potrebbe parlare di un effetto addizionale, nel senso
che l’iniziativa degli enti locali, operante sul piano della legalità,
79
80
Si veda Capitolo III, paragrafo 3.2.
Si veda Capitolo III, paragrafo 3.3.
108
verrebbe attratta dal referendum sul versante della legittimità politica,
ma altrettanto in una dinamica osmosi, quest’ultimo riceverebbe
beneficio dalla prima, nella prospettiva di un suo ulteriore
rafforzamento. Si realizzerebbe così un risultato complesso, dove
l’istituto di democrazia diretta, da una parte e l’azione delle istituzioni
rappresentative,
dall’altra,
si
rafforzerebbero
vicendevolmente,
sebbene il primo, in ragione del suo plusvalore simbolico,
conserverebbe comunque il ruolo centrale, nonostante la porzione
limitata del corpo elettorale coinvolto. Non di meno, può forse
aggiungersi che le istituzioni rappresentative in questione trasmettano
anch’esse al referendum, in forza della loro vicinanza ai cittadini, un
quid pluris in termini di valenza politica”81.
Il costrutto legislativo in questione viene previsto nell’art. 132
Cost. e nell’art. 42 della legge 25 maggio 1970 n. 352, attuativa del
procedimento referendario.
Si analizzerà ora la fase dell’iniziativa del procedimento in
questione. Per prima cosa si deve vedere se l’art. 42 della l. 352/1970
sia rispettoso del dettato costituzionale. L’art. 132 Cost. prevede una
riserva d’iniziativa del procedimento di variazione territoriale a favore
dei soli organi rappresentativi delle popolazioni interessate. Su tale
interpretazione concorda gran parte della dottrina più autorevole in
materia82. La domanda che sorge è la seguente: l’art. 42 della l.
81
Cfr. L. FERRARO, commento all’art. 132 della Costituzione italiana, in
Commentario alla Costituzione, a cura di BIFULCO R., CELOTTO A.,
OLIVETTI M., Torino, 2006, p. 2540.
82
Sul punto si veda: M. SCUDIERO, Il referendum nell’ordinamento regionale,
Napoli, 1971, p. 56; S. CARBONARO, Il referendum nella Costituzione e negli
statuti delle Regioni ad ordinamento speciale in Studi in memoria di Carlo
Esposito, Padova, 1972, p. 162; E. DE MARCO, Contributo allo studio del
referendum, Padova, 1974, p. 247; M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni
territoriali delle Regioni, vol. II, Padova, 1991, pp. 145 ss. e pp. 178 ss.
109
352/1970 soddisfa questa riserva d’iniziativa? Da una lettura sinottica
delle disposizioni in questione emerge che il comma 1 dell’articolo in
questione si adegua all’art. 132, co. 1 Cost., prevedendo che
l’iniziativa sia riservata ai soli Consigli comunali, mentre l’art. 42, co.
2 della l. 352/1970 si adegua all’art. 132, co. 2 Cost., che estende
l’iniziativa anche alle Province.
Analizzando dettagliatamente la disciplina dell’iniziativa referendaria,
con particolare riguardo per i soggetti che ne sono titolari, emergono
però dei problemi di natura esegetica di non facile soluzione, sia nelle
disposizioni costituzionali, sia nella legge in materia referendaria. Già
nell’art. 132 Cost. si registra un’evidente asimmetria in merito
all’attribuzione del potere d’iniziativa, che nel comma 1 è affidato ai
soli Consigli comunali, mentre nel comma 2 è esteso anche alle
Province. L’art. 42 della l. 352/1970 poi, non si è contenuto nei limiti
del dettato costituzionale, ma ha notevolmente ed illegittimamente
innovato le prescrizioni dell’art. 132 Cost., accordando l’iniziativa
referendaria ad organi da esso non previsti e condizionando quella dei
titolari dell’iniziativa necessariamente congiunta di soggetti dalle
stesse non contemplati.
La fusione di Regioni esistenti è l’ipotesi che meno si discosta
dal dettato costituzionale. Prevede infatti l’art. 132, co. 1 Cost. che
titolari dell’iniziativa siano i “Consigli comunali che rappresentino
almeno un terzo delle popolazioni interessate”, mentre l’art. 42, co. 1
della l. 352/1970 ne riproduce la formulazione, specificando
esattamente che la popolazione interessata sia “la popolazione
complessiva delle regioni della cui fusione si tratta”.
Nella fusione infatti tutte le popolazioni sono direttamente interessate,
in quanto tutte vanno a costituire la nuova entità territoriale. Titolari
110
dell’iniziativa saranno quindi i Consigli comunali che rappresentino
almeno un terzo delle popolazioni di tutte le Regioni che andranno a
comporre la nuova entità territoriale; non importa come i gruppi di
popolazione da essi rappresentati siano dislocati, ossia in una soltanto,
in alcune, o in tutte le Regioni interessate.
In una simile situazione potrebbe accadere che la popolazione di una
Regione non voglia addivenire ad una fusione con altre Regioni, ma
sia comunque costretta a subire il procedimento referendario perché
chiesto dai Consigli comunali di cui sopra. Ciò è indubbiamente vero,
ma la Regione non può essere costretta a fondersi con altre Regioni
contrariamente alla sua volontà. Per far fronte a questa situazione ed a
garanzia della volontà della popolazione della Regione, vi sono le
modalità di svolgimento del referendum, il quale dev’essere tenuto
Regione per Regione: in questo modo si riesce a localizzare la volontà
delle singole popolazioni.
Altra situazione problematica è rappresentata da una tipologia
particolare di fusione, la fusione per incorporazione. È il caso che si
verifica quando un ente regionale, la Regione incorporanda, si
estingue annettendosi totalmente ad un’altra realtà regionale già
esistente, la Regione incorporante; in questo modo non si verifica
l’istituzione di una nuova Regione, come avviene con la fusione, bensì
la modificazione della Regione incorporante. È un’ipotesi più vicina al
distacco-aggregazione che non alla fusione. In questo caso il principio
della corrispondenza fra popolazioni interessate alla richiesta (solo
quelle della Regione incorporanda) ed alla variazione (quelle di
entrambe le Regioni) potrebbe rendere impossibile l’iniziativa di tale
figura di fusione: ciò potrebbe accadere quando i Consigli comunali
della Regione incorporanda, pur rappresentando l’intera popolazione
111
regionale, non rappresentino almeno un terzo della popolazione
complessiva che risulterà dalla fusione. Si deve quindi giudicare
costituzionalmente illegittima la norma di attuazione di cui all’art. 42,
co. 1 della l. 352/1970, nella parte in cui non prevede tale situazione.
La disciplina dell’iniziativa nell’ipotesi di creazione di una
nuova Regione diverge sensibilmente da quella prevista a livello
costituzionale. L’art. 132, co 1 Cost. infatti identifica i titolari
dell’iniziativa del procedimento allo stesso modo che per l’ipotesi
della fusione: titolari dell’iniziativa sono soltanto i
“Consigli
comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni
interessate”; l’art. 42, co. 2 della l. 352/1970 prevede invece che
titolari dell’iniziativa siano i “consigli provinciali” ed i “consigli
comunali delle province e dei comuni di cui si propone il distacco” e
che essa sia necessariamente accompagnata con quella “di tanti
consigli provinciali o di tanti consigli comunali che rappresentino
almeno un terzo della restante popolazione della regione dalla quale è
proposto il distacco”. Si può notare come la norma costituzionale in
questo caso sia stata completamente travisata dalla norma di
attuazione, e pertanto l’art. 42, co. 2 della l. 352/1970 deve ritenersi
viziato per illegittimità costituzionale. Questi i motivi:
- si è conferito il potere d’iniziativa ai Consigli provinciali, che
nell’art. 132 co. 1 Cost. non sono contemplati. Ciò si è verificato
perché il legislatore d’attuazione ha esteso il regime del distaccoaggregazione alla creazione, dando per presupposto che nelle ipotesi
di variazione territoriale in questione vi sia una qualche somiglianza
per quanto riguarda la fase del distacco. L’estensione attuata è però
illegittima perché postula la corrispondenza tra titolari dell’iniziativa
nelle ipotesi di creazione e di distacco-aggregazione: da una lettura
112
sinottica emerge che il primo comma della lettera costituzionale
prevede come titolari solamente i Consigli comunali che rappresentino
almeno un terzo delle popolazioni interessate (quindi non vi è una
completa identificazione tra i titolari dell’iniziativa e territori
aggregabili, in quanto il procedimento può essere sollevato solamente
da una parte dei rappresentanti di tutte le popolazioni interessate).
Nell’ipotesi di cui al capoverso dell’art. 132 Cost., invece, titolari
dell’iniziativa devono essere tutti i Consigli, provinciali e comunali,
dei territori che intendono staccarsi (vi sarà quindi una completa
identificazione tra gli organi rappresentativi ed i territori aggregabili).
Si noti inoltre che soggetti ammessi all’iniziativa dovrebbero essere
solamente le popolazioni interessate alla creazione di una nuova
Regione e non anche le popolazioni “restanti” delle Regioni da cui si
realizza il distacco, perché così stabilisce la lettera costituzionale del
primo comma dell’art. 132, ed infatti la parte della norma in questione
(art. 42, co. 2 della l. 352/1970) è stata dichiarata costituzionalmente
illegittima dalla sentenza 334/2004 della Corte Costituzionale83; questi
i motivi:
- la falsificazione operata dalla norma di attuazione in merito alla
frazione minima di popolazione che i Consigli comunali debbono
rappresentare per poter avanzare la richiesta di creazione. Nel dettato
costituzionale è infatti previsto che la richiesta debba essere avanzata
da tanti Consigli comunali che rappresentino almeno un terzo delle
popolazioni interessate. Nella norma di attuazione si stabilisce invece
che la richiesta debba provenire da tutti i Consigli comunali e
provinciali che chiedono il distacco per la creazione di una nuova
83
Sul punto si veda: Sentenza 10 novembre 2004 n. 334 in Giurisprudenza
costituzionale, n. 6/2004, Milano.
113
Regione. La differenza è talmente palese da non aver bisogno di
commenti;
- l’iniziativa necessariamente concomitante dei Consigli comunali e
provinciali che rappresentino almeno un terzo della popolazione
residua della Regione dalla quale si effettua il distacco. Tale iniziativa
non trova riscontro nell’art. 132, co. 1 Cost. e deve ritenersi pertanto
costituzionalmente illegittima.
Il procedimento di distacco-aggregazione è l’ipotesi più
articolata e complessa, perché presenta due particolarità rispetto ai
procedimenti di fusione e di creazione, ossia la titolarità dell’iniziativa
alle Province e l’assenza di popolazioni direttamente interessate
diverse da quelle che chiedono la variazione.
L’autonoma iniziativa delle Province è stata contestata da una parte
della più autorevole dottrina in materia che ha ritenuto di poterla
escludere sulla base dell’irragionevolezza di accordarla ai soli Comuni
nelle ipotesi di fusione e creazione ed anche alle Province nel
distacco-aggregazione.
Il Balladore Pallieri84 fonda le sue deduzioni in merito su un
argomento letterale: l’espressione “che ne facciano richiesta”
contenuta nel comma 2 dell’art. 132 Cost. dovrebbe riferirsi
unicamente ai Comuni e non anche alle Province. Il dettato
costituzionale viene così superato da un’interpretazione restrittiva
dell’inciso “che ne facciano richiesta”, limitato ai soli Comuni. I
motivi dell’irragionevolezza non sono direttamente esplicitati, ma si
possono dedurre dal contesto ermeneutico: il Costituente ha
individuato nel Comune l’unità minima di variazione territoriale,
84
Vedi G. BALLADORE PALLIERI, Diritto costituzionale, Milano, 1970, pp.
379 ss.
114
pertanto, con il riferimento alla Provincia, egli non ha denotato uno
dei titolari dell’iniziativa, bensì solamente un territorio aggregabile.
La Provincia anzi sarebbe da considerare la dimensione massima del
distacco-aggregazione; l’Autore infatti afferma che: “alle regioni
possono essere aggiunte o da esse distaccati solo comuni, sia
singolarmente sia raggruppati in vari modi e anche in intere province”.
Su questa lunghezza d’onda è pure il Mortati85, che fonda le sue
deduzioni su due tipi di argomenti. In base ad un argomento
sistematico, egli afferma che nell’art. 133 co. 1 Cost., in materia di
variazione territoriale delle Province, sono previsti come titolari
dell’iniziativa soltanto i Comuni, quindi la stessa cosa dovrebbe valere
anche per l’articolo in questione, pena una disomogeneità nel sistema.
Sulla base di un argomento sostanziale (più forte), egli ritiene che la
Provincia, secondo l’ordinamento italiano, sia un ente fornito di
competenze specifiche su materie determinate. Il Comune invece è
dal punto di vista morfologico l’unità minima di variazione territoriale
e dal punto di vista soggettivo l’ente rappresentativo della volontà
della popolazione in materia di variazione territoriale. Pertanto, non
essendo la Provincia un ente superiore gerarchico del Comune, come
tale non può ritenersi rappresentativa della volontà della popolazione
ad essa appartenente fuori dalle materie di sua competenza. Il Mortati
conclude dicendo che o si ritiene che alla Provincia sia preclusa ogni
attività in materia (come sostiene il Balladore Pallieri), oppure, ove si
voglia essere più aderenti al dettato costituzionale, deve consentirsi
un’iniziativa all’ente-provincia, subordinandola però al successivo
consenso dei Comuni in essa inclusi, che in analogia a quanto disposto
85
Sul punto si veda: C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1976,
nota 1, p. 894.
115
dal primo capoverso dell’art. 132 Cost., devono rappresentare almeno
un terzo della popolazione interessata.
Si esclude espressamente l’iniziativa dei Consigli provinciali anche
nel Commentario alla Costituzione di Falzone, Palermo, Cosentino86,
pur senza portare argomentazioni specifiche sulla questione.
A parere di chi scrive, francamente, sembra che gli argomenti
addotti siano deboli e la critica si fonda su un’impostazione
interpretativa differente che si ritiene più adeguata. L’interpretazione
normativa infatti dev’essere strettamente aderente al dettato
costituzionale, e si crede che sia poco opportuno che un autore
deformi le disposizioni
costituzionali secondo il suo pensiero.
Sarebbe invece opportuno che fosse lui ad adeguare questo alla lettera
costituzionale, anche se una norma non incontra il suo favore.
L’argomento di Balladore Pallieri non pare decisivo, in primo
luogo perché è un argomento letterale, e quindi debole per
antonomasia, ma soprattutto perché sembra una forzatura ritenere
l’inciso “che ne facciano richiesta” attribuito ai soli Comuni, quando
i soggetti della preposizione normativa sono con ogni evidenza sia i
Comuni che le Province. Come detto sopra, quando si va ad
interpretare una disposizione, sarebbe bene attenersi precisamente al
dettato costituzionale e non far dire alla norma ciò che la norma non
dice. Continuando con la critica, se alla denominazione, che individua
l’ente anziché l’organo, si attribuisce la capacità d’indicare l’area
aggregabile, ma non il titolare dell’iniziativa, ciò dovrebbe valere
anche per i Comuni, mentre per questi il nome identifica sia il
territorio aggregabile sia il soggetto dell’iniziativa.
86
Sul punto si veda: V. FALZONE, F. PALERMO, F. COSENTINO, La
Costituzione della Repubblica italiana, Roma, 1969, p. 411.
116
Sul fatto poi che la Provincia sia da considerare la dimensione
territoriale
massima
del
distacco-aggregazione,
niente
nella
disposizione costituzionale fa concludere in tal senso: non è quindi
preclusa per nessun motivo la possibilità che si possa realizzare una
simile variazione territoriale congiuntamente tra Province e Comuni.
L’argomento sistematico di Mortati può essere anch’esso
oggetto di confutazione: pare abbastanza logico che nell’art. 133, co. 1
Cost. avanzino richiesta solo i Comuni perché nel sistema delle
variazioni territoriali delle Regioni e delle Province è regola che la
domanda sia presentata dagli organi rappresentativi degli enti
rientranti nell’ambito territoriale dell’ente da variare e non da quelli
dell’ente medesimo.
Si ritiene pertanto che anche le Province possano essere titolari
dell’iniziativa del procedimento del distacco aggregazione ai sensi
dell’art. 132, co. 2 Cost. e ciò perché così sta scritto nel dettato
costituzionale.
L’argomento sostanziale di Mortati pone anch’esso dei seri
dubbi in quanto, pare di capire, che l’iniziativa dei procedimenti di
variazione territoriale possa essere avanzata solo dagli enti che siano
rappresentativi dell’intera popolazione, e che questa rappresentatività
venga a mancare quando i fini perseguiti dall’ente e le funzioni ad
esso assegnate sono limitate a materie determinate.
Le Province sono però enti rappresentativi delle popolazioni residenti
a tutti gli effetti, o meglio, come dice parte della dottrina, sono “enti
territoriali (…) direttamente esponenziali delle popolazioni residenti
sul loro territorio”87: un ente locale è esponenziale in quanto
87
Cfr. F. PIZZETTI, Il sistema costituzionale delle autonomie locali, Milano,
1979, p. 189.
117
rappresenta ed è portatore degli interessi della comunità stanziata in
un determinato territorio. L’ente locale è dotato di potere di
autodeterminazione, ma il contenuto di tale potere varia in ragione
della natura e delle funzioni della comunità e del suo ente
esponenziale88. La Provincia ha, come detto sopra, delle competenze
specifiche su determinate materie, ma ciò non ne riduce il potere di
rappresentanza: in sostanza, la limitatezza dei fini generali perseguiti
non riduce la rappresentatività dell’ente (fino ad escluderla in
relazione ad un’iniziativa riguardante la variazione del suo territorio).
La tesi del Mortati sembra invece invertire il rapporto tra
esponenzialità e territorialità dell’ente: anziché far guadagnare alla
prima le disposizioni costituzionali in materia di variazioni territoriali,
essa, interpretandole restrittivamente, le porta a limite della seconda, e
la cosa, alla luce di quanto visto, non sembra condivisibile.
Concludendo, si ritiene che anche le Province possano essere
titolari dell’iniziativa del procedimento del distacco aggregazione ai
sensi dell’art. 132, co. 2 Cost. e ciò perché così sta scritto nel dettato
costituzionale. Questa posizione si fonda su autorevole dottrina, che
fornisce vari argomenti sulla questione89: Pedrazza Gorlero definisce
“insuperabile la lettera della disposizione”, osservazione che pare
molto
adeguata;
De
Marco
sostiene
esplicitamente
che
l’interpretazione del Balladore Pallieri “rappresenta (…) una forzatura
del dettato costituzionale”.
88
In questo senso si veda: M. S. GIANNINI, Autonomia pubblica (voce) in
Enciclopedia del diritto, vol. IV, Milano, 1959, pp. 364 ss.
89
Sul punto si veda: M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle
Regioni, vol. II, Padova, 1991, pp. 59 ss.; S. CARBONARO, Il referendum nella
Costituzione e negli statuti delle Regioni ad ordinamento speciale in Studi in
memoria di Carlo Esposito, Padova, 1972, nota 59, p. 161; E. DE MARCO,
Contributo allo studio del referendum, Padova, 1974, nota 5, p. 246.
118
Si hanno ora gli elementi per rispondere adeguatamente alla
domanda con cui era stata aperta la trattazione di questo paragrafo e
cioè: l’art. 42 della l. 352/1970 soddisfa la riserva d’iniziativa posta
dall’art. 132 Cost.? La parte di tale articolo in cui si prevede
l’iniziativa dei “Consigli provinciali e comunali delle Province e dei
Comuni di cui si propone il distacco” è senz’altro rispettosa del
dettato costituzionale. Per quanto riguarda invece i “Consigli
provinciali” o i “Consigli comunali che rappresentino almeno un
terzo della restante popolazione della Regione dalla quale è proposto
il distacco” ed i “Consigli provinciali” o i “Consigli comunali che
rappresentino almeno un terzo della restante popolazione della
Regione alla quale si propone l’aggregazione”, il legislatore è andato
ben oltre le tesi dottrinali sopra esaminate. In primo luogo ha disposto
l’associazione all’iniziativa di altri soggetti interessati alla variazione,
spezzando di fatto la corrispondenza tra soggetti richiedenti e territori
aggregabili; ha inoltre previsto il concorso necessario all’iniziativa di
soggetti indirettamente interessati o controinteressati alla variazione, e
ciò in contrasto con il principio che l’iniziativa della variazione spetta
solo a chi abbia un diretto interesse. In sostanza ha aggravato quanto
esplicitamente richiesto dalla Costituzione90. Per questi due motivi si
deve concludere che l’art. 42 della l. 352/1970 sia, in queste parti,
costituzionalmente illegittimo.
90
Cfr. E. GIZZI, Manuale di diritto regionale, Milano, 1991, pp. 42 ss.
119
2.2- Le ulteriori fasi procedurali dell’atto d’iniziativa
L’atto formalmente introduttivo del procedimento referendario
è la richiesta.
La richiesta di referendum dev’essere depositata presso la cancelleria
della Corte di Cassazione da uno stesso delegato, effettivo o
supplente, che sia stato preventivamente designato nelle deliberazioni
dei Consigli comunali e provinciali titolari dell’iniziativa (art. 42, co.
3 e 4, della l. 352/1970). Queste deliberazioni devono contenere anche
la riproduzione testuale precisa del quesito da sottoporre a referendum
e devono essere identiche per oggetto (art. 42, co. 1, 2 e 3, della l.
352/1970); devono inoltre essere depositate a corredo della richiesta
nei tre mesi successivi alla data di deposito di quest’ultima e devono
essere adottate non oltre tre mesi prima della data del rispettivo
deposito (art. 42, co. 5 della l. 352/1970). Qual è la ratio
dell’eventuale sfasatura temporale tra il deposito della richiesta e
quello delle deliberazioni consiliari? È possibile individuarla
nell’ampliamento della libertà d’iniziativa, che può esercitarsi anche
prima che tutti i titolari l’abbiano deliberata. Tale vantaggio è però
apparente, visto che le deliberazioni vengono acquisite, il delegato
conosciuto e il quesito referendario fissato definitivamente solo
all’atto del deposito, entro i termini, dell’ultima deliberazione. Per
quanto riguarda invece la formulazione testuale del quesito
referendario, si può notare che nell’ipotesi del distacco-aggregazione
(art. 41, co. 1 della l. 352/1970) esso è differenziato a seconda che
riguardi Province o Comuni. Come si è visto sopra91, nessuna
disposizione costituzionale esclude il distacco-aggregazione congiunto
91
Si veda Capitolo III, p. 117.
120
tra Province e Comuni: si può pertanto concludere che tale
disposizione sia in contrasto con il dettato costituzionale, nella parte in
cui non prevede un format di quesito anche per questo caso di
variazione territoriale.
Per quanto riguarda le deliberazioni consiliari, la l. 352/1970
non prevede un quorum di validità delle riunioni o specifiche
maggioranze, quindi ad esse debbono ritenersi applicabili le norme
generali: è richiesta la presenza in aula della maggioranza dei
componenti del Consiglio regionale e le deliberazioni sono approvate
con il voto favorevole della maggioranza dei presenti92.
La
richiesta
dev’essere
necessariamente
sottoposta
all’accertamento di legittimità dell’Ufficio centrale per il referendum,
costituito presso la Corte di Cassazione93. Quest’ufficio “accerta che
la richiesta di referendum sia conforme alle norme dell’art. 132 della
Carta costituzionale e della legge, verificando in particolare che sia
raggiunto il numero minimo prescritto dalle deliberazioni depositate”
(art. 43, co. 1, della l. 352/1970). Si può notare che questo
accertamento è anticipato rispetto al referendum al fine di evitare la
diseconomia di una pronuncia a vuoto da parte del corpo elettorale.
Il primo accertamento riguarda la frazione minima di
popolazioni interessate che i Consigli comunali e provinciali devono
rappresentare
per
poter
avanzare
la
richiesta.
L’espressione
“popolazioni interessate” va intesa diversamente a seconda che sia
riferita alle popolazioni interessate ai fini della richiesta (vedi ad
esempio art. 42, co. 1 e 2, della l. 352/1970) o alle popolazioni
92
Si veda ad esempio art. 43, co. 1 Statuto Regione Piemonte ed art. 27, co. 3
Statuto Regione Lazio.
93
Si veda art. 12 della l. 352/1970.
121
interessate al referendum : nel primo caso l’espressione si deve
intendere come popolazione in senso puro e genericamente
demografico, cioè nel senso di abitanti; nel secondo invece come
cittadini aventi diritto di voto, cioè gli elettori94.
Altro aspetto da considerare è l’accezione da attribuire alla
rappresentanza di questi organi: è rappresentanza in senso tecnico?
No, pare proprio di no. La formulazione normativa dell’art. 132, co. 1
Cost. sembra far intendere che i Consigli comunali debbano
appartenere a Comuni aventi un numero di abitanti corrispondente ad
un terzo delle popolazioni interessate alla variazione, piuttosto che
rappresentarne l’interesse alla variazione. Ciò si può desumere anche
da un possibile risvolto di questo procedimento: si potrebbe verificare
la situazione paradossale per cui i Consigli comunali non
rappresentino in concreto gli interessi della propria popolazione (che
si
esprimerà
negativamente
sul
quesito
referendario),
ma
rappresentino al contrario gli interessi di altri Comuni coinvolti nella
variazione. Non a caso nell’ipotesi di distacco-aggregazione di cui al
comma 2 di detto articolo, nella quale c’è corrispondenza tra i titolari
della richiesta ed i territori aggregabili, manca ogni riferimento
espresso al rapporto di rappresentanza, pur non essendo contestabile
che i Consigli comunali e provinciali che avanzano la richiesta di
variazione, siano degli organi rappresentativi.
Un secondo accertamento da parte dell’Ufficio centrale per il
referendum ha ad oggetto il minimo di un milione di abitanti su cui la
nuova Regione deve poter contare per essere istituita.
94
In questo senso: C. CARBONE, Referendum in Novissimo digesto italiano, vol.
XIV, Torino, 1967, p. 1110; G. D’ORAZIO, In tema di variazioni del territorio
regionale in Scritti in onore di Costantino Mortati, Milano, 1977, p. 688.
122
L’interpretazione di questo requisito non è univoca in dottrina: vi è
unanime accordo sul fatto che il minimo della popolazione attenga alla
Regione creata, ma vi è divisione sulla possibilità di estenderlo anche
alla Regione restante, o alle Regioni restanti, dopo la variazione
territoriale. Cioè: la Regione o le Regioni da cui sono staccate le aree
territoriali che andranno a comporre la nuova Regione, dopo questa
“menomazione” dovranno anch’esse avere una popolazione minima di
un milione di abitanti o non è necessario, ergo questo requisito è
previsto solo per le Regioni nuove? La risposta data dalla dottrina si
fonda su differenti interpretazioni letterali del concetto di “Regioni
nuove”.
Una parte afferma, con deduzioni tra l’altro plausibili, che la
Regione che subisce il distacco vede modificati, anche in misura
notevole, i propri elementi costitutivi, e cioè la popolazione e il
territorio. Per questi motivi, questa Regione dovrà anch’essa essere
considerata nuova a tutti gli effetti. Ne consegue che il requisito della
popolazione minima di un milione di abitanti dovrà valere anche per
le Regioni restanti. Sostenitori di questa tesi sono il Mortati che, con
riferimento all’ipotesi del distacco-aggregazione, dice: “in ogni caso
condizione preliminare per poter consentire tale mutamento è che la
regione da cui dovrebbe effettuarsi il distacco non rimanga in seguito
a questo con una popolazione inferiore ad un milione di abitanti” 95 e
Falzone, Palermo, Cosentino che dicono: “la Regione nuova avrebbe
il requisito della popolazione minima ma non lo avrebbe più quella già
costituita. Sembra che ciò non possa ritenersi consentito, poiché anche
la parte restante della Regione antica verrebbe, dopo la scissione, ad
essere una Regione nuova, pur se col vecchio nome e col vecchio
95
Cfr. C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Padova. 1976, p. 895.
123
statuto, essendosi profondamente mutato uno degli elementi
costitutivi, e cioè il territorio (…) Come Regione nuova, anch’essa
dovrebbe avere un minimo di un milione di abitanti”96.
Altra parte della dottrina invece afferma invece che il termine
“nuove” nel sistema della variazione territoriale delle Regioni non
designa realtà istituzionali genericamente nuove rispetto
a quelle
precedenti, ma sta ad indicare la semplice aggiunta numerica al
novero delle Regioni stabilito dal Costituente; nuove in questo caso
significa “altre”. Sostenitore di questa tesi è autorevole dottrina
(Pedrazza Gorlero97). L’Autore in questione porta un argomento (che
potrebbe essere definito “storico”) che pare condivisibile: il
Costituente ha individuato il numero delle Regioni di cui all’art. 131
Cost. basandosi sul criterio storico-statistico, derogando al numero
minimo di popolazione richiesto per l’istituzione di nuove Regioni,
che si basava evidentemente su un criterio diverso, il criterio
funzionale. Questa volontà di deroga del Costituente fu addirittura
estesa anche alla creazione di Regioni nuove, durante la vigenza dell’
XI disposizione transitoria. La ratio del requisito del limite minimo di
popolazione può ravvisarsi nell’intento di servire da remora al
formarsi di nuove Regioni troppo piccole, che avrebbero favorito
un’eccessiva frammentazione del territorio italiano. Per questo motivo
l’estensione
del
requisito
in
oggetto
alla
Regione
restante
contrasterebbe con le decisioni assunte dal Costituente.
Questa seconda interpretazione sembra essere più convincente
perché, considerando più opportuna quell’interpretazione che sia il più
96
Cfr. V. FALZONE, F. PALERMO, F. COSENTINO, La Costituzione della
Repubblica italiana, Roma, 1969, p. 412.
97
Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol.
II, Padova, 1991, p. 68.
124
possibile aderente al dettato costituzionale98, si ritiene che questa si
adatti perfettamente alla volontà del Costituente ed a quanto egli ha
voluto concretamente esprimere negli artt. 131 e 132 Cost. Non che le
interpretazioni di altri pur autorevoli Autori (Mortati, Falzone,
Palermo, Cosentino) siano prive di fondamento, anzi, ma, avendo
assunto come stella polare la metodologia interpretativa di cui sopra,
non è possibile condividere le loro seppur valide interpretazioni.
Ad ulteriore dimostrazione di questa tesi interpretativa, è possibile
addurre anche un argomento sistematico: l’estensione del limite alle
Regioni restanti ne comporterebbe l’automatica applicazione anche al
caso di distacco-aggregazione, il quale, nella fase del distacco, non
differisce dalla creazione; appare invece evidente dalla lettera del
dettato costituzionale che il limite in questione, di cui all’art. 132, co.
1 Cost., si riferisce solamente al caso di creazione di una nuova
Regione.
Un ultimo accertamento riguarda infine l’osservanza di tutte le
prescrizioni legislative attinenti al contenuto delle deliberazioni
consiliari, alla forma della richiesta di referendum e alle modalità e ai
termini del deposito della richiesta e delle deliberazioni.
L’accertamento dell’Ufficio centrale per il referendum si può
concludere in due modi:
- con un’ordinanza di legittimità, che dev’essere comunicata al
Presidente della Repubblica, al Ministro per l’Interno e al delegato che
ha provveduto al deposito (art. 43, co. 2, della l. 352/1970);
- con un’ordinanza d’illegittimità, che dev’essere affissa all’albo della
Corte di Cassazione e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale (art. 43, co.
3, della l. 352/1970).
98
Si veda Capitolo III, p. 116.
125
In entrambi i casi non sono assunti termini massimi per la decisione né
mezzi di tutela avverso la dichiarazione d’illegittimità della richiesta.
In virtù tuttavia del rinvio operato dall’art. 47 della l. 352/1970
dovrebbe trovare applicazione l’art. 12, co. 3 della citata legge che
disciplina l’accertamento di legittimità del referendum costituzionale,
che dispone quanto segue: “l’Ufficio centrale decide, con ordinanza,
sulla legittimità della richiesta entro 30 giorni dalla sua
presentazione. Esso contesta, entro lo stesso termine, ai presentatori
le eventuali irregolarità. Se, in base alle deduzioni dei presentatori da
depositarsi entro 5 giorni, l’Ufficio ritiene legittima la richiesta,
l’ammette. Entro lo stesso termine di 5 giorni, i presentatori possono
dichiarare all’Ufficio che intendono sanare le irregolarità contestate,
ma debbono provvedervi entro il termine massimo di 20 giorni dalla
data dell’ordinanza. Entro le successive 48 ore l’Ufficio centrale si
pronuncia definitivamente sulla legittimità della richiesta”.
Si potrebbe poi profilare l’ipotesi in cui l’Ufficio centrale presso
la Corte di Cassazione ritenga illegittima l’istanza referendaria, ma i
presentatori
non
siano
d’accordo
ed
impugnino
l’ordinanza
d’illegittimità. Della questione si è occupata di recente la dottrina99,
con riferimento all’ipotesi di cui al capoverso dell’art. 132 Cost.
L’impugnazione
delle ordinanze d’illegittimità
delle
richieste
referendarie di variazione territoriale solleva un conflitto di
attribuzione tra poteri dello Stato di fronte alla Corte Costituzionale.
I poteri dello Stato interessati alla risoluzione del conflitto di
attribuzione, sono:
99
Cfr. F. RATTO TRABUCCO, L’impugnabilità in sede di conflitto di
attribuzione delle ordinanze d’illegittimità delle richieste referendarie di
variazione territoriale, ex art. 132, co. 2 Cost., per violazione del diritto di
autodeterminazione della comunità locale, www.forumcostituzionale.it, 2008.
126
- l’Ufficio centrale per il referendum, un organo che non può certo
definirsi “costituzionale”, ma che ha un carattere “giurisdizionale”
soprattutto in forza della “definitività” che contraddistingue le sue
decisioni;
- il comitato promotore del referendum, il quale ha lo scopo di
pervenire alla deliberazione consiliare di richiesta referendaria, ed i
delegati comunali, soggetti ricorrenti direttamente interessati a seguire
la procedura di variazione territoriale. L’attribuzione del potere di
ricorso ai soggetti in questione presuppone un’interpretazione
estensiva del concetto di “potere dello Stato”: i delegati ed il comitato
promotore sarebbero infatti portatori di un’attribuzione costituzionale
di cui è titolare il corpo elettorale.
Sul fatto che i delegati comunali possano essere considerati
“potere dello Stato” però non vi unanimità di consensi: parte della
dottrina (Benelli100 e, come appena detto, Ratto Trabucco101) sostiene
un’interpretazione estensiva del concetto di potere dello Stato; altra
parte (Pinardi102, Dolso103) e la giurisprudenza costituzionale
propendono invece per un’interpretazione restrittiva. È da ritenersi che
quest’ultima interpretazione sia la più adeguata e che i delegati
comunali non siano legittimati a sollevare il conflitto di attribuzione
100
Sul punto si veda: F. BENELLI, Un conflitto da atto legislativo (davvero
peculiare), una decisione di inammissibilità (ricca di implicazioni) (a margine
dell’Ordinanza della Corte Costituzionale n. 343 del 25 novembre 2003) in Le
Regioni n. 2-3/2004, Bologna, pp. 714 ss.
101
Si veda: Capitolo III, nota 99.
102
Sul punto si veda: R. PINARDI, Ancora un conflitto su atto legittimo (ovvero:
la legge sul referendum alla luce della modifica dell’art. 132 comma 2 Cost. (a
margine dell’Ordinanza della Corte Costituzionale n. 343 del 25 novembre 2003)
in Giurisprudenza costituzionale n. 6/2003, Milano, pp. 3584 ss.
103
Sul punto si veda: G. P. DOLSO, commento all’art. 134 Cost. in Commentario
breve alla Costituzione italiana, a cura di S. BARTOLE e R. BIN, Padova, 2008,
p. 1170.
127
tra i poteri dello Stato ex art. 134 Cost.104 in rappresentanza del corpo
elettorale in quanto manca il profilo oggettivo del conflitto, cioè
un’attribuzione direttamente stabilita dalla Costituzione, che invece vi
è nel caso del comitato promotore del referendum abrogativo, in
quanto questi agisce in nome e per conto del corpo elettorale.
Il comitato promotore del referendum territoriale, al pari dei promotori
del referendum ex art. 75 Cost., invece, rappresenta una frazione del
corpo elettorale, ossia le popolazioni direttamente interessate alla
variazione territoriale, e quindi potrebbe essere parte di un conflitto
interorganico tra i poteri dello Stato105.
L’oggetto del conflitto di attribuzione starebbe nella menomazione del
diritto costituzionalmente garantito all’autodeterminazione territoriale
delle popolazioni interessate alla variazione territoriale. L’Ufficio
centrale,
respingendo
illegittimamente
l’istanza
referendaria
comunale, porrebbe in essere una violazione di una norma avente
104
I delegati effettivi del Comune non possono essere considerati potere dello
Stato, a differenza di quanto avviene per i promotori del referendum abrogativo ex
art. 75 Cost. (sul punto si veda: L. CARLASSARE, Conversazioni sulla
Costituzione, Padova, 1996, p. 170) perché un’interpretazione analogica ed
estensiva di tale concetto sarebbe forzata: mentre la richiesta presentata dal
comitato promotore provoca una pronuncia dell’intero corpo referendario e la
successiva abrogazione di un atto legislativo statale, nel caso previsto dall’art.
132, co . 2 Cost. l’iniziativa è volta alla raccolta di un semplice parere, ma anche
se fosse prodromica ad una decisione considerata di natura deliberativa (come
sostenuto in questo studio) comunque non sarebbe vincolante per il Parlamento.
Non sussiste nessuna contrapposizione tra il corpo elettorale ed il legislatore che
giustifichi un conflitto, proprio perché le Camere possono decidere liberamente se
emanare o no la legge di variazione territoriale. Sul punto si veda: R. PINARDI,
Ancora un conflitto su atto legittimo (ovvero: la legge sul referendum alla luce
della modifica dell’art. 132 comma 2 Cost. (a commento dell’Ordinanza della
Corte Costituzionale n. 343 del 25 novembre 2003) in Giurisprudenza
costituzionale n. 6/2003, Milano, p. 3587.
105
La natura giuridica del referendum non va confusa con il ruolo che possono
avere gli esponenti del comitato promotore: questi infatti sono sempre
rappresentativi del corpo elettorale o di una frazione di esso. I delegati comunali
invece non rappresentano nessuno: sono nominati dai Consigli comunali al solo
scopo di depositare la richiesta di referendum.
128
copertura costituzionale, qual è l’art. 43, co. 1 della l. 352/1970, che
disciplina il controllo di legittimità esercitato dal suddetto Ufficio
sulla richiesta al fine di assicurare attuazione al disposto di cui all’art.
132, co. 2 Cost., che afferma il diritto del corpo elettorale comunale ad
attivare la procedura per mutare l’appartenenza regionale.
Riassumendo, i promotori della richiesta referendaria sarebbero
legittimati ad impugnare in sede di conflitto di attribuzione le
ordinanze dell’Ufficio centrale che dichiarano illegittime le richieste
di referendum territoriale, e ciò perché simili ordinanze menomano il
diritto
costituzionalmente
garantito
dell’autodeterminazione
territoriale delle popolazioni interessate.
Fin qui le deduzioni di Ratto Trabucco paiono quasi tutte
condivisibili; ciò che invece non può essere oggetto di condivisione
sono le deduzioni fatte partendo dal caso concreto dell’ordinanza di
rigetto della richiesta referendaria (datata 18 ottobre 2005) del
Comune di Cinto Caomaggiore. L’ordinanza di rigetto dell’istanza
referendaria si fondava sul ritardo nel deposito della deliberazione
comunale, avvenuto oltre il termine perentorio dei tre mesi dalla data
di adozione (si veda art. 42, co. 5 della l. 352/1970). Si sostiene che
l’ordinanza conterrebbe “un lampante svarione”106 in quanto riferiva la
sua motivazione all’inciso di cui all’art. 42, co. 5 della l. 352/1970:
tale termine non riguarderebbe il deposito della deliberazione del
Comune interessato107, ma solamente il deposito delle deliberazioni a
106
Cfr. F. RATTO TRABUCCO, L’impugnabilità in sede di conflitto di
attribuzione delle ordinanze d’illegittimità delle richieste referendarie di
variazione territoriale, ex art. 132, co. 2 Cost., per violazione del diritto di
autodeterminazione
della
comunità
locale,
2008,
p.
6,
www.forumcostituzionale.it.
107
Sul concetto di popolazioni direttamente interessate si veda Capitolo III,
paragrafo 3.3.
129
corredo della richiesta, cioè quelle dei Comuni delle Regione da cui
avviene il distacco e quelle dei Comuni verso cui avviene
l’aggregazione. Le deliberazioni a corredo sono state espressamente
soppresse dalla sentenza 334/2004 della Corte Costituzionale108, la
quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 42, co. 2 della
l. 352/1970 nella parte in cui prevedeva queste deliberazioni a
corredo, sancendo che l’unico soggetto abilitato ad attivare il
procedimento ex art. 132, co. 2 Cost. sia la popolazione del Comune
direttamente interessato alla variazione territoriale. Di conseguenza
anche il co. 5 dell’art. 42 della l. 352/1970 sarebbe da considerarsi
illegittimo dopo la pronuncia della Consulta. Il suddetto termine
trimestrale non si estenderebbe analogicamente alla richiesta di
referendum delle popolazioni direttamente interessate, il cui termine
per il deposito sarebbe invece quello quinquennale stabilito dall’art.
45, co. 5 della l. 352/1970: in quest’articolo è infatti previsto che
qualora la proposta di distacco-aggregazione sottoposta a referendum
non sia approvata “non può essere rinnovata prima che siano
trascorsi cinque anni”
109
. Da ciò si desumerebbe che solo qualora la
deliberazione fosse depositata oltre cinque anni dalla data della sua
adozione potrebbe configurarsi l’inammissibilità della stessa per
carenza nell’attualità dell’intenzione della comunità locale interessata
alla variazione territoriale.
Queste considerazioni non paiono condivisibili in quanto
distorcono indebitamente la legge di attuazione del referendum: dalla
lettera dell’art. 42, co. 2 della l. 352/1970 emerge chiaramente che le
108
Sul punto si veda: Sentenza 10 novembre 2004 n. 334 in Giurisprudenza
costituzionale, n. 6/2004, Milano.
109
Si veda art. 45, co. 5 della l. 352/1970.
130
deliberazioni a corredo della richiesta siano sia quelle dei Comuni
indirettamente interessati alla variazione territoriale, sia quelle dei
Comuni direttamente interessati; dice infatti la norma in questione
che: “la richiesta (…) deve essere corredata delle deliberazioni,
identiche nell’oggetto, rispettivamente dei consigli provinciali e dei
consigli comunali delle province e dei comuni di cui si propone il
distacco”. Di conseguenza, il termine perentorio di tre mesi stabilito
nella lettera della legge (“è consentito il deposito delle deliberazioni,
prescritte a corredo della richiesta, sia effettuato dai delegati nel
periodo di tre mesi a partire dalla data del deposito della richiesta
stessa”
dei
110
) varrebbe per tutte le deliberazioni; il fatto poi che quelle
Comuni
indirettamente
interessati
siano
state
dichiarate
costituzionalmente illegittime, fa ritenere che attualmente tale termine
trimestrale si riferisca solamente alle deliberazioni (a corredo) dei
Comuni direttamente interessati.
In merito poi al termine quinquennale ai sensi dell’art. 45, co. 5
della l. 352/1970 indicato dall’Autore in questione come il termine
ultimo entro cui può essere approvata la richiesta di referendum dei
Comuni direttamente interessati, bisogna dire che esso ricalca a grandi
linee la norma prevista dall’art. 38 della l. 352/1970 per il referendum
abrogativo, dove la ratio della disposizione è quella d’impedire il
reiterarsi di un potenziale conflitto fra i rappresentanti ed il corpo
elettorale,
che
potrebbe
dar
luogo
ad
una
“drammaticità
istituzionale”111, caratteristica estranea alla nozione di referendum
110
Si veda art. 42, co. 5 della l. 352/1970.
Così definisce Pedrazza Gorlero questa caratteristica del referendum
abrogativo; si veda: M. PEDRAZZA GORLERO, Le Regioni , le Province, i
Comuni in Commentario della Costituzione, tomo III, Bologna-Roma, 1990, p.
166.
111
131
territoriale. È da ritenersi pertanto che non sia né opportuna, né
appropriata per l’istituto in esame, come si vedrà nel corso della
trattazione112, e non vi sia pertanto ragione di considerarlo il termine
ultimo per l’approvazione della richiesta di referendum territoriale.
La Corte Costituzionale, come si è detto, è il giudice deputato a
sindacare sulle ordinanze dell’Ufficio centrale per il referendum ; sul
punto però vi è una questione che divide dottrina e giurisprudenza:
quale tipo di sindacato può esercitare la Consulta? Deve riguardare
solamente la legittimità dell’ordinanza dell’Ufficio centrale per il
referendum o può estendersi anche al merito del provvedimento?
La giurisprudenza costituzionale è sempre stata costante113 nel
ritenere che il proprio sindacato possa riguardare esclusivamente la
mancanza dei presupposti per l’esercizio dei poteri attribuiti
all’Ufficio centrale per il referendum (error in procedendo), ma non
gli eventuali errori di giudizio in cui detto organo sia incorso (error in
iudicando): un sindacato quindi di mera legittimità, non estendibile
anche al merito delle ordinanze dell’Ufficio centrale.
La dottrina (Ratto Trabucco114) non è d’accordo con
quest’orientamento restrittivo della Consulta per due motivi:
- da una parte perché lascia prive di tutela quelle sfere di attribuzioni
costituzionali che risultano lese dal giudizio di merito dell’Ufficio
centrale, ponendosi in netto contrasto con la restante giurisprudenza in
112
Si veda Capitolo III, pp. 137 ss.
Sul punto si vedano ad esempio le Sentenze della Corte Costituzionale n. 289
del 1974, n. 81 del 1975, nn. 30 e 31 del 1980.
114
Cfr. F. RATTO TRABUCCO, L’impugnabilità in sede di conflitto di
attribuzione delle ordinanze d’illegittimità delle richieste referendarie di
variazione territoriale, ex art. 132, co. 2 Cost., per violazione del diritto di
autodeterminazione della comunità locale, 2008, www.forumcostituzionale.it, pp.
8 ss.
113
132
tema di conflitti che ha ormai da tempo legittimato la sindacabilità sui
conflitti di attribuzione ogniqualvolta risultino menomate le
attribuzioni che un determinato soggetto si veda riconosciute dalla
Costituzione;
- dall’altra perché il corpo elettorale del Comune interessato ad
attivare il procedimento di variazione territoriale al fine di mutare la
propria appartenenza regionale si vede privato ab origine del diritto
costituzionalmente garantito di avviare il suddetto iter referendario:
sussiste infatti un concreto interesse del corpo elettorale comunale,
rappresentato dai delegati comunali115 e dal comitato promotore del
referendum, ad impugnare l’ordinanza che dichiara l’inammissibilità
della richiesta.
Sarebbe opportuno che la Consulta superasse la sua rigida posizione di
chiusura e decidesse di sindacare il modo di esercizio del potere
attribuito all’Ufficio centrale, dato che l’oggetto del gravame consiste
nell’erronea valutazione compiuta dall’Ufficio in ordine all’esistenza
di una causa che inficia la deliberazione consiliare comunale di
svolgimento della consultazione referendaria ex art. 132, co. 2 Cost.
La Corte, una volta ritenuto ammissibile il conflitto, dovrebbe
sindacare nel merito le valutazioni compiute dai magistrati della
Cassazione, esaminandone la correttezza. Allo stato attuale invece la
Consulta si limita a dichiarare l’inammissibilità della richiesta,
qualora le sia richiesto di giudicare nel merito l’ordinanza
d’illegittimità, e ciò non è corretto in quanto indirettamente lesivo del
principio
di
autoidentificazione
territoriale
delle
popolazioni
interessate alla variazione.
115
Su questo punto però non si concorda; si veda Capitolo III, pp. 127 ss.
133
Le considerazioni della dottrina sul sindacato nel merito delle
ordinanze dell’Ufficio centrale per il referendum sono pienamente
condivisibili.
Un appunto di carattere ormai storico: parte della più autorevole
dottrina in materia116 riteneva che le deliberazioni fossero soggette al
controllo di legittimità non solo da parte dell’Ufficio centrale per il
referendum, ma anche da parte del Comitato regionale di controllo
(CoReCo), un organo, previsto nell’art. 130 Cost., con la funzione di
controllare la legittimità degli atti degli enti locali (art. 130, co. 1 Cost.
[abrogato]: “Un organo della Regione, costituito nei modi stabiliti da
legge della Repubblica, esercita, anche in forma decentrata, il
controllo di legittimità sugli atti delle Province, dei Comuni e degli
altri enti locali” ). L’art. 130 è stato abrogato con la riforma del Titolo
V della Costituzione (legge costituzionale n. 3/2001) e con esso è stato
eliminato anche il controllo di legittimità del CoReCo sulla richiesta
di referendum “territoriale” di Province e Comuni.
Conclusi gli accertamenti si apre la fase dell’indizione, che
viene effettuata “con decreto del Presidente della Repubblica, su
deliberazione del Consiglio dei Ministri, entro tre mesi dalla
comunicazione dell’ordinanza che dichiara la legittimità della
richiesta, per una data di non oltre tre mesi da quella del decreto”
(art. 44, co. 1 della l. 352/1970). Tale data può essere rinviata di non
oltre un anno, allo scopo di far coincidere il referendum territoriale ex
art. 132 Cost. con un eventuale referendum costituzionale di cui
all’art. 138 Cost. (art. 44, co. 2 della l. 352/1970). La ratio di questa
disposizione è stata rinvenuta, come detto da parte della dottrina (De
116
Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol.
II, Padova, 1991, p. 65.
134
Marco), nell’esigenza di “evitare l’insorgere di fenomeni di
assenteismo negli elettori, che potrebbero derivare da reiterate
chiamate alle urne”117. Non si capisce il motivo di tale scelta: essa
avrebbe potuto essere soddisfatta estendendo la coincidenza del
referendum territoriale alle elezioni o al referendum abrogativo, dal
momento che non c’è incompatibilità tra i referendum territoriali e gli
altri due tipi di pronunce del corpo elettorale. In merito alla
sospensione per un anno, a seguito dello scioglimento anticipato delle
Camere, del referendum abrogativo ex art. 34 della l. 352/1970, tale
disposizione non vige anche per il referendum territoriale, che quindi
avrebbe potuto essere celebrato unitamente alle elezioni politiche in
una sorta di election day. Inoltre nessuna disposizione costituzionale
od ordinaria parla di incompatibilità tra il referendum in questione e
quello abrogativo ex art. 75 Cost.
Si deve quindi doverosamente concludere che la disposizione
dell’art. 44, co. 2 della l. 352/1970 sia costituzionalmente illegittima
in quanto pone un ostacolo irragionevole all’iniziativa referendaria ed
aggrava arbitrariamente il procedimento di variazione territoriale, ma
finché non interverrà una decisione della Consulta in merito si dovrà
considerarla valida ed efficace.
Pur sostenendo il criterio interpretativo letterale, in questo caso
specifico non è possibile adottarlo in quanto dichiarare legittimo il
secondo comma dell’art. 44 significherebbe restringere indebitamente
la potestà di espressione del corpo elettorale rappresentativo delle
autonomie locali, in contrasto con quanto prescritto dall’art. 5 Cost.
117
Cfr. E. DE MARCO, Contributo allo studio del referendum, Padova, 1974, p.
250.
135
Su questi aspetti del procedimento di variazione territoriale è
recentemente intervenuta la giurisprudenza con la sentenza n. 66/2007
della Corte Costituzionale118. Questa pronuncia riguarda il rapporto tra
gli atti prodromici al referendum nel caso di distacco-aggregazione e
gli Statuti delle Regioni ad autonomia speciale.
Nel caso specifico, la Regione Valle d’Aosta aveva sollevato conflitto
di attribuzione nei confronti dello Stato in relazione a tre atti
prodromici alla celebrazione del referendum richiesto dal Comune di
Noasca per il distacco dal Piemonte e l’aggregazione alla Valle
d’Aosta. Tali atti erano: l’ordinanza con cui l’Ufficio centrale per il
referendum dichiara legittima la richiesta, la deliberazione del
Consiglio dei Ministri con cui si approva l’indizione del referendum e
l’indizione del referendum da parte del Presidente della Repubblica.
La ricorrente sosteneva che tali atti erano lesivi del riparto di
competenze costituzionali e statutarie: secondo la difesa regionale il
territorio dell’ente speciale sarebbe stato costituzionalizzato dall’art.
1, co. 2 dello Statuto e di conseguenza ogni modifica di esso sarebbe
dovuta passare attraverso il procedimento di revisione statutaria
regolato dall’art. 50 dello Statuto speciale. A quest’affermazione la
Consulta ha risposto che l’art. 132 Cost. “si riferisce pacificamente a
tutte le Regioni” e pertanto non è previsto un procedimento
differenziato per le Regioni speciali.
La Consulta ha concluso quindi che i tre atti prodromoci erano di
competenza esclusiva dello Stato, anche nel caso che il procedimento
di variazione coinvolgesse una Regione a Statuto speciale.
118
Sul punto si veda: Sentenza della Corte Costituzionale 9 marzo 2007 n. 66 in
Giurisprudenza costituzionale, Milano, 2007.
136
Il dictum della Corte si occupa soprattutto di una questione sostanziale
(competente per quanto riguarda la legittimazione e l’indizione del
referendum è solo lo Stato e non anche la Regione ad autonomia
speciale) e non dà invece il giusto peso ad una questione formale
importante: la legge ordinaria di modificazione di cui al capoverso
dell’art. 132 Cost. vale anche nel caso di modificazioni del territorio
di Regioni speciali o, al contrario, in tali casi, occorre una legge
costituzionale? La questione non è di poco conto, ma di essa ci si
occuperà nel proseguio di questo studio, quando si andrà ad analizzare
le leggi di variazione territoriale119.
3-
Il referendum
3.1- Il referendum nella Costituzione italiana e negli ordinamenti
regionali
Terminata l’analisi dell’iniziativa di legge, si passerà ora a
considerare quella che è stata definita come la seconda fase del
procedimento di variazione territoriale, cioè la manifestazione della
volontà delle popolazioni interessate espressa mediante referendum.
Prima però di analizzare nel dettaglio il referendum di variazione
territoriale di cui all’art. 132 Cost., si farà una breve digressione
sull’istituto referendario in generale, così come previsto nella Carta
costituzionale italiana.
L’istituto del referendum è stato introdotto in Italia dalla nuova
Costituzione repubblicana del 1948, rappresentando uno degli aspetti
più alti della democrazia, in quanto dava modo al corpo elettorale di
119
Si veda Capitolo III, paragrafo 12.
137
partecipare direttamente ad alcune importanti deliberazioni relative
all’attività
di
governo
e
legislativa.
Ammessa
l’opportunità
dell’istituto referendario, il problema era di stabilire concretamente i
casi di referendum ; era questa la questione più delicata, da una parte
perché il referendum era volto ad integrare gli strumenti di democrazia
diretta e quindi non poteva che avere una portata limitata, dall’altra
perché una sua larga estensione poteva influire e dirigere l’istituto a
fini di demagogia anziché di democrazia. I tre casi di referendum
ammessi nell’ordinamento giuridico italiano furono fissati già nella
Carta costituzionale; la loro attuazione concreta è stata oggetto di una
specifica legge, la legge 25 maggio 1970 n. 352.
Queste le tre forme di referendum previste dalla Costituzione ed
interessanti le leggi dello Stato:
- il referendum abrogativo, disciplinato dall’art. 75 Cost., per mezzo
del quale gli elettori possono “deliberare l’abrogazione, totale o
parziale, di una legge o di un atto avente forza di legge”;
- il referendum approvativo delle leggi di revisione della Costituzione
e delle altre leggi costituzionali, disciplinato dall’art. 138 Cost.;
- il referendum per la variazione territoriale delle circoscrizioni
regionali, che parte della più autorevole dottrina in materia definisce
“consultivo” (Martines120, con riferimento all’esito positivo della
consultazione referendaria), e che altra parte definisce invece
“deliberativo” (Scudiero121, Pedrazza Gorlero122, Martines con
riferimento all’esito negativo della consultazione referendaria123).
120
Cfr. T. MARTINES, Il referendum negli ordinamenti particolari, Milano,
1960, p. 36.
121
Cfr. M. SCUDIERO, Il referendum nell’ordinamento regionale, Napoli, 1971,
p. 43.
138
Non è stato invece previsto il referendum costituivo, per mezzo
del quale il corpo elettorale è chiamato ad approvare progetti di legge
in luogo del Parlamento, cosa che avrebbe dato luogo ad un nuovo
tipo di fonte-atto. Un’ipotesi del genere è stata però scartata dalla
Commissione dei 75 perché ritenuta incompatibile con la forma
parlamentare di governo.
I referendum approvativo e consultivo sono sub-procedimenti
che s’inseriscono nei procedimenti formativi di leggi statali ordinarie
ovvero costituzionali, concretizzando autonome fasi del procedimento
stesso.
Per quanto riguarda il referendum abrogativo, invece, prevale in
dottrina124 l’idea che quest’istituto si risolva indirettamente, qualora
gli elettori si esprimano a favore dell’abrogazione, in una fonte-atto: il
referendum dà luogo cioè ad un atto avente forza di legge ordinaria
dello Stato. La motivazione si ricava dalle seguenti deduzioni:
- il fatto stesso che dall’esito del referendum dipenda la permanenza in
vigore della legge statale o di un atto normativo equiparato, induce a
collocare i voti popolari abrogativi sul medesimo piano nel quale si
collocano le norme che ne vengono abrogate;
- l’abrogazione referendaria determina conseguenze modificative
dell’ordinamento, sia che il Parlamento si affretti a reagire
ridisciplinando la materia, sia che il vuoto normativo prodotto non
venga affatto colmato.
122
Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol.
II, Padova, 1991, pp. 79 ss.
123
Cfr. T. MARTINES, Il referendum negli ordinamenti particolari, Milano,
1960, p. 35.
124
Cfr. L. PALADIN, Diritto costituzionale, Padova, 1998, pp. 205 ss.
139
Ad ulteriore dimostrazione di questa tesi vi è pure il fatto che la
delibera del corpo elettorale è destinata ad assumere la forma del
decreto del Presidente della Repubblica (ai sensi dell’art. 37 della l.
352/1970), al quale spetta dichiarare l’avvenuta abrogazione. In
questo modo lo Stato-soggetto fa proprio il contenuto dell’atto
scaturente dalla consultazione popolare, che diventa quindi fonte
normativa.
L’istituto referendario non interessa solamente le leggi dello
Stato, ma è previsto pure nell’ambito della legislazione regionale125.
Per le Regioni a Statuto ordinario il referendum è prescritto dall’art.
123 e dall’art. 133, co. 2 Cost.
Nel primo caso, si tratta di un caso di referendum abrogativo;
prevede infatti l’art. 123, co. 1 Cost. che: “lo statuto regola l’esercizio
(…) del referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della
Regione”. Questo tipo di referendum è previsto e disciplinato da tutti
gli Statuti, anche se tale disciplina presenta una grande varietà di
contenuti
specifici
che
è
pressoché
impossibile
analizzare
analiticamente in questa sede.
Il secondo caso prevede un referendum avente carattere
consultivo-integrativo126,
da
celebrarsi
presso
le
popolazioni
interessate, quando la Regione intenda istituire, nell’ambito del
proprio territorio, nuovi Comuni o modificare le circoscrizioni o
denominazioni. Tali provvedimenti devono essere adottati con legge
regionale ed il referendum è un’audizione obbligatoria. I singoli
125
Cfr. E. SPAGNA MUSSO e AAVV., Il referendum regionale, Padova, 1993,
pp. 1 ss.
126
Così Spagna Musso definisce l’ipotesi di referendum prevista dall’art. 133, co.
2 Cost., in: E. SPAGNA MUSSO e AAVV., Il referendum regionale, Padova,
1993, p. 3.
140
Statuti anche in questo caso hanno variamente disciplinato sia il modo
d’intendere le popolazioni interessate, sia la fase del procedimento
legislativo nella quale è inserito, che in questa sede non ci si
soffermerà ad analizzare.
Nelle Regioni a Statuto speciale invece la materia referendaria
rientra nella competenza esclusiva della Regione, che pertanto
incontra solamente i limiti previsti dalle leggi costituzionali e dai
principi dell’ordinamento giuridico.
Tutti gli Statuti delle Regioni ad autonomia differenziata sono stati
modificati dalla legge costituzionale 31 gennaio 2001 n. 2, la quale ha
prescritto che la legge regionale debba determinare la disciplina del
referendum regionale abrogativo, propositivo e consultivo127. Il
referendum approvativo delle leggi regionali ha anch’esso trovato
collocazione all’interno degli Statuti delle Regioni ad autonomia
speciale128.
Come si può notare, a differenza delle Regioni a Statuto ordinario,
sono previste tutte e tre le tipologie di referendum descritte nella Carta
costituzionale, ed in più viene previsto anche l’istituto del referendum
propositivo.
Lo Statuto della Regione Sardegna prevede, inoltre, un altro
tipo di referendum a carattere consultivo, che non trova riscontro negli
altri Statuti delle Regioni ad autonomia speciale e che differisce pure
dalle tre forme di referendum previste nella Costituzione. Dispone
infatti l’art. 54 dello Statuto di questa Regione che il Presidente della
127
Si vedano gli Statuti di: Valle d’Aosta (art. 15, co. 2), Trentino-Alto Adige (art.
42, co. 2), Friuli-Venezia Giulia (art. 12, co. 2), Sicilia (art. 13 bis) e Sardegna
(art. 15, co. 2).
128
Si vedano gli Statuti di: Valle d’Aosta (art. 15, co. 4), Trentino-Alto Adige
(art. 42, co. 6), Friuli-Venezia Giulia (art. 12, co. 4), Sicilia (art. 17 bis) e
Sardegna (art. 15, co. 4).
141
giunta, ove un progetto di modifica dello Statuto sia stato approvato in
prima deliberazione da una delle due Camere ed il parere del
Consiglio regionale sia contrario, può indire un referendum consultivo
prima del compimento del termine previsto dalla Costituzione per la
seconda deliberazione. Il risultato del referendum non vincola le
Camere, ciononostante esse difficilmente non considereranno
l’orientamento espresso dagli elettori.
Consultazioni referendarie possono essere celebrate anche dagli
altri enti locali (Province e Comuni come nel caso dell’art. 132 Cost.).
3.2- La qualificazione giuridica del referendum previsto dall’art. 132
Cost.
3.2.1- Referendum “consultivo” in caso di esito positivo,
“deliberativo” in caso di esito negativo
Nel
paragrafo
precedente
si
è
cercato
di
descrivere
sommariamente le varie tipologie di referendum previste nella
Costituzione italiana; si cercherà ora di vedere in quale categoria sia
inquadrabile il referendum previsto dall’art. 132 Cost. Ciò non sarà
fatto per semplice esercizio dottrinale, bensì perché a tale
qualificazione sono collegate le risposte che si potranno dare
all’interrogativo sull’efficacia giuridica della pronuncia referendaria
nei confronti delle fasi successive del procedimento e, segnatamente,
della deliberazione legislativa.
Il referendum da svolgersi presso le popolazioni interessate alla
variazione territoriale non è unanimemente configurato dalla dottrina
allo stesso modo: questo rende sicuramente difficile darne una
142
qualificazione giuridica univoca. Allo stesso tempo però ciò rende
affascinante questo aspetto dell’istituto in questione, in quanto
l’analisi delle varie teorie e la loro eventuale confutazione condurrà a
quella che, si ritiene, sarà la qualificazione più adeguata. Saranno
descritte di seguito le tesi proposte dai vari Autori in materia.
Secondo autorevole dottrina (Crisafulli129) le ipotesi di
referendum previste al primo e al secondo comma dell’art. 132 Cost.
non sono tra loro perfettamente identiche, offrendo anzi qualche
motivo di dubbio circa la loro appartenenza ad un solo e medesimo
tipo di referendum. I maggiori dubbi sull’esatta classificazione
dogmatica di questa forma di consultazione referendaria sorgono in
relazione alla prima ipotesi, contenuta nel co. 1 dell’art. 132: pare
infatti che in quest’ipotesi il corpo elettorale delle popolazioni
interessate sia chiamato a manifestare attraverso il referendum, più
che un parere, una dichiarazione di approvazione della proposta, di
fusione e creazione di Regioni, già espressa dai Consigli comunali,
quindi un qualcosa di diverso dalla semplice manifestazione di un
parere contraddistingue la tipologia del referendum consultivo.
Malgrado queste interessanti deduzioni in forma dubitativa, l’Autore
si adegua a ritenere, questo, un referendum consultivo, precisando
però che il corpo elettorale è chiamato ad emettere un parere
obbligatorio e, nel caso di esito contrario alla proposta iniziale dei
Consigli comunali, anche vincolante. Nel caso inverso, di esito
favorevole, il Parlamento resta libero di rifiutare l’emanazione della
legge costituzionale: il referendum non è quindi vincolante per il
129
Cfr. V. CRISAFULLI, Norme regionali e norme statali in materia di
referendum in Rivista amministrativa della Repubblica italiana, Roma, 1955,
nota 1, p. 459.
143
supremo organo legislativo dello Stato, aspetto questo tipico del
referendum consultivo.
Altra dottrina (Martines130) propone una visione ancor più ben
argomentata sulla qualificazione giuridica del referendum in
questione.
Per prima cosa si guarda ai referendum sotto il profilo della loro
efficacia e si ritiene che essi possano distinguersi in:
- referendum deliberativi, in cui la manifestazione di volontà del corpo
elettorale è direttamente ed immediatamente produttiva di effetti
giuridici;
- referendum consultivi, in cui gli effetti sono prodotti dall’atto finale
del procedimento dove la consultazione referendaria s’inserisce come
sub-procedimento.
Questa distinzione è suscettibile di alcuni sviluppi: il referendum
deliberativo contrappone istituzionalmente il corpo elettorale al
complesso
di
autorità
centralizzate
alle
quali
è
attribuita
dall’ordinamento la potestà di governo, mentre il referendum
consultivo
inserisce
il
corpo
elettorale
nell’organizzazione
centralizzata, attribuendogli l’esercizio di un’attività consultiva.
Ancora: il primo svolge una funzione di decisione politica, il secondo
una funzione consultiva sia nei confronti dello Stato, sia nei confronti
della Regione. Dal punto di vista del corpo elettorale, può rilevarsi
come alla funzione di decisione politica che il popolo esplica
attraverso il referendum sia chiamato a partecipare l’intero corpo
elettorale dell’ente: tutto ciò spiega perché, nel nostro ordinamento, il
referendum deliberativo sia in linea di massima espressione di
130
Cfr. T. MARTINES, Il referendum negli ordinamenti particolari, Milano,
1960, pp. 26 ss.
144
autonomia normativa; alla funzione consultiva, invece, partecipano
soltanto gli elettori residenti in porzioni di territorio circoscritte e che
siano più direttamente interessati all’emanazione dell’atto finale.
In tema di referendum deliberativo, occorre esaminare il co. 1
dell’art. 132 Cost., la cui formulazione letterale non può dare adito ad
alcun dubbio: alla manifestazione di volontà del corpo elettorale che
sia contraria alla creazione di una nuova Regione ed alla fusione di
Regioni esistenti si è voluto collegare in via diretta ed immediata un
effetto preclusivo dell’ulteriore svolgersi del procedimento. Ecco
quindi che la volontà popolare appare decisiva allorché non approvi la
richiesta avanzata dai Consigli comunali; il Parlamento non potrà
sovrapporsi a tale volontà prendendo in esame il disegno di legge
costituzionale per la creazione di una nuova Regione o per la fusione
di Regioni esistenti: un simile comportamento, se posto in essere,
sarebbe incostituzionale.
L’Autore in esame si oppone fermamente alla tesi del Crisafulli, che
vedeva nell’art. 132, co. 1 Cost. una manifestazione di un parere
obbligatorio del corpo elettorale, facendo rientrare quest’ipotesi
legislativa nel novero dei referendum consultivi, anziché di quelli
deliberativi. Se si accettasse la tesi del referendum consultivo si
svuoterebbe di ogni contenuto la norma costituzionale, la quale
assegna alla maggioranza delle popolazioni interessate un ruolo
determinante per quanto si riferisce al rigetto della proposta. Se il
referendum con esito contrario alla proposta dovesse avere valore di
semplice parere, esso non potrebbe essere vincolante per le due
Camere in sede di revisione costituzionale.
Nel caso invece in cui il referendum abbia dato un esito
favorevole alla proposta, esso non sarebbe vincolante per il
145
Parlamento, rimanendo questo in sede di revisione costituzionale
libero di approvare oppure no, nell’esercizio della sua ampia
discrezionalità legislativa, la proposta di legge relativa alla creazione
di una nuova Regione o alla fusione di Regioni esistenti. Si tratta in
questa ipotesi di un referendum consultivo, assegnandosi alle
popolazioni interessate il valore di una semplice manifestazione di
giudizio, obbligatoria ma non vincolante e che, come tale, non
produce alcun effetto giuridico, essendo la modifica del numero delle
Regioni direttamente ed immediatamente fatta discendere dalla legge
costituzionale.
In merito al referendum consultivo inoltre, il legislatore statale o
regionale, anche se è ormai riconosciuto che incontra dei limiti
nell’esercizio della sua funzione, resta libero di conseguire l’interesse
generale secondo la valutazione che ne farà in sede politica, sia
emanando l’atto legislativo, sia
non emanandolo: in tal modo
l’organo agente sarà l’unico giudice in via definitiva dell’interesse
pubblico in rapporto al provvedimento invocato, anche se nulla toglie
che possa avvalersi del parere espresso dal corpo elettorale facendo
proprio il giudizio da questo enunciato.
Il referendum consultivo è generalmente previsto dalla nostra
Costituzione per le modificazioni delle circoscrizioni territoriali, come
previsto nell’art. 132, co. 2 Cost. Secondo tale norma è richiesto il
parere delle popolazioni interessate, espresso mediante consultazione
diretta, per consentire che, con legge della Repubblica, Province e
Comuni che ne facciano richiesta, siano staccati da una Regione ed
aggregati ad un’altra. Oltre al parere delle popolazioni interessate
l’articolo in commento prescrive che sia sentito anche il parere della
Regione dalla quale Comuni e Province intendono distaccarsi e di
146
quella alla quale hanno chiesto di aggregarsi: tale parere, espresso dai
rispettivi Consigli regionali, è obbligatorio ma non vincolante.
Si riassume brevemente e schematicamente la teoria dottrinale
appena descritta:
- referendum consultivo, obbligatorio, preventivo: referendum si cui
all’art. 132, co. 1 Cost., nel caso in cui il corpo elettorale abbia dato
esito favorevole alla proposta; referendum di cui all’art. 132, co. 2
Cost.;
- referendum deliberativo, obbligatorio, preventivo: referendum si cui
all’art. 132, co. 1 Cost., qualora il corpo elettorale abbia espresso
volontà contraria alla fusione di Regioni esistenti o alla creazione di
una nuova Regione.
Entrambe queste tipologie di referendum appaiono obbligatorie, nel
senso che il momento referendario dev’essere celebrato assolutamente
prima di procedere alla modifica legislativa, e fors’anche preventive,
perché le manifestazioni di volontà devono esservi prima della
modifica: questo si desume da un’interpretazione letterale del dettato
legislativo. Ma è proprio così?
La cosa è certamente vera per il caso del referendum consultivo, non
per quello deliberativo. Quest’ultimo è senz’altro obbligatorio, ma
altrettanto non può dirsi circa il fatto che sia pure preventivo. Qualora
il referendum deliberativo abbia dato un esito negativo, il
procedimento si arresta e non potrà più esservi un atto finale: verrebbe
allora a mancare uno dei termini della relazione referendum-atto finale
per cui, a rigor di logica, il referendum non dovrebbe più considerarsi
come preventivo (rispetto all’atto finale). Viene qui nuovamente in
rilievo la duplice natura dei referendum in esame in quanto, se il voto
delle popolazioni interessate sarà favorevole alla proposta, il
147
referendum s’inserirà nella fase di attivazione; se invece sarà
contrario, ne resterà fuori. Queste considerazioni inducono a non
avanzare una qualificazione temporale circa i referendum deliberativi,
tanto che è possibile considerarli una species a parte, singolare.
Un dubbio che può sorgere dopo aver esaminato questa tesi
dottrinale è il seguente: perché non è stato inquadrato all’interno della
fattispecie del referendum deliberativo l’art. 132, co. 2 Cost., nel caso
in cui la manifestazione di volontà delle popolazioni interessate avesse
dato esito contrario alla proposta di distacco-aggregazione?
A parere di chi scrive la risposta dev’essere ricavata da un argomento
letterale che deve tenere in considerazione le modifiche costituzionali
che la norma in esame ha subito. L’Autore in questione ha fissato i
concetti in esame in uno scritto del 1960, molto prima quindi della
legge costituzionale 3/2001, che ha modificato l’art. 132, co. 2 Cost.;
prima il co. 2 diceva solamente: “si può con referendum e con legge
della Repubblica”, ora invece dice: “si può con l’approvazione della
maggioranza delle popolazioni della Provincia o delle Province
interessate e del Comune o dei Comuni interessati espressa mediante
referendum e con legge della Repubblica”. Questa specificazione,
oltre ad assolvere alla funzione d’identificare meglio il concetto di
popolazioni interessate, potrebbe pure servire per uniformare l’ipotesi
del distacco-aggregazione a quelle della fusione e della creazione. La
semplice dizione “con referendum” infatti poteva far apparire la
manifestazione di volontà delle popolazioni interessate in ordine alla
variazione territoriale come un semplice parere, non vincolante per il
legislatore, e ciò faceva propendere per inquadrare tale ipotesi nella
figura dogmatica del referendum consultivo. La nuova dizione “con
l’approvazione della maggioranza delle popolazioni (interessate) (…)
148
espressa mediante referendum” pare enfatizzare il ruolo delle
popolazioni interessate in modo da far ritenere vincolante la loro
volontà nel caso in cui si esprimano in maniera contraria alla proposta
di distacco-aggregazione. Per questo motivo, quello che nel 1960
poteva apparire come un unico caso di referendum consultivo, appare
oggi invece come referendum consultivo nel caso di esito positivo
della consultazione referendaria, come referendum deliberativo nel
caso contrario.
Altra tesi da esaminare (Carbone131), molto simile a quella
precedente, è quella che sostiene che il referendum relativo alle
variazioni territoriali ha carattere consultivo se si conclude con una
votazione positiva, mentre ha carattere deliberativo qualora il risultato
sia negativo. L’esito positivo del referendum, sulla proposta di
Regioni esistenti, di creazione di nuove Regioni o di distacco da una
Regione ed aggregazione ad un’altra, costituisce un momento
necessario del procedimento legislativo, ma non vincola il Parlamento,
che è libero di accogliere o meno la proposta. Diversamente avviene
nell’ipotesi in cui la deliberazione del corpo elettorale sia negativa: in
questo caso non è dato procedere alle variazioni territoriali, in quanto
l’esito positivo della consultazione referendaria è condizione perché
possa esercitarsi la facoltà discrezionale del Parlamento in ordine alle
variazioni territoriali.
L’Autore in questione contesta il precedente quando questi prevede
che tale risoluzione sia valida solo per l’ipotesi prevista dal co. 1
dell’art. 132 Cost. e non anche per il co. 2. Si ritiene che non vi sia
ragione per distinguere perché identica è la situazione, sotto il profilo
131
Cfr. C. CARBONE, Referendum in Novissimo digesto italiano, vol. XIV,
Torino, 1967, pp. 1109 ss.
149
della logica del sistema, nelle due ipotesi previste rispettivamente dal
co. 1 e dal co. 2 della norma in esame. La diversa espressione letterale
sarà collegata a motivi di carattere linguistico, per non ripetere un
dizione adoperata nel comma precedente, ma ciò non autorizza
l’interprete a pensare che il Costituente abbia inteso seguire un
sistema differente. Non sarebbe comprensibile infatti il motivo per cui
il risultato negativo del referendum sia vincolante per la fusione di
Regioni o la creazione di nuove Regioni e non lo sia per il distacco di
Province e Comuni da una Regione per essere aggregati ad un’altra.
Secondo l’Autore in esame considerare alla stessa stregua le due
ipotesi di risultato negativo della consultazione referendaria trova
rispondenza nel principio costituzionale del rispetto delle autonomie
locali (art. 5 Cost.).
A parere di chi scrive la teoria in esame è condivisibile per quanto
riguarda il risultato, cioè considerare alla stessa stregua i casi di
referendum di cui all’art. 132, co. 1 e 2 Cost., non per quanto riguarda
il metodo adottato per ricavare questa conclusione. Come più volte
ribadito,
bisogna
sempre
attenersi
strettamente
al
dettato
costituzionale e questo ha previsto due formulazioni letterali diverse
per i due commi in questione: ciò, o perché il Costituente voleva dire
la stessa cosa e si è espresso male, o perché voleva effettivamente
distinguere le due ipotesi di referendum. Comunque sia, l’esegesi
della norma in questione dev’essere dettagliata ed approfondita. Per
questi motivi, francamente pare una spiegazione troppo banale che il
Costituente non abbia usato la stessa espressione letterale solamente
per non ripetersi.
Anche la giurisprudenza costituzionale più recente si è espressa
in senso favorevole alla qualificazione “consultiva” del referendum in
150
caso esito positivo; nella sentenza 334/2004 (riferentesi ad un caso di
distacco-aggregazione) si dice infatti che: “l’esito positivo del
referendum, avente carattere meramente consultivo, sicuramente non
vincola il legislatore statale alla cui discrezionalità compete di
determinare l’effetto di distacco-aggregazione”132.
3.2.2- Referendum “deliberativo” nei casi di fusione e di creazione,
“consultivo” nel caso di distacco-aggregazione
Dal modello sopra descritto di referendum in materia di
mutamenti degli assetti territoriali si discosta notevolmente una parte
della più autorevole dottrina in materia di consultazione referendaria
(Scudiero133). Dopo aver fatto un’analisi delle forme di referendum
ammesse nell’ordinamento regionale dalle norme costituzionali, si
conclude che il referendum regionale è previsto non già mediante
l’esatta definizione delle sue caratteristiche tipologiche, ma mediante
la delineazione di uno schema aperto, la cui determinazione ed
articolazione è lasciata alla potestà normativa regionale. Per quanto
riguarda la materia oggetto del nostro studio, sono individuate due
tipologie di referendum.
Il referendum consultivo è uno strumento che permette ai
cittadini di esprimere il proprio orientamento e la propria valutazione
intorno ad atti che gli organi dell’apparato autoritario intendono
adottare; esso postula un’attività ancora da svolgere, nei riguardi della
quale adempie ad una funzione ausiliaria, com’è tipico di ogni attività
132
Sul punto si veda: Sentenza 10 novembre 2004 n. 334 in Giurisprudenza
costituzionale, n. 6/2004, Milano, p. 3779.
133
Cfr. M. SCUDIERO, Il referendum nell’ordinamento regionale, Napoli, 1971,
pp. 51 ss.
151
consultiva. Questo tipo appare adeguato alle consultazioni dirette a
conoscere
l’orientamento
soltanto
di
parti
della
comunità
rappresentata dagli organi cui spetta di adottare i provvedimenti
sull’oggetto deferito in referendum. E ciò perché soltanto in tal modo,
in un ordinamento fondato sul principio della sovranità popolare e
della rappresentanza politica, può coerentemente lasciarsi agli organi
rappresentativi la libertà di disattendere le indicazioni offerte dalla
pronuncia popolare. Esprimendo il referendum consultivo il giudizio
di una frazione della comunità, evidentemente ispirato al proprio
particolare interesse, e dovendo invece il provvedimento degli organi
rappresentativi riflettere l’interesse di tutta la comunità, è conforme ai
principi che nel conflitto degli interessi prevalga quello più generale.
Tutte queste caratteristiche rientrano nella fattispecie di referendum
consultivo prevista nell’art. 132, co. 2 Cost., caratterizzabile come:
locale,
in
quanto
rivolto
solo
alle
popolazioni
interessate
specificamente al detto mutamento; obbligatorio, in quanto il
procedimento di modifica non può validamente svolgersi e
perfezionarsi senza che abbia avuto luogo la consultazione popolare;
non vincolante, perché il parere espresso dalle popolazioni interessate
non vincola l’organo competente a provvedere. Che la disposizione
costituzionale in esame sia diretta a configurare un’ipotesi di
referendum consultivo lo si deduce anche da un argomento letterale,
allorché è solamente prescritto che siano previamente “sentite le
popolazioni interessate” ; da tale disposizione si deduce anche che il
legislatore costituzionale ha inteso riferirsi al referendum ed ha
escluso che l’apprezzamento delle popolazioni stesse possa essere
compiuto e manifestato dagli organi rappresentativi delle comunità
locali interessate, come invece previsto nell’emanazione di talune
152
norme statali di attuazione della disposizione costituzionale sopra
ricordata.
Per quanto riguarda invece l’ipotesi di cui all’art. 132, co. 1
Cost., l’Autore in esame inizia la sua analisi partendo da un approccio
critico nei confronti della tesi di altra dottrina (Martines) (che
configurava due diverse tipologie di referendum a seconda dell’esito,
cosa che non avviene per l’art. 132, co. 2 Cost.), dicendo che tale
impostazione non attribuisce il dovuto rilievo al fatto che il corpo
elettorale pone in essere una volizione, esprime una volontà, non un
giudizio. In secondo luogo, non sembra coerente assegnare ad un
identico istituto, strutturalmente e funzionalmente unitario, due
distinte qualifiche e forme di efficacia. Avverso poi l’assunto
specifico che la pronuncia popolare sfavorevole alla proposta di
riassetto territoriale o funzionale sarebbe da considerare un parere
vincolante è da osservare che un tale parere è parte di un modulo
strutturale articolato in cui il provvedimento risulta deciso in due coprovvedimenti: l’uno, attinente al contenuto dell’atto, è posto in essere
dall’organo che esprime il parere, l’altro, costituente la volizione
dell’atto stesso, è posto in essere dall’organo attivo. Ciò implica che il
parere vincolante attenga ad un procedimento destinato a concretarsi
in un atto positivo, in un facere, tant’è vero che l’organo attivo può
disattendere il parere vincolante di cui è destinatario solo desistendo
dal proposito di emanare l’atto cui il parere si riferisce. Secondo la
teoria criticata (Martines) invece, il parere vincolante opera non nel
senso di fissare il contenuto dell’atto da adottare, bensì nel senso
logicamente contrario d’impedire l’adozione di qualsiasi atto.
L’Autore qualifica il referendum in questione come deliberativo e
specifica che, conformemente al dettato costituzionale e all’esigenza
153
di una ricostruzione unitaria dell’istituto, occorre ravvisare nella
pronuncia popolare di cui si sta trattando la natura e l’efficacia di un
atto di controllo preventivo di merito sulla congruità della proposta
legislativa di modifica rispetto all’interesse delle popolazioni
interessate, cioè un atto di controllo tecnico-giuridico. Tale soluzione
appare fondata alla stregua dell’art. 132, co. 1 Cost. per i seguenti
motivi:
- essa dà il giusto rilievo al fatto che la proposta legislativa di
modifica non può tradursi in legge costituzionale se non sia stata
preventivamente approvata dagli elettori interessati, cioè giudicata
confacente all’interesse degli elettori stessi;
- nella fattispecie in esso delineata ricorrono tutti gli elementi
dell’istituto del controllo in senso tecnico-giuridico: la diversità tra
controllante e controllato ed il momento valutativo;
- l’operatività della pronuncia, che resta delimitata nella fase
dell’iniziativa e ciò lo si deduce dal fatto che, nonostante la pronuncia
popolare favorevole, il legislatore costituzionale rimane libero sul se e
sul come provvedere alla proposta di variazione territoriale.
Alla tesi in questione non potrebbe opporsi che la funzione tipica e
peculiare del referendum sarebbe quella di dare impulso al
procedimento di legislazione costituzionale: dunque non referendum
di controllo, ma referendum-iniziativa (cioè la richiesta dei Consigli
comunali sia da intendersi come richiesta di referendum ed il
referendum come proposta legislativa). Tale interpretazione sarebbe in
contrasto con il dettato dell’art. 132, co. 1 Cost. che riferisce in modo
espresso la richiesta dei Consigli comunali alla legge costituzionale di
fusione o creazione di nuove Regioni, e non al referendum.
154
La concezione in esame è debole nel punto in cui prevede due
qualificazioni giuridiche diverse per un procedimento di variazione
territoriale, che è stato unanimemente riconosciuto come unico
(seppure tre siano le ipotesi di variazione territoriale).
3.2.3- Referendum come atto d’iniziativa o come condizione di
procedibilità
Dalle concezioni finora prese in esame si scosta profondamente
una parte della dottrina coeva (Carbonaro134). La questione viene
inquadrata sotto una luce un po’ meno dogmatica, nel senso che non si
fanno rientrare le ipotesi di referendum in questione all’interno di una
delle categorie dottrinali sopra individuate, ma si preferisce condurre
un’analisi esegetica dell’istituto. Si sostiene che, secondo la norma
contenuta nell’art. 132 Cost., al corpo elettorale non è demandata la
potestà di esprimere un provvedimento che ponga o modifichi la
volontà dello Stato con la stessa efficacia degli atti prodotti dagli
organi attivi, poiché il compito di esso si esaurisce in una pronuncia
contenente una manifestazione di desiderio.
Pare quindi che il Costituente abbia voluto conciliare, dal punto di
vista tecnico, gli interessi superiori dello Stato unitario con quelli delle
autonomie locali, spettando al corpo elettorale l’iniziativa, che
manifesta attraverso il referendum, sulla proposta redatta dagli organi
consiliari degli enti territoriali minori.
134
Cfr. S. CARBONARO, Il referendum nella Costituzione e negli statuti delle
Regioni ad ordinamento speciale in Scritti in memoria di Carlo Esposito, Padova,
1972, p. 162.
155
Gli argomenti addotti dall’Autore sulla questione per quanto esatti non
sono né originali, né approfonditi e quindi non è possibile esaminarli
criticamente.
Si prende ora in considerazione un’altra tesi dottrinale (De
Marco135) sulla questione. Anche questa concezione parte da un
approccio critico nei confronti della tesi sostenuta dal Martines, in
quanto non può non destare perplessità il fatto di voler condizionare la
qualifica giuridica della pronuncia popolare all’esito, positivo o
negativo, della consultazione.
Preferibile pare piuttosto accentrare l’attenzione sulla dinamica dei
procedimenti in cui s’inseriscono i referendum per le modificazioni
territoriali delle Regioni: non sembra allora illogico configurare le
pronunce delle popolazioni interessate alla stregua di manifestazioni
di volontà con cui le stesse popolazioni esprimono il proprio
consenso, o il proprio dissenso, sulle richieste di modificazioni
territoriali, accettandole o respingendole. Le manifestazioni di volontà
delle
popolazioni
interessate,
considerate
con
riguardo
al
procedimento in cui s’inseriscono, possono essere viste come
condizioni di procedibilità di un progetto legislativo attinente a
modificazioni territoriali delle Regioni. Ecco quindi che se la richiesta
avanzata dagli enti territoriali legittimati viene accettata in sede di
referendum, essa è presentata al Parlamento che è libero di approvare
o meno detta proposta; se invece è respinta dalle popolazioni
interessate, essa viene meno, di modo che il Parlamento non può
nemmeno prenderla in considerazione. Considerando il referendum
territoriale in quest’accezione, cioè come condizione di procedibilità,
135
Cfr. E. DE MARCO, Contributo allo studio del referendum, Padova, 1974, pp.
243 ss.
156
ben si spiega la differenziazione di effetti connessa ai suoi possibili
diversi esiti. In sostanza sempre uguale è la natura del referendum, sia
in caso di esito positivo, sia in caso di esito negativo, l’unica cosa che
cambia sono i suoi effetti: in caso di esito positivo della consultazione,
sarà possibile l’ulteriore iter legislativo del progetto di modificazione
territoriale, per essere questo stato accettato dalle popolazioni
interessate. Nel caso di esito negativo invece, lo stesso progetto non
potrà più avere alcun corso per difetto di una condizione a ciò
indispensabile, qual è appunto l’accettazione popolare.
3.2.4- Referendum “deliberativo” in ogni caso e critiche alle
qualificazioni giuridiche precedenti
La dottrina più autorevole in materia di variazioni territoriali
delle Regioni è anche quella che meglio approfondisce la questione
della qualificazione giuridica da dare al referendum di cui all’art. 132
Cost. (Pedrazza Gorlero136).
Si sostiene che la qualificazione giuridica della consultazione
referendaria dipenda con ogni evidenza dall’identificazione del suo
oggetto e dal contenuto dell’atto che ne risulta; è importante darne una
definizione, perché da questa dipendono le risposte che si possono
dare
all’interrogativo
sull’efficacia
giuridica
della
pronuncia
referendaria.
L’oggetto del referendum non è individuato con chiarezza dall’art.
132 Cost., ciononostante l’oggetto del referendum è individuato nella
“proposta” avente come contenuto la variazione territoriale “richiesta”
136
Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol.
II, Padova, 1991, pp. 79 ss.
157
dagli organi rappresentativi delle popolazioni interessate. Si sono
messi in evidenza i due termini, proposta e richiesta, perché dalla
definizione e dalla funzione di essi deriva la soluzione circa l’oggetto
dell’istituto in questione.
La richiesta degli organi rappresentativi delle popolazioni interessate
appare diretta al legislatore e rivolta ad ottenere il provvedimento di
variazione territoriale in essa indicato, ha cioè il carattere di un atto
d’iniziativa legislativa del procedimento che fissa la materia della
decisione e manifesta l’interesse che si vuole soddisfatto dal
legislatore. Ora, anche se la consultazione popolare verte sul
contenuto del provvedimento legislativo ed accerta ed amplia
l’interesse
al
suo
ottenimento,
l’oggetto
del
referendum
è
propriamente diverso. Alla sua delineazione concorrono in modo
determinante le peculiarità del procedimento di variazione territoriale,
nel quale l’iniziativa è riservata agli organi rappresentativi delle
popolazioni interessate e la discrezionalità del legislatore è limitata
all’accoglimento o al rigetto della richiesta di variazione approvata dal
corpo elettorale, senza possibilità di porre degli emendamenti, cosa
che attribuirebbe al legislatore un potere d’iniziativa legislativa che
invece gli è espressamente negato. Ciò significa che né gli organi
rappresentativi delle popolazioni interessate, né il legislatore hanno il
potere di determinare quell’aspetto essenziale del contenuto del
provvedimento di variazione territoriale che è costituito dalla totale o
parziale autoidentificazione come comunità territoriale: questo potere
è riservato al corpo elettorale interessato ed il suo oggetto costituisce
l’oggetto
specifico
del
referendum.
L’atto
risultante
dalla
consultazione referendaria è una deliberazione avente ad oggetto
l’autoidentificazione territoriale come aspetto essenziale del contenuto
158
della legge eventuale di variazione territoriale. Tale atto s’interpone
tra l’iniziativa e la deliberazione legislativa: l’iniziativa è vincolata
all’autoidentificazione territoriale deliberata dal corpo elettorale ed è
perciò sottoposta alla condizione dell’esito del referendum; il
legislatore può esercitare discrezionalità, ma solo con riferimento
all’accettazione o al rigetto del contenuto fissato dall’atto d’iniziativa
e deliberato dalla pronuncia referendaria.
La proposta è, come si è detto, l’oggetto della consultazione
referendaria e a fondamento di quest’affermazione sta il fatto che il
corpo elettorale si esprime sul contenuto del provvedimento di
variazione territoriale così com’è stato prefigurato dagli stessi titolari
dell’iniziativa.
Richiesta e proposta sono quindi due atti distinti, dotati di diversa
struttura e funzione nell’ambito del procedimento di variazione
territoriale.
Alla luce di queste considerazioni si può dire che la natura giuridica
della pronuncia referendaria sia essenzialmente deliberativa: il corpo
elettorale
delibera
su
un
aspetto
essenziale
del
contenuto
dell’eventuale legge di variazione territoriale. A quest’aspetto bisogna
fare riferimento quando si deve qualificare giuridicamente il
referendum di cui all’art. 132 Cost., che sarà quindi essenzialmente
deliberativo.
Concorda con la qualificazione deliberativa del referendum
territoriale anche altra autorevole dottrina (Lavagna137).
137
Cfr. C. LAVAGNA, Istituzioni di diritto pubblico, Torino, 1985, p. 828.
159
Nello stesso senso è anche la dottrina più recente (Trabucco138).
Si sostiene che il voto favorevole espresso dalle popolazioni
interessate sia una “manifestazione di volontà del corpo elettorale
locale (…) dotata del carattere della “forza politica” vincolante quanto
ai contenuti (almeno in re) per il disegno di legge che il Ministro
dell’Interno (…) dovrà presentare alle Camere”; nel caso di esito
sfavorevole della consultazione referendaria, invece, “l’interruzione
immediata del procedimento si rivelerebbe come effetto della volontà
popolare al mantenimento ed alla conservazione dello status quo”.
Entrambe queste considerazioni paiono molto condivisibili: nel caso
di esito favorevole della consultazione referendaria, il carattere
deliberativo sta nella “forza politica” in grado di vincolare la legge sul
piano dei contenuti; nel caso di esito sfavorevole, il carattere
deliberativo sta nella sua capacità d’interrompere il procedimento di
variazione territoriale.
Tali considerazioni sono utili anche per fare una critica
strutturata e ben argomentata alle tesi degli Autori esaminati sopra.
Alle tesi dottrinali che considerano il referendum come
consultivo (cioè che l’atto risultante dal referendum sia un parere
obbligatorio e non vincolante), si risponde che, alla veste consultiva
dell’atto, assunta a garanzia della discrezionalità del legislatore
nell’adozione del provvedimento, non sembra appropriata la
qualificazione di parere obbligatorio. Obbligatorio è il parere che
dev’essere richiesto dall’organo attivo e che dev’essere fornito
dall’organo consultivo. Ora, se come organo attivo si guardi agli
138
Cfr. D. TRABUCCO, Brevi considerazioni sulla natura deliberativa dei
referendum ex art. 132, 2° comma, Cost., www.forumcostituzionale.it, 2008, pp. 1
ss.
160
organi rappresentativi delle popolazioni interessate, essi sono liberi di
chiedere il parere, esercitando o meno l’iniziativa del procedimento.
Se invece si guardi al legislatore, egli non ha l’obbligo di richiedere il
parere, perché, essendogli preclusa l’iniziativa del procedimento
referendario, manca dello strumento per potervi corrispondere. Se si
guarda poi all’organo consultivo, il corpo elettorale non sembra
obbligato a fornire il parere, posto che non c’è nessun vincolo a
prender parte alla consultazione referendaria. Nel caso poi che al voto
non partecipi la maggioranza degli elettori, il parere dovrebbe
considerarsi come non emesso piuttosto che negativo. È quindi
dimostrato che il parere espresso nel referendum non ha la
caratteristica dell’obbligatorietà.
Ma, oltre a questa, manca anche quella della non vincolatività: quando
la consultazione popolare abbia dato un esito negativo, essa avrà
l’effetto di precludere l’ulteriore corso del procedimento, vincola cioè
il legislatore a non provvedere. In questo caso non potrà certo dirsi
che il referendum non sia vincolante.
Contestata la sussistenza dei due requisiti su cui si fonda la
concezione del referendum consultivo, viene meno anche la
qualificazione giuridica: la pronuncia del corpo elettorale non ha
natura consultiva, di un atto di valutazione, ma natura deliberativa, di
un atto di volizione. Il referendum è dunque deliberativo, non
consultivo.
A chi sostiene la tesi della doppia natura giuridica dell’istituto
in esame, in relazione alla duplicità degli effetti che può conseguire
(natura consultiva in caso di esito positivo, natura deliberativa in caso
161
di esito negativo139), si risponde che è difficile sostenere che lo stesso
istituto (ed atto) sia caratterizzato da una doppia natura in relazione
alla duplicità degli effetti che può conseguire ed inoltre che, una volta
stabilito il carattere di volizione della deliberazione referendaria
negativa, non si vede come negarlo a quella positiva. In realtà la
pronuncia referendaria ha sempre carattere deliberativo, e la
diversificazione degli effetti si realizza in ragione della diversità del
suo contenuto volitivo, non per la relazione che essa intrattenga con la
deliberazione legislativa.
Più coerente appare la tesi che attribuisce al referendum una
funzione di controllo tecnico-giuridico, preventivo e di merito, sulla
congruità
della
proposta
legislativa
avanzata
dagli
organi
rappresentativi rispetto all’interesse delle popolazioni. Tuttavia anche
tale concezione non va esente da critiche.
L’oggetto della consultazione referendaria è (secondo la concezione di
Scudiero) la verifica della congruità della proposta di variazione
territoriale all’interesse degli elettori. In realtà l’interesse degli elettori
da una parte può venire rappresentato prima della consultazione
referendaria dai Consigli comunali e provinciali che avanzano la
richiesta, dall’altra non è completamente rappresentato nemmeno
dopo la consultazione in quanto da essa rimangono escluse le
popolazioni indirettamente interessate alla variazione e territoriale, i
cui interessi sono tutelati mediante i pareri dei Consigli regionali.
L’unico interesse che risulti veramente accertato dalla consultazione
referendaria è quello delle popolazioni direttamente interessate alla
variazione, ossia l’interesse che individua l’area e la popolazione
139
Si veda Capitolo III, paragrafo 3.2.1.
162
sopra essa insistente come elementi costitutivi del contenuto del
provvedimento.
La seconda critica che si può muovere alla tesi in questione è la
seguente: dato che l’oggetto della consultazione referendaria è
solamente una verifica di congruità della proposta di variazione
territoriale, il legislatore “rimane libero sul se e su come provvedere
alla proposta di ristrutturazione delle comunità regionali”140.
Quest’interpretazione è però da considerarsi incostituzionale: libero
sul “come”, il legislatore finisce per acquistare un’iniziativa che ha un
contenuto diverso da quello approvato dal corpo elettorale e di
conseguenza viene vulnerata la riserva d’iniziativa a favore degli
organi rappresentativi delle popolazioni interessate, in contrasto con
quanto statuito dall’art. 132, co. 1 Cost.
Alla tesi dottrinale che considera il referendum territoriale una
condizione di procedibilità (De Marco), si contesta il fatto che essa
accentua la conseguenza negativa già riscontrata a proposito della
concezione precedente, e cioè il fatto di essere del tutto inidonea a
vincolare il contenuto della deliberazione legislativa eventuale alla
pronuncia referendaria. Ecco perché: secondo la tesi in esame il
referendum è da iscriversi nella fase dell’iniziativa; l’atto da esso
risultante è collegato alla deliberazione legislativa solo per renderne
possibile l’adozione in caso di esito positivo della consultazione. In
questo modo però la pronuncia referendaria è del tutto inidonea a
vincolare il contenuto dell’eventuale deliberazione legislativa, per non
essere in grado di obbligare il legislatore (com’è proprio di tutti gli atti
d’iniziativa) ad assumere un provvedimento conforme alla pronuncia
140
Cfr. M. SCUDIERO, Il referendum nell’ordinamento regionale, Napoli, 1971,
p. 55.
163
popolare. Questa critica è da considerarsi in linea del tutto teorica; in
pratica sarà difficile che il legislatore decida difformemente dalla
deliberazione referendaria, pena arrischiarsi in una soluzione che
potrebbe rivelarsi politicamente costosa.
Recentemente anche la giurisprudenza costituzionale si è
pronunciata su questo argomento (sentenza n. 334/2004 della Corte
Costituzionale141) affermando espressamente che “l’esito positivo del
referendum” ha “carattere consultivo” nel caso di distaccoaggregazione.
Seppur questa considerazione venga da autorevole giurisprudenza,
non pare francamente condivisibile per gli stessi motivi sopra
enunciati e pertanto è avallabile la critica fatta da recente dottrina142.
In conclusione è da ritenersi (conformemente con quanto
sostenuto dal Pedrazza Gorlero) che il referendum per le variazioni
territoriali delle Regioni sia deliberativo perché agisce stabilendo un
aspetto essenziale del contenuto del provvedimento legislativo
eventuale: ribadisce cioè l’area e le popolazioni ad esso direttamente
interessate delle quali rivela l’autoidentificazione territoriale, ossia il
presupposto costituzionale dell’autonomia regionale.
3.3- Il concetto di popolazioni interessate
Il concetto di popolazioni interessate è intriso di numerose
sfaccettature:
141
Sul punto si veda: Sentenza della Corte Costituzionale 10 novembre 2004 n.
334 in Le Regioni n. 3/2005.
142
Cfr. T. GIUPPONI, Le “popolazioni interessate” e i referendum per le
variazioni territoriali, ex artt. 132 e 133 Cost.: territorio che vai, interesse che
trovi in Le Regioni, Bologna, n. 3/2005, p. 427.
164
- vi sono popolazioni interessate alla richiesta e alla variazione;
- tra le popolazioni interessate alla variazione, vi sono quelle
direttamente interessate e quelle indirettamente interessate;
- vi sono poi le popolazioni interessate al referendum e quelle
direttamente interessate alla variazione territoriale.
Qui di seguito si cercherà di fare un po’ di chiarezza.
Popolazioni interessate alla richiesta sono tutte quelle popolazioni che,
per mezzo dei propri organi rappresentativi, dimostrano un qualche
interesse ad una possibile variazione territoriale, mentre le popolazioni
interessate alla variazione sono sia quelle che andranno a comporre la
nuova entità territoriale (popolazioni direttamente interessate), sia
quelle che in qualche maniera sono toccate dalla variazione
territoriale, pur senza esserne direttamente coinvolte (popolazioni
indirettamente interessate).
Parte della dottrina (D’Orazio) sostiene che, nonostante
l’identità dell’espressione testuale, al concetto di popolazioni
interessate non sia da attribuire lo stesso univoco significato. Appare
infatti evidente che quando la disposizione costituzionale (art. 132, co.
1 Cost.) fissi il requisito del minimo valore rappresentativo nella
richiesta dei Consigli comunali (prescrivendo che questi rappresentino
almeno un terzo delle popolazioni interessate), si fa riferimento alla
popolazione in senso puro e genericamente demografico. Quando
invece si statuisce che la popolazione interessata sia consultata
mediante referendum, si fa riferimento al corpo elettorale, cioè ai
cittadini aventi diritto di voto (sono quei cittadini che sono iscritti
nelle liste elettorali del Comune della Regione)143.
143
Cfr. G. D’ORAZIO, In tema di variazioni del territorio regionale in Scritti in
onore di Costantino Mortati, Milano, 1977, pp. 688 ss.
165
Altra autorevole dottrina (Pedrazza Gorlero) invece, facendo
un’esegesi letterale dell’art. 132 Cost., sostiene vi sia coincidenza tra
popolazioni interessate ai fini della richiesta, popolazioni direttamente
interessate alla variazione territoriale e popolazioni interessate al
referendum: si sostiene infatti al co. 1 dell’art. 132 Cost. che
popolazioni interessate al referendum sono le “stesse” che sono
interessate alla variazione territoriale144.
A parere di chi scrive, la prima nozione (D’Orazio) fa delle
osservazioni che sono da ritenersi pienamente condivisibili;
ciononostante l’interpretazione letterale del Pedrazza Gorlero pare più
adeguata in quanto si riferisce esplicitamente al dettato costituzionale.
Il concetto più importante da definire è la distinzione tra
popolazioni direttamente interessate alla variazione territoriale e
popolazioni indirettamente interessate: a fare ciò hanno provveduto sia
la dottrina sia, in tempi molto recenti, la giurisprudenza.
La dottrina in realtà non è unanimemente concorde sul punto:
una parte (Balladore Pallieri145) ritiene che popolazioni interessate
siano le “popolazioni del comune o dei comuni che si tratta di
trasferire”; altra (Biscaretti di Ruffia146) che popolazioni interessate
siano “tutte quelle delle Regioni toccate dai mutamenti”.
Anche questa volta, la soluzione più adeguata è individuata dalla
dottrina più autorevole in materia (Pedrazza Gorlero147): si ritiene
infatti che la disposizione costituzionale distingua tra un interesse
144
Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol.
II, Padova, 1991, pp. 71 ss.
145
Cfr. G. BALLADORE PALLIERI, Diritto costituzionale, Milano, 1976, p.
395.
146
Cfr. P. BISCARETTI DI RUFFIA, Diritto costituzionale, Napoli, 1989, p. 758.
147
Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol.
II, Padova, 1991, pp. 72 ss.
166
diretto ed un interesse indiretto alla variazione, fornendo mezzi di
tutela differenziati per i due interessi. Ciò si desume dalla struttura
morfologica delle variazioni, che evidenzia aree attive e passive, con
la distinta previsione del referendum e del parere dei Consigli
regionali, la quale, ove non fosse collegata alla garanzia di
popolazioni differenti comporterebbe un’inutile duplicazione degli
strumenti di tutela: alla consultazione referendaria sarà quindi affidato
l’accertamento della volontà delle popolazioni che andranno a
costituire il novum territoriale; al parere dei Consigli regionali sarà
invece affidato il ruolo di tutela delle popolazioni indirettamente
interessate o controinteressate alla variazione insistenti sull’area
territoriale passiva.
Il dettato costituzionale, molto chiaro nel suo significato, non è
stato ben recepito dalla legge 352/1970 attuativa dell’istituto
referendario. Per fare chiarezza bisogna distinguere le singole ipotesi
di variazione territoriale:
- nell’ipotesi di fusione, la consultazione referendaria deve svolgersi
nel territorio di tutte le Regioni destinate a confluire nella nuova
Regione. Il referendum dev’essere tenuto separatamente per ciascuna
delle Regioni interessate alla fusione, al fine di evitare che una
Regione, pur avendo espresso a maggioranza la sua contrarietà, sia
costretta a subirla per essere minoranza nella consultazione
complessiva. Ciò sarebbe lesivo non solo dell’articolo costituzionale
in esame, ma anche degli artt. 5, 114 e 131 della Carta costituzionale.
L’art. 44, co. 3 della l. 352/1970 attua in modo corretto la prescrizione
costituzionale, stabilendo che “il referendum è indetto nel territorio
delle regioni della cui fusione si tratta”, ma tace sulle modalità di
167
effettuazione della consultazione atte ad evitare il risultato illegittimo
sopra evidenziato148;
- nell’ipotesi di creazione di una nuova Regione, le popolazioni
direttamente interessate, da chiamare a referendum, sono quelle
abitanti le aree territoriali che, distaccandosi da una o più Regioni,
danno vita ad una nuova Regione con un minimo di un milione di
abitanti.
Il legislatore di attuazione non si è attenuto a tale interpretazione,
preferendole quella, di dubbia legittimità, che individua le popolazioni
interessate al referendum in tutte quelle coinvolte nella variazione, ed
ha perciò stabilito che la consultazione referendaria debba tenersi “nel
territorio della regione dalla quale le province o i comuni intendono
staccarsi per formare una regione a sé stante” (art. 44, co. 3 Cost.).
La mancata previsione di un referendum per l’area che deve
distaccarsi procura a questa disposizione una sicura ragione
d’incostituzionalità: la richiesta dei Consigli comunali fa presumere
l’esistenza di un interesse alla variazione che dev’essere accertato
dalla successiva consultazione referendaria; il fatto di non distinguere
tra aree-interessi non solo frustra l’effettuazione del riscontro, ma
consente pure che l’interesse diretto alla variazione venga verificato
da popolazioni di aree territoriali diverse da quelle delle quali si
chiede il distacco. In questo modo la variazione potrebbe essere decisa
contro il volere delle popolazioni insistenti sulle aree che sono oggetto
del distacco, in aperta violazione degli artt. 5, 114, 131 e 132, co. 1
Cost.;
148
Tale mancanza di chiarezza è ravvisata anche da: E. DE MARCO, Contributo
allo studio del referendum, Padova, 1974, pp. 251 ss.
168
- nell’ipotesi di distacco da una Regione e di aggregazione ad un’altra
Regione, le popolazioni direttamente interessate sono, a norma
dell’art. 44, co. 3 della l. 352/1970, sia quelle “della regione dalla
quale le province o i comuni intendono staccarsi” sia quelle “della
regione alla quale le province o i comuni intendono aggregarsi”. Le
conseguenze derivanti da una simile scelta legislativa sono le
medesime già riscontrate per l’ipotesi della creazione di una nuova
Regione, ma sono ancor più gravi per il fatto che il corpo elettorale
viene allargato anche a quello delle Regione “aggregante”.
Da questa lettura emerge un’ulteriore conclusione: il sistema di
consultazione referendaria viene omologato dal legislatore ordinario
ed è lo stesso per tutte le popolazioni–interessi–aree–variazioni. In
questo modo si appesantisce in modo inversamente proporzionale alla
consistenza e all’interesse ed alla variazione, cosicché la variazione
più complessa da realizzare è il distacco-aggregazione, disposto dal
Costituente per piccoli aggiustamenti territoriali, corrispondenti ad
interessi limitati, costituendo una remora a mutamenti territoriali del
genere ed una illegittima limitazione delle autonomie comunali e
provinciali.
Tutti questi rilievi sono stati confermati anche da una recente
sentenza della Corte Costituzionale.
Con la sentenza n. 334 del 10 novembre 2004149, la Corte
Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 42,
co. 2 della l. 352/1970 “nella parte in cui prescrive che la richiesta di
referendum per il distacco di una Provincia o di un Comune da una
Regione e l’aggregazione ad altra Regione deve essere corredata –
149
Sul punto si veda: Sentenza della Corte Costituzionale 10 novembre 2004 n.
334 in Le Regioni n. 3/2005.
169
oltre che dalle deliberazioni, identiche nell’oggetto, rispettivamente
dei consigli provinciali e dei consigli comunali delle Province e dei
Comuni di cui si propone il distacco – anche delle deliberazioni,
identiche nell’oggetto, «di tanti consigli provinciali e di tanti consigli
comunali che rappresentino almeno un terzo della restante
popolazione della regione dalla quale è proposto il distacco delle
province e dei comuni predetti» e «di tanti consigli provinciali e di
tanti consigli comunali che rappresentino almeno un terzo della
popolazione della regione alla quale si propone che le province o i
comuni siano aggregati»”.
Questa la vicenda storica che costituisce il substrato culturale sotteso
alla sentenza in esame: il Comune di S. Michele al Tagliamento si era
fatto portatore di una richiesta di referendum per il suo distacco dalla
Regione Veneto e la sua aggregazione alla Regione Friuli-Venezia
Giulia; il delegato del Comune aveva chiesto all’Ufficio centrale di
sollevare questione di legittimità costituzionale del citato art. 42, co. 2
della l. 352/1970, per contrasto con l’art. 132, co. 2 Cost., come
modificato dalla legge costituzionale 3/2001. L’Ufficio centrale aveva
però dichiarato manifestamente infondata la questione. La Corte
Costituzionale non era d’accordo con l’Ufficio e con l’ordinanza
343/2004150 che definiva “significativa” la portata della riforma
dell’art. 132, co. 2 Cost. introdotta dalla l.c. 3/2001. In seguito a ciò,
l’Ufficio centrale, re melius perpensa, ha mutato opinione ed ha
sollevato la questione di legittimità costituzionale precedentemente
dichiarata manifestamente infondata. In particolare si sosteneva che il
legislatore, col testo novellato dell’art. 132 Cost., aveva inteso
150
Sul punto si veda: Ordinanza della Corte Costituzionale 12 novembre 2004 n.
343, www.giuricost.org.
170
riservare unicamente agli enti territoriali, richiedenti il proprio
distacco da una Regione e l’aggregazione ad un’altra, l’iniziativa del
referendum prodromico alla variazione dell’assetto territoriale
regionale, ed escludere quindi qualsiasi partecipazione a tale iniziativa
di altri enti rappresentativi di popolazioni solo indirettamente
interessate a tale variazione. La Consulta ha deciso sulla questione con
la sentenza in esame. Nel merito la Corte ha ritenuto fondate le
doglianze dell’Ufficio centrale, in quanto la norma impugnata “pone a
carico dei richiedenti un onere di difficile e gravoso assolvimento”,
dal momento che “accordava l’iniziativa referendaria ad organi non
previsti nel testo costituzionale e condizionava l’iniziativa dei titolari
a quella, necessariamente congiunta, di tali soggetti”: in questo modo
veniva frustrato il diritto di autodeterminazione dell’autonomia locale,
la cui affermazione e garanzia risultava invece tendenzialmente
accentuata dalla riforma del 2001.
Il referendum previsto dalla disposizione costituzionale
attualmente vigente mira a verificare se la maggioranza delle
popolazioni dell’ente o degli enti interessati approvi l’istanza di
distacco-aggregazione e da ciò deriva coerentemente che la
legittimazione a promuovere la consultazione referendaria spetti
soltanto ad essi e non anche ad altri enti esponenziali di popolazioni
diverse. Infatti, la riforma del parametro evocato ha inteso evitare che
maggioranze non direttamente o immediatamente coinvolte nel
cambiamento
possano
contrastare
ed
annullare
finanche
le
determinazioni iniziali (neppure giunte allo stadio di semplici
richieste) di collettività che intendano rendersi autonome o modificare
la propria appartenenza regionale.
171
Le valutazioni di tali altre popolazioni, anche di segno contrario alla
variazione territoriale, trovano congrua tutela nelle fasi successive a
quella della mera presentazione della richiesta di referendum, da una
parte perché l’esito positivo del referendum, secondo i giudici
costituzionali, avrebbe carattere meramente consultivo e pertanto non
vincolerebbe il legislatore statale, dall’altra perché l’audizione dei
Consigli delle Regioni coinvolte consentirebbe l’emersione e la
valutazione d’interessi locali contrapposti.
In merito al concetto di popolazioni interessate, la Corte
Costituzionale conclude che: “l’espressione «popolazioni della
Provincia o delle Province interessate e del Comune o dei Comuni
interessati», utilizzata dal nuovo art. 132, secondo comma,
inequivocabilmente si riferisce soltanto ai cittadini degli enti locali
direttamente coinvolti nel distacco-aggregazione”.
Consapevole dell’importanza della sua decisione, la Consulta ha
deciso di giustificarsi preventivamente da eventuali obiezioni
d’incoerenza rispetto alla ormai copiosa giurisprudenza costituzionale
relativa all’istituzione di nuovi Comuni e alla modifica delle loro
circoscrizioni o denominazioni ex art. 133, co. 2 Cost. dicendo che:
“la specificità dell’ipotesi di variazione territoriale disciplinata
dall’art. 132 Cost. non consente (…) di mutuare l’accezione e
l’estensione del concetto di «popolazioni interessate» individuato da
questa Corte relativamente al procedimento, affatto diverso, di cui al
successivo art. 133, secondo comma” e questo perché “l’espressione
«popolazioni
interessate»,
utilizzata
da
tale
ultima
norma
costituzionale evoca un dato che può anche prescindere dal diretto
coinvolgimento nella variazione territoriale; ed è stata intesa nelle
sentenze citate come comprensiva sia dei gruppi direttamente
172
coinvolti nella variazione territoriale, sia di quelli interessati in via
mediata e indiretta. Invece l’espressione «popolazioni della Provincia
o delle Province interessate e del Comune e dei Comuni interessati»,
utilizzata dal nuovo art. 132, secondo comma, inequivocamente si
riferisce soltanto ai cittadini degli enti locali direttamente coinvolti nel
distacco-aggregazione”151.
In realtà la Corte dava per scontata una nozione che così scontata non
era: sulla norma in questione la giurisprudenza costituzionale si era
già espressa molte volte, oscillando costantemente, senza mai trovare
una soluzione veramente definitiva al concetto di popolazioni
interessate152.
A parere di chi scrive, i rilievi evidenziati dalla Consulta nella
sentenza in esame sono tutti pienamente condivisibili: innanzitutto la
Corte fa chiarezza sulla portata della riforma del 2001 in merito
all’art. 132 Cost., esplicitando un principio di portata generale, il
“diritto di autodeterminazione dell’ autonomia locale”.
In secondo luogo ha ammesso che la norma sub judice (art. 42, co. 2
della l. 352/1970) appariva già non conforme all’originaria
formulazione del capoverso dell’art. 132 Cost. e bene ha fatto la
Consulta ad evidenziarlo mettendo in luce che il procedimento
previsto dalla normativa di attuazione sul referendum non solo
rendeva molto difficile l’iniziativa dell’ente che intendeva variare la
propria appartenenza regionale, ma anche che introduceva una
categoria di soggetti titolari dell’iniziativa referendaria estranei alla
151
Per l’estratto di questa Sentenza si veda, tra gli altri: Quaderni regionali, n.
1/2005; sul punto si veda anche: C. PAGOTTO, Per promuovere il referendum di
passaggio di province e comuni ad altra Regione o Provincia basta il consenso
dei “secessionisti”, 2004, www.associazionedeicostituzionalisti.it.
152
Cfr. Sentenze della Corte Costituzionale n.: 453/1989, 94/2000, 47/2003.
173
lettera costituzionale e risultanti in contrasto con il principio generale
secondo cui l’iniziativa della variazione spetta a chi vi abbia un
interesse diretto. In questo modo si è data una definizione chiara, ma
soprattutto dotata di un alto valore giuridico, in quanto proveniente
dalle Consulta, del concetto di popolazioni interessate153.
Queste conclusioni non sono unanimemente condivise dalla
dottrina. Una parte (Giupponi), nel commentare la sentenza in
esame154, ritiene che la decisione della Consulta sia particolarmente
controversa per quanto riguarda il concetto di popolazioni interessate;
si ritiene assurdo che le popolazioni interessate debbano cambiare
fisionomia a seconda del livello territoriale cui accede la variazione:
nel distacco-aggregazione popolazioni interessate sono solamente
quelle direttamente interessate, mentre nel caso di cui all’art. 133, co.
2 Cost. popolazioni interessate sono sia i gruppi direttamente coinvolti
nella variazione territoriale, sia quelli interessati in via mediata e
indiretta. La conclusione a cui si giunge è che la Corte abbia dato
eccessivo rilievo alla riforma dell’art. 132, co. 2 Cost. attuata dalla l.c.
3/2001. Ciò sarebbe confermato dal fatto che è lo stesso giudice
costituzionale ad ammettere che l’illegittimità della norma preesisteva
a tale innovazione.
Le conclusioni appena viste non sono del tutto errate: prevedere
due diverse nozioni di popolazioni interessate per procedimenti di
variazioni che riguardano enti diversi non è molto appropriato. Nel
153
Questa soluzione è condivisa anche da parte della dottrina; in particolare si
veda: R. PINARDI, L’iniziativa del referendum per il distacco-aggregazione
dopo la riforma del titolo V in Giurisprudenza costituzionale, Milano, n. 6/2004,
pp. 3782 ss.; L. FERRARO, Commentario alla Costituzione, a cura di R.
BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI, Torino, 2006, pp. 2537 ss.
154
Cfr. T. GIUPPONI, Le “popolazioni interessate” e i referendum per le
variazioni territoriali, ex artt. 132 e 133 Cost.: territorio che vai, interesse che
trovi in Le Regioni, Bologna, n. 3/2005, pp. 416 ss.
174
contempo non è condivisibile il tentativo di sminuire la riforma
costituzionale del 2001: l’innovazione (sebbene la sua formulazione
non sia propriamente cristallina) è stata di grande aiuto alla
giurisprudenza costituzionale nella precisazione del concetto di
popolazioni interessate. Si ritiene pertanto che sarà opportuno
utilizzare questa nozione anche per i casi d’istituzione di nuovi
Comuni o di modifica delle loro circoscrizioni o denominazioni (ai
sensi dell’art. 133, co. 2 Cost.), ma ciò sarà compito della
giurisprudenza costituzionale che verrà.
Recentemente sul punto è intervenuto anche un disegno di legge
costituzionale d’iniziativa governativa155 che mira, attraverso la
modifica dell’art. 132, co. 2 Cost., a ridefinire il concetto di
popolazioni interessate, ampliandolo. Secondo questa proposta,
popolazioni interessate sono tutti quei “soggetti che, in qualche
misura, subiscono effetti significativi dal processo globale di distacco
e di aggregazione”. Non si approfondirà ora sul punto, riservandosi di
farlo nel corso del capitolo V di questa ricerca, dedicato
espressamente ai recenti sviluppi in materia di variazioni territoriali
delle Regioni.
3.4- La votazione, lo scrutinio e la dichiarazione del risultato del
referendum
155
Sul punto si veda il disegno di legge costituzionale in atto della Camera dei
deputati n. 2523 del 17 aprile 2007.
175
La votazione, come si è ricordato sopra156, si tiene entro tre
mesi dall’indizione del referendum ed è fissata con decreto del
Presidente della Repubblica.
Per quanto riguarda lo scrutinio c’è da aggiungere che non è
previsto un quorum di validità, ma è invece implicito un quorum di
approvazione della proposta soggetta a referendum. Ai sensi dell’art.
45, co. 2 della l. 352/1970, “la proposta sottoposta a referendum è
dichiarata approvata, nel caso che il numero dei voti attribuiti alla
risposta affermativa al quesito del referendum non sia inferiore alla
maggioranza degli elettori iscritti nelle liste elettorali dei comuni nei
quali è stato indetto il referendum” : si da così esatta attuazione alla
disposizione costituzionale che per l’approvazione della proposta
prescrive “la maggioranza delle popolazioni” interessate, in quanto il
soddisfacimento
della
funzione
garantistica
assegnata
alla
consultazione popolare è compatibile solo con la deliberazione della
maggioranza assoluta del corpo elettorale interessato.
Non è un caso che la lettera costituzionale non riferisca la
maggioranza a “voti validamente espressi” come nell’art. 75, co. 4
Cost. o a “voti validi” come nell’art. 138 Cost., ossia a quelle
espressioni che nel referendum abrogativo o costituzionale legittimano
l’esclusione delle schede bianche e nulle dal computo del quorum di
deliberazione e consentono perciò che la proposta referendaria venga
approvata con una maggioranza di voti favorevoli inferiore a detto
quorum
157
. Ciò è precluso nei referendum territoriali dalla barriera
della maggioranza assoluta degli elettori.
156
Si veda Capitolo III, p. 134.
Cfr. G. BALLADORE PALLIERI, Diritto costituzionale, Milano, 1976, p.
265.
157
176
Una questione sollevata molto di recente158 è quella riguardante
il quorum previsto dall’art. 45, co. 2 della l. 352/1970 per la validità
del referendum territoriale, che prevede il voto favorevole della
maggioranza assoluta degli iscritti nelle liste elettorali del Comune
interessato al voto: tale quorum è difficilmente raggiungibile in
presenza di enti locali che detengono molti elettori residenti all’estero
in quanto essi sono costretti a rientrare in Italia per l’esercizio del loro
diritto di voto. La disposizione attuativa in questione è inoltre, per
parte della dottrina159, incostituzionale ed in contrasto con altre leggi
ordinarie, sostenendo che tale quorum sia “abnorme”.
Innanzitutto si sostiene vi sia un contrasto con il secondo
comma dell’art. 132 Cost. in quanto, dopo la modifica intervenuta
con la legge costituzionale 3/2001, l’espressione “maggioranza delle
popolazioni” è interpretabile nel senso di maggioranza dei voti validi
espressi dalla maggioranza degli aventi diritto al voto (come per il
referendum abrogativo di cui all’art. 75, co. 4 Cost.). Su tale riforma
costituzionale è intervenuta, sia pure in via indiretta, la Corte
Costituzionale, la quale ha statuito che il referendum territoriale ha
carattere “meramente consultivo”160; considerata la natura consultiva e
dunque non vincolante per il legislatore statale della consultazione
referendaria in questione, perché, sostiene la più recente dottrina
158
Cfr. F. RATTO TRABUCCO, Sulla presunta incostituzionalità del quorum
della maggioranza assoluta degli iscritti alle liste elettorali per i referendum
territoriali ex art. 132, Cost., 2008, www.forumcostituzionale.it; F. RATTO
TRABUCCO, Il distacco-aggregazione di Comuni da una Regione ad un’altra:
ovvero il revival dell’autodeterminazione delle comunità locali in Nuova
rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, n. 1/2008, Firenze, pp. 39 ss.
159
Cfr. F. RATTO TRABUCCO, Sulla presunta incostituzionalità del quorum
della maggioranza assoluta degli iscritti alle liste elettorali per i referendum
territoriali ex art. 132, Cost. , 2008, www.forumcostituzionale.it, pp. 4 ss.
160
Si veda: Sentenza della Corte Costituzionale 10 novembre 2004 n. 334 in
Giurisprudenza costituzionale, Milano, n. 6/2004, p. 3779.
177
(Ratto Trabucco), prevedere un quorum estremamente difficoltoso da
raggiungere? La domanda naturalmente è retorica: quello che l’Autore
vuole dire è che, data la natura non vincolante del referendum, non
avrebbe senso prevedere un simile quorum e pertanto si deve
concludere che esso sia illegittimo, soprattutto alla luce della riforma
dell’art. 132, co. 2 Cost. e della precisazione intervenuta su di esso da
parte della Consulta.
Secondo detta dottrina l’aver aggravato il procedimento con un
quorum abnorme si pone in chiaro contrasto con i principi ispiratori
del Titolo V ed in particolare con quello di autoidentificazione
territoriale delle comunità locali; ne discenderebbe che il quorum da
prevedersi per i referendum ex art. 132, co. 2 Cost. non può che essere
quello della maggioranza dei voti validamente espressi.
Si sostiene poi che vi sia un contrasto con la disciplina per il
quorum del referendum abrogativo e costituzionale (o approvativo).
Nel caso del referendum abrogativo, vi è l’unica previsione
costituzionale regolatrice del quorum di una fattispecie referendaria
(art. 75, co. 4 Cost.); in essa si prevede un quorum strutturale di
partecipazione pari alla maggioranza degli aventi diritto al voto e,
qualora tale quorum sia raggiunto, un quorum funzionale che richiede
che la proposta sia approvata con il voto favorevole della maggioranza
dei voti validi.
Nel caso del referendum costituzionale non è previsto, sia pure in via
implicita, un quorum strutturale, ma solamente un quorum funzionale
pari alla maggioranza dei voti validamente espressi (art. 138, co. 2
Cost.).
Per quanto riguarda il referendum territoriale invece viene previsto
che il quorum per l’approvazione della proposta sia anche il quorum
178
di partecipazione per la validità della consultazione (art. 45, co. 2 della
l. 352/1970), cosa che ne rende molto più difficoltosa l’attuazione
rispetto alle altre due tipologie referendarie.
Si sottolinea inoltre che la disciplina del quorum per il referendum
abrogativo è perfettamente parallela alla disciplina costituzionale in
tema di numero legale prescritto per la validità delle deliberazioni
parlamentari (ex art. 64, co. 3 Cost.) e che maggioranze speciali sono
previste esclusivamente in casi determinati (per esempio: elezione del
Presidente della Repubblica, limitatamente ai primi tre scrutini; leggi
di concessione di amnistia o indulto), tra cui non rientra la previsione
di cui all’art. 132 Cost. Conclude l’Autore sostenendo che, alla luce di
queste considerazioni, la regola del quorum di cui all’art. 75, co. 4
Cost. debba ritenersi ragionevolmente estendibile anche all’ipotesi
referendaria di cui all’art. 132 Cost. e che non pare legittima la pretesa
di un quorum superiore, come invece stabilito dall’art. 45, co. 2 della
l. 352/1970.
In ultimo si ritiene che vi sia anche un contrasto con la
disciplina per il voto dei cittadini italiani residenti all’estero, quale
risulta dalla legge 27 dicembre 2001, n. 459: la legge in questione è
stata adottata al fine di garantire piena attuazione del nuovo art. 48,
co. 3 Cost., introdotto dalla legge costituzionale n. 1 del 1999, che
garantisce appunto l’effettività del diritto di voto degli elettori
residenti all’estero. Questi i motivi: le disposizioni di cui all’art 1, co.
1 e 2 della legge in questione configurano una disparità di trattamento
nell’esercizio del diritto di voto in danno dei cittadini residenti
all’estero; la situazione varia a seconda che essi siano chiamati a
votare per le elezioni delle Camere e per i referendum abrogativo o
costituzionale, dove è ammesso il voto per corrispondenza, o per le
179
elezioni comunali, provinciali, regionali e per i referendum territoriali,
dove invece è previsto che essi rientrino in Italia per votare nel
territorio del Comune in cui risultano iscritti all’anagrafe degli italiani
residenti all’estero (A.I.R.E.). Simili disposizioni sono in palese
contrasto col principio di effettività del suffragio (ex art. 48, co. 3
Cost.) in favore dei cittadini italiani residenti all’estero e col principio
di eguaglianza formale delle condizioni di voto di questi elettori
rispetto a quelli che risiedono nel territorio della Repubblica.
Tale differenziazione non ha alcuna valida ragione di sussistere anche
e soprattutto alla luce della riforma del Titolo V, la quale ha
accentuato l’autonomia degli enti locali, sancendo la divisione della
Repubblica
nei
seguenti
livelli
di
governo:
Comuni,
Città
metropolitane, Province, Regioni, Stato (art. 114, co. 1 Cost.). È
logico quindi pensare che le condizioni per le elezioni di un dato
livello di governo non possano essere più gravose di quelle previste
per un altro livello, pena la frustrazione dell’eguaglianza formale circa
le condizioni di voto.
Inoltre, per i referendum ex art. 132, già è stato previsto un quorum
approvativo161 più elevato rispetto alle altre tipologie referendarie e
non pare possibile aggravare ulteriormente tale consultazione con
adempimenti ulteriori, quali il necessario rientro degli elettori
residenti all’estero.
L’Autore desume dall’interpretazione di alcune disposizioni
della legge sul voto degli italiani all’estero rapportate con la legge
attuativa sul referendum che gli italiani residenti all’estero siano privi
del diritto di voto in merito alle variazioni territoriali delle Regioni e
che di conseguenza debbano rimanere esclusi dal computo ai fini del
161
Si veda la pagina precedente.
180
quorum
162
. Simile interpretazione non pare condivisibile, pena una
disparità di trattamento tra elettori residenti in Italia e residenti
all’estero, contraria all’effettività del diritto di voto a favore di questi
ultimi, come prescrive la disposizione costituzionale di cui al comma
terzo dell’art. 48 Cost.
Concludendo, le tesi dell’Autore in questione non sono
pienamente
condivisibili.
Come
sempre,
conviene
attenersi
precisamente al dettato legislativo e quindi pensare che se il
legislatore ha previsto quorum diversi per le varie tipologie di
referendum è perché ha voluto differenziare il referendum territoriale
da quello abrogativo e da quello costituzionale. In questo senso non si
ritiene simile differenziazione illegittima e di conseguenza non si
ritiene illegittimo nemmeno l’art. 45, co. 2 della l. 352/1970. Al
contrario, pare invece che la normativa che disciplina il voto degli
elettori residenti all’estero lo sia, in quanto crea delle ingiuste
disparità circa le condizioni di voto (vedi art. 1, co. 1 e 2 della l.
459/2001) e frustra il principio di effettività del suffragio dei cittadini
residenti all’estero, di cui all’art. 48, co. 3 Cost.
Per questi motivi si ritiene che la questione del difficile
raggiungimento del quorum previsto dall’art. 45, co. 2 della l.
352/1970 potrebbe essere risolta dal legislatore modificando la legge
459/2001 nella disposizione in cui non prevede il voto per
corrispondenza per i referendum ex art. 132 Cost. (e per le elezioni
degli altri enti locali).
162
Cfr. F. RATTO TRABUCCO, Sulla presunta incostituzionalità del quorum
della maggioranza assoluta degli iscritti alle liste elettorali per i referendum
territoriali ex art. 132, Cost., 2008, www.forumcostituzionale.it, p. 11.
181
Altra questione controversa relativa al quorum è quella che si
verifica
qualora
siano
indetti
referendum
“unitari”163
o
“cumulativi”164 tra più Comuni: della questione ci si occuperà nel
proseguio di questa trattazione165.
La fase della dichiarazione del risultato conclude la procedura
referendaria.
È previsto che l’Ufficio centrale per il referendum proceda alla somma
dei risultati della consultazione relativi a tutto il territorio nel quale si
è svolto e ne proclami il risultato (art. 45, co. 1 della l. 352/1970). Un
esemplare del verbale dell’Ufficio centrale contenente la dichiarazione
di approvazione o di rigetto della proposta è depositato presso la
Cancelleria della Corte di Cassazione; altre copie del verbale sono
trasmesse rispettivamente: ai Presidenti delle due Camere, al
Presidente del Consiglio dei Ministri ed ai Presidenti delle Regioni
interessate. Il Presidente del Consiglio dei Ministri cura che sia data
notizia sulla Gazzetta Ufficiale del risultato del referendum (art. 45,
co. 3 della l. 352/1970).
Merita un approfondimento la disposizione del co. 5 dell’art.
45 della l. 352/1970; in essa si prevede che: “qualora la proposta non
sia approvata, non può essere rinnovata prima che siano trascorsi
cinque anni”. La norma ricalca a grandi linee quella prevista dall’art.
38 della l. 352/1970 per il referendum abrogativo: in questo caso la
ratio della disposizione è quella d’impedire il reiterarsi di un
163
Secondo la definizione di D. TRABUCCO, Alcuni problemi legati alle
variazioni territoriali ex art. 132, 2° comma, Cost., www.forumcostituzionale.it,
p. 2.
164
Secondo la definizione di F. RATTO TRABUCCO, Il distacco-aggregazione
dei comuni da una Regione all’altra: ovvero il revival dell’autodeterminazione
delle comunità locali in Nuova rassegna di legislazione, dottrina, giurisprudenza,
n. 1-2008, Firenze, p. 48.
165
Si veda Capitolo IV, paragrafo 2.2.
182
potenziale conflitto fra i rappresentanti ed il corpo elettorale, che
potrebbe dar luogo ad una “drammaticità istituzionale”166. Questa
caratteristica non trova una giustificazione ed è estranea alla nozione
di referendum territoriale che si è finora cercato di ricostruire: è da
ritenersi pertanto che non sia né opportuna, né appropriata per
l’istituto in esame.
4-
Il procedimento legislativo
4.1- La fase istruttoria del procedimento legislativo
Una volta che il referendum abbia dato esito positivo, si apre la
fase istruttoria del procedimento legislativo. Questa fase è stata attuata
dal legislatore ordinario con l’art. 45, co. 4 della l. 352/1970 il quale
ha prescritto che: “il Ministro dell’Interno”, entro 60 giorni dalla
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’esito referendario positivo,
“presenta al Parlamento il disegno di legge costituzionale o ordinaria
di cui di cui all’articolo 132 della Costituzione”.
Il legislatore ha deciso di accordare l’iniziativa di legge al Ministro
dell’Interno, un organo che in via ordinaria è sprovvisto del potere di
avviare il procedimento legislativo come è ben specificato nell’art. 71,
co. 1 Cost., che ha previsto tale potere per il Governo, per i
parlamentari e per gli organi ed enti ai quali tale potere sia conferito
da legge costituzionale. Come può quindi rivestire tale funzione
quest’organo? La risposta che si può dare è che esso possa operare
166
Così definisce Pedrazza Gorlero questa caratteristica del referendum
abrogativo; Si veda: M. PEDRAZZA GORLERO in Commentario della
Costituzione a cura di G. BRANCA, A. PIZZORUSSO, tomo III, Bologna-Roma,
1990, p. 166.
183
soltanto come tramite formale dell’altrui iniziativa sostanziale.
L’iniziativa sostanziale è data dalla consultazione referendaria
positiva: in questo modo si accoglie implicitamente la concezione del
referendum d’iniziativa il quale, in quanto previsto dall’art. 132 Cost.,
soddisfa la prescrizione dell’art. 71, co. 1 Cost., ma, per essere
strutturalmente incapace di tradursi nell’atto d’iniziativa, legittima
un’iniziativa “tecnica” adatta allo scopo. La riserva non potrà essere
violata in quanto il Ministro dell’Interno è vincolato sia da un termine
perentorio previsto dalla legge (i 60 giorni), sia dal fatto che la legge
deve avere un contenuto conforme alla deliberazione referendaria.
L’iniziativa del Ministro dell’Interno è, di fatto, un atto dovuto ed egli
è pertanto un semplice organo di trasmissione.
Una critica che si può fare al legislatore ordinario in merito a
questa scelta è la seguente: perché affidare l’iniziativa di legge al
Ministro anziché al Governo nel suo insieme, che è l’ordinario titolare
dell’iniziativa (anche se vincolata), ai sensi dell’art. 71, co. 1 Cost?
Alcuni Autori167 hanno ravvisato una qualche analogia tra la norma in
esame e quella dell’art. 6, co. 1 della l. 62/1953 secondo la quale è il
Presidente del Consiglio dei Ministri che presenta al Parlamento gli
Statuti delle Regioni.
Vi sono però delle forti divergenze tra queste due norme: nell’art. 6,
co. 1 della l. 62/1953 il Governo è lasciato libero di determinarsi
riguardo al merito della legge, mentre la norma in esame esclude
questa possibilità. Il disegno di legge approvato col referendum,
inoltre, potrebbe aver bisogno di un contenuto accessorio da
deliberarsi con scelta collegiale: si pensi al caso in cui si ritenga di
167
Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol.
II, Padova, 1991, p. 98.
184
mutare il numero fisso dei seggi senatoriali attribuiti alle Regioni
toccate dalla variazione.
Si ritiene dunque che la scelta di affidare l’iniziativa di legge al
Ministro dell’Interno susciti notevoli perplessità in merito alla sua
legittimità costituzionale.
Si fa ora una breve digressione esegetica per vedere se il
legislatore ordinario avrebbe potuto attuare la norma costituzionale in
maniera diversa.
Si esordisce dicendo che la scelta di escludere gli organi
rappresentativi delle popolazioni interessate dal potere d’iniziativa di
legge è una scelta propria del legislatore ordinario: nulla infatti nel
dettato costituzionale sembra imporre una simile scelta a scapito dei
titolari dell’iniziativa referendaria. Anzi, se si fa un’interpretazione
analogica si vedrà che i soggetti dai quali proviene la richiesta di
referendum sono in parte gli stessi a cui è attribuita l’iniziativa delle
leggi di variazione delle circoscrizioni provinciali ai sensi dell’art.
133, co. 1 Cost.168 ergo i Consigli comunali sono in grado di
presentare un progetto di legge. Questa era, a parere di chi scrive, la
scelta più idonea da fare, anche in virtù di un principio di omogeneità
sotteso a tutta la Carta costituzionale.
Secondo parte della dottrina169 l’iniziativa legislativa avrebbe
potuto essere attribuita anche ai Consigli regionali interessati, dato che
le norme di attuazione (art. 44, co. 3 della l. 352/1970) hanno
ammesso alla pronuncia referendaria tutte le Regioni interessate a
tutte le variazioni territoriali. Questa tesi non appare condivisibile: già
168
Cfr. E. SPAGNA MUSSO, L’iniziativa nella formazione delle leggi, Napoli,
1958, pp. 97 ss.
169
Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol.
II, Padova, 1991, p. 98.
185
sopra170 si sono ravvisati dei dubbi circa la legittimità costituzionale di
questa norma che non permette un accertamento preciso della volontà
delle popolazioni direttamente interessate alla variazione territoriale;
dire ora che i Consigli regionali interessati potrebbero essere titolari
dell’iniziativa legislativa sarebbe una contraddizione in termini.
È invece pienamente condivisibile la tesi dottrinaria171 che
individua nella consultazione popolare un soggetto idoneo ad aprire il
procedimento legislativo, dal momento che si è accettato di seguire la
concezione unitaria172 in cui la richiesta come iniziativa di legge non
viene distinta dalla richiesta come iniziativa della consultazione
referendaria. Tale scelta, anche per essere congruente con quanto è
stato sopra affermato173 e cioè che titolare sostanziale dell’iniziativa è
la consultazione referendaria e che il Ministro dell’Interno è un
semplice organo di trasmissione.
4.2- Il parere dei Consigli regionali
Il parere dei Consigli regionali è costituzionalmente previsto
dall’art. 132 Cost. sia nelle ipotesi di fusione e creazione, sia in quella
di distacco-aggregazione. Tale gravame è stato previsto nella fase
istruttoria del procedimento di variazione territoriale: è obbligatoria
l’audizione dei pareri dei Consigli regionali interessati che non sono
vincolanti per il legislatore. La funzione era, almeno nelle intenzioni
del Costituente, quella di rappresentare al Parlamento l’avviso delle
170
Si veda Capitolo III, pp. 167 ss.
Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol.
II, Padova, 1991, p. 98.
172
Si veda Capitolo III, pp. 106 ss.
173
Si veda Capitolo III, pp. 183 ss.
171
186
popolazioni indirettamente interessate o controinteressate che non si
esprimono mediante il referendum. Originariamente il parere non era
previsto nell’ipotesi di fusione nella quale tutte le popolazioni erano
direttamente interessate alla variazione territoriale e pertanto tutte
potevano esprimere il loro parere con il referendum, vanificando
quindi qualsiasi valutazione del Consiglio regionale.
Tale diversa garanzia, che aggrava ulteriormente il procedimento,
s’incrocia perfettamente con quella referendaria, circoscritta però nei
termini sopra esposti (il corpo elettorale è composto solamente dalle
popolazioni direttamente interessate), in quanto ogni altra diversa
estensione della popolazione abilitata alla consultazione si tradurrebbe
in una superflua duplicazione degli strumenti di tutela, cosa che è
puntualmente avvenuta.
Le idee iniziali del Costituente, ottime e condivisibili, sono state
compromesse in parte dallo stesso, che implicitamente ha introdotto il
parere dei Consigli regionali anche nell’ipotesi di fusione, in parte e
soprattutto dal legislatore d’attuazione del referendum, il quale,
annullando ogni differenza tra le varie categorie di popolazioni
interessate, tutte chiamate alla consultazione referendaria, ha non solo
“sfigurato”174 l’autoidentificazione territoriale delle popolazioni
direttamente interessate, ormai dissolta nell’interesse di tutte, ma ha
anche esteso alle ipotesi di creazione e di distacco-aggregazione il
problema postosi inizialmente per la sola fusione. La duplicazione
delle valutazioni è ormai generalizzata, con il risultato che quella
174
Questa espressione forte è utilizzata da Pedrazza Gorlero e pare molto
adeguata a definire la situazione; si veda: M. PEDRAZZA GORLERO, Le
variazioni territoriali delle Regioni, vol. II, Padova, 1991, p. 100.
187
dell’organo rappresentativo viene coperta e svalutata da quella del
corpo elettorale.
Una funzione importante continua però ad essere ad
appannaggio del parere dei Consigli regionali e cioè quella di
riequilibrare la deliberazione di variazione territoriale adottata con una
maggioranza numerica cui non corrisponda una maggioranza diffusa
sul territorio. Una funzione quindi che merita di essere conservata, ma
che per essere più efficace in un simile quadro normativo dovrebbe
avere una collocazione procedimentale diversa, ad esempio fra
l’iniziativa legislativa e l’indizione del referendum, in modo che la
valutazione dell’organo rappresentativo abbia la possibilità di proporsi
in maniera autonoma e di esercitare la sua influenza sia sul corpo
elettorale interessato, sia sul legislatore.
4.3- La deliberazione legislativa
La fase della deliberazione sulla legge di variazione territoriale
pone anch’essa delle questioni delicate, tanto da essere meritevoli di
un accurato approfondimento.
Si esordisce dicendo che il Costituente ha previsto due diverse
tipologie di leggi per la modificazione del territorio regionale:
- per le ipotesi di fusione e di creazione ha prescritto l’utilizzo della
legge costituzionale;
- per l’ipotesi del distacco-aggregazione richiede l’utilizzo della legge
ordinaria.
188
Le motivazioni di tale differenziazione sono essenzialmente
storiche: come si è visto175 l’ultimo comma dell’art. 123 del progetto
di Costituzione prevedeva che: “I confini ed i capoluoghi delle
Regioni sono stabiliti con legge della Repubblica”, pertanto il
Costituente aveva previsto la legge ordinaria per l’ipotesi del distaccoaggregazione, che andava indirettamente a modificare i confini delle
Regioni, per evitare un conflitto tra quest’ipotesi ed il capoverso
dell’art. 123. Questa norma non fu approvata in sede di votazione
definitiva dell’art. 131 Cost.
e quindi si sarebbe forse potuta
prevedere anche per l’ipotesi in questione l’utilizzo della legge
costituzionale per un discorso di omogeneità. Francamente è
opportuno dire che sia stato meglio così: l’ipotesi di cui al co. 2
dell’art. 132 Cost. riguarda piccole modifiche al territorio, e la legge
costituzionale finirebbe per renderne il procedimento troppo laborioso
con il risultato di scoraggiarne l’avvio. La cosa potrebbe creare
problemi quando la Regione da cui avviene il distacco o verso cui
avviene l’aggregazione sia una Regione ad autonomia speciale, per via
dello Statuto “costituzionalizzato”; come si vedrà però, eventuali
problematiche sono state brillantemente risolte dal Governo e dalla
dottrina176.
La legge costituzionale è quella che pone le problematiche
maggiori.
Uno dei procedimenti di legislazione costituzionale (art. 138, co. 2
Cost.) prevede che la legge non sia promulgata e che si faccia ricorso
175
Si veda Capitolo I, pp. 41, 49, 52.
Per tutti i riferimenti, anche dottrinali, su questo punto si veda: Capitolo III
paragrafo 12.
176
189
al referendum (approvativo177) nel caso in cui la seconda deliberazione
legislativa sia stata approvata con la maggioranza assoluta dei
componenti e un quinto dei membri di ciascuna Camera, o
cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali lo abbiano
richiesto entro tre mesi dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
La norma costituzionale in esame non contempla un quorum di
partecipazione per la validità del referendum, quindi la consultazione
referendaria sarà valida qualunque sia il numero degli elettori che vi
abbia partecipato e l’atto da essa risultante produrrà i suoi effetti
quando abbia riportato la maggioranza dei voti validi. Potrebbe perciò
accadere che la minoranza soccombente a livello locale, associata a
settori, anche esigui, che si potrebbero definire “non interessati”, del
corpo elettorale nazionale, venga a mutarsi in maggioranza e che la
variazione territoriale, deliberata dal corpo elettorale interessato, sia
bocciata dalla pronuncia referendaria.
La cosa non dovrebbe stupire per due ragioni: la prima è che questa è
la normale conseguenza di un procedimento legislativo caratterizzato
dal disfavore per la revisione della Costituzione, la quale può essere
paralizzata da una minoranza avversa, se il corpo elettorale non riesca
ad esprimere una maggioranza omogenea alla deliberazione
legislativa; la seconda è che essa costituisce l’esito della diversità
delle due valutazioni, locale l’una, nazionale l’altra.
Non sembra però opportuno che una legge che si fonda sul
referendum
territoriale,
espressione
dell’autoidentificazione
territoriale delle popolazioni interessate, che realizza il presupposto
istituzionale dell’autonomia regionale, non sia approvata a causa di un
referendum nazionale che non può certamente essere espressione della
177
Si veda Capitolo III, p. 138.
190
volontà delle popolazioni interessate. Per dare una risposta a questo
quesito, bisogna individuare quale sia la funzione del referendum
approvativo.
Simile pronuncia referendaria non ha il compito di manifestare in
modo espresso il necessario consenso popolare alla deliberazione delle
Camere, consenso che invece si considera tacitamente prestato quando
la seconda deliberazione legislativa sia stata adottata con la
maggioranza dei due terzi (art. 138, co. 3 Cost.) oppure con la
maggioranza assoluta ma senza che intervenga la richiesta di
referendum (art. 138, co. 2 Cost. interpretato al contrario). Il consenso
popolare è il risultato di una finzione giuridica, consistente
nell’applicazione
del
principio
maggioritario
al
rapporto
rappresentativo: dalla mancanza di una richiesta referendaria può
dedursi soltanto l’assenza di una minoranza qualificata dissenziente
rispetto alla deliberazione legislativa, non anche il consenso popolare
su di essa. La funzione del referendum approvativo è quella di
garantire quelle minoranze che siano qualificate della società politica,
delle autonomie locali, dell’opposizione parlamentare. Tale funzione è
incompatibile con quella di prestare il consenso popolare alla
deliberazione legislativa, sia perché la maggioranza assoluta fa già
presumere l’esistenza del consenso, sia perché la minoranza, che è
maggioranza nella consultazione referendaria, non può attestare la
volontà maggioritaria del corpo elettorale, ma può, al più, confortare
la deliberazione legislativa. Da ciò si desume che il referendum
approvativo non appartiene, come quello territoriale, alla fase
costitutiva del procedimento legislativo, ma a quella integrativa
dell’efficacia.
191
Ora, se si può concedere che una minoranza consideri contraria
all’interesse nazionale una legge di creazione o di fusione di Regioni,
e che tale valutazione sia condivisa dalla minoranza del corpo
elettorale nazionale, non si comprende con quale fondamento
costituzionale questa minoranza dovrebbe venire tutelata a preferenza
di quella che ha attivato il procedimento di variazione territoriale che,
attraverso
il
presupposto
dell’autoidentificazione
territoriale,
costituisce il presupposto costituzionale dell’autonomia regionale e di
tale legge.
Autorevole dottrina178 ha anzi motivo di ritenere che il disposto
combinato degli artt. 5, 132 e 138, co. 2 Cost. vada letto nel senso che,
a differenza del procedimento ordinario di revisione costituzionale,
qui la garanzia dell’interesse della minoranza territoriale, realizzata
dal procedimento di variazione non possa cedere all’interesse della
minoranza del corpo elettorale nazionale, ma soltanto, semmai, alla
volontà maggioritaria di quest’ultimo, che è la sola in grado di
concretare l’interesse generale. In altri termini, il referendum nel
procedimento di revisione costituzionale ha il fine di rendere possibile
un appello al popolo, che consenta la difesa dei valori costituzionali
sottesi alle norme sottoposte a revisione. Nelle leggi di variazione
territoriale il valore costituzionale viene conseguito mediante il
referendum territoriale e la conforme deliberazione legislativa del
Parlamento, che è il giudice dell’interesse generale e nazionale. Da ciò
deriva che il procedimento di legislazione costituzionale che
contempla il referendum non può trovare applicazione nel
procedimento di variazione territoriale: il procedimento di legislazione
178
Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol.
II, Padova, 1991, p. 104.
192
costituzionale ex art. 132, co. 1 Cost. è un ulteriore, un “altro”,
procedimento di legislazione costituzionale oltre a quello ordinario
previsto dall’art. 138 Cost.
Non tutta la dottrina è però concorde con questa tesi: alcuni179
ritengono che il referendum approvativo debba comunque celebrarsi
anche nel caso di una legge di variazione territoriale, senza darne
tuttavia un’adeguata motivazione; altri non esprimono nessun tipo di
giudizio, sostenendo che “l’assenza di una concreta esperienza di
attuazione dell’art. 132, ancora una volta, amplifica ogni difficoltà”180.
La prima tesi, quella che ritiene l’art. 138, co. 2 Cost. non
applicabile ai procedimenti di variazione territoriale, è quella più
condivisibile perché ben argomentata e convincente.
Vi sono poi anche altre problematiche, comuni per entrambe le
tipologie di leggi di variazione territoriale, sia costituzionali che
ordinarie.
La prima si riferisce alla seguente questione: il legislatore, in caso di
esito positivo della consultazione referendaria, è obbligato a deliberare
la legge di variazione territoriale? La risposta è senza dubbio negativa:
il Parlamento ha il compito di valutare la congruità della proposta di
variazione territoriale in relazione all’interesse nazionale. In tal modo,
l’istanza locale di modifica morfologica viene apprezzata dalle
Camere nella prospettiva dell’unità e dell’indivisibilità della
Repubblica, di cui all’art. 5 Cost., a garanzia del territorio della
nazione, del popolo e della Costituzione. Da ciò deriva che il
legislatore, tutore degli interessi unitari, conserva la discrezionalità in
179
Cfr. V. FALZONE, F. PALERMO, F. COSENTINO, La Costituzione della
Repubblica italiana , Milano, 1976, p. 414.
180
Cfr. L. FERRARO, Commentario alla Costituzione, a cura di R. BIFULCO, A.
CELOTTO, M. OLIVETTI, Torino, 2006, p. 2542.
193
merito alla scelta di adottare o meno la proposta di variazione
territoriale.
Dopo aver risposto a questo primo quesito, ve n’è un secondo non
meno importante da esaminare: il legislatore che ritenga opportuna la
modificazione territoriale, deve deliberare in senso necessariamente
conforme alla pronuncia referendaria o può discostarsi dal contenuto
dell’atto risultante dal referendum? La risposta si ricava dopo
un’analisi dell’atto risultante dalla consultazione popolare. Il risultato
del referendum non è un semplice parere, ma un atto avente valore
d’iniziativa181,
ribadita
da
una
pronuncia
popolare
di
autoidentificazione territoriale che costituisce il presupposto del
riconoscimento costituzionale dell’autonomia regionale. L’iniziativa
della legge di variazione territoriale è riservata agli organi
rappresentativi delle popolazioni interessate, su cui delibera il corpo
elettorale interessato: si prefigura in tal modo il contenuto non
modificabile della legge stessa, limitando di conseguenza le scelte
d’indirizzo affidate al Parlamento182. Se il legislatore statale non si
adeguasse e si spingesse a modificare il contenuto della legge di
variazione territoriale, definito nei suoi termini essenziali dalla
pronuncia referendaria, ciò sarebbe in contrasto con la riserva
d’iniziativa e con la natura del referendum di variazione territoriale.
La fase della deliberazione legislativa si conclude con la
promulgazione della legge di variazione territoriale. L’art. 46, co. 1 e
3 della l. 352/1970 dispone la menzione dell’esito favorevole del
referendum
nella
formula
di
181
promulgazione
della
legge;
Si veda Capitolo III, pp. 157 ss.
In questo senso si veda: M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali
delle Regioni, vol. II, Padova, 1991, p. 108.
182
194
configurandosi la promulgazione come dichiarazione della volontà
legislativa, ciò induce a considerare il procedimento di variazione
territoriale come un procedimento legislativo unitario183.
Per quanto riguarda l’entrata in vigore della legge, vale la pena
di
ricordare che, comportando essa lo scioglimento dei Consigli
regionali interessati, il Parlamento potrebbe ritardarne l’entrata in
vigore fino all’avvenuta elezione dei nuovi Consigli regionali184.
4.4- La qualificazione giuridica delle leggi di variazione territoriale
e la loro collocazione nel sistema delle fonti
Terminata la spiegazione “dinamica” del procedimento
legislativo di variazione territoriale, resta un’ultima importante
questione da esaminare, e cioè la qualificazione giuridica da dare alla
legge di variazione territoriale. La qualificazione giuridica di tali leggi
è fondamentale per accertare se e come essa influisca nel sistema
costituzionale delle fonti.
Le leggi di variazione territoriale (sia quelle costituzionali, sia
quelle ordinarie) si caratterizzano per particolarità concernenti sia il
procedimento sia il contenuto.
Sotto il profilo procedimentale sono leggi in cui:
- la fase dell’iniziativa è riservata agli organi rappresentativi delle
popolazioni direttamente interessate alla variazione territoriale;
183
Si veda Capitolo III, pp. 106 ss.
Sostiene questa tesi: G. D’ORAZIO, In tema di variazioni del territorio
regionale in Scritti in onore di Costantino Mortati, Milano, 1977, p. 690.
184
195
- la fase istruttoria è gravata dal parere obbligatorio e non vincolante
dei Consigli regionali rappresentanti le popolazioni interessate alla
variazione;
- la fase costitutiva è segnata dal concorso essenziale della volontà
popolare alla formazione del contenuto della deliberazione legislativa.
Sotto il profilo contenutistico tali leggi hanno un contenuto che è
vincolato
alla
deliberazione
referendaria
avente
ad
oggetto
l’autoidentificazione territoriale della comunità regionale, cioè la
deliberazione legislativa è vincolata all’accettazione o al rigetto del
contenuto dell’atto configurato nell’iniziativa, senza possibilità
d’incidervi.
Le peculiarità di procedimento e di contenuto delle leggi in
esame fanno ritenere che l’art. 132 Cost. ponga delle riserve di legge
“rinforzate”, aggiunga cioè alla prescrizione dell’uso della legge
costituzionale od ordinaria, l’indicazione per il legislatore di un limite
sostantivo, consistente nel mettere a contenuto della propria
deliberazione l’atto risultante dal referendum, e vi accompagni la
predisposizione del sentiero procedurale specificamente dedicato alla
formazione di detto limite.
La dottrina non è concorde nel ritenere l’autonomia scientifica della
riserva di legge rinforzata. Alcuni185 rilevano che anche le riserve
“semplici” siano sottoposte a limiti sostantivi sia generici sia specifici
derivanti da altre norme o dal sistema costituzionale e pertanto
sarebbe inutile distinguere tra riserve di legge semplici e riserve di
legge rinforzate.
185
Cfr. R. BALDUZZI, F. SORRENTINO, Riserva di legge in Enciclopedia del
diritto, vol. XL, Milano, 1989, p. 1211.
196
Altri186 invece ritengono che sia proprio la distinzione tra limiti
generali e limiti specifici a fondare quella tra i due tipi di riserva, la
riserva rinforzata caratterizzandosi per dettare degli ulteriori limiti
specifici rispetto a quelli costituzionali generali. L’autonomia
concettuale della riserva rinforzata dovrebbe comunque conservarsi
per le riserve nelle quali il limite sostantivo specifico costituisce
l’esito di un’alterazione morfologica del procedimento legislativo, in
quanto tale alterazione è disposta, con ogni evidenza, per concretare
quel limite, non potendosi desumere da altra norma o dal sistema
costituzionale.
Il concetto di riserva di legge rinforzata conduce direttamente al
concetto di legge rinforzata, cioè una legge il cui procedimento di
formazione contempla un aggravamento rispetto all’ordinario
procedimento legislativo: le leggi di variazione territoriale di cui
all’art. 132 Cost. possono quindi essere qualificate come leggi,
costituzionali o ordinarie, rinforzate.
4.4.1- Qualificazione giuridica e collocazione sistematica della legge
costituzionale di variazione territoriale
La tipologia normativa della legge costituzionale, ex art. 132,
co. 1 Cost., è stata prevista, come si è visto, per due ragioni, una di
ordine formale, l’altra di ordine sostanziale.
186
Cfr. G. ZAGREBELSKY, Manuale di diritto costituzionale, vol. I, Torino,
1987, p. 55; su questa teoria concorda anche M. PEDRAZZA GORLERO, Le
variazioni territoriali delle Regioni, vol. II, Padova, 1991, p. 111.
197
La prima è determinata da una compenetrazione strutturale tra l’art.
131 Cost. e la norma di revisione: avendo la norma in questione rango
costituzionale, la norma che la riforma dovrà essere di pari rango.
La motivazione sostanziale del ricorso alla legge costituzionale è
rappresentata
dalla
necessità
di
dare
un
esito
istituzionale
all’autoidentificazione territoriale come comunità regionali delle
popolazioni direttamente interessate alla variazione, la quale è in
grado d’influire sul procedimento legislativo, nel senso di escluderne
la variante che nella fase integrativa dell’efficacia prevede l’eventuale
ricorso al referendum approvativo.
La circostanza che la legge costituzionale di variazione territoriale, in
ragione del suo contenuto specifico, sia caratterizzata anche da questa
anomalia procedimentale, implica che essa possa essere considerata
“altra” rispetto alla legge ordinaria di revisione costituzionale. In
realtà ciò che la contraddistingue è proprio il contenuto “non di
revisione”187 che obbliga all’impiego di un procedimento che non
contempla il ricorso al referendum ex art. 138 Cost.
Alla luce di quanto visto finora, la legge costituzionale di variazione
territoriale è:
- una legge a contenuto misto;
- una legge a procedimento vincolato;
- una legge emanata in materia di riserva di legge costituzionale
rinforzata;
- una legge aggravata rispetto al procedimento legislativo ordinario.
Quest’ultimo carattere è il fondamento sia del procedimento
superaggravato sia del concetto di legge costituzionale rinforzata. Su
187
Così la definisce Pedrazza Gorlero in: M. PEDRAZZA GORLERO, Le
variazioni territoriali delle Regioni, vol. II, Padova, 1991, p. 112.
198
tali nozioni si registrano in dottrina forti divergenze, che
provvederemo qui di seguito ad esaminare.
Secondo una parte (Zagrebelsky188) il concetto di legge
rinforzata si deduce focalizzando l’attenzione sull’efficacia formale
della legge. Il criterio gerarchico attribuisce ad ogni forma normativa
una particolare efficacia, o forza, detta efficacia formale (dipendente
dalla sua forma). Per efficacia formale s’intende, dal punto di vista
attivo, la capacità d’innovare rispetto ad altre fonti (attraverso
l’abrogazione, la deroga, la modifica), dal punto di vista passivo, la
capacità di resistere all’innovazione da parte di altre fonti (cioè alla
propria abrogazione, deroga, modifica).
La Costituzione ha operato una “relativizzazione” della forza di legge,
prevedendo che essa possa realizzarsi in vari modi tra cui leggi
maggiormente resistenti all’abrogazione più di quanto non siano le
leggi in generale (leggi rinforzate sul lato passivo) e leggi
maggiormente
efficienti
nell’abrogazione
di
precedenti
fonti
legislative (leggi rinforzate sul lato attivo). L’art. 132 Cost.
appartiene, come si vedrà, alla prima di queste due fattispecie.
Secondo altra autorevole dottrina (Paladin189) invece l’aggettivo
“rinforzate” non dev’essere preso alla lettera, in quanto si tratta
solamente di leggi chiamate a risolvere questioni particolarissime.
Secondo altri ancora (Quadri190), la legge rinforzata si
differenzia da quella ordinaria perché “non potrebbe essere abrogata o
derogata da leggi non emanate in osservanza dei requisiti
costituzionali prescritti per la sua emanazione”.
188
Cfr. G. ZAGREBELSKY, Manuale di diritto costituzionale, vol. I, Torino,
1987, pp. 62 ss.
189
Cfr. L. PALADIN, Lezioni di diritto costituzionale, Padova, 1989, pp. 162 ss.
190
Cfr. G. QUADRI, La forza di legge, Milano, 1979, p. 108.
199
La definizione di leggi rinforzate che pare più convincente è
quella (data da Crisafulli191) secondo cui queste sono “leggi per la
validità delle quali, in ordine a determinati oggetti, si richiedono
particolari presupposti ovvero condizioni e modalità di formazione più
difficoltose e complesse (aggravate) di quelle in genere prescritte per
le leggi del medesimo tipo”. Leggi rinforzate possono essere sia di
rango costituzionale, sia ordinario, sia regionale. L’art. 132, co. 1
Cost. appartiene a questa categoria perché “non si accontenta di una
legge costituzionale qualsiasi, ma esige la richiesta di un determinato
quorum di consigli comunali, l’approvazione della richiesta stessa con
referendum popolare ed infine il parere dei consigli regionali
interessati”192.
La chiave di volta di questa definizione sta nel fatto che le leggi
rinforzate “richiedono particolari presupposti ovvero condizioni e
modalità di formazione più difficoltose e complesse (aggravate) di
quelle in genere prescritte per le leggi del medesimo tipo”, ergo
richiedono un procedimento “superaggravato”. Secondo alcuna
dottrina (Cicconetti193) il procedimento di formazione delle leggi
costituzionali previsto dall’art. 138 Cost. subisce un aggravamento dal
punto di vista procedurale rispetto al procedimento legislativo
“ordinario” e quindi viene detto “aggravato”. Tale procedimento
aggravato viene, in determinate ipotesi, ancor più aggravato dal punto
di vista procedurale e quindi è stato definito “superaggravato”. Tale
superaggravamento è riscontrabile nell’ipotesi di cui all’art. 132, co. 1
191
Cfr. V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II, Padova, 1993,
pp. 239 ss.
192
Cfr. V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II, Padova, 1993,
pp. 239 ss.
193
Cfr. S. M. CICCONETTI, La revisione della Costituzione, Padova, 1972, p.
188.
200
Cost. per gli stessi motivi ravvisati dall’Autore precedentemente
esaminato (Crisafulli).
Parte della dottrina194 ritiene che la legge costituzionale
rinforzata non avrebbe alcuna conseguenza sull’efficacia formale
dell’atto, ossia su quella particolare efficacia attiva e passiva che
deriva dalla forma dell’atto, e perciò non si tradurrebbe in una
superiorità gerarchica della legge costituzionale di variazione
territoriale rispetto alla legge costituzionale ordinaria: il criterio di
sistemazione della legge rinforzata all’interno delle fonti non è la
gerarchia, bensì la competenza. La separazione rispetto alle leggi
costituzionali ordinarie non è in verticale (gerarchia) ma in orizzontale
(competenza).
Se non si accettasse questa tesi, si potrebbe giungere al paradosso di
ritenere che “una legge costituzionale che stabilisca la fusione tra due
regioni dovrebbe dirsi superiore all’art. 132 che tale facoltà le
conferisce, così come, ancor più paradossalmente, le leggi di revisione
della Costituzione, ed in genere le leggi costituzionali, dovrebbero
dirsi superiori alla stessa Costituzione perché essa venne approvata
secondo un procedimento meno complesso di quello previsto dall’art.
138”195.
A ciò si aggiunge un altro rilievo e cioè che una legge di variazione
territoriale
“che
non
assuma
194
le
forme
ed
i
contenuti
Cfr. G. ZAGREBELSKY, Manuale di diritto costituzionale, vol. I, Torino,
1987, p. 64; L. PALADIN, Lezioni di diritto costituzionale, Padova, 1989, p. 163;
S. M. CICCONETTI, La revisione della Costituzione, Padova, 1972, pp. 191 ss.
195
Cfr. S. M. CICCONETTI, La revisione della Costituzione, Padova, 1972, pp.
191 ss.
201
costituzionalmente prescritti è invalida per contrasto con la
costituzione (…) essa è invalida (…) perché viola la costituzione”196.
La constatazione che una legge costituzionale ordinaria non possa
modificare una legge costituzionale rinforzata nulla prova circa
l’inferiorità della prima e la superiorità della seconda, ma solo che le
materie di competenza sono diverse e che è impossibile che una data
materia venga disciplinata da leggi costituzionali approvate senza
rispettare gli aggravamenti procedurali previsti, perché ciò sarebbe
costituzionalmente illegittimo. Le leggi rinforzate sono sullo stesso
piano gerarchico delle altre leggi costituzionali ed il limite che queste
ultime incontrano deriva da una specifica riserva di competenza
stabilita dall’art. 132, co. 1 Cost.
Altri Autori197 sostengono che l’art. 131 Cost. sia dotato, in
dipendenza delle previsioni dell’art. 132, co. 1 Cost., di una forza
passiva potenziata, rispetto a quella delle norme costituzionali
ordinarie, e che sia anch’esso una legge costituzionale rinforzata. Ora,
l’art. 131 Cost. non è sottratto a revisione, ma piuttosto è soggetto ad
una revisione doppiamente condizionata nel senso che la legge
relativa, da una parte è tenuta a seguire il procedimento
superaggravato previsto dall’art. 132, co. 1 Cost., dall’altra deve
assumere come contenuto quello predeterminato dalla consultazione
referendaria. Il rispetto della deliberazione referendaria è conseguenza
del principio dell’autodeterminazione popolare per l’identificazione
del territorio e della comunità regionale, che si fonda sull’art. 5 Cost.
196
Cfr. G. ZAGREBELSKY, Manuale di diritto costituzionale, vol. I, Torino,
1987, p. 64.
197
Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol.
II, Padova, 1991, p. 114; V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, vol.
II, Padova, 1993, p. 240.
202
L’art. 132, co. 1 Cost. è una norma speciale di revisione che si
conforma al rispetto di detto principio, apparendo perciò munito di
una
superiore
resistenza
all’abrogazione
e
gerarchicamente
sovraordinato rispetto alle altre norme costituzionali; di conseguenza
anche l’art. 131 Cost. è dotato di una maggiore forza passiva ed è
gerarchicamente sovraordinato. Per questo motivo, come riferisce
recente dottrina (Mainardis198) l’art. 132, co. 1 Cost. potrebbe essere
derogato
attraverso
un
doppio
procedimento
di
revisione
costituzionale, cioè con due leggi costituzionali: la prima andrebbe ad
incidere sui limiti sostanziali e procedurali imposti dall’art. 132, co. 1
Cost.; la seconda andrebbe invece a modificare l’elenco delle Regioni
quale risulta dall’art. 131 Cost.
Autorevole dottrina (Pedrazza Gorlero), pur concordando con
questa
visione
dell’art.
132,
co.
1
Cost.,
fa
un’ulteriore
considerazione, sostenendo che la categoria concettuale in esame è
strutturata in modo da consentire la revisione dell’art. 131 Cost. ed
allo stesso tempo da concretizzare il principio dell’autodeterminazione
popolare, sottratto a revisione; questi elementi configurano la
fattispecie in esame come una variante della forma tipica (o una forma
specializzata della stessa fonte). Dal punto di vista procedimentale,
l’aggravamento rispetto al procedimento ordinario non è una semplice
variante, ma piuttosto un procedimento di legislazione costituzionale
“differenziato”. Dal punto di vista del contenuto invece si tratta di un
atto complesso eguale, dove la fattispecie complessa dell’atto
normativo è il risultato dell’identificazione referendaria della
198
Si veda: C. MAINARDIS, commento all’art. 132 della Costituzione italiana in
Commentario breve alla Costituzione, a cura di BARTOLE S., BIN R., Padova,
2008, p. 1142.
203
comunità regionale sommata alla deliberazione legislativa di istituirla
in Regione. All’interno dell’atto complesso vi sono quindi differenti
volontà:
- una referendaria, cui corrisponde la funzione costituzionale di dar
voce all’autodeterminazione popolare;
- una legislativa, cui corrisponde il compito di istituire l’ente-regione,
in rapporto anche agli interessi generali nazionali.
In sostanza il procedimento costituzionale di variazione territoriale
costituisce uno sviluppo “strumentale” di tale principio: il referendum
identifica un gruppo territoriale come comunità regionale, mentre la
legge costituzionale, istituendola come Regione, le fa assumere la
forma
organizzativa
idonea
alla
sua
espressione. La
legge
costituzionale di variazione territoriale palesa qualche difficoltà ad
inquadrarsi all’interno di una forma specializzata della stessa fonte
perché i caratteri “comunitari” della legge, l’essere cioè deliberata
congiuntamente da una comunità territoriale e dal Parlamento,
determinano
una
“particolare
qualità”199
di
essa
a
livello
costituzionale.
Dopo aver analizzato queste autorevoli tesi dottrinarie è
possibile esprimere un giudizio sulla legge costituzionale di variazione
territoriale.
In merito alle tesi che ritengono la legge in questione gerarchicamente
sovraordinata rispetto alle leggi costituzionali ordinarie, si deve dare
parere contrario: essa è certamente rinforzata sul lato passivo, ma ciò
deriva solamente da un diverso procedimento formativo, che non
199
Così la definisce in modo molto appropriato Pedrazza Gorlero; vedi: M.
PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol. II, Padova,
1991, pp. 120-121.
204
giustifica una sovraordinazione gerarchica, pericolosa, perché
sovvertirebbe il sistema delle fonti.
È pienamente condivisibile l’interpretazione di autorevole dottrina
(Pedrazza Gorlero) che considera l’ipotesi legislativa in questione un
atto qualitativamente particolare. La particolarità è data dalla
deliberazione congiunta da parte di una comunità territoriale e del
Parlamento, perciò, avendo sostenuto che il referendum territoriale sia
deliberativo200, non è possibile non concordare con questa tesi, che
considera determinante la volontà del corpo elettorale.
4.4.2- Qualificazione giuridica e collocazione sistematica della legge
ordinaria di variazione territoriale
Molte delle considerazioni fatte nel paragrafo precedente
valgono anche per l’ipotesi di cui al capoverso dell’art. 132 Cost., in
particolare per quanto riguarda la morfologia del procedimento
legislativo e la natura di atto complesso eguale rivestito dalla legge di
variazione territoriale. Più attenuato appare invece il carattere di legge
“comunitaria” in quanto la comunità territoriale che chiede di
abbandonare un’identità regionale per espanderne un’altra, lo fa
ritenendo di partecipare già di quest’ultima e ricerca quindi una più
adeguata forma espressiva della propria autonomia. Correlativamente,
il giudizio del Parlamento avrà margini più ampi perché dovrà
considerare anche gli interessi della Regione a cui si chiede
l’aggregazione.
200
Si veda Capitolo III, pp. 157 ss.
205
Anche la legge ordinaria può essere rinforzata201. La
collocazione di queste leggi nel sistema delle fonti appare più
semplice rispetto all’ipotesi di cui sopra in quanto viene a mancare il
dibattito sulla legge di revisione costituzionale ex art. 138 Cost. e le
altre leggi di revisione costituzionale poiché la legge ordinaria non
può rientrare nelle norme sottratte al procedimento di revisione
costituzionale ordinario.
Per quanto riguarda la qualificazione giuridica delle leggi
ordinarie di variazione territoriale, la letteratura in argomento le ha
considerate anch’esse come leggi rinforzate202, altri invece le hanno
considerate come fonti atipiche. Il concetto di fonte atipica non è
unanimemente definito in dottrina. Alcuni203 ritengono che l’atipicità
sia la generica non corrispondenza alla forma-efficacia dell’atto
normativo tipico, ed allora atipici si possono considerare tutti gli atti
normativi che non ne rivestono la forma o l’efficacia tipica. Inteso in
questo senso il carattere dell’atipicità, le leggi rinforzate sono leggi
atipiche.
Altri204 invece ritengono che l’atipicità sia intesa come scissione tra
forma ed efficacia di un atto normativo: atti della stessa forma hanno
efficacia differente da quella tipica. In questo senso le leggi di
variazione territoriale sono provvedimenti dotati di un’efficacia
201
Si veda Capitolo III, paragrafo 11; G. QUADRI, La forza di legge, Milano,
1979, p. 108; V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II, Padova,
1993, p. 239.
202
Cfr. G. QUADRI, La forza di legge, Milano, 1979, p. 108; G.
ZAGREBELSKY, Manuale di diritto costituzionale, vol. I, Torino, 1987, p. 64;
V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II, Padova, 1993, p. 239.
203
Cfr. G. ZAGREBELSKY, Manuale di diritto costituzionale, vol. I, Torino,
1987, p. 64.
204
Cfr. A. LA PERGOLA, Costituzione e adattamento dell’ordinamento interno
al diritto internazionale, Milano, 1961, pp. 275 ss.
206
superiore rispetto al provvedimento tipico, ma formalmente
identificate solo da una variante procedimentale e perciò sono da
considerarsi fonti tipiche.
Secondo altri205 ancora, la legge rinforzata dev’essere considerata una
legge atipica, distinguendosi all’interno della categoria per avere
l’atipicità (scissione tra forma ed efficacia) un indice formale nella
variante procedimentale.
La linea interpretativa da seguire è quella proposta da Crisafulli e da
Zagrebelsky che considerano la legge di cui all’art. 132, co. 2 Cost.
atipica in quanto la sua forma è aggravata rispetto al procedimento
legislativo ordinario.
Definito il carattere di atipicità della legge ordinaria di variazione
territoriale, si vede ora quale influenza questo abbia nella collocazione
sistematica di tale legge. Da una parte pare forzato negare ogni
influenza della legge ordinaria di variazione territoriale sulla gerarchia
delle fonti, dall’altra sembra eccessivo identificarvi un segno della
dilatazione dei gradi gerarchici e dei tipi normativi, posto che la
maggiore forza passiva della legge è propria in realtà della norma
costituzionale che ne prevede i limiti di forma e di contenuto. La
soluzione preferibile, per dirla alla Pedrazza Gorlero, è quella di
considerare la legge ordinaria di variazione territoriale una forma
specializzata della medesima fonte206 in quanto la legge “concreta due
aspetti
speciali
della
gerarchia,
uno
formale,
consistente
nell’alterazione del procedimento tipico, ed uno sostanziale,
205
Cfr. V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II, Padova, 1993,
p. 195.
206
Si veda Capitolo III, pp. 203 ss.
207
rappresentato dal dover essere il suo contenuto conforme alla
deliberazione referendaria” 207.
4.5- La forma della legge per l’aggregazione ad una Regione a
Statuto speciale
L’aspetto formale-procedurale su cui ora ci si sofferma è stato
messo in luce dalla recente sentenza n. 66/2007 della Corte
Costituzionale208: la legge ordinaria di modificazione di cui al
capoverso dell’art. 132 Cost. vale anche nel caso di modificazioni del
territorio di Regioni speciali o, al contrario, in tali casi occorre una
legge costituzionale?209
Bisogna innanzitutto dire che il dictum della Consulta non esaurisce
tutte le questioni formali che si pongono nel caso di un’aggregazione
ad una Regione speciale, perché ciò non era nel petitum del ricorrente.
La decisione ha invece il merito di aver messo in luce una questione
su cui si è espressa proficuamente la dottrina210.
Secondo la Consulta, la circostanza che nei procedimenti di cui
all’art. 132, co. 2 Cost. sia coinvolta anche una Regione ad autonomia
207
Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni, vol.
II, Padova, 1991, p. 124.
208
Sentenza della Corte Costituzionale 9 marzo 2007 n. 66 in Giurisprudenza
costituzionale, Milano, 2007.
209
Si veda Capitolo III, pp. 135 ss.
210
Cfr. G. D’ORAZIO, In tema di variazioni del territorio regionale in Scritti in
onore di Costantino Mortati, Milano, 1977, pp. 684 ss.; A. D’ATENA, Profili
procedurali della migrazione dei Comuni nei territori delle regionali speciali in
Giurisprudenza costituzionale, Milano, 2007, pp. 659 ss.; M. MALO, Forma e
sostanza in tema di variazioni territoriali regionali (a margine della pronuncia
66/2007 della Corte Costituzionale) in Le Regioni, n. 3-2007, pp. 641 ss.; M.
BARBERO, Enti locali “in fuga”: questioni di forma e sostanza, 2007,
www.federalismi.it; D. TRABUCCO, Il problema della costituzionalizzazione del
territorio delle Regioni a Statuto speciale, 2008, www.forumcostituzionale.it.
208
differenziata non varrebbe a giustificare deroghe alla disciplina
generale e non sarebbe dunque richiesto il ricorso al procedimento di
revisione dello Statuto speciale. La maggiore difficoltà che si oppone
a tale soluzione è costituita dalla presenza, negli Statuti costituzionali,
di norme rivolte ad identificare i territori delle rispettive Regioni211:
potrebbe quanto meno apparire dubbio che una disciplina di rango
costituzionale (qual è la disciplina statuaria speciale) possa essere
validamente modificata mediante un procedimento, il quale, sebbene
sia aggravato, culmina in un atto legislativo ordinario.
La questione ha origine dal fatto che si ritiene che il territorio delle
Regioni differenziate sia stato costituzionalizzato mentre quello delle
Regioni ordinarie non lo sia stato. Ma è proprio così? Le Regioni a
Statuto speciale versano in una condizione qualitativamente
differenziata per quanto concerne le variazioni territoriali rispetto alle
Regioni ordinarie, tali da richiedere degli aggiustamenti del
procedimento contemplato nell’art. 132, co. 2 Cost.?
La dottrina non è concorde. Vi è chi212 ritiene che la forma
legislativa ordinaria debba necessariamente coordinarsi, in via
sistematica, con le disposizioni statutarie, adottate con legge
costituzionale ex art. 116 Cost.; da tale coordinamento deriva che la
legge statale ordinaria non è idonea ad operare l’aggregazione ad una
Regione speciale di un ente minore che si distacchi da una Regione
ordinaria, occorrendo una modificazione aggiuntiva dello Statuto
speciale: ciò perché la tutela costituzionale investe il territorio della
211
Sul punto si veda: Statuto Valle d’Aosta, art. 1, co. 2; Statuto Trentino-Alto
Adige, art. 1, co. 1; Statuto Friuli-Venezia Giulia, art. 2, co. 1; Statuto Sicilia, art.
1; Statuto Sardegna, art. 1.
212
Cfr. G. D’ORAZIO, In tema di variazioni del territorio regionale in Scritti in
onore di Costantino Mortati, Milano, 1977, pp. 684 ss.
209
Regione speciale non soltanto globalmente e complessivamente
considerato, ma, necessariamente, anche nelle sue singole parti
costitutive, in quanto ricompreso nel territorio degli enti locali
espressamente
indicati.
L’inclusione
dell’ente
nell’elencazione
contenuta nello Statuto di una Regione speciale non può essere
validamente
disposta
se
non
con
legge
costituzionale
(costituzionalizzazione del territorio dell’ente minore). Astrattamente
si potrebbe prospettare la piena autonomia dei due momenti, il
distacco-aggregazione da un lato, la revisione statutaria dall’altro, ed
ipotizzare che le legge ordinaria possa limitarsi a disporre solamente
l’aggregazione territoriale dell’ente minore ad una Regione speciale e
non anche, contestualmente, non potendolo, la modificazione
statutaria. Ciò comporta che il territorio aggregato resti privo di quella
garanzia costituzionale che è concessa agli altri enti minori,
statutariamente elencati, della stessa Regione speciale aggregante,
conservando
esso, invece, uno
status
giuridico diverso, di
differenziata tutela, alla stessa stregua dei territori delle Regioni
ordinarie. La mancata previsione nella Costituzione, però, di status
territoriali graduali e differenziati, oltre la fondamentale distinzione
tra territorio delle Regioni speciali e quello delle Regioni ordinarie,
nonché l’esigenza dell’omogeneità di trattamento e di tutela
nell’ambito di ciascuna delle due categorie, escludono che possa
seriamente accogliersi l’ipotesi di una mera aggregazione di un ente
minore ad una Regione speciale senza conseguente assimilazione della
sua condizione giuridica a quella del restante territorio della stessa
Regione.
La decisione di effettuare la variazione con legge ordinaria, cui
succedessero distinte leggi costituzionali di revisione dello Statuto,
210
sembra essere, pertanto, illegittima213. La forma dell’atto che dispone
il distacco-aggregazione e la modifica statutaria dev’essere adeguata
alla maggiore potenzialità che ad esso si richiede per produrre
validamente anche il secondo effetto: è necessaria, in sostanza, una
legge costituzionale.
Parte della dottrina più recente214 è allineata a queste posizioni
sostenendo che vi siano dei vincoli costituzionali speciali che
impongono l’uso della legge costituzionale, anziché della legge
ordinaria,
per
sancire
determinate
variazioni
territoriali.
Di
conseguenza la norma attuativa (art. 45 co. 4 della l. 352/1970) resta
implicitamente
derogata
di
fronte
alla
particolare
esigenza
costituzionale.
Altra parte215 invece non crede che debba farsi alcuna
distinzione tra il territorio delle Regioni ordinarie e quello delle
Regioni speciali, in quanto ritiene che: “anche l’originaria estensione
territoriale delle Regioni ordinarie sia stata, molto verosimilmente
costituzionalizzata. È in particolare, da presumere che, quando l’art.
131 enumera le Regioni, esso non elenchi una serie di nomi senza
contenuto (non evochi cioè delle entità prive di uno specifico substrato
spaziale), ma faccia riferimento a realtà territoriali, definite (e
distinte) – com’è proprio delle entità di questa natura – dai rispettivi
confini geografici”. Si continua dicendo che: “in tanto ha senso
parlare di variazioni territoriali delle Regioni e disciplinarne il
213
Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le Regioni, le Province, i Comuni in
Commentario della Costituzione, tomo III, Bologna-Roma, 1990, nota 24, p. 144.
214
Cfr. M. MALO, Forma e sostanza in tema di variazioni territoriali regionali
(a margine della pronuncia 66/2007 della Corte Costituzionale) in Le Regioni, n.
3-2007, Bologna, p. 644.
215
Cfr. A. D’ATENA, Profili procedurali della migrazione dei Comuni nei
territori delle regionali speciali in Giurisprudenza costituzionale, Milano, 2007,
p. 661.
211
procedimento, in quanto si muova dall’assunto che a ciascuno degli
enti elencati nell’art. 131 corrisponda un’estensione spaziale:
suscettibile,
appunto,
di
essere
variata,
con
la
procedura
appositamente prevista”.
Si noti poi un dato letterale: nell’elenco di cui all’art. 131 figurano
anche le Regioni ad autonomia speciale e da tale dato dovrebbe
desumersi che la norma individui l’estensione territoriale anche di
queste. Ne deriva che le disposizioni statutarie speciali volte ad
identificare i territori delle rispettive Regioni non hanno valore
costitutivo, ma meramente ricognitivo216.
Date queste premesse risulta che le disposizioni delle Regioni a
Statuto speciale non si differenziano in alcun modo dalle
corrispondenti disposizioni statutarie ordinarie e che quindi la
costituzionalizzazione del rispettivo territorio non sia prerogativa
esclusiva delle Regioni differenziate, ma una condizione da esse
condivisa con le Regioni ordinarie. Viene a cadere pertanto l’esigenza
che le prime siano escluse dalla regola di cui al capoverso dell’art. 132
Cost. che sarà quindi applicabile sia alle Regioni ordinarie che a
quelle dotate di autonomia speciale, come ha previsto la sentenza n.
66/2007 della Corte Costituzionale.
Sentenziato che l’utilizzo della legge ordinaria è legittimo anche
nel caso di aggregazione al territorio delle Regioni ad autonomia
differenziata, è possibile comunque avviare il procedimento
legislativo costituzionale di revisione statutaria. La soluzione
interpretativa da seguire è quella della combinazione tra il
procedimento di cui al capoverso dell’art. 132 ed il procedimento di
216
In questo senso è anche: M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni
territoriali delle Regioni, vol. II, Padova, 1991, p. 33.
212
revisione statutaria: per la modificazione del territorio regionale
speciale ex art. 132, co. 2 è sufficiente la legge statale ordinaria, ma,
come sostiene giustamente la più recente dottrina (Trabucco), “nulla
impedisce allo Stato, poi, per conformare l’equilibrio etnico-politicorappresentativo al nuovo assetto territoriale delle Regioni speciali,
quale delineato dal risultato favorevole dei referendum accrescitivi, di
avviare l’iter di revisione statutaria per l’adeguamento e l’adattabilità
della Regione allo stesso”217.
In senso contrario a tale soluzione interpretativa non potrebbe
invocarsi la mancanza di una previsione normativa della sequenza
procedurale di cui si farebbe uso: da un lato infatti la legge sul
referendum non fa oggetto di specifica e differenziata disciplina per il
distacco dei Comuni da una Regione ordinaria ad una Regione
speciale; dall’altro, pur contemplando espressamente l’iniziativa
legislativa costituzionale, la riferisce, come si può ricavare dal
contesto, solamente al primo comma dell’art. 132 Cost.
Sulla stessa linea è anche altra recente dottrina (Motroni218):
essa sostiene la tesi di D’Atena, ma individua anche delle
argomentazioni nuove che paiono convincenti. Il problema sta tutto
nel coordinare il principio di competenza (inteso come “riserva” a
favore delle disposizioni degli Statuti speciali rispetto alla norma
contenuta nell’art. 132, co. 2 Cost.) con il criterio gerarchico (il
principio di competenza si può applicare solamente tra norme
pariordinate). Il criterio gerarchico è applicabile se esistono norme,
217
Cfr. D. TRABUCCO, Il problema della costituzionalizzazione del territorio
delle Regioni a Statuto speciale, 2008, www.forumcostituzionale.it.
218
Cfr. M. MOTRONI, La migrazione dei Comuni di frontiera verso le Regioni a
statuto speciale: la problematica scelta della fonte idonea a produrre l’effetto di
variazione territoriale, www.federalismi.it, 2008, pp. 13 ss.
213
all’interno degli Statuti speciali, che siano idonee ad operare sotto la
copertura della clausola competenziale contenuta nell’art. 116, co. 1
Cost., come norme attributive di “forme e condizioni particolari di
autonomia ”: solo in questo modo le disposizioni statutarie possono
derogare alle norme generali contenute nel disposto di cui all’art. 132,
co. 2 Cost. Dall’analisi delle singole norme statutarie219 dalle quali si
vorrebbe ricavare l’effetto derogatorio (in quanto avrebbero
costituzionalizzato il territorio delle Regioni a Statuto speciale)
emerge invece che esse si limitano a rinviare a criteri di delimitazione
dei territori già fissati nella legislazione ordinaria: queste disposizioni
presuppongono l’esistenza di fonti statali che hanno determinato i
confini già esistenti e ciò impedisce la loro capacità derogatoria
rispetto alla disposizione contenuta nell’art. 132, co. 2 Cost., con la
conseguente impossibilità di farne discendere un effetto di
costituzionalizzazione dei rispettivi territori. Si tratta di norme
meramente descrittive e pertanto le disposizioni statutarie in questione
non possono godere della copertura costituzionale accordata dall’art.
116, co. 1 Cost. e, di conseguenza, non sono capaci di privare la
norma contenuta nel secondo capoverso dell’art. 132 della
competenza che le è propria in via generale. In sostanza la norma di
cui all’art. 132, co. 2 Cost. si applica anche alle Regioni a Statuto
speciale in quanto il loro territorio non è stato costituzionalizzato.
Altra soluzione possibile è quella individuata dal Governo,
nell’approntare i disegni di legge costituzionale, a seguito dei recenti
esiti referendari favorevoli all’aggregazione di Comuni ad una
219
Cfr.: Statuto della Valle d’Aosta, art. 1, co. 2; Statuto del Trentino-Alto Adige,
art. 3; Statuto del Friuli-Venezia Giulia, art. 2; Statuto della Sicilia, art. 1; Statuto
della Sardegna, art. 1.
214
Regione speciale220. L’Esecutivo ha precisato che, pur essendo
prevista la presentazione alle Camere del disegno di legge ordinaria
che sancisce il distacco-aggregazione (in base all’art. 45, co. 4 della l.
352/1970), trattandosi di una variazione che andrebbe ad incidere nel
territorio di una Regione ad autonomia differenziata, è apparso
imprescindibile procedere mediante lo strumento della legge
costituzionale, quale fonte di diritto pariordinata a quella che definisce
l’autonomia speciale221.
In merito a questa soluzione, la dottrina (D’Atena) rileva giustamente
che essa “benché corretta, non sembra costituire una soluzione
obbligata (o costituzionalmente necessitata)”222.
Concludendo, la soluzione interpretativa evidenziata da
D’Atena e Trabucco pare essere la più adeguata in quanto concilia la
lettera costituzionale (ribadita oltretutto dalla sentenza 66/2007) con
l’esigenza di procedere con legge costituzionale alla revisione dello
Statuto speciale e pertanto, anche se in astratto la mancanza di una
220
I disegni di legge costituzionale presentati dal Governo alla Camera dei
deputati nel corso della legislatura appena passata (XV) sono i seguenti: atto
Camera n. 1427 del 20 luglio 2006 (distacco del comune di Lamon dalla Regione
Veneto e sua aggregazione alla Regione Trentino-Alto Adige, ai sensi dell’art.
132, co. 2 Cost.); atto Camera n. 2524 del 17 aprile 2007 (distacco del Comune di
Sovramonte dalla Regione Veneto e sua aggregazione alla Regione Trentino-Alto
Adige, ai sensi dell’art. 132, co. 2 Cost.); atto Camera n. 2525 del 17 aprile 2007
(distacco del Comune di Noasca dalla Regione Piemonte e sua aggregazione alla
Regione Valle d’Aosta, ai sensi dell’art. 132, co. 2 Cost.); atto Camera n. 2526 del
17 aprile 2007 (distacco del Comune di Cinto Caomaggiore dalla Regione Veneto
e sua aggregazione alla Regione Trentino-Alto Adige, ai sensi dell’art. 132, co. 2
Cost.); atto Camera n. 2727 del 4 giugno 2007 (distacco del Comune di Carema
dalla Regione Piemonte e sua aggregazione alla Regione Valle d’Aosta, ai sensi
dell’art. 132, co. 2 Cost.).
221
Cfr. M. MALO, Forma e sostanza in tema di variazioni territoriali regionali
(a margine della pronuncia 66/2007 della Corte Costituzionale) in Le Regioni, n.
3-2007, pp. 644 ss.
222
Cfr. A. D’ATENA, Profili procedurali della migrazione dei Comuni nei
territori delle regionali speciali in Giurisprudenza costituzionale, Milano, 2007,
p. 661.
215
previa disciplina del procedimento da seguire nei casi particolari
evidenziati potrebbe essere vista come lesiva del principio di legalità,
“tuttavia, la forma costituzionale dell’atto finale sembra idonea a
compensare tale carenza”223.
Sempre in merito all’argomento di questo paragrafo, è poi
opportuno trattare il caso del procedimento di aggregazione alla
Provincia di Bolzano. La speciale autonomia della Provincia
altoatesina deriva dall’accordo concluso a Parigi il 5 settembre 1946
tra l’Italia e l’Austria (noto come accordo De Gasperi-Gruber), in cui
si stabiliva che il nostro Paese avesse sovranità territoriale sull’Alto
Adige, ma prevedendo una particolare forma di autonomia per la
comunità altoatesina: l’art. 2 dell’accordo prevedeva la concessione di
un potere legislativo ed esecutivo autonomo alle popolazioni della
Provincia, da esercitarsi nell’ambito di essa. Qualsiasi modificazione
del territorio della Provincia di Bolzano potrebbe pertanto configurare
una grave violazione dell’accordo di Parigi in quanto esso,
assicurando l’autonomia all’area abitata dalle popolazioni altoatesine,
vieterebbe indirettamente la dilatazione o la riduzione dell’area
territoriale in questione, dotata di speciale autonomia224. L’accordo di
Parigi sembra quindi assumere una forza precettiva del tutto peculiare
destinata a fondersi con il principio di tutela delle minoranze, sancito
dall’art. 6 Cost.: laddove l’autonomia è finalizzata alla tutela delle
minoranze linguistiche, il mutamento dei confini e l’innesto di
popolazioni appartenenti alla maggioranza nazionale comporta come
223
Cfr. A. D’ATENA, Profili procedurali della migrazione dei Comuni nei
territori delle regionali speciali in Giurisprudenza costituzionale, Milano, 2007,
p. 661.
224
In questo senso si veda: A. PIZZORUSSO, Le minoranze nel diritto pubblico
interno, Milano, 1967, p. 473.
216
conseguenza una diluizione della rappresentatività delle etnie
interessate e quindi incide sulla vera e propria ragion d’essere
dell’autonomia speciale stessa225.
Si ricordi inoltre che l’accordo ha preceduto l’entrata in vigore della
Costituzione e che quindi l’Assemblea Costituente si è trovata di
fronte ad una scelta già compiuta in merito alla questione altoatesina.
La dottrina sostiene che per i procedimenti di aggregazione alla
Provincia di Bolzano sia necessario procedere attraverso la forma del
negoziato sul piano internazionale, al fine di evitare ricadute per
l’Italia per quanto riguarda il mancato rispetto degli obblighi
internazionali226.
CAPITOLO IV
I PROCEDIMENTI DI VARIAZIONE TERRITORIALE DELLE
REGIONI IN CORSO
SOMMARIO: 1. Le variazioni territoriali delle Regioni dal 1948 ad oggi. – 2. I procedimenti di
distacco-aggregazione in corso. – 2.1. Dal Veneto al Friuli-Venezia Giulia: il caso dei Comuni
del Portogruarese. – 2.2. Dal Veneto al Trentino-Alto Adige: il caso dei Comuni bellunesi e
vicentini. In particolare: il referendum cumulativo e la contiguità territoriale. – 2.3 Dal
Piemonte alla Valle d’Aosta: il caso dei Comuni delle Valli Orco e Soana. – 2.4. Dalle
Marche all’Emilia-Romagna: il caso dei Comuni della Valmarecchia e della Val Conca. –
2.5. Dalla Campania alla Puglia: il caso di Savignano Irpino. – 3. Motivazioni sostanziali
sottese ai procedimenti di distacco-aggregazione sinora avviati.
225
In questo senso si veda anche C. FRAENKEL-HAEBERLE, La “secessione”
dei Comuni: una chimera o una via percorribile?, www.federalismi.it, 2008, p. 5.
226
Cfr. M. MOTRONI, La migrazione dei Comuni di frontiera verso le Regioni a
statuto speciale: la problematica scelta della fonte idonea a produrre l’effetto di
variazione territoriale, www.federalismi.it, 2008, p. 18.
217
1.
Le variazioni territoriali delle Regioni dal 1948 ad oggi
Nel Capitolo I si è visto che le Regioni ed i relativi
procedimenti di modificazione del territorio sono stati introdotti dalla
Costituzione repubblicana del 1948227.
Si deve dire che l’istituzione dell’ente-regione fu avversato da più
parti durante il dibattito in Assemblea Costituente e che la norma che
sarebbe poi divenuta l’art. 132 Cost. fu vista con ancor più disfavore
da alcune parti politiche che, titolari del potere centrale, temevano di
perderlo a livello regionale se si fossero verificate delle modifiche
consistenti alla ripartizione territoriale delle Regioni come pensata ed
istituita dal potere centrale. È questa una delle spiegazioni profonde
dei motivi per cui il procedimento di variazione territoriale delle
Regioni fu previsto come “superaggravato”228, per un’esigenza
certamente di garanzia, ma anche per renderne molto difficile se non
pressoché impossibile la sua attivazione, in modo da lasciare la
ripartizione territoriale attuata dal Costituente immutata.
Nessuno dei procedimenti di variazione territoriale della
Regione previsti dalla Costituzione ha avuto finora229 completa
attuazione, anche se è necessario fare una distinzione.
Per quanto riguarda il primo comma dell’art. 132 Cost., esso
non ha mai nemmeno iniziato l’iter procedurale. L’unica istituzione di
una nuova Regione dal 1948 ad oggi è stata quella del Molise
227
Si veda Capitolo I, p. 5.
Si veda Capitolo III, p. 200.
229
Settembre 2008.
228
218
avvenuta con la legge costituzionale 27 dicembre 1963, n. 3, durante il
periodo di vigenza dell’art. XI delle disposizioni di attuazione della
Costituzione, che prevedeva la creazione di nuove Regioni con un
procedimento molto meno aggravato di quello previsto dalla norma
costituzionale: l’unico onere aggiuntivo previsto per l’iter procedurale
costituzionale era quello di sentire le popolazioni interessate.
L’art. 132, co. 2 Cost. è invece rimasto per molti anni inattivato,
e ciò ha determinato che la letteratura dottrinale in merito si sia posta
soltanto problemi di coordinamento con altre norme giuridiche (si
veda per esempio la legislazione di attuazione del referendum),
mancando
sull’argomento
decisioni
giurisprudenziali
che
fomentassero il dibattito dottrinale. La situazione è però mutata negli
ultimi anni quando un buon numero di Comuni ha avviato il
procedimento previsto per l’ipotesi di distacco-aggregazione.
2-
I procedimenti di distacco-aggregazione in corso
Nel maggio 2005 il Comune di S. Michele al Tagliamento ha
celebrato il referendum per deliberare la proposta di distacco dalla
Regione Veneto e la sua aggregazione al Friuli-Venezia Giulia; in un
primo momento la cosa è sembrata nient’altro che una provocazione,
peraltro neppure ben riuscita, considerato il fallimento della
consultazione referendaria. Di lì a poco però (ottobre 2005) gli
abitanti di un altro Comune veneto, Lamon, hanno approvato a larga
maggioranza la proposta referendaria di aggregare il loro Comune al
Trentino-Alto Adige, completando la prima fase dell’iter procedurale
in questione. Da allora numerosi Comuni hanno avviato il
procedimento per cambiare Regione e la questione ha iniziato ad avere
un certo peso anche a livello centrale, tanto che il Governo ha
219
predisposto un disegno di legge costituzionale per la modifica del
capoverso dell’art. 132, avente come obiettivo l’appesantimento della
procedura per il distacco degli enti locali da una Regione ad un’altra.
Verranno ora esaminati i singoli casi di variazione territoriale
che sono stati ufficialmente avviati nell’arco dell’ultimo triennio,
esprimendo una valutazione procedurale e sostanziale.
Prima d’iniziare quest’esame, è doveroso ricordare che le prime
timide iniziative in materia sono da ricondursi agli inizi degli anni
Novanta, e precisamente:
- nel 1990, quando era stata attivata iniziativa ufficiale al fine di
aggregare alla Regione Molise il Comune di Chieuti, ricompreso nella
Regione Puglia, naufragata perché non erano state presentate le
deliberazioni “di appoggio”230 alla richiesta di consultazione
referendaria (cioè non era stato rispettato il requisito previsto nell’art.
42, co. 2 della l. 352/1970 che esigeva anche il deposito delle
deliberazioni di una parte dei Comuni della Regione da cui avviene il
distacco e di parte di quelli verso cui avviene l’aggregazione; tali
deliberazioni sono state poi dichiarate costituzionalmente illegittime
dalla sentenza n. 334/2204 della Corte Costituzionale231); di
conseguenza l’Ufficio centrale per il referendum ha dovuto dichiarare
illegittima la richiesta232;
- nel 1993, quando il Comune di Gallo Matese, facente parte della
Regione Campania, aveva chiesto di poter effettuare il referendum per
230
Secondo la terminologia usata da: F. RATTO TRABUCCO, L’odissea davanti
all’Ufficio Centrale per il referendum delle prime istanze di distaccoaggregazione
di
un
Comune
da
una
Regione
ad
un’altra,
www.comunichecambianoregione.org, 2007, p. 1.
231
Si veda Capitolo III, paragrafo 3.3.
232
Sul punto si veda : Ordinanza 18 giugno 1991 n. 144 dell’Ufficio centrale per il
referendum, che dichiarava l’illegittimità della richiesta del Comune di Chieuti.
220
il distacco da suddetta Regione e la successiva aggregazione alla
Regione Molise. Anche in questo caso la richiesta era stata respinta da
un’ordinanza dell’Ufficio centrale perché mancante delle deliberazioni
di appoggio233.
Nella medesima ordinanza, a fronte di un intervento ad adiuvandum
nel procedimento sulla legittimità del referendum dell’Unione Comuni
italiani per cambiare Regione234 e del Comune di Gosaldo (in
Provincia di Belluno) per presunto contrasto degli artt. 42 e 43 della l.
352/1970 con l’art. 132 Cost., l’Ufficio centrale per il referendum
aveva affermato di non poter accogliere l’eccezione; l’Ufficio, con
riferimento a sé stesso, aveva sostenuto che: “pur agendo con forme
giurisdizionali, dal punto di vista sostanziale non ha natura
giurisdizionale”. In precedenza però lo stesso Ufficio centrale aveva
più volte dichiarato di essere legittimato a sollevare questioni di
legittimità costituzionale” e quindi aveva riconosciuto la propria
facoltà d’instaurare il giudizio in via incidentale235.
Come si vedrà più volte nel corso della trattazione, è abbastanza tipico
dell’Ufficio centrale per il referendum pronunciarsi diversamente su
questioni simili, procedendo con una logica del caso per caso. Ciò è
determinato anche dalla sua composizione236, dove è frequente il
ricambio dei membri, legati all’anzianità nella carica di presidente e
233
Sul punto si veda: Ordinanza 29 marzo 1994 n. 75 dell’Ufficio centrale per il
referendum, che dichiarava l’illegittimità della richiesta del Comune di Gallo
Matese.
234
Si veda Capitolo IV, paragrafo 2.1, in particolare nota n. 241.
235
Si veda ad esempio: ordinanza 25 maggio 1978 dell’Ufficio centrale per il
referendum , in Foro italiano , n. 1/1978, pp. 1616 ss.
236
Cfr. F. RATTO TRABUCCO, L’impugnabilità in sede di conflitto di
attribuzione delle ordinanze d’illegittimità delle richieste referendarie di
variazione territoriale, ex art. 132, co. 2, Cost., per violazione del diritto di
autodeterminazione della comunità locale, www.forumcostituzionale.it, 2008, p.
10.
221
consigliere di sezione della Corte di Cassazione: esso è infatti
composto dai tre presidenti di sezione della Corte di Cassazione più
anziani, nonché dai tre consiglieri più anziani di ciascuna sezione. Il
più anziano dei tre presidenti presiede l'Ufficio e gli altri due
esercitano le funzioni di vice presidente.
Si esamineranno di seguito i più recenti casi in tema di
variazioni del territorio regionale ex art. 132, co. 2 Cost.
222
2.1- Dal Veneto al Friuli-Venezia Giulia: il caso dei Comuni del
Portogruarese
Agli inizi degli anni Novanta, nell’ambito della cosiddetta
“questione friulanista”, ha preso vigore il caso di alcuni Comuni, il
cosiddetto Mandamento di Portogruaro, situati sulla riva destra del
fiume Tagliamento, che delimita fino a Latisana il confine tra la
Regione Veneto ed il Friuli-Venezia Giulia. Questi Comuni, a partire
dall’epoca napoleonica, per mere ragioni storiche, furono staccati dal
Friuli per essere uniti alla Provincia di Venezia237 ed in seguito, in
sede costituente, non fu dato adito a quelle istanze che chiedevano la
correzione dei confini238. Si ricordi che storicamente il Friuli è sempre
stata un’area territoriale del Veneto e che l’istituzione della Regione a
Statuto autonomo Friuli-Venezia Giulia è il risultato dell’unione di
una parte del Veneto, il Friuli appunto, e di quanto è rimasto sotto la
sovranità italiana (dopo il Memorandum d’Intesa con la Jugoslavia
siglato a Londra nel 1954) di quella regione conosciuta come Venezia
Giulia e Zara239. Con “questione friulanista” s’indica il caso di quei
Comuni friulani che, a partire dall’epoca del Costituente, chiedono di
237
Con il Trattato di Campoformio del 1797 si soppresse la Repubblica di
Venezia, che fu aggregata all’Austria. Il Cantone di Portogruaro venne staccato
dal Friuli ed inserito nel Dipartimento dell’Adriatico, facente capo a Venezia. Le
motivazioni che portarono i francesi a compiere tale operazione sono da
individuarsi nella volontà di rendere il Dipartimento veneziano meno importante
di quelli confinanti, riducendone così l’estensione e la potenza, trasformando l’ex
Repubblica Serenissima in una provincia composta solo da costa ed isole, senza
alcun retroterra.
238
Si veda: SEGRETERIA GENERALE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI,
Atti dell’Assemblea Costituente, II Sottocommissione, Discussioni, 18 dicembre
1946, seduta antimeridiana, Roma, p. 756.
239
Si veda Capitolo I, pp. 54 ss.
223
essere riaggregati all’area territoriale a cui sentono di appartenere
storicamente.
I Comuni del Portogruarese hanno tentato di dare inizio alla procedura
di distacco dal Veneto e di aggregazione al Friuli-Venezia Giulia in
ragione dell’affinità etnica e culturale con la popolazione friulana.
Come si è detto il Friuli era un’area territoriale appartenente
storicamente al Veneto, ma con proprie peculiarità: i “secessionisti”240
chiedevano pertanto di potersi riunire a quell’area territoriale che
sentivano come più affine sebbene essa fosse andata a costituire una
nuova realtà regionale. Nel 1990 si è costituito il “Movimento
Provincia di Pordenone Portogruaro” con l’evidente finalità di
riunificate i Comuni portogruaresi al Friuli-Venezia Giulia ed in
seguito di costituire la Provincia di Pordenone-Portogruaro; ancora
prima, nel 1983, il Comune di San Michele al Tagliamento aveva
istituito un “Comitato per la friulanità” con il compito di seguire ed
istituire tutte le pratiche necessarie per l’aggregazione del Comune al
Friuli-Venezia Giulia: questo dimostra come la questione friulanista
non si fosse nel tempo mai del tutto sopita. In seguito, nel 1992, è
stata costituita l’ “Unione dei Comuni italiani per cambiare Regione”,
un’associazione a più ampio spettro, con l’obiettivo di promuovere la
semplificazione della procedura di trasferimento di un Comune o di
una Provincia da una Regione ad un’altra241.
240
Per usare una termine di C. PAGOTTO, Per promuovere il referendum di
passaggio di province e comuni ad altra Regione o Provincia basta il consenso
dei
“secessionisti”,
Corte
costituzionale,
sent.
n.
334/2004,
www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2004.
241
L’ “Unione dei Comuni italiani per cambiare regione” è stata costituita il 31
agosto 1992 a Trieste da R. Strumento, Presidente del Movimento Provincia di
Pordenone Portogruaro, da G. Camber, parlamentare, e da G. Onagro, Sindaco del
Comune di San Michele al Tagliamento. La sede è presso il municipio del
Comune di San Michele al Tagliamento. Dell’Unione fanno parte i Comuni di:
224
Malgrado tutte queste iniziative, i comitati locali non sono riusciti ad
attivare il procedimento di distacco-aggregazione a causa di quel
gravoso onere dettato dalla legge di attuazione del referendum 242 che
richiedeva le deliberazioni di appoggio anche di parte dei Comuni
della Regione da cui si chiedeva il distacco e di parte di quelli della
Regione verso cui si chiedeva l’aggregazione. Così, tra il 1991 ed il
1992, ci si era limitati a realizzare un referendum consultivo
autogestito in 8 Comuni del Portogruarese (Annone Veneto, Cinto
Caomaggiore, Concordia Sagittaria, Fossalta di Portogruaro, Gruaro,
Pramaggiore, San Michele al Tagliamento, Teglio Veneto) avente lo
scopo di testare più da vicino la volontà delle popolazioni direttamente
interessate alla variazione e, in caso di esito positivo della
consultazione, di garantire in un certo qual modo un’ufficialità al
risultato raggiunto. Il risultato del referendum era stato ampiamente
favorevole alla riunificazione con il Friuli ed il movimento per la
questione friulanista ne era uscito rafforzato. In seguito si decise
d’intraprendere la difficile strada della modificazione della legge
attuattiva del referendum, al fine di adeguarne il contenuto al nuovo
testo dell’art. 132, co. 2 Cost. quale risultante dalla riforma del Titolo
V della Costituzione del 2001. Nel corso della XIV legislatura243 la
Camera dei deputati ha esaminato ben quattro proposte di legge244
Cinto Caomaggiore (VE), Colle Santa Lucia (BL), Gallo Matese (CE), Gosaldo
(BL), Livinallongo del Col di Lana (BL), Novafeltria (PU), San Leo (PU), San
Michele al Tagliamento (VE). Ad essi si aggiungono il Comune di Varmo (UD),
la Provincia di Pordenone, quella di Udine ed una serie di associazioni e comitati
in qualità di sostenitori. www.comunichecambianoregione.org.
242
Si veda art. 42, co. 2 della l. 352/1970.
243
La XIV legislatura è iniziata il 30 maggio 2001 e si è conclusa il 27 aprile
2006.
244
Le proposte di legge erano le seguenti: Atto Camera n. 1852 d’iniziativa del
deputato Fontanini; Atto Camera n. 2085 d’iniziativa del deputato Foti; Atto
225
volte a modificare la l. 352/1970; il testo unificato di queste proposte
di legge245 è stato approvato dalla Camera il 6 marzo 2006 e
prevedeva che fosse eliminato l’obbligo delle delibere, specificando
che l’area coinvolta nel referendum fosse solamente quella del
Comune interessato al passaggio di Regione. Una volta giunto al
Senato però, l’iter legislativo è stato bloccato nella Commissione
Affari Costituzionali, a causa delle forti pressioni dei senatori veneti
che conoscevano le mire dei Comuni del Portogruarese; la
Commissione
ha licenziato un disegno di legge con un testo
ampiamente modificato per l’Assemblea, che, peraltro, non ne ha mai
nemmeno iniziato l’esame.
Tuttavia, con la pronuncia della Consulta n. 334/2004246, derivante
proprio dal ricorso del Comune di San Michele al Tagliamento, situato
nel Portogruarese, sono stati rimossi quegli ostacoli presenti nella
normativa
di
attuazione
del
referendum
247
,
semplificando
notevolmente la procedura di attivazione della consultazione
referendaria e raggiungendo il medesimo scopo che non era stato
ottenuto con i disegni di legge appena visti. A seguito di detta
pronuncia si è registrata una forte “effervescenza”248 di istanze volte al
Camera n. 2357 d’iniziativa del deputato Illy; Atto Camera n. 3275 d’iniziativa
del deputato Moretti.
245
Si trattava dell’Atto Camera n. 1852-2085-2357-3275-A, recante “Modifiche
alla legge 25 maggio 1970, n. 352, in materia di referendum per il distacco di
comuni e province da una Regione e per l’aggregazione ad altra Regione”. Come
si può notare il testo era il risultato dell’unificazione della quattro proposte di
legge di cui alla nota precedente.
246
Sul punto si veda: Sentenza 28 ottobre 2004 n. 334 della Corte Costituzionale
in Giurisprudenza costituzionale n. 6/2004, pp. 3775 ss.
247
Sul punto si vedano le deliberazioni di appoggio prescritte nel testo originario
dell’art. 42, co. 2 della l. 352/1970 e dichiarate costituzionalmente illegittime
dalla sentenza n. 334/2004.
248
Per usare un termine, che mi pare molto appropriato, di F. RATTO
TRABUCCO, Il distacco-aggregazione dei comuni da una Regione all’altra:
226
distacco di Comuni da una Regione ed aggregazione ad un’altra,
soprattutto a Statuto speciale.
Il Comune di San Michele al Tagliamento è stato il primo in
Italia a riuscire ad attivare la procedura di cui all’art. 132, co. 2 Cost.
(come si è visto sopra i Comuni di Chieuti e di Gallo Matese non vi
riuscirono249); l’attivazione della procedura per chiedere il distacco dal
Veneto e la successiva aggregazione al Friuli-Venezia Giulia è stata
però tutt’altro che semplice. Con la deliberazione consiliare del 2
ottobre 2002, n. 53, il Comune di San Michele al Tagliamento aveva
chiesto di poter effettuare il referendum per il distacco dalla Regione
Veneto e l’aggregazione alla Regione Friuli-Venezia Giulia,
sollevando
contemporaneamente
la
questione
di
legittimità
costituzionale in merito alle norme della l. 352/1970 che prevedevano
le deliberazioni di appoggio. L’Ufficio centrale per il referendum,
chiamato a pronunciarsi in merito a quest’ultima questione, con
l’ordinanza del 26 novembre 2002 dichiarava manifestamente
infondata la dedotta questione di legittimità costituzionale poiché “la
Costituzione, nel disciplinare l’istituto del referendum, lascia al
legislatore ordinario ampi margini di discrezionalità con riguardo alla
regolamentazione del rito di avvio e di svolgimento delle
consultazioni referendarie, sicché le disposizioni da detto legislatore
adottate al riguardo non possono essere sospettate di illegittimità
costituzionale quando non risulti che esse siano suscettibili di
importare irragionevoli e non facilmente superabili ostacoli alla
promozione ed al corso delle iniziative referendarie”, ed escludendo
ovvero il revival dell’autodeterminazione delle comunità locali in Nuova rassegna
di legislazione, dottrina, giurisprudenza, n. 1/2008, Firenze, p. 43.
249
Si veda Capitolo IV, pp. 217 ss.
227
che la modifica dell’art. 132, co. 2 Cost., intervenuta con la l.c. 3 del
2001, “abbia potuto comportare una abrogazione della disposizione
dell’art. 42 della l. 25.5.1970, n. 352”, per cui “non risultano
ravvisabili quella incompatibilità fra i due testi legislativi ovvero
quella integrale nuova regolamentazione di materia disciplinata da
norme precedenti che, a termini dell’art. 15 delle disposizioni sulla
legge in generale, sono richieste affinché possa configurarsi
l’abrogazione tacita di una legge”, senza minimamente soffermarsi sul
concetto di “popolazioni interessate” al referendum e sull’assenza di
particolari ulteriori oneri, come previsto dall’art. 132, co. 2 Cost.
L’Ufficio per dimostrare che non poteva in nessun modo dubitarsi
della ragionevolezza dell’art. 42, co. 2 della legge n. 352 del 1970, ha
sostenuto che la disposizione in esame configurerebbe “un ostacolo
(…) agevolmente superabile alla promozione del referendum (…),
posto che quando questa dovesse rivelarsi fornita di una qualche
giustificazione e di una adeguata rispondenza ad esigenze ed interessi
diffusi nel corpo sociale, sarebbe sicuramente facile per i promotori
procurarsi il consenso degli enti rappresentativi di almeno un terzo
delle popolazioni” delle Regioni interessate.
Con la medesima ordinanza, l’Ufficio centrale ordinava il deposito
entro tre mesi delle “deliberazioni dei comuni della Regione FriuliVenezia Giulia destinate a corredare la delibata richiesta di
referendum”, senza peraltro immotivatamente prevedere la possibilità
di depositare anche delibere provinciali “di appoggio”, in aperta
violazione dell’art. 42, co. 2 della l. 352/1970 che prevedeva
testualmente che la richiesta referendaria fosse corredata delle
deliberazioni “di tanti consigli provinciali o di tanti consigli comunali
228
che rappresentino almeno un terzo della popolazione della Regione
alla quale si propone che le Province o i Comuni siano aggregati”.
Il 29 gennaio 2003 il delegato del Comune di San Michele al
Tagliamento ha deposito nella cancelleria dell’Ufficio centrale per il
referendum le delibere di appoggio di Comuni e Province della
Regione di aggregazione. L’Ufficio centrale, con l’ordinanza del 13
febbraio 2003, prendeva atto del deposito delle delibere dei Comuni
della Regione Friuli-Venezia Giulia, peraltro escludendo ancora
incomprensibilmente dal computo quelle provinciali, ma allo stesso
tempo eccepiva l’ “omessa (…) produzione delle delibere dei consigli
di comuni della regione Veneto, dalla quale si chiedeva il distacco”.
Tuttavia, ancora una volta erano escluse dal computo, senza
motivazione alcuna, le delibere provinciali, violando così palesemente
il disposto dell’art. 42, co. 2. della l. 352/1970. Il delegato, sebbene gli
fosse stata concessa una proroga per il termine ultimo di consegna
delle delibere di appoggio del Veneto, non è riuscito a presentarne un
numero sufficiente, ai sensi dell’art. 42, co. 2 della l. 352/1970. In data
26 marzo 2003 il delegato del Comune di San Michele al Tagliamento
ha depositato presso la Corte Costituzionale il ricorso per conflitto di
attribuzione contro il Parlamento per il mancato adeguamento della l.
352/1970 al testo dell’art. 132, co. 2 Cost., chiedendo alla Consulta di
sollevare avanti a sé la relativa questione di legittimità costituzionale.
La Corte Costituzionale, con l’ordinanza del 13 novembre 2003 n.
343, ha dichiarato inammissibile il conflitto di attribuzione sollevato
dal delegato del Comune di San Michele al Tagliamento contro il
Parlamento poiché sussisteva un giudizio a quo in cui sollevare la
questione di legittimità costituzionale, aggiungendo però il rilievo che
“nonostante la pur significativa riforma dell’art. 132, secondo comma,
229
della Costituzione introdotta dalla legge costituzionale 18 ottobre
2001, n. 3, l’Ufficio centrale per il referendum ha ritenuto di affermare
la manifesta infondatezza della proposta questione di legittimità
costituzionale”, prendendo così implicitamente posizione a favore
dell’illegittimità costituzionale delle norme citate e quindi, di fatto,
criticando l’ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum del 26
novembre 2002 che aveva inspiegabilmente rigettato l’eccezione
d’incostituzionalità sollevata dal delegato comunale.
A seguito dell’ordinanza della Consulta, l’Ufficio centrale per il
referendum con l’ordinanza del 19 gennaio 2004 n. 14, è tornato sui
suoi passi ed ha ritenuto questa volta rilevante ai fini della legittimità
della richiesta referendaria e non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionalmente originariamente sollevata
dal delegato comunale circa l’art. 42, co. 2, della l. 352/1970 che
attribuiva “un ruolo nella promozione dell’iniziativa referendaria a
soggetti diversi dal comune che chiede la variazione territoriale”,
rimettendone così la relativa decisione alla Corte Costituzionale250. La
Corte Costituzionale con la sentenza del 10 novembre 2004, n. 334251,
ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 42, co. 2, della l.
352/1970, circa le deliberazioni “di appoggio”, ritenendo che tale
norma “già appariva non conforme all’originaria formulazione del
capoverso dell’art. 132 Cost., (…) in quanto accordava (e vincolava)
l’iniziativa referendaria ad organi non previsti”, smentendo così
l’ordinanza di rimessione dell’Ufficio centrale che rinveniva
solamente la “sopravvenuta incompatibilità” della norma all’art. 132,
250
Si veda Capitolo III, pp. 167 ss.
Sul punto si veda: Sentenza della Corte Costituzionale 10 novembre 2004 n.
334 in Giurisprudenza costituzionale, n. 6/2004, Milano.
251
230
co. 2 Cost., novellato nel 2001. Inoltre, sanciva che il referendum “si
riferisce soltanto ai cittadini degli enti locali direttamente coinvolti nel
distacco-aggregazione” e non delle due Regioni coinvolte nel
procedimento, come prevedeva l’art. 44, co. 3 della l. 352/1970.
In seguito, l’Ufficio centrale per il referendum, con l’ordinanza del 10
dicembre 2004, prendeva atto della succitata sentenza della Corte
Costituzionale e dichiarava legittima la richiesta di referendum per il
distacco del Comune di San Michele al Tagliamento dalla Regione
Veneto e l’aggregazione alla Regione Friuli-Venezia Giulia.
Il 29-30 maggio 2005 si è svolta la consultazione referendaria nel
Comune veneto; tuttavia, a fronte di un’elevata partecipazione (circa il
60% degli aventi diritto), non è stato raggiunto il quorum prescritto
per il referendum territoriale che esige la maggioranza assoluta degli
iscritti alle liste elettorali252: nel Comune di San Michele al
Tagliamento i voti favorevoli sono stati invece soltanto il 45%.
L’Ufficio centrale per il referendum con verbale del 6 giugno 2005 ha
dichiarato respinta la proposta referendaria e in conformità all’art. 45,
co. 3 della l. 352/1970.
Occorre ricordare che dall’insuccesso della consultazione deriva
l’impossibilità di rinnovare la medesima richiesta di referendum prima
che siano trascorsi 5 anni, come prescritto dall’art. 45, co. 5 della l.
352/1970. Secondo certa dottrina “questo non escluderebbe però
l’ammissibilità della riproposizione prima del termine di una richiesta
referendaria “cumulativa”, cioè per il distacco-aggregazione di più
comuni fra cui quello già interessato alla consultazione”253. A parere
252
Si veda Capitolo III, pp. 170 ss.
Cfr. F. RATTO TRABUCCO, Il distacco-aggregazione dei comuni da una
Regione all’altra: ovvero il revival dell’autodeterminazione delle comunità locali
253
231
di chi scrive tale soluzione non solo sarebbe elusiva della lettera della
legge di attuazione del referendum, ma sarebbe pure illegittima in
quanto
il
referendum
cumulativo
è
un
istituto
di
dubbia
costituzionalità. Sul punto si tornerà in seguito254.
Dopo San Michele al Tagliamento, un altro Comune veneto ha
provato ad attivare il procedimento di distacco-aggregazione: si tratta
di Cinto Caomaggiore, che con deliberazione consiliare del 21
febbraio 2005, depositata nella cancelleria dell’Ufficio centrale per il
referendum il 21 settembre 2005, ha chiesto di poter effettuare la
consultazione referendaria per il distacco dalla Regione Veneto e
l’aggregazione alla Regione Friuli-Venezia Giulia. L’Ufficio centrale,
con l’ordinanza del 18 ottobre 2005 n. 245, si era pronunciato sulla
richiesta, dichiarandola inammissibile, dal momento che l’art. 42, co.
3 della l. 352/1970 prescrive che le delibere dei Comuni richiedenti la
variazione territoriale devono essere adottate non oltre tre mesi prima
della data del rispettivo deposito, ritenendo detto termine “perentorio”.
La definizione del termine in questione come perentorio contraddiceva
una precedente ordinanza dello stesso Ufficio centrale (ordinanza del
13 febbraio 2003) che, in merito alla procedura avviata dal Comune di
San Michele al Tagliamento, definiva i termini del procedimento
referendario di cui all’art. 132 Cost. come “ordinatori”, vista l’assenza
di una specifica disposizione in senso contrario. È l’ennesimo caso di
pronunce contraddittorie che contraddistinguono l’Ufficio centrale per
il referendum.
in Nuova rassegna di legislazione, dottrina, giurisprudenza, n. 1/2008, Firenze, p.
51.
254
Si veda Capitolo IV, paragrafo 2.2.
232
Il Comune di Cinto Caomaggiore, a seguito della decisione, ha
formulato una nuova richiesta di consultazione referendaria con
deliberazione del Consiglio comunale del 31 ottobre 2005 n. 45,
questa volta prontamente depositata nella cancelleria dell’Ufficio
centrale. L’Ufficio centrale con l’ordinanza del 29 novembre 2005 ha
dichiarato la legittimità costituzionale della richiesta di referendum,
indetto per il 26-27 marzo 2006.
Nelle stesse date altri tre Comuni del Portogruarese hanno tenuto dei
referendum ex art. 132, co. 2 Cost.: Gruaro, Pramaggiore e Teglio
Veneto, anch’essi compresi nella Regione Veneto, ma popolati da
genti friulane.
I risultati delle consultazioni nei quattro Comuni sono stati però
diversificati: solo Cinto Caomaggiore è riuscito a raggiungere l’ostico
quorum stabilito per il referendum territoriale255, mentre Gruaro256,
Pramaggiore257 e Teglio Veneto258 lo hanno mancato a causa della
presenza nelle liste elettorali di molti cittadini residenti all’estero.
In merito ai referendum di questi quattro Comuni del Portogruarese è
doveroso ricordare che la votazione è stata viziata anche dall’invio
delle cartoline di avviso agli elettori residenti all’estero ben oltre i
termini di legge stabiliti: l’art. 6, co. 1 della legge 7 febbraio 1979, n.
40 prescrive che: “entro il ventesimo giorno successivo a quello della
255
Nel Comune di Cinto Caomaggiore si sono recati alle urne il 65,3% degli
elettori; i voti favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali sono
stati il 59,7%.
256
Nel Comune di Gruaro si sono recati alle urne il 53,3% degli elettori; i voti
favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali sono stati il 45,9%.
257
Nel Comune di Pramaggiore si sono recati alle urne il 53,3% degli elettori; i
voti favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali sono stati il
44,5%.
258
Nel Comune di Teglio Veneto si sono recati alle urne il 50,6% degli elettori; i
voti favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali sono stati il
43,4%.
233
pubblicazione del decreto di convocazione dei comizi (…) è spedita
agli elettori residenti all’estero una cartolina avviso recante
l’indicazione della data della votazione”. Nel caso della consultazione
referendaria svoltasi nel Portogruarese, le cartoline avviso sono state
trasmesse ai Comuni interessati solamente il 20 marzo 2006, cioè
cinque giorni prima del voto, ragion per cui nella stragrande
maggioranza dei casi non sono potute giungere a destinazione prima
della consultazione. Il grave ritardo era da addebitarsi all’Istituto
Poligrafico Zecca dello Stato, che aveva il compito di stampare dette
cartoline, e al Ministero dell’Interno, che per il tramite della Prefettura
di Venezia doveva consegnarle ai singoli Comuni.
A seguito di questo fatto i Comuni di Gruaro, Pramaggiore e Teglio
Veneto hanno presentato un ricorso al T.A.R. del Lazio (che è tuttora
pendente) contro il provvedimento dell’Ufficio centrale per il
referendum del 12 aprile 2006, che rigettava le contestazioni proposte
dai tre delegati dei Comuni in questione, proclamando il risultato della
consultazione nel senso del rigetto della proposta referendaria. Non è
da escludersi un eventuale annullamento del referendum con
successiva ripetizione del voto.
La Regione Veneto è apertamente contraria a qualsiasi distacco
dei Comuni del Portogruarese ed il Consiglio regionale per ostacolare
l’iter procedurale di distacco-aggregazione tergiversa nell’adozione
del parere richiesto. Al contrario la Regione Friuli-Venezia Giulia
sostiene la causa di riaggregazione del Comune di Cinto Caomaggiore
al Friuli ed auspica la riunificazione di tutte le genti friulane: per
234
questo motivo il Consiglio regionale ha prontamente espresso parere
favorevole all’ingresso di Cinto Caomaggiore nel suo territorio259.
Per quanto riguarda l’iter legislativo parlamentare, si deve dire
che il Ministro dell’Interno ha provveduto a presentare il disegno di
legge
per
la
variazione
territoriale
del
Comune
di
Cinto
Caomaggiore260 con forte ritardo rispetto ai termini previsti dall’art.
45, co. 4 della l. 352/1970, con un ritardo cioè di oltre 60 giorni dalla
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del verbale che indica il risultato
positivo del referendum.
Pur non appartenendo all’area del Portogruarese, si ricorda qui
brevemente un altro caso di ente locale che ha chiesto di passare dal
Veneto al Friuli-Venezia Giulia: si tratta del Comune di Sappada il
quale, a seguito dell’istanza rivolta dal 30% dei cittadini iscritti nelle
liste elettorali, ha deliberato la richiesta di consultazione referendaria
ex art. 132, co. 2 Cost. Lo Statuto comunale di Sappada prevede
infatti che il referendum su materie d’interesse locale possa essere
deliberato direttamente dal Consiglio comunale, a maggioranza dei
2/3 dei consiglieri assegnati oppure a seguito della richiesta di almeno
il 30% dei cittadini iscritti nelle liste elettorali comunali261.
La consultazione referendaria nel Comune di Sappada si è svolta il 910 marzo 2008 ed il corpo elettole ha espresso a larga maggioranza
parere favorevole al passaggio al Friuli-Venezia Giulia262.
259
Si veda: seduta del Consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia del 21
novembre 2006.
260
Cfr. Atto Camera n. 2526, presentato il 17 aprile 2007, recante “Distacco del
Comune di Cinto Caomaggiore dalla Regione Veneto e sua aggregazione alla
Regione Friuli-Venezia Giulia ai sensi dell’art. 132, secondo comma, della
Costituzione”.
261
Si veda: art. 61, co. 4 dello Statuto comunale di Sappada.
262
Nel Comune di Sappada i voti favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle
liste elettorali sono stati il 71,72%.
235
Sappada, Comune oggi compreso nella Provincia di Belluno, rientra
nell’area linguistica friulana e costituisce un’isola germanofona in
territorio veneto priva di un’adeguata tutela; all’interno della Regione
a Statuto speciale Friuli-Venezia Giulia troverebbe di certo una più
congrua protezione, come già avviene per la minoranza slovena
presente in questa Regione.
Da ultimo si ricorda che anche il Comune di Meduna di
Livenza, attualmente in provincia di Treviso, ha deliberato la richiesta
di referendum per il passaggio alla Provincia di Pordenone; la
consultazione referendaria avrà luogo il 30 novembre-1 dicembre
2008263. Il Comune già in passato ha fatto parte del Patriarcato del
Friuli e pertanto il comitato si propone la riunificazione di Meduna al
territorio friulano264.
2.2- Dal Veneto al Trentino-Alto Adige: il caso dei Comuni
bellunesi e vicentini.
In particolare: il referendum cumulativo e la contiguità
territoriale
Il primo caso di consultazione per la modifica dei confini
regionali con esito positivo (si ricordi infatti che San Michele al
Tagliamento fu il primo Comune in Italia a riuscire ad attivare il
procedimento di cui all’art. 132, co. 2 Cost., ma il risultato del
referendum fu negativo265) è stato quello del Comune veneto di
263
Il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto per indire il referendum per il
distacco del Comune di Meduna dal Veneto e l’aggregazione al Friuli-Venezia
Giulia in data 11 settembre 2008.
264
Fonte: www.comunichecambianoregione.org.
265
Si veda il paragrafo precedente.
236
Lamon che ha chiesto di potersi unire al Trentino-Alto Adige266 per
ragioni storico-geografiche, socio-economiche ed etnico-culturali.
Lamon costituisce un’enclave trentina in territorio veneto per la sua
particolare collocazione geografica: è infatti l’unico Comune veneto
posto oltre al torrente Cismone, cosa che ha impedito la
comunicazione con la pianura bellunese a valle, inducendo la
popolazione ad avere costanti rapporti con la vicina Provincia di
Trento piuttosto che con quella di Belluno, determinando delle affinità
e dei rapporti più intensi con le popolazioni trentine piuttosto che con
quelle venete.
Il referendum si è tenuto in data 30-31 ottobre 2005 ed ha dato esito
positivo al passaggio del Comune di Lamon alla Regione TrentinoAlto Adige267.
Successivamente, sempre nel Bellunese, anche il Comune di
Sovramonte ha chiesto di essere staccato dalla Regione Veneto per
potersi aggregare al Trentino-Alto Adige268; le ragioni sono molto
simili a quelle che hanno motivato la richiesta del Comune di Lamon:
il Comune di Sovramonte esiste solo sulla carta, essendo formato dalle
cinque frazioni di Aune, Faller, Servo, Surriva e Zorzoi, le cui
popolazioni sono legate per ragioni storico-geografiche con le
popolazioni e con i centri trentini di Lavarone e Luserna, piuttosto che
con il Veneto che, tra l’altro, non riconosce nemmeno la loro
specificità.
266
Si veda la deliberazione del Consiglio comunale di Lamon dell’8 marzo 2005,
n. 6. La richiesta è stata approvata dall’Ufficio centrale per il referendum con
l’ordinanza del 3 maggio 2005 in cui se ne è dichiarata la legittimità.
267
Nel Comune di Lamon si sono recati alle urne il 61,6% degli elettori; i voti
favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali sono stati il 57,2%.
268
Si veda la deliberazione del Consiglio comunale di Sovramonte dell’10 marzo
2006, n. 6. La richiesta è stata approvata dall’Ufficio centrale per il referendum
con l’ordinanza del 12 aprile 2006 in cui se ne è dichiarata la legittimità.
237
La consultazione referendaria a Sovramonte si è tenuta l’8-9 ottobre
2006 ed il risultato è stato pressoché plebiscitario a favore del
passaggio al Trentino-Alto Adige269.
Dopo queste prime limitate richieste di passaggio al TrentinoAlto Adige, ve ne sono state altre, molto più ampie per l’estensione
del territorio e per il numero delle popolazioni interessate, che hanno
interessato non solo la Provincia di Belluno ma anche quella di
Vicenza.
Nell’alto vicentino gli otto Comuni dell’Altopiano di Asiago (Asiago,
Conco, Enego, Foza, Gallio, Lusiana, Roana, Rotzo)270 hanno chiesto
di passare alla Regione Trentino-Alto Adige per gli stretti legami di
carattere socio-economico e culturale con l’attigua Provincia di
Trento. Per favorire questo passaggio si è costituito un apposito
“Comitato per il passaggio dei sette Comuni alla provincia autonoma
di Trento”, il quale ha fatto svolgere dei referendum consultivi nei tre
Comuni di Conco, Enego e Lusiana, allo scopo di tastare il polso alla
popolazione locale, che hanno registrato una percentuale di
voti
favorevoli al passaggio alla Regione autonoma superiore al 90%.
Sulla spinta si ciò, gli otto Comuni hanno attivato il procedimento di
cui all’art. 132, co. 2 Cost.271; la peculiarità di questa richiesta stava
269
Nel Comune di Sovramonte si sono recati alle urne il 67,9% degli elettori; i
voti favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali sono stati il
64,7%.
270
L’Altopiano di Asiago è comunemente conosciuto come “dei Sette Comuni”:
la denominazione risale all’epoca feudale e comprende la lista dei comuni sopra
elencati con la successiva aggiunta di Conco, che fu elevato a Comune da
semplice contrada solamente nel 1796. I Sette Comuni diedero vita ad una libera
confederazione nell’ambito della Repubblica di Venezia, la “Spettabile Reggenza
dei Sette Comuni”, che durò fino al 1807 con il passaggio all’Impero Asburgico.
Attualmente questa confederazione persiste sotto forma di Comunità montana.
271
La richiesta all’Ufficio centrale per il referendum è stata formulata con le
deliberazioni dei Consigli comunali interessati, adottate in tempi diversi. Si veda,
238
nel fatto che gli enti locali hanno chiesto di celebrare un referendum
“cumulativo”272 o “unitario”273.
Il referendum celebrato il 6-7 maggio 2007 presso tutti gli otto
Comuni dell’Altopiano di Asiago aveva due particolarità:
- il quesito referendario era formulato cumulativamente, cioè era
uguale per tutti gli otto Comuni interessati;
- il quorum su cui sono stati calcolati i voti favorevoli, è stato
cumulativo, è stato cioè calcolato sulla sommatoria dei votanti degli
otto Comuni e non sulla base di ogni singolo Comune.
Il quesito referendario era così formulato: “Volete voi che il
territorio dei Comuni di Asiago, Conco, Enego, Foza, Gallio, Lusiana,
Roana, Rotzo, sia separato dalla Regione Veneto per entrare a far
parte della Regione Trentino-Alto Adige?”
A parere di chi scrive, la dichiarazione di legittimità dell’Ufficio
centrale per il referendum si era attenuta esattamente a quanto prevede
la legge di attuazione del referendum n. 352/1970: nell’ultimo inciso
dell’art. 41 è prevista come possibile la formulazione di un quesito
referendario in cui siano riportati i nomi di più Comuni e quindi unico
per più di essi274.
ad esempio, la deliberazione del Consiglio comunale di Gallio del 25 maggio
2006, che è stata la prima. La richiesta è stata approvata con l’ordinanza del 6
dicembre 2006, che ne ha dichiarato la legittimità.
272
Secondo la definizione di F. RATTO TRABUCCO, Il distacco-aggregazione
dei comuni da una Regione all’altra: ovvero il revival dell’autodeterminazione
delle comunità locali in Nuova rassegna di legislazione, dottrina, giurisprudenza,
n. 1-2008, Firenze, p. 48.
273
Secondo la definizione di D. TRABUCCO, Alcuni problemi legati alle
variazioni territoriali ex art. 132, 2° comma, Cost., www.forumcostituzionale.it,
2008, p. 2.
274
In questo senso si è espresso anche l’illustre costituzionalista De Martin; per
un approfondimento si veda: G.C. DE MARTIN, De Martin: legittimo il quesito
unitario ma la conta va fatta Comune per Comune (intervista) in L’Amico del
Popolo del 13 ottobre 2007, n. 47.
239
La formulazione di questa norma non può che suscitare qualche
perplessità in quanto frustra il carattere di autoidentificazione
territoriale sotteso alla consultazione referendaria: come può, ad
esempio, un cittadino di Asiago esprimere un deliberazione anche in
merito alla variazione territoriale del Comune di Enego senza
intrattenere con esso nessun rapporto, nel caso concreto determinato
dalla residenza? La soluzione interpretativa da adottare sarebbe quella
di considerare il quesito referendario come cumulativo, ma il voto
dell’elettore riferito solamente al Comune di residenza, quasi che gli
altri nomi dei Comuni non fossero scritti nella scheda elettorale.
Auspicabile sarebbe un intervento della Consulta che dichiarasse
l’illegittimità dell’art. 41 della l. 352/1970 nella parte in cui prevede
che il quesito referendario possa contenere il nome di più Comuni.
Per quanto riguarda invece il calcolo del quorum, è da ritenersi
che sia illegittimo calcolarlo cumulativamente, come sommatoria dei
votanti dei Comuni, piuttosto che sulla base degli iscritti nelle liste
elettorali di ciascun Comune. Questo perché il Comune è l’ente locale
minimo avente una propria autonomia: calcolare il quorum non
tenendo presente questo fatto potrebbe portare ad esiti lesivi della
libertà di autoidentificazione territoriale delle popolazioni interessate
residenti in un determinato Comune e ciò perché qualora questo si
esprimesse contrariamente al quesito referendario ma si trovasse ad
essere minoranza rispetto alla consultazione referendaria cumulativa e
complessiva, la sua volontà verrebbe scalzata dalla volontà
maggioritaria degli altri Comuni, e ciò non è ammissibile per un ente
autonomo. La cosa è accaduta nella consultazione referendaria in
questione con riferimento al Comune di Enego, dove, per l’elevata
240
presenza di elettori residenti all’estero non
è stato possibile
raggiungere il quorum richiesto per il referendum territoriale; il fatto
che la maggioranza assoluta dei voti fosse calcolata sul totale degli
iscritti delle liste elettorali di tutti e otto i Comuni ha consentito di
raggiungere egualmente lo scopo della consultazione.
Quest’interpretazione è suffragata anche da autorevole dottrina
(De Martin275), che sostiene la legittimità del referendum cumulativo,
in quanto “l’articolo 41 (della l. 352/1970) legittima formalmente
l’ipotesi di un quesito congiunto”. Il fatto che il quesito referendario
possa essere congiunto non comporta che anche il conteggio debba
essere congiunto, infatti “la valutazione dell’esito (del referendum)
deve avvenire Comune per Comune”: la ratio dell’art. 132, co. 2 Cost.
è infatti molto chiara nel senso che ciascuna comunità comunale
decide per sé se dare seguito o meno alla richiesta di distaccoaggregazione. In questo modo il quorum per l’approvazione del
quesito referendario è calcolato sulla base degli abitanti di ciascun
singolo Comune.
Il problema viene ravvisato in un vuoto normativo nelle procedure di
verifica del risultato della consultazione referendaria cumulativa.
I problemi sollevati dal referendum cumulativo dividono anche
la più recente dottrina.
Secondo una parte (Ratto Trabucco276), il referendum
cumulativo sarebbe legittimo in quanto, quando si parla di comunità
275
Sul punto si veda: G.C. DE MARTIN, De Martin: legittimo il quesito unitario
ma la conta va fatta Comune per Comune (intervista) in L’Amico del Popolo del
13 ottobre 2007, n. 47.
276
Cfr. F. RATTO TRABUCCO, Il distacco-aggregazione dei comuni da una
Regione all’altra: ovvero il revival dell’autodeterminazione delle comunità locali
in Nuova rassegna di legislazione, dottrina, giurisprudenza, n. 1-2008, Firenze,
241
intenzionata a cambiare Regione, non sempre si deve far riferimento
ad un solo Comune, ad una sola entità amministrativa, ma si può
comprendere la popolazione che risiede in un’area più vasta, che
abbraccia diversi Comuni.
Secondo altra parte della dottrina (Trabucco277) invece, il
referendum cumulativo sarebbe illegittimo: si ritiene infatti che le
deliberazioni pronunciate dai Consigli comunali, quali atti prodromici
alla richiesta referendaria, debbano essere singole e distinte, come
statuito dalla sentenza 334/2004278; di conseguenza, anche il risultato
che quelle deliberazioni determinano deve essere un distinto
referendum, cioè un referendum per ogni singola amministrazione
comunale. Il dato è avvalorato sia da un’interpretazione letterale del
disposto costituzionale da parte della Consulta, sia da autorevoli
interpretazioni dottrinali279 allorché ritengono che la mancata
distinzione tra singole aree frustri l’effettuazione del riscontro
referendario, si corre cioè il rischio che il riscontro dell’interesse
diretto alla variazione territoriale venga vanificato dal computo dei
voti espressi, verificato mediante sommatoria degli stessi.
L’elemento di novità introdotto dall’interpretazione in esame riguarda
un’analisi sul controllo effettuato dall’Ufficio centrale per il
pp. 48 ss.; Consultazione congiunta perfettamente legittima da Il Gazzettino del
18 ottobre 2007, www.amiscdladinia.info.
277
Cfr. D. TRABUCCO, Alcuni problemi legati alle variazioni territoriali ex art.
132, 2° comma, Cost., www.forumcostituzionale.it, 2008, p. 2; D. TRABUCCO,
I. MEGALI, E’ costituzionale la proposta di un quesito referendario unico per i
Comuni di Cortina d’Ampezzo, Livinallongo e Colle Santa Lucia che intendono
passare dalla regione Veneto alla Provincia autonoma di Bolzano/Bozen?,
www.federalismi.it, 2008.
278
Si veda: Sentenza 28 ottobre 2004 n. 334 della Corte Costituzionale in
Giurisprudenza costituzionale n. 6/2004, pp. 3775 ss.
279
Sul punto si veda: M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle
Regioni, vol. II, Padova, 1991, pp. 74 ss.
242
referendum. Si ritiene infatti che l’art. 43, co. 1 della l. 352/1970 sia
formulato in forma generica, cosa che consentirebbe un duplice
controllo sulle deliberazioni dei Consigli comunali: da una parte un
controllo sostanziale, concernente il fatto che la consultazione
referendaria debba necessariamente riferirsi ad un’ipotesi di distaccoaggregazione (“la richiesta di referendum sia conforme alle norme
dell’articolo 132 della Carta costituzionale e della legge”), l’altra
formale, riguardante il numero minimo prescritto delle deliberazioni
depositate (“verificando in particolare che sia raggiunto il numero
minimo prescritto delle deliberazioni depositate”). Ora, dato che il
controllo sostanziale sulla forma con cui viene presentato all’elettore
il quesito referendario rientra tra le verifiche che devono essere
effettuate dall’Ufficio centrale, Trabucco ritiene che l’ordinanza che
dà il via libera al referendum cumulativo abbia “tralasciato quel
controllo formale-sostanziale relativo al modo di presentazione del
referendum al cittadino”280 e la cosa sarebbe illegittima tanto che si
potrebbe ipotizzare contro l’ordinanza dell’Ufficio centrale un ricorso
alla Corte Costituzionale da parte della Regione Veneto per conflitto
di attribuzioni, in quanto parte lesa a seguito dell’adozione di un atto
dello Stato centrale frutto di un illegittimo esercizio di un potere.
Questa soluzione interpretativa, per quanto originale, appare molto
convincente.
Una questione che è interessante approfondire e che assume
particolare rilievo in caso di consultazioni referendarie cumulative è
quella della contiguità territoriale tra l’ente aggregante e l’ente
aggregato. La questione riguarda i territori di un ente regionale che
280
Cfr. D. TRABUCCO, Alcuni problemi legati alle variazioni territoriali ex art.
132, 2° comma, Cost., www.forumcostituzionale.it, 2008, p. 3.
243
chiedano di essere aggregati ad un’altra Regione: essi devono essere
contermini, cioè devono confinare direttamente col territorio della
Regione di aggregazione o possono essere solamente vicini ad essa,
senza esserne contermini? È cioè possibile l’aggregazione quando un
ente confina non con la Regione di aggregazione, ma solamente con il
territorio di altri enti che abbiano chiesto a loro volta di passare ad una
Regione con la quale confinino direttamente? La questione non è di
poco conto: nel caso degli otto Comuni dell’Altopiano di Asiago, solo
due di essi, Asiago e Rotzo, confinano con la Regione ad autonomia
speciale.
Si potrebbe rispondere anche che l’art. 132, co. 2 Cost. non si sia
occupato direttamente della questione perché il procedimento da esso
previsto281 permetterebbe al Parlamento di non approvare la richiesta
di passaggio, in quanto non ha senso il passaggio di un ente locale con
una Regione con cui non confini282.
In questa sede si vuole però analizzare la questione, senza usare
come “scudo” la procedura garantistica prevista dal Costituente.
Di primo acchito parrebbe che la condizione indispensabile per poter
chiedere l’aggregazione ad altra Regione sia che l’ente locale che
chiede l’aggregazione debba essere contermine, cioè debba essere
direttamente confinante con l’ente a cui si chiede il passaggio, pena la
creazione di “isole territoriali”, cioè enti locali appartenenti ad una
Regione il cui territorio sia inglobato nel territorio di un’altra Regione.
Esaminando la questione più nel dettaglio, si giunge a ritenere che è
opportuno consentire il passaggio di quegli enti locali che non siano
281
Si veda a tal proposito il Capitolo III.
In questo senso si veda articolo Colle Santa Lucia tenta il “salto” anche se
non confina con l’Alto Adige in L’Amico del Popolo dell’1 settembre 2007, n. 40,
p. 4.
282
244
direttamente confinanti con la Regione di aggregazione (sono cioè
vicini ma non contermini), ma ciò solamente nel caso in cui gli enti
locali che con essa confinino direttamente abbiano chiesto
contemporaneamente di aggregarsi alla stessa e le loro richieste siano
state approvate (è una conditio sine qua non). In questo modo il
confine regionale verrebbe a mutare e di conseguenza anche i primi
sarebbero direttamente confinanti con la Regione a cui chiedono
l’aggregazione, legittimandoli a proporre la richiesta di distaccoaggregazione.
Il problema si sposterebbe quindi da una questione “spaziale”, cioè il
fatto che i territori siano contermini, ad una “temporale”, e cioè
attendere che il confine regionale sia modificato per poi iniziare il
procedimento ex art. 132, co. 2 Cost. La questione “temporale” non è
determinante per il procedimento in questione nel senso che non è
richiesto che il territorio dell’ente aggregante sia confinante con
quello aggregato nel momento in cui inizia il procedimento di
variazione territoriale. È possibile quindi ammettere che degli enti
locali passino “in blocco” ad altra Regione, anche se qualcuno di essi
non confini direttamente con la stessa.
La questione del referendum cumulativo interessa anche le
consultazioni referendarie svoltesi nei tre Comuni ampezzani di Colle
Santa Lucia, Cortina d’Ampezzo e Livinallongo del Col di Lana283.
Questi Comuni dell’alto bellunese hanno manifestato l’intenzione di
chiedere l’aggregazione al Trentino-Alto Adige284 per ragioni etniche
283
Se il procedimento di variazione territoriale di questi tre Comuni fosse
approvato dal Parlamento, essi andrebbero ad aggregarsi alla Provincia autonoma
di Bolzano, con le conseguenze si cui si è trattato al Capitolo III, pp. 215 ss.
284
La richiesta all’Ufficio centrale per il referendum è stata formulata con
deliberazione del Consiglio comunale di Colle Santa Lucia del 20 aprile 2007, n.
245
e storiche: le unioni culturali ladine presenti in questi in questi territori
rivendicano la riunificazione all’Alto Adige poiché sono state parte
dell’Impero austro-ungarico dal 1541 al 1918; nel 1923, a seguito
della Prima Guerra Mondiale i tre Comuni furono staccati d’imperio
dalla Provincia di Trento ed aggregati forzatamente a quella di
Belluno, dopo aver fatto parte per quattro secoli del Capitanato
d’Ampezzo, la più piccola tra le circoscrizioni amministrative del
Tirolo. Attualmente costituiscono l’unico caso di comunità ladine non
ricomprese nel territorio del Trentino-Alto Adige.
La consultazione referendaria nei tre Comuni ladini si è svolta in data
28-29 ottobre 2007 ed ha avuto esito positivo: è infatti stata approvata
l’aggregazione alla Regione Trentino-Alto Adige285, anche se, come
detto, è stato dato il via libera alla celebrazione di un referendum
cumulativo che, a parere di chi scrive, denota dei margini
d’illegittimità costituzionale.
Le
consultazioni
referendarie
nell’Ampezzano
meritano
particolare attenzione in quanto il loro caso ha fomentato il dibattito
dottrinale circa la legittimità o meno del quesito unitario in caso ex
art. 41 della l. 352/1970, cosa che non era avvenuta qualche mese
prima quando a votare per il passaggio di Regione erano andati i
cittadini dell’Altopiano di Asiago.
Anche per queste richieste di passaggio si pone poi la questione
della contiguità territoriale: il Comune di Colle Santa Lucia infatti non
14, del Consiglio comunale di Cortina d’Ampezzo del 5 aprile 2007, n. 36, del
Consiglio comunale di Livinallongo del Col di Lana del 19 aprile 2007, n. 31. La
richiesta è state approvata dall’Ufficio centrale per il referendum con l’ordinanza
del 17 maggio 2007, dove se ne è dichiarata la legittimità.
285
Nei Comuni di Colle Santa Lucia, Cortina d’Ampezzo, Livinallongo del Col di
Lana i voti favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali dei tre
Comuni sono stati il 56,34%.
246
confina direttamente con la Regione di aggregazione: valgono in
questo caso le considerazioni fatte per i Comuni dell’Altopiano di
Asiago.
L’ultimo caso di referendum territoriale celebrato per chiedere
l’approvazione al passaggio al Trentino Alto-Adige di un Comune
veneto è stato quello di Pedemonte286. Il Comune di Pedemonte ha
fatto parte della Provincia di Trento sino al 1929 quando d’imperio è
stato aggregato alla Provincia di Vicenza insieme al Comune di
Casotto. Quest’ultimo nel 1940 fu privato dell’autonomia comunale
ed aggregato al Comune di Pedemonte.
Il referendum territoriale si è svolto in data 9-10 marzo 2008 ed ha
approvato la proposta di distacco-aggregazione287.
Circa la posizione delle due Regioni interessate alla revisione
dei confini, occorre ricordare che sono a tratti divergenti: la Regione
di aggregazione, il Trentino-Alto Adige, ha manifestato freddezza
all’ipotesi di qualsiasi aggregazione al suo territorio, a parte il caso dei
tre Comuni dell’Ampezzano. A conferma di ciò, si ricordi a titolo
esemplificativo che il Consiglio regionale del Trentino-Alto Adige ha
espresso parere negativo in merito all’aggregazione del Comune di
Lamon288.
La Regione Veneto si è sempre dichiarata contraria a qualsiasi ipotesi
di distacco e come nel caso di quei Comuni veneti che hanno chiesto il
286
La richiesta all’Ufficio centrale per il referendum è stata formulata con
deliberazione del Consiglio comunale Pedemonte il 13 giugno 2007, n. 15.
287
Nel Comune di Pedemonte i voti favorevoli calcolati sul totale degli iscritti
nelle liste elettorali sono stati il 51,04%.
288
Il Consiglio regionale del Trentino-Alto Adige nella seduta del 16 gennaio
2007 ha approvato la proposta di parere negativo all’aggregazione di Lamon
formulata il 16 dicembre 2006 dalla I Commissione legislativa del Consiglio
regionale.
247
passaggio al Friuli-Venezia Giulia289 e per ostacolare l’iter
procedurale di distacco-aggregazione persiste in un atteggiamento
volontariamente ostruzionistico, tergiversando nell’adozione dei pareri
richiesti.
Per quanto riguarda il procedimento legislativo parlamentare, i
disegni di legge sono stati presentati al Parlamento con forte ritardo
rispetto ai termini previsti dalla legge di attuazione del referendum
(art. 45, co. 4 della l. 352/1970)290.
Merita un esame più dettagliato la proposta legislativa relativa al
Comune di Lamon, che risulta ad uno stadio d’esame più avanzato
rispetto alle restanti. La proposta in questione si limita a sancire lo
spostamento di Regione di Lamon, senza soffermarsi sugli
adempimenti conseguenti, lasciati alla Regione Trentino-Alto Adige,
chiamata ad adottare la disciplina di dettaglio291. L’autonomia speciale
della Regione trentina si fonda su specifici obblighi internazionali292 e
quindi qualsiasi ridefinizione della stessa non può prescindere da un
coinvolgimento della stessa o della Provincia autonoma di Trento che
acquisterebbe il Comune.
289
Si veda Capitolo IV, paragrafo 2.1.
Cfr., per esempio: Atto Camera n. 1427, presentato il 20 luglio 2006, recante
“Distacco del Comune di Lamon dalla Regione Veneto e sua aggregazione alla
Regione Trentino-Alto Adige ai sensi dell’art. 132, secondo comma, della
Costituzione”; Atto Camera n. 2524, presentato il 17 aprile 2007, recante
“Distacco del Comune di Sovramonte dalla Regione Veneto e sua aggregazione
alla Regione Trentino-Alto Adige ai sensi dell’art. 132, secondo comma, della
Costituzione”.
291
Cfr. art. 4, n. 3) dello Statuto del Trentino-Alto Adige, la Regione ha potestà di
emanare norme legislative relativamente all’ordinamento degli enti locali e delle
relative circoscrizioni.
292
Questi obblighi internazionali derivano dalla massiccia presenza di minoranze
linguistiche di origine tedesca nel territorio della Regione, che devono essere
tutelate. Sul punto si veda Capitolo III, pp. 215 ss.
290
248
Per quanto riguarda l’iter parlamentare del provvedimento, va
ricordato che in data 20 luglio 2006 il Ministro dell’Interno ed il
Ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie locali hanno
presentato in Parlamento un disegno di legge costituzionale per il
distacco del Comune di Lamon dal Veneto e la sua aggregazione al
Trentino-Alto Adige; la scelta di ricorrere al disegno di legge
costituzionale è stata ritenuta imprescindibile, “trattandosi, nel caso
specifico, di variazione che andrebbe ad incidere anche sul territorio
di una regione ad autonomia differenziata”293. Secondo la dottrina la
scelta operata in sede parlamentare non appare condivisibile, in quanto
aggraverebbe
“ulteriormente
il
procedimento
di
distacco-
aggregazione, attraverso il ricorso al procedimento di revisione
costituzionale”294. Sulla questione è intervenuta successivamente
un’autorevole pronuncia della Corte Costituzionale, la sentenza 9
marzo 2007, n. 66295, la quale ha stabilito che l’aggregazione ad una
Regione a Statuto speciale debba avvenire comunque con legge
ordinaria, secondo quanto prescritto dal secondo comma dell’art. 132,
che si riferisce a tutte le Regioni indicate nell’art. 131 Cost.
Il 26 luglio 2007 la Commissione bilancio della Camera ha espresso
parere negativo sul disegno di legge in argomento adducendo
l’insorgenza di effetti finanziari negativi per gli enti locali interessati,
da una parte per la Provincia di Trento a causa della struttura
demografica lamonese caratterizzata da un’elevata popolazione
293
Vedi relazione di accompagnamento al d.d.l. costituzionale, atto Camera n.
1427.
294
Cfr. M. MOTRONI, La migrazione dei Comuni di frontiera verso le Regioni a
statuto speciale: la problematica scelta della fonte idonea a produrre l’effetto di
variazione territoriale, www.federalismi.it, 2008, p. 11.
295
Cfr. sentenza della Corte Costituzionale 9 marzo 2007 n. 66 in Giurisprudenza
costituzionale, Milano, 2007. Sulla Sentenza della Corte Costituzionale si è
ampiamente discusso nel Capitolo III, paragrafo 4.5.
249
anziana, dall’altra anche per la Regione Veneto a fronte di minori
introiti IRAP. La Commissione Affari costituzionali ha invece
espresso parere favorevole sul provvedimento.
L’applicazione della norma di cui all’art. 132, co. 2 Cost. crea però
non poche preoccupazioni nelle istituzioni centrali: il legislatore
nazionale teme che l’approvazione della proposta di legge sollevata da
Lamon possa creare un pericoloso precedente e che ad esso segua una
serie di richieste di cambio di Regione che andrebbe a toccare la
delicata questione dei confini regionali. Alcuni politici sono poi giunti
a palesare una disgregazione del Veneto a seguito delle numerose
richieste di distacco provenienti da questa Regione che, dopo
l’esempio di Lamon, potrebbero avere un importante precedente su cui
poggiar le loro pretese. Ciò che pare assurdo, o quanto meno
paradossale, è il fatto che il legislatore nazionale abbia modificato in
senso più favorevole l’art. 132, co. 2 Cost. con la legge costituzionale
n. 3/2001 ed ora sia lui stesso ad aver timore di applicare tale norma.
In ultimo si ricorda che anche due Comuni della Regione
Lombardia hanno richiesto di poter aggregarsi al Trentino-Alto Adige:
si tratta dei Comuni di Valvestino (BS) e Magasa (BS)296. I due
Comuni hanno fatto parte della Provincia di Trento fino al 1918 ed i
rispettivi comitati referendari si propongono la riunificazione alla
provincia dolomitica.
2.3- Dal Piemonte alla Valle d’Aosta: il caso dei Comuni delle Valli
Orco e Soana
296
Fonte: www.comunichecambianoregione.org.
250
La volontà di ricongiungersi a Regioni limitrofe non ha
riguardato solamente Comuni veneti, ma ha toccato anche alcuni
Comuni piemontesi che hanno chiesto l’aggregazione alla Regione
Valle d’Aosta. Nel corso del 2005 si è costituito il “Comitato
promotore per la riannessione delle Valli Orco e Soana alla Valle
d’Aosta”297.
Le Valli di Orco e Soana comprendono sei Comuni (Ceresole Reale,
Locana, Noasca, Ribordone, Ronco Cavanese, Valprato Soana) situati
nella zona nord-occidentale della Provincia di Torino al confine con la
Regione Valle d’Aosta; essi erano parte integrante della Provincia di
Aosta fino al riordino territoriale avvenuto alla fine del secondo
conflitto mondiale, a seguito del quale fu soppressa la Provincia di
Aosta e fu decisa d’imperio l’aggregazione alla Provincia di Torino di
quei Comuni che, pur appartenendo alla prima, non si ritenne
appartenessero al territorio della Vallée. Scopo di questo riordino
territoriale era la presunta salvaguardia delle peculiari condizioni
geografiche dell’area valdostana.
La richiesta di passare alla Valle è stata invocata da questi Comuni
non solo per ragioni storiche, ma anche economiche: la mancata
crescita economica di questi enti locali è imputata infatti alla
disattenzione da parte della Regione Piemonte verso di loro; il
passaggio alla Valle d’Aosta consentirebbe di avere una maggiore
attenzione, dal momento che le istituzioni regionali valdostane devono
far fronte ad un’area territoriale molto meno vasta e variegata rispetto
a quella piemontese.
297
Il Comitato in questione è stato costituito il 16 novembre 2005 nel Comune
piemontese di Ronco Cavanese; il suo sito internet è: www.andiamoinvallee.com.
251
Il primo Comune piemontese ad attivare il procedimento di
distacco-aggregazione ex art. 132, co. 2 Cost. è stato quello di
Noasca298, situato in alta Valle Orco, la cui popolazione ha espresso a
forte maggioranza299 la volontà di passare alla Valle d’Aosta a seguito
della consultazione referendaria tenutasi nei giorni 8-9 ottobre 2006.
Successivamente anche gli altri Comuni delle Valli Orco e
Soana hanno manifestato l’intenzione di attivare il procedimento di
distacco-aggregazione, ma senza giungere finora a nessun risultato
concreto. Singolare è la situazione del Comune di Ronco Canavese, il
cui Consiglio comunale aveva dapprima adottato l’atto di richiesta del
referendum per il passaggio alla Regione Valle d’Aosta, ma dopo soli
due giorni ha revocato la relativa deliberazione.
Il secondo caso di Comune piemontese che ha chiesto il
passaggio alla Valle è stato quello di Carema300. Il suo territorio non si
trova nelle Valli Orco e Soana, ma come per i Comuni di queste valli
il suo legame col territorio valdostano è di natura storica: sino al
riordino territoriale di queste zone, conseguente alla Seconda Guerra
Mondiale, il Comune di Carema faceva parte della Valle; inoltre nel
1929 a questo Comune furono sottratte d’imperio alcune frazioni che
furono aggregate al confinante Comune di Pont-Sant-Martin301, che da
298
La richiesta all’Ufficio centrale per il referendum è stata formulata con
deliberazione del Consiglio comunale Noasca il 27 gennaio 2006, n. 2; l’Ufficio
centrale ha dichiarato la legittimità del referendum con ordinanza del 12 aprile
2006.
299
Nel Comune di Noasca si sono recati alle urne il 67,7% degli elettori; i voti
favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali sono stati il 52,7%.
300
La richiesta all’Ufficio centrale per il referendum è stata formulata con
deliberazione del Consiglio comunale Carema il 30 giugno 2006, n. 21; l’Ufficio
centrale ha dichiarato la legittimità del referendum con ordinanza del 28 settembre
2006.
301
Con R.D. 7 marzo 1929, n. 442, senza alcuna consultazione popolare, furono
sottratte al Comune di Carema otto sue frazioni (Boschetto, Cappella Ferrata,
252
sempre è ricompreso nella Regione valdostana. Motivi di affinità fra
Carema e l’area valdostana possono poi essere ravvisati dal punto di
vista socio-culturale e dei costumi tipici.
Il referendum nel Comune di Carema si è tenuto nei giorni 18-19
marzo 2007 ed ha registrato un importante consenso favorevole al
passaggio alla Vallée 302.
Per quanto riguarda il parere delle Regioni interessate, bisogna
registrare un sostanziale disaccordo di entrambe verso qualsiasi ipotesi
di revisione dei confini regionali.
Nello specifico, la Regione Piemonte ritiene che nel caso dell’istanza
di Noasca le motivazioni sottostanti alla richiesta siano discutibili ed
espressione più di una generale protesta dei piccoli Comuni di
montagna per la situazione di disattenzione alle loro istanze da parte
di quelle Regioni ampie e morfologicamente variegate (come il
Piemonte o il Veneto), che non di una reale affinità con l’area
territoriale valdostana. Per questi motivi non pare disposta a concedere
parere favorevole alle istanze di Noasca o Carema.
La Regione Valle d’Aosta si è invece mossa su due fronti: da una
parte ha sollevato problemi concreti, legati, per esempio, al
collegamento viario con i due Comuni in questione (che però non
sussistono nel caso di Carema), cosa che farebbe sostenere che i
legami tra il territorio di distacco e quello di aggregazione non siano
poi così stretti; dall’altra ha attivato il canale giurisdizionale a tutela
dell’integrità del suo territorio. La Regione Valle d’Aosta ha infatti
Ivery, Maddalena, Marchetto, Prati Nuovi, Sarous, Stigliano). Al termine del
secondo conflitto mondiale il Comune di Carema avanzò una richiesta volta a
riacquistare i territori in questione, che però andò evasa.
302
Nel Comune di Carema si sono recati alle urne il 76,1% degli elettori; i voti
favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali sono stati il 68,1%.
253
sollevato davanti alla Corte Costituzionale due ricorsi per conflitto di
attribuzione nei confronti degli atti prodromici alla celebrazione del
referendum, al fine di far dichiarare che non spetta allo Stato attivare
il procedimento di modifica del territorio valdostano ex art. 132, co. 2
Cost., in quanto il territorio della Regione a Statuto speciale sarebbe
stato costituzionalizzato e pertanto si dovrebbe seguire la procedura di
cui all’art. 50 dello Statuto regionale valdostano per eseguire qualsiasi
revisione di esso. Quest’ultima norma prevede che si utilizzi la legge
costituzionale per la revisione dello Statuto regionale, e quindi anche
nel caso di modifica del territorio costituzionalizzato della Regione
speciale, e non la semplice legge ordinaria, come previsto dal
capoverso dell’art. 132 Cost. per l’ipotesi di distacco-aggregazione.
La Consulta si è pronunciata sulla questione con la sentenza 9 marzo
2007, n. 66303 (su cui si è già ampiamente trattato nel corso di questo
studio304), ed ha rigettato nel merito il ricorso dell’Amministrazione
regionale valdostana ribadendo che la procedura di cui all’art. 132, co.
1 e 2 Cost. si applica indistintamente a tutte le Regioni, siano esse a
Statuto ordinario o speciale; pertanto gli atti prodromici alla
consultazione referendaria noaschina sono perfettamente validi.
Per quanto riguarda l’iter parlamentare delle proposte di
passaggio alla Valle d’Aosta dei Comuni di Noasca e Carema, anche
in questo caso bisogna dire che il Ministro dell’Interno non ha
rispettato i termini di legge stabiliti305.
303
Sentenza della Corte Costituzionale 9 marzo 2007 n. 66 in Giurisprudenza
costituzionale, Milano, 2007.
304
In particolare si veda Capitolo III, paragrafo 4.5.
305
Cfr. Atto Camera n. 2525, presentato il 17 aprile 2007, recante “Distacco del
Comune di Noasca dalla Regione Piemonte e sua aggregazione alla Regione Valle
d’Aosta ai sensi dell’art. 132, secondo comma, della Costituzione”; Atto Camera
n. 2727, presentato il 4 giugno 2007, recante “Distacco del Comune di Carema
254
2.4- Dalle Marche all’Emilia-Romagna: il caso dei Comuni della
Valmarecchia e della Val Conca
Il recente fenomeno delle richieste di distacco-aggregazione non
interessa solamente enti locali di Regioni ordinarie “in fuga” verso
quelle a Statuto speciale (notoriamente connotate da regimi fiscali più
favorevoli), ma vi è anche una fuga verso altre Regioni ordinarie: è il
caso del comprensorio dei sette Comuni dell’Alta Valmarecchia
(Casteldelci, Maiolo, Novafeltria, Pennabilli, Sant’Agata Feltria, San
Leo, Talamello), attualmente collocati nella Regione Marche, ma che
chiedono
di
essere
aggregati
all’Emilia-Romagna.
L’Alta
Valmarecchia è oggi ricompresa nella Provincia di Pesaro-Urbino,
nella Regione Marche, ma costituisce il naturale entroterra riminese;
da sempre i Comuni di quest’area sono legati alla Romagna ed alla
Provincia di Rimini in particolare, sia dal punto di vista economico,
sia da quello della rete infrastrutturale. Dal punto di vista morfologico,
poi, la parte restante della vallata è compresa nella Provincia di
Rimini. Si ricordi inoltre che questi Comuni sono stati staccati dalla
Legazione pontificia della Romagna nel 1816 ed aggregati a quella di
Urbino con lo scopo di controllare meglio le propensioni
risorgimentali di questa zona.
dalla Regione Piemonte e sua aggregazione alla Regione Valle d’Aosta ai sensi
dell’art. 132, secondo comma, della Costituzione”.
255
Il caso dei Comuni dell’Alta Valmarecchia ha costituito il primo caso
in Italia di referendum territoriale cumulativo306, in quanto la
consultazione referendaria da essi richiesta307 era rivolta al distacco
dell’intero comprensorio e non alla separazione individuale dei singoli
Comuni. L’iniziativa era stata preventivamente concertata tra i sette
Comuni ed avvantaggiata dal fatto che essi sono riuniti nella
Comunità montana dell’Alta Valmarecchia. Secondo parte della più
recente dottrina (Ratto Trabucco308), il fatto che i sette Comuni in
questione siano riuniti in una Comunità montana legittimerebbe
l’unicità del referendum. È da ritenersi che simile interpretazione sia
costituzionalmente illegittima in quanto nella lettera del capoverso
dell’art. 132 Cost. si prevede che enti interessati alla variazione siano
solo le Province ed i Comuni e non anche le Comunità montane:
queste infatti pur essendo unioni di Comuni montani e parzialmente
montani309, e pur potendo essere considerate a tutti gli effetti enti
306
Si veda Capitolo IV, paragrafo 2.2.
La richiesta all’Ufficio centrale per il referendum è stata formulata con singole
deliberazioni dei Consigli comunali dell’Alta Valmarecchia; in particolare:
deliberazione del Consiglio comunale di Casteldelci del 31 marzo 2006, n. 10;
deliberazione del Consiglio comunale di Maiolo del 4 aprile 2006, n. 12;
deliberazione del Consiglio comunale di Novafeltria del 27 marzo 2006, n. 22;
deliberazione del Consiglio comunale di Pennabilli del 30 marzo 2006, n. 19;
deliberazione del Consiglio comunale di San Leo del 31 marzo 2006, n. 9;
deliberazione del Consiglio comunale di Sant’Agata Feltria del 30 marzo 2006, n.
14; deliberazione del Consiglio comunale di Talamello del 27 marzo 2006, n. 17.
L’Ufficio centrale ha dichiarato la legittimità della richiesta di referendum con
l’ordinanza del 27 giugno 2006.
308
Cfr. F. RATTO TRABUCCO, Il distacco-aggregazione dei comuni da una
Regione all’altra: ovvero il revival dell’autodeterminazione delle comunità locali
in Nuova rassegna di legislazione, dottrina, giurisprudenza, n. 1/2008, Firenze, p.
58.
309
Si veda la definizione di Comunità Montana secondo l’art. 12, co. 1 in T.U. D.
lgs. n. 267/2000.
307
256
locali310, non possono essere titolari della potestà conferita dall’art.
132, co. 2 Cost.
La questione si risolve indagando in profondità sulla ratio del dettato
costituzionale: con esso si vuole permettere ad una comunità locale di
decidere a quale Regione appartenere se sussistano determinati
requisiti; considerare un’unione di comunità locali alla stregua di un
singolo soggetto è sbagliato in quanto non si riuscirebbe a carpire la
volontà di quel singolo, come invece previsto dal capoverso dell’art.
132 Cost.
La consultazione referendaria si è svolta nei giorni 17-18 dicembre
2006 contemporaneamente in tutti i Comuni valmarecchiesi,
esprimendo una forte maggioranza a favore del passaggio alla
Regione Emilia-Romagna311. È il caso di ricordare che dai risultati
disaggregati per Comune emerge che in tutti e sette gli enti locali è
stato raggiunto il quorum approvativo previsto per il referendum
territoriale dall’art. 45, co. 2 della l. 352/1970 e che pertanto il
raggiungimento del quorum complessivo non è stato facilitato da
compensazioni di quorum tra un Comune e l’altro. La cosa
contribuisce a ristabilire una qualche parvenza di legittimità ad una
consultazione referendaria che altrimenti sarebbe stata da considerarsi
illegittima.
A seguito del netto risultato referendario, il Consiglio della Comunità
montana dell’Alta Valmarecchia ha approvato in data 20 dicembre
2006 un ordine del giorno in cui invita tutte le istituzioni locali e
310
Cfr. A. BALDAN, La natura giuridica delle Comunità Montane e la potestà
legislativa regionale in materia, www.forumcostituzionale.it, 2008, p. 1.
311
Il risultato “aggregato” della consultazione referendaria ha dato il seguente
responso: elettori dei sette Comuni recatisi alle urne: 67,5%; voti favorevoli
calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali dei sette Comuni: 56,1%.
257
nazionali ad operare affinché l’iter legislativo sia concluso nel più
breve tempo possibile.
Dopo i Comuni valmarecchiesi, che in un certo qual modo
hanno avuto la funzione di “apripista”, anche i Comuni della Val
Conca hanno deciso di attivare il procedimento per il distacco dalle
Marche e l’aggregazione all’Emilia-Romagna. Le motivazioni sottese
a questa richiesta sono le medesime viste nel caso appena descritto: i
Comuni in questione sono di fatto romagnoli, ma per una serie di
vicende storiche si sono trovati ricompresi nella Regione Marche a cui
non sentono di appartenere.
I primi due Comuni della Val Conca ad attivare il procedimento ex
art. 132, co. 2 Cost. sono stati Montecopiolo312 e Sassofeltrio313; la
consultazione referendaria nei due Comuni si è tenuta il 24-25 giugno
2007 ed in entrambi i casi è stato approvato il distacco dalle Marche e
l’aggregazione all’Emilia-Romagna314.
Altri due Comuni della Val Conca hanno attivato l’iter procedurale di
distacco-aggregazione, ma con esiti diversi da quelli appena visti. Si
tratta dei Comuni di Monte Grimano Terme315 e di Mercatino
312
La richiesta all’Ufficio centrale per il referendum è stata formulata con
deliberazione del Consiglio comunale Montecopiolo l’1 marzo 2007, n. 7;
l’Ufficio centrale ha dichiarato la legittimità del referendum con ordinanza del 28
marzo 2007.
313
La richiesta all’Ufficio centrale per il referendum è stata formulata con
deliberazione del Consiglio comunale Sassofeltrio il 17 marzo 2007, n. 21;
l’Ufficio centrale ha dichiarato la legittimità del referendum con ordinanza del 28
marzo 2007.
314
Nel Comune di Montecopiolo i voti favorevoli calcolati sul totale degli iscritti
nelle liste elettorali sono stati il 57,9%; nel Comune di Sassofeltrio i voti
favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali sono stati il 50,6%.
315
La richiesta all’Ufficio centrale per il referendum è stata formulata con
deliberazione del Consiglio comunale Monte Grimano Terme il 2 luglio 2007, n.
19.
258
Conca316, le cui consultazioni referendarie, svoltesi il 9-10 marzo
2008, hanno respinto la proposta di aggregazione all’EmiliaRomagna317.
Per quanto riguarda la posizione delle due Regioni interessate,
sia la Regione Marche, sia la Regione Emilia-Romagna si sono
impegnate ad emettere i pareri necessari alla prosecuzione dell’iter
legislativo in tempi rapidi.
In merito alla presentazione al Parlamento della proposta
sottoposta a referendum, anche in questo caso non sono stati rispettati
i termini di legge318.
Un ultimo appunto: la spinta “secessionista” determinata
dall’attivazione dei procedimenti di distacco-aggregazione sopra
esaminati è parte di un progetto più ampio, avente lo scopo di
giungere alla creazione della Regione Romagna, staccata dall’Emilia.
La nuova Regione sarebbe composta delle tre Province di Ravenna,
Forlì-Cesena e Rimini; il requisito del numero minimo di un milione
di abitanti prescritto dall’art. 132, co. 1 Cost. sarebbe raggiunto
proprio grazie all’aggregazione alla Provincia di Rimini dei Comuni
della Valmarecchia e della Val Conca.
316
La richiesta all’Ufficio centrale per il referendum è stata formulata con
deliberazione del Consiglio comunale Mercatino Conca il 19 settembre 2007, n.
39.
317
Nel Comune di Monte Grimano Terme i voti favorevoli calcolati sul totale
degli iscritti nelle liste elettorali sono stati il 42,76%; nel Comune di Mercatino
Conca i voti favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali sono
stati il 49,11%. La proposta di distacco dalla Regione Marche e l’aggregazione
alla Regione Emilia-Romagna è stata quindi respinta.
318
Cfr. Atto Camera n. 2527, presentato il 17 aprile 2007, recante “Distacco dei
Comuni di Casteldelci, Maiolo, Novafeltria, Pennabilli, Sant’Agata Feltria, San
Leo, Talamello dalla Regione Marche e loro aggregazione alla Regione EmiliaRomagna ai sensi dell’art. 132, secondo comma, della Costituzione”.
259
2.5- Dalla Campania alla Puglia: il caso di Savignano Irpino
Il Comune di Savignano Irpino è situato nell’Alta Irpinia,
territorialmente contigua alla Regione Puglia. Savignano dal punto di
vista storico ha fatto parte della Provincia di Capitanata (coincidente
all’incirca con l’attuale Provincia di Foggia, situata nella Regione
Puglia)
per
circa
sessant’anni
all’inizio
dell’Ottocento;
geograficamente parlando però, il centro ha
un’omogeneità
territoriale più con l’area della Capitanata che con quella irpina.
Sussistono inoltre dei legami di carattere economico e soprattutto
degli elementi di natura etnico-linguistica tali da legare Savignano più
al foggiano che alla Provincia di Avellino, di cui fa parte.
Tuttavia, malgrado anche l’amministrazione comunale nella sua
richiesta di referendum abbia dato delle motivazioni di carattere
territoriale ed infrastrutturale319, la vera ragione della richiesta di
passaggio alla Regione Puglia deve ravvisarsi in un segnale di protesta
di carattere ambientale verso la Regione Campania, la quale ha deciso
di realizzare una discarica di rifiuti nel territorio del Comune di
Savignano Irpino. Com’è risaputo, la Campania si trova da decenni a
dover fronteggiare un’emergenza legata allo smaltimento dei rifiuti;
con l’ordinanza del 23 gennaio 2006 n. 19, adottata dall’Alto
Commissario per l’emergenza rifiuti in Campania, su indicazione
della Provincia di Avellino, è stato individuato nelle vicinanze del
Comune in questione un sito da adibire a discarica. Il Comitato che
guida la protesta contro la discarica ha deciso, tra le altre iniziative, di
319
La richiesta all’Ufficio centrale per il referendum è stata formulata con
deliberazione del Consiglio comunale Savignano Irpino il 13 settembre 2005, n.
26; l’Ufficio centrale per il referendum ha dichiarato la legittimità della richiesta
con l’ordinanza del 13 gennaio 2006.
260
chiedere il distacco dalla Regione Campania di modo che, con il
passaggio ad altra Regione (si ricordi infatti che lo smaltimento dei
rifiuti è materia di competenza regionale), la discarica non possa più
essere realizzata.
La consultazione referendaria si è svolta l’11-12 giugno 2006, ma la
chiamata alle urne ha registrato un esito negativo320 per l’assenza di un
fronte compatto al passaggio alla Regione Puglia. Al di là delle
motivazioni ambientali, contro la proposta di aggregazione ha giocato
contro il timore degli anziani circa presunte difficoltà di collegamento
con il nuovo capoluogo provinciale; occorre ricordare infatti che
Savignano Irpino dista settanta chilometri da Avellino e solo
quarantasette da Foggia, ciononostante la strada statale n. 90 “delle
Puglie”, che collega il Comune con il capoluogo della Capitanata, è
impraticabile per un ampio movimento franoso che costringe ad
itinerari alternativi di lunga e difficile percorrenza. A queste difficoltà
di ordine infrastrutturale si somma anche il fatto che molti residenti
iscritti nelle liste elettorali non dimorano effettivamente nel territorio
comunale, cosa che come si è visto rende difficile il raggiungimento
del quorum referendario previsto dall’art. 45, co. 2 della l. 352/1970.
Si consideri poi il fatto che anche se la consultazione avesse
dato esito positivo, i vantaggi per Savignano non sarebbero stati
immediati e pertanto, in attesa della definizione del procedimento
legislativo parlamentare, il Comune avrebbe continuato a far parte
della Campania, con la conseguenza che il sito di stoccaggio dei rifiuti
avrebbe potuto essere comunque realizzato.
320
Nel Comune di Savignano Irpino si sono recati alle urne il 48,3% degli aventi
diritto al voto; i voti favorevoli calcolati sul totale degli iscritti nelle liste elettorali
sono stati il 39,3%.
261
Il caso di Savignano è degno di nota anche per il fatto di essere
stato il primo Comune meridionale ad aver attivato il procedimento di
distacco-aggregazione, seppur con esito negativo. In passato altri
Comuni del Sud avevano manifestato la volontà di mutare Regione
senza tuttavia riuscire ad attivare il procedimento di cui al capoverso
dell’art. 132 Cost.: si ricordino ad esempio i Comuni di Chieuti e
Gallo Matese321.
3-
Motivazioni sostanziali sottese ai procedimenti di distaccoaggregazione sinora avviati
Esaminate nel dettaglio le vicende dei Comuni che hanno
richiesto di aggregarsi ad altra Regione, è opportuno ora capire le
motivazioni sostanziali sottese a tali scelte, ricordando sin da subito
che non esiste una risposta univoca, ma che la commistione di
elementi che può portare a simile scelta è varia e variamente
“miscelata”. Sul tema si è espressa anche la più recente dottrina che in
merito ha visioni molto diverse.
Da una parte vi è chi (Ratto Trabucco) ritiene che dietro a tutte
le richieste vi sia comunque una connotazione non solo economica,
ma anche e soprattutto storico-culturale, a cui si aggiunge
naturalmente una continuità geografica tra il territorio aggregante e
quello aggregato.
Dall’altra vi è molta della più recente dottrina (Barbero, Ferrara,
Fraenkel-Haeberle, Malo, Motroni) che ritiene, seppur con spiegazioni
321
Si veda Capitolo IV, pp. 219 ss.
262
leggermente differenti, che le motivazioni sostanziali sottese ai
procedimenti di distacco-aggregazione in corso siano essenzialmente
di ordine economico-finanziario.
Con riferimento alle prima tesi, a coloro che sostengono che
dietro le richieste vi siano solo motivi di interesse economico,
determinate dal passaggio a Regioni ad autonomia speciale, si
risponde piccatamente che: “dietro il dileggio giornalistico e di una
parte della dottrina per le comunità locali che intendono aggregarsi a
regioni autonome, si nasconde spesso la totale ignoranza delle
connotazioni storico-culturali delle realtà in esame”322. Non bisogna
comunque dimenticare che il trattamento fiscale differenziato a favore
delle Regioni ad autonomia speciale323 gioca comunque un ruolo
importante in queste scelte tanto che gli amministratori delle Regioni
ordinarie che subiscono il distacco ritengono che esso sia da imputarsi
all’irrisolta questione del federalismo fiscale ancora inattuato.
È possibile inoltre dare una spiegazione politica: il passaggio è volto a
dimostrare l’incapacità di determinati sistemi politici regionali. In
questo senso le istanze di distacco-aggregazione sono da leggersi
come processi centrifughi che riguardano la società, la politica, le
istituzioni, per cui si sceglie di passare sotto l’amministrazione di
un’altra Regione (non necessariamente a Statuto speciale, come
322
Cfr. F. RATTO TRABUCCO, Il distacco-aggregazione dei comuni da una
Regione all’altra: ovvero il revival dell’autodeterminazione delle comunità locali
in Nuova rassegna di legislazione, dottrina, giurisprudenza, n. 1-2008, Firenze, p.
67.
323
Si ricordi che le Regioni a Statuto speciale: 1) non concorrono, se non
marginalmente, al pagamento degli interessi sul debito pubblico, né al
finanziamento al sistema previdenziale; 2) non concorrono alla perequazione
interregionale; 3) ricevono risorse in corrispondenza di competenze tuttora
esercitate dallo stato. In questo senso si veda: P. GIARDA, Le regole del
federalismo fiscale nell’art. 119: un economista di fronte alla nuova Costituzione
in Le Regioni n. 6/2001, Bologna.
263
dimostra il caso dei Comuni dell’Alta Valmarecchia e della Val
Conca) dove ci sono più vantaggi e più risorse e ciò al fine di
rivendicare determinate prerogative da parte degli enti locali,
soprattutto se di ridotte dimensioni.
Il problema va comunque affrontato in nuce per evitare il moltiplicarsi
delle richieste di passaggio ad altra Regione, ma soprattutto per dare
una risposta a quelle specificità territoriali (come le aree alpine del
Bellunese) che risultano essere fortemente penalizzate dalla normativa
attuale. La cosa non appare comunque facile: vi è un’oggettiva
difficoltà nel cancellare sessant’anni di privilegi a favore delle realtà
regionali ad autonomia speciale, date dalle maggiori risorse
determinate dal fatto di trattenere totalmente o parzialmente il gettito
dei tributi erariali percepiti sul territorio.
Il legislatore si trova tra “l’incudine” di dover attuare il federalismo
fiscale ed “il martello” di dover dar seguito a proposte che
provengono dal corpo elettorale e da cui difficilmente potrà
discostarsi. Ciò che è certo è che a queste “motivazioni” più o meno
velate egli dovrà dare quanto prima una risposta.
La parte più consistente della recente dottrina, come detto, non
concorda con quest’analisi dei fatti e sostiene invece che l’unica vera
spiegazione di questi processi sia principalmente (se
non
esclusivamente) di ordine economico-finanziario.
Secondo alcuni (Barbero) “i tentativi compiuti da un numero
sempre crescente di Comuni e Province di annettersi a Regioni
speciali (specialmente, per non dire esclusivamente al nord) riflettono
perlopiù (per non dire esclusivamente) considerazioni di ordine
economico-finanziario. Gli Enti locali appartenenti a tali Regioni (…)
beneficiano di un notevole surplus di risorse disponibili rispetto a
264
quelli appartenenti alle Regioni ordinarie. Da qui (…) l’aspirazione
del tutto legittima (…) di «cambiare casacca»”324. Da un'altra parte si
sostiene che: “numerosi Comuni (…) hanno avviato la procedura di
distacco-aggregazione prevista dall’art. 132, comma 2, Cost. con
l’obiettivo di entrare nell’ambita (in quanto lucrosa) orbita della
specialità”325.
Da parte loro, le Regioni ad autonomia speciale non hanno dimostrato
una particolare “ospitalità” nei confronti di quegli enti locali, seppur
affini storicamente, culturalmente e territorialmente, che hanno
richiesto l’aggregazione; anche qui la motivazione è prettamente
economica, determinata dal timore di dover dividere anche con altri
enti locali le risorse finanziarie. Si è posta pertanto la questione se le
“anomalie” presenti nel sistema finanziario di tali Regioni siano
ancora giustificabili. La risposta non può che essere negativa.
La questione della “fuga” degli enti locali verso altre Regioni si ritiene
abbia una sola e possibile soluzione: la “riforma dell’ordinamento
finanziario delle Regioni speciali, la cui situazione di sostanziale
privilegio costituisce anche una pericolosa «tentazione»”326.
Simile spiegazione è ribadita anche da altri (FraenkelHaeberle), sostenendo che i “Comuni ubicati in Regioni ordinarie,
attratti sia dalla maggiore disponibilità di risorse economiche, sia dai
vantaggi in termini di efficienza della gestione dei servizi offerti dal
324
Cfr. M. BARBERO, Enti locali “in fuga”: questioni di “forma” e di
“sostanza”, www.federalismi.it, 2007, p. 5.
325
Cfr. M. BARBERO, Come (non) si risolve la questione delle “secessioni” dei
Comuni di confine (e dei privilegi finanziari delle autonomie speciali),
www.federalismi.it, 2008, p. 1.
326
Cfr. M. BARBERO, Enti locali “in fuga”: questioni di “forma” e di
“sostanza”, www.federalismi.it, 2007, p. 7.
265
regime autonomistico, (richiedono) di aggregarsi soprattutto a Regioni
(Province) ad autonomia speciale”327.
Sul fatto che la motivazione delle recenti richieste di distaccoaggregazione sia essenzialmente di ordine economico, concordano
anche altri (Ferrara), che però individuano la fonte del problema nella
poco incisiva riforma attuata con la legge costituzionale n. 3/2001.
A seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, la nuova
formulazione dell’art. 116, co. 3 Cost. prevede che anche le Regioni
ordinarie possano chiedere “ulteriori forme e condizioni di
autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’art. 117
e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle
lettere l) (…) n) e s)” ma pur sempre nel rispetto dei principi del
federalismo fiscale, che vincolano, tra l’altro, alla perequazione
nazionale per i territori con minore capacità fiscale per abitante (art.
119, co. 3 Cost.). Quest’ultimo inciso distingue nettamente le Regioni
ordinarie da quelle speciali che sono esentate dalla perequazione
nazionale, potendo tenere per sé gran parte della ricchezza prodotta
sul territorio. Pertanto, l’art. 116, co. 3 Cost., da una parte permette
alle Regioni ordinarie di scegliere sulla carta tra un’ampia serie di
competenze dettate dalla devolution e fornisce le risorse necessarie a
finanziarle, dall’altra chiude la porta a forme di specializzazione per le
Regioni ordinarie. È proprio questo il nocciolo del problema: le
Regioni ordinarie, sebbene possano avere una serie più ampia di
competenze dopo la riforma costituzionale del 2001 sono tenute
comunque a finanziare la perequazione nazionale, mentre le Regioni
327
Cfr. C. FRAENKEL-HAEBERLE, La “secessione” dei Comuni: una chimera
o una via percorribile?, www.federalismi.it, 2008, p. 2.
266
speciali continuano a rimanerne escluse328. È da chiedersi se le
numerose richieste di Comuni che intendono cambiare Regione per
essere annessi al territorio di quelle speciali non debbano essere
valutate come “un’altra diversa possibilità di specializzazione, per
quelle aree del Paese in cui questo è concretamente possibile e
conveniente, in elusione alle norme costituzionali” e ciò sebbene “una
regione di diritto comune (…) potrebbe ottenere ulteriori forme e
condizioni particolari di autonomia, ma sempre nel rigoroso principio
della
perequazione
nazionale.
La
corsa
dei
comuni
alla
specializzazione è dunque soluzione concretamente disponibile e
anche assai vantaggiosa”329. Riassumendo la tesi esaminata, si può
dire che: sebbene l’art. 116, co. 3 Cost. abbia ampliato le forme di
specializzazione per le Regioni ordinarie, tuttavia quelle speciali si
trovano comunque in una situazione più favorevole determinata dal
fatto di non dover contribuire alla perequazione nazionale. Questa
maggiore ricchezza attira i Comuni delle vicine Regioni ordinarie,
che, in elusione alla norma di cui all’art. 132, co. 2 Cost., chiedono di
aggregarsi a quelle ad autonomia differenziata solamente per motivi
d’interesse economico. Viste le reali motivazioni sostanziali che
spingono alcuni enti locali a chiedere la variazione di Regione, vi
328
La necessità che anche le Regioni ad autonomia speciale partecipino alla
perequazione è presente nel disegno di legge delega recante “Disposizioni di
attuazione dell’art. 119 della Costituzione”, approvato in via definitiva dal
Consiglio dei Ministri il 3 agosto 2007; l’art. 18 (coordinamento della finanza
delle Regioni a statuto speciale e delle province autonome) dispone al co. 1 che le
autonomie speciali “concorrono agli obiettivi di perequazione e solidarietà e a
diritti e ai doveri da essi derivanti”. Per un approfondimento sul disegno di legge
delega: E. JORIO, La perequazione nel ddl delega di attuazione del federalismo
fiscale licenziato dal Governo il 3 agosto 2007, www.federalismi.it, 2007.
329
Cfr. A. FERRARA, Questione settentrionale. Dalla grande alla piccola
secessione: la migrazione territoriale dei Comuni come istanza di
specializzazione in deroga ai principi del federalismo fiscale, www.federalismi.it,
2007, pp. 2 ss.
267
sarebbe “l’onere da parte del Parlamento di dover dire anche degli
scomodi no a qualche comunità locale in cerca di schei e non della
propria identità storico-culturale”330.
Altri (Malo331) sostengono poi il fatto che le richieste sono
motivate da pulsioni meramente egoistiche, per entrare a far parte di
Regioni con maggiori disponibilità finanziarie, ma si aggiunge che in
realtà la censura nasconderebbe il timore del ceto politico di perdere la
propria posizione di potere a fronte di uno sviluppo del senso di
autodeterminazione delle popolazioni locali. Si nasconderebbe inoltre
l’opportunità di tracciare confini regionali più coerenti alla cultura e
alle tradizioni locali (come nel caso dei ladini dell’Ampezzano o dei
romagnoli dell’Alta Valmarecchia), ma si teme che in questo modo
l’incremento dei fenomeni di distacco-aggregazione possa portare alla
dissoluzione di intere realtà regionali (come il Veneto, “minacciato”
ad ovest dalla “fuga” verso il Trentino-Alto Adige e ad est da quella
verso il Friuli-Venezia Giulia).
La soluzione del problema potrebbe essere la costituzione di entità
regionali territorialmente più ampie con poteri largamente autonomi:
in questo modo si potrebbe dar vita, ad esempio al Triveneto, che
farebbe sfumare le spinte secessioniste dei Comuni veneti verso le
Regioni speciali limitrofe. Una simile formazione andrebbe nella
direzione dell’affermazione del sistema federale, conciliando la
tradizione storica con rinnovate esigenze economiche e sociali.
330
Cfr. A. FERRARA, Questione settentrionale. Dalla grande alla piccola
secessione: la migrazione territoriale dei Comuni come istanza di
specializzazione in deroga ai principi del federalismo fiscale, www.federalismi.it,
2007, p. 7.
331
Cfr. M. MALO, Forma e sostanza in tema di variazioni territoriali delle
Regioni (a margine della pronuncia 66/2007 della Corte Costituzionale) in Le
Regioni n. 3/2007, Bologna, pp. 646 ss.
268
Sulla stessa linea, ma in toni più concilianti, vi è chi (Motroni)
sostiene che: “alla base del dilagare delle recenti e numerose richieste
di variazione territoriale proposte dai singoli comuni, si pongono una
serie di elementi giustificativi di diversa natura, come il risalente
“equivoco” delle regioni storiche e le più recenti rivendicazioni nel
senso di una maggiore autonomia fiscale e finanziaria rispetto al
potere centrale”332. Le motivazioni sostanziali sottese alle variazioni
territoriali sono dunque due: una storica, l’altra riguardante
l’autonomia finanziaria; la motivazione storica, in realtà, “tende ad
assumere una funzione di copertura rispetto a quello che costituisce un
vero e proprio motivo latente, di ben più ampia importanza, ovvero la
questione della titolarità di risorse fiscali proprie”333.
Dopo aver esaminato i singoli casi della variazioni territoriali in
corso e le motivazioni ad esse sottese, si ritiene, come detto all’inizio
di questo paragrafo, che la risposta da dare ad esse non sia univoca,
ma frutto di una serie di elementi, variamente “miscelati”.
Sicuramente la maggiore disponibilità finanziaria delle Regioni ad
autonomia differenziata è il principale ed il più valido motivo per
chiedere il passaggio334; se la cosa però può essere vera per il Comune
332
Cfr. M. MOTRONI, La migrazione dei Comuni di frontiera verso le Regioni a
statuto speciale: la problematica scelta della fonte idonea a produrre l’effetto di
variazione territoriale, www.federalismi.it, 2008, p. 3.
333
Cfr. M. MOTRONI, La migrazione dei Comuni di frontiera verso le Regioni a
statuto speciale: la problematica scelta della fonte idonea a produrre l’effetto di
variazione territoriale, www.federalismi.it, 2008, p. 3.
334
A tal proposito si riporta il caso del Comune veneto di Meduna che ha chiesto
di celebrare il referendum per aggregarsi alla Regione Friuli-Venezia Giulia: il
decreto per indire la consultazione referendaria è stato approvato dal Consiglio dei
Ministri durante la seduta dell’11 settembre 2008; nella stessa data è stata
approvata dallo stesso in via preliminare anche la bozza di disegno di leggedelega in materia di federalismo fiscale. Saputa la notizia, il sindaco di Meduna ha
dichiarato: “(…) non ha senso parlare di andarcene quando arriva il federalismo”.
La motivazione che aveva spinto il Comune trevigiano ad attivare il procedimento
269
di Lamon, un po’ meno lo è per un Comune come Cortina
d’Ampezzo335, che gode comunque di una certa disponibilità
finanziaria, dovuta al turismo elitario.
La motivazione di un ricongiungimento tra aree territoriali dovuto a
motivi storici è marginale (come nel caso dei ladini dell’Ampezzano,
delle
popolazioni
del
Portogruarese
e
di
quelle
dell’Alta
Valmarecchia), anche se si vuole far apparire che la tradizione storicoculturale sia motivo di aggregazione molto forte.
La conclusione a cui si perviene è che le richieste di aggregazione ad
altra Regione siano motivate si da ragioni di ordine economicofinanziario e marginalmente anche di ordine storico, ma che siano
soprattutto il sintomo di una protesta, che interessa in maniera
particolare le aree di montagna, contro le istituzioni regionali che si
occupano davvero troppo poco di queste zone ed allo stesso tempo
siano un modo per avere l’attenzione dello Stato centrale che da
troppo tempo promette e non attua il federalismo fiscale.
ex art. 132, co. 2 Cost. non ha bisogno di ulteriori commenti. Fonte: “Un nuovo
referendum per passare al Friuli” (articolo) in Il Padova del 12 settembre 2008,
p. 29.
335
Sulla stessa linea è anche C. FRAENKEL-HAEBERLE, La “secessione” dei
Comuni: una chimera o una via percorribile?, www.federalismi.it, 2008, p. 8.
270
271
CAPITOLO V
RECENTI SVILUPPI IN MATERIA DI VARIAZIONI
TERRITORIALI DELLE REGIONI
CENNI DI DIRITTO COMPARATO
SOMMARIO: 1. Progetti di revisione costituzionale dell’art. 132. – 1.1. La fallita riforma
costituzionale approvata nel corso della XIV legislatura. – 1.2. Il disegno di legge
costituzionale per la modifica dell’art. 132, co. 2 Cost. proposto durante la XV legislatura. – 2.
I Fondi per favorire le aree territoriali confinanti con le Regioni a Statuto speciale. – 2.1. Il
Fondo per la valorizzazione e la promozione delle aree territoriali svantaggiate confinanti con
le Regioni a Statuto speciale. – 2.3. Gli interventi attuati dalla Regione Veneto. – 2.3. L’Intesa
tra la Regione Veneto e la Provincia autonoma di Trento. – 3. Cenni di diritto comparato.
1-
Progetti di revisione costituzionale dell’art. 132
A partire dalla metà degli anni Novanta si è intensificato il
dibattito, politico e dottrinario, sulla revisione costituzionale della
nostra Carta fondamentale e di conseguenza si è discusso anche sul
tema delle modifiche morfologiche delle Regioni.
Per quanto riguarda le proposte provenienti dal mondo politico
vale la pena di ricordare il progetto di riforma della Lega Nord
presentato durante l’Assemblea federale tenutasi a Genova il 6
novembre 1994. Questo progetto prevedeva una riforma sostanziale
della forma dello Stato italiano in senso federale, che avrebbe dovuto
272
essere composto da nove Stati, venti Regioni336, oltre alle Province, i
Comuni ed il distretto federale di Roma (art. 6): cinque dovevano
essere quindi i livelli di governo a competenza territoriale
differenziata, cosa che non favoriva di certo la semplificazione
organizzativa del nostro Paese. Il progetto era molto articolato, ma sul
tema delle variazioni territoriali inaspettatamente “moderato”,
considerate le posizioni della Lega Nord. Le norme che riguardavamo
l’istituzione, la soppressione di Stati e Regioni e la modificazione dei
loro territori erano molto simili a quelle previste dall’art. 132 della
Costituzione: si prevedeva infatti che la fusione delle Regioni esistenti
e la creazione di nuove Regioni con un minimo di un milione di
abitanti fosse disposta con legge della Federazione, approvata dai due
rami del Parlamento federale a maggioranza assoluta dei componenti e
che fossero sentiti i Consigli regionali337.
La norma sulle modificazioni territoriali delle Regioni desta stupore
perché, dato che esse sono interne agli Stati, ci si sarebbe aspettato si
distinguesse a seconda che i mutamenti territoriali riguardassero un
singolo Stato o più Stati: la competenza legislativa nel primo caso
avrebbe dovuto essere del singolo Stato, nel secondo caso di quello
federale. In merito alle variazioni territoriali degli Stati come tali il
progetto non diceva nulla.
336
In particolare: Lombardia, Sicilia e Sardegna avrebbero dovuto costituire
ciascuna uno Stato; un quarto Stato sarebbe stato formato da Piemonte, Valle
d’Aosta e Liguria; un quinto da Veneto, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia
Giulia; un sesto da Abruzzi, Molise, Basilicata, Puglia; un settimo da Campania e
Calabria; gli ultimo due sarebbero derivati dalla divisione della Regione EmilaRomagna: da una parte vi sarebbe stato l’accorpamento dell’Emilia con la
Toscana, dall’altro della Romagna con l’Umbria, le Marche ed il Lazio. In merito
si veda: F. PIZZETTI, Federalismo, regionalismo e riforma dello Stato , Torino,
1996, pp. 121 ss.
337
Cfr. F. PIZZETTI, Federalismo, regionalismo e riforma dello Stato, Torino,
1996, p. 128.
273
Il progetto della Lega Nord è stato in seguito modificato e presentato
nel corso della XII legislatura338 (il 18 gennaio 1995), come disegno di
legge costituzionale339.
Un modello di Stato federale ancor più accentuato era stato
presentato nello stesso anno (dicembre 1994) da Miglio, il quale
proponeva una divisione dello Stato in tre Cantoni, la Repubblica
Padana, la Repubblica dell’Etruria e la Repubblica del Sud,
organizzate su base regionale, come nel progetto appena visto.
Continuavano ad esistere le Regioni a Statuto speciale, le quali erano
accorpate all’Unione Italiana da un’autonoma adesione. In questo
modello scomparivano le Province, mentre restavano i Comuni.
Altro progetto era stato formulato dal Comitato di studio delle
riforme
istituzionali,
elettorali
e
costituzionali,
generalmente
conosciuto come Commissione Speroni; questa era stata nominata il
14 luglio 1994 con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri e
la sua funzione è indicata chiaramente nella denominazione stessa. Il
progetto di legge, frutto dei lavori della Commissione, è stato
presentato al Senato in data 21 febbraio 1995340.
In tema di variazioni territoriali, la Commissione Speroni proponeva
di ricomprendere sotto l’unica locuzione “modifica dei confini
territoriali” le tre ipotesi di variazione (fusione, creazione e distacco-
338
La XII legislatura è iniziata il 15 aprile 1994 e si è conclusa l’8 maggio 1996.
Sul punto si veda: XII legislatura, Atto Senato n. 1304. Il d.d.l. costituzionale
era stato firmato dai senatori Speroni, Tabladini ed altri.
340
Sul punto si veda: XII legislatura, Atto Senato n. 1403. Si faccia attenzione a
distinguere questo progetto di legge con il precedente d.d.l. costituzionale, che ha
come primo firmatario proprio il sen. Speroni presentato al Senato solo un mese
prima. Si veda la nota precedente.
339
274
aggregazione) e che in caso di creazione di una nuova Regione fosse
elevato il numero minimo di abitanti a quattro milioni341.
Altro progetto ancora è stato proposto, nel corso della XIII
legislatura342,
dalla
Commissione
bicamerale
per
le
riforme
costituzionali, presieduta dall’on. D’Alema. Questa si era occupata
della riforma dell’art. 132 Cost., continuando a prevedere tre distinte
ipotesi di variazione del territorio regionale, seppur con qualche
modifica rispetto al testo originario; questo il testo dell’art. 63343,
licenziato dalla Commissione bicamerale in tema di modificazioni
territoriali:
“Con legge costituzionale, sentite le rispettive Assemblee regionali e
con l’approvazione della maggioranza della popolazione di ciascuna
delle Regioni interessate espressa mediante referendum, si può
disporre la fusione di Regioni esistenti.
Con legge costituzionale, sentita l’Assemblea regionale e con
l’approvazione della maggioranza della Regione interessata espressa
mediante referendum, si può modificare la denominazione delle
Regioni esistenti e si possono creare nuove Regioni, con popolazione
rispettivamente non inferiore ad un milione di abitanti.
Con legge approvata dalle due Camere, sentite le rispettive Assemblee
regionali e con l’approvazione della maggioranza delle popolazioni
dei Comuni interessati espressa mediante referendum, si può
341
Cfr. L. FERRARO, commento all’art. 132 della Costituzione italiana, in
Commentario alla Costituzione, a cura di BIFULCO R., CELOTTO A.,
OLIVETTI M., Torino, 2006, pp. 2546 ss.
342
La XIII legislatura è iniziata il 9 maggio 1996 e si è conclusa il 29 maggio
2001.
343
Il testo dell’art. 63 è consultabile su:
www.camera.it/parlam/bicam/rifcost/docapp/relass7.htm.
275
consentire che Comuni che ne facciano richiesta siano staccati da una
Regione ed aggregati ad un’altra”
Si può notare, dopo una lettura sinottica del testo in questione con
l’art. 132 Cost., che nelle prime due ipotesi di variazione è scomparsa
l’iniziativa dei Consigli comunali, mentre nel caso di distaccoaggregazione la stessa viene affidata solamente ai Comuni e non
anche alle Province.
Com’è risaputo, la Commissione bicamerale per le riforme
costituzionali è stata sciolta e questa proposta non ha avuto seguito.
A seguito di minuziose ricerche, anche la Fondazione Agnelli
aveva avanzato un progetto di revisione della Carta costituzionale; si
erano individuati due criteri che avrebbero dovuto essere posti a
fondamento di un ridisegno morfologico del territorio regionale:
- il primo criterio postulava l’autonomia finanziaria come fondamento
dell’autogoverno regionale;
- il secondo suggeriva di prendere in considerazione quelle dimensioni
territoriali che potessero favorire progetti di sviluppo economico.
Per quanto riguarda il primo di questi due aspetti, lo studio aveva
evidenziato che vi era una correlazione tra grado di autosufficienza e
posizione
geografica
della
Regione,
una
correlazione
tra
autosufficienza e situazione di “specialità” di una Regione ed una
correlazione negativa tra grado di autosufficienza di una Regione e le
sue dimensioni demografiche tali da far rilevare che le Regioni con
meno di un milione di abitanti non fossero in grado di raggiungere un
corretto equilibrio finanziario.
In merito al secondo si rilevava invece che le nuove aree regionali
avrebbero dovuto essere omogenee dal punto di vista economico e
che per la loro ridefinizione si sarebbe dovuto considerare il ruolo
276
svolto dalle metropoli, viste le funzioni centrali che esse svolgono a
favore del territorio su cui si esprime il loro effetto di dominanza.
Il progetto proposto era quindi particolarmente attento ai profili
economici e ne derivava la proposta di aggregare quelle realtà
territoriali non in grado di sostenersi finanziariamente: il territorio
dello Stato avrebbe dovuto essere ripartito in dodici Regioni
(mesoregioni)344; avrebbero dovuto essere cancellate le Regioni a
Statuto speciale perché “la tutela delle specialità culturali non può
reggersi su “speciali” trattamenti finanziari e fiscali”345, ma soprattutto
sarebbe stato finalmente messo da parte il criterio di ripartizione
storico-statistico individuato dal Costituente in quanto i “criteri di
razionalità
economica
possono
suggerire
ridisegni
che
non
necessariamente trovano riscontro nell’identità storica di alcune attuali
regioni”346.
Le ricerche della Fondazione giungevano alla conclusione che ad “un
nuovo “regionalismo” di stampo federalista si possa accompagnare
una nuova “regionalizzazione”, ossia una nuova articolazione politicoterritoriale dello spazio nazionale”347, che era tanto necessaria in
quanto la nuova ripartizione territoriale delle Regioni avrebbe
realizzato anche alcuni equilibri istituzionali; infatti “la problematica
della taglia delle dimensionale delle regioni (…) non riguarda soltanto
l’ambito degli equilibri fiscale, ma anche la stessa natura dei rapporti
politici che si possono instaurare in una federazione”348.
344
In questo senso si veda: M. PACINI (a cura di), “Un federalismo di valori ”,
Torino, 1996, pp. 134 ss.
345
Cfr. M. PACINI (a cura di), “Un federalismo di valori ”, Torino, 1996, p. 151.
346
Cfr. M. PACINI (a cura di), “Un federalismo di valori ”, Torino, 1996, p. 151.
347
Cfr. M. PACINI (a cura di), “Un federalismo di valori ”, Torino, 1996, p. 171.
348
Cfr. M. PACINI (a cura di), “Un federalismo di valori ”, Torino, 1996, p. 172.
277
Nello specifico si prevedeva una fase di transizione durante la quale
venivano
facilitati
i
riaccorpamenti
territoriali,
seguita
dall’introduzione del federalismo fiscale; in questo modo, qualora la
modifica sperimentale fosse apparsa convincente, si sarebbe potuto
procedere alla riaggregazione attraverso un rinnovato iter fissato in
eventuali disposizioni transitorie in deroga all’art. 132 Cost.
In questi stessi anni anche la dottrina si è occupata della
questione della revisione della Costituzione. In particolare, con
riferimento all’art. 132 Cost., vi sono state due tesi contrapposte: da
una parte si proponeva di abrogare o sospendere l’art. 132 Cost.,
attraverso l’ordinario procedimento di revisione costituzionale, al fine
di predisporre una rinnovata suddivisione del territorio della
Repubblica349; dall’altra vi era chi non era d’accordo con questa tesi in
quanto un unico referendum nazionale ex art. 138 Cost. sarebbe
andato a surrogare le diverse consultazioni locali di cui all’art. 132
Cost., violando così il principio di autoidentificazione delle
popolazioni interessate alla consultazione referendaria, intrinseco ai
procedimenti di variazione territoriale350.
Verranno ora esaminati i due più recenti progetti di modifica
dell’art. 132 Cost., che, data la loro importanza, meritano dei paragrafi
dedicati.
349
In questo senso si veda: G. BOLOGNETTI, “La Costituzione e l’ipotesi
federalista ”, in Corriere giuridico n. 6/1994, Milano, p. 660.
350
In questo senso si veda: A. FERRARA, “Quali Regioni per la Repubblica? ” in
Diritto e società n. 3/1995, Padova, pp. 325 ss.
278
1.1- La fallita riforma costituzionale approvata nel corso della XIV
legislatura
Tutti i progetti di revisione dell’art. 132 Cost. presentati nel
paragrafo precedente sono rimasti tali, nel senso cioè che non hanno
avuto un seguito legislativo; l’unica riforma della Parte II della
Costituzione ad essere approvata in via definitiva dalle due Camere
(novembre 2005) 351, è stato il progetto di riforma costituzionale della
XIV legislatura, che però in seguito è stato respinto dal referendum
costituzionale del 25-26 giugno 2006352.
Con riferimento alla materia oggetto di questo studio, si ricorda
che il progetto, all’art. 48, modificava l’art. 131 Cost., sostituendo le
denominazioni
“Valle
d’Aosta”
e
“Trentino-Alto
Adige”
rispettivamente con “Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste” e “Trentino-Alto
Adige-Südtirol”,
il
cui
scopo
era
quello
di
evidenziare
nell’elencazione delle Regioni il richiamo a particolari identità, anche
linguistiche.
Per quanto riguarda invece la tematica della variazione del
territorio regionale, il legislatore di revisione aveva statuito una
soluzione temporanea, in deroga all’art. 132 Cost.; all’interno delle
disposizioni transitorie, con l’art. 53, co. 13 si stabiliva che:
“Nei cinque anni successivi alla data di entrata in vigore della presente
legge costituzionale si possono, con leggi costituzionali, formare
nuove Regioni con un minimo di un milione di abitanti, a
351
Sul punto si veda: XIV legislatura, Atto Camera n. 4862, Atto Senato n. 2544.
La legge costituzionale di riforma della Parte II della Costituzione è stata
definitivamente approvata in quarta lettura dal Senato il 16 novembre 2005 e
pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 269 del 18 novembre 2005.
352
Questi i risultati della consultazione referendaria: votanti: 53,7 %; si: 38,3 %;
no: 61,7 % (fonte: Ministero dell’Interno).
279
modificazione dell’elenco di cui all’articolo 131 della Costituzione,
come modificato dalla presente legge costituzionale, senza il concorso
delle condizioni richieste dal primo comma dell’articolo 132 della
Costituzione, fermo restando l’obbligo di sentire le popolazioni
interessate”.
La norma in questione configurava una sospensione dell’art. 132 per i
cinque anni successivi all’entrata in vigore della stessa e molto
verosimilmente lo scopo del legislatore era quello di “allentare, seppur
solo temporaneamente, il complesso procedimento di variazione
territoriale
delle
Regioni”353,
evitando
il
procedimento
“superaggravato” di cui all’art. 132 Cost. che, data la complessità,
aveva costituito un deterrente a qualsivoglia tipologia di mutamento
territoriale.
Non si può non notare la somiglianza di questa norma con l’art. XI
delle disposizioni di attuazione della Costituzione italiana354, che
aveva sospeso l’entrata in vigore dell’art. 132 Cost. per consentire di
regionalizzare aree le cui istanze non erano state accolte
dall’Assemblea Costituente. La somiglianza finisce qui in quanto,
mentre l’art. XI aveva lo scopo di rimediare ad errori di valutazione
fatti dal Costituente in tema di ripartizione del territorio per mancanza
di elementi sufficienti su cui fondare le proprie decisioni, l’art. 53, co.
13 non potrebbe fondarsi sulle stesse spiegazioni. Data la vigenza da
oltre sessant’anni dell’art. 132 Cost. non si spiegherebbe il motivo di
una disposizione transitoria per attenuarne gli effetti: se si vuole
procedere ad una variazione territoriale, si deve attivare il
353
Cfr. L. FERRARO, commento all’art. 132 della Costituzione italiana, in
Commentario alla Costituzione, a cura di BIFULCO R., CELOTTO A.,
OLIVETTI M., Torino, 2006, p. 2545.
354
Vedi Capitolo I, pp. 54 ss.
280
procedimento di cui all’art. 132 Cost.; se il legislatore ritiene invece
che il procedimento “superaggravato” sia troppo complesso ed
impedisca di fatto qualsiasi variazione, allora non si capisce perché
non abbia provveduto a rivederlo, rendendolo meno complesso con
una
soluzione
definitiva
anziché
valida
solamente
per
un
quinquennio355.
Sul punto la dottrina356 rileva che la norma in questione omette
due passaggi fondamentali del procedimento di variazione territoriale
e cioè l’iniziativa dei Consigli comunali rappresentativi delle
popolazioni interessate e l’obbligo di sentire i Consigli regionali;
appare infatti poco opportuno prevedere che si possa procedere a delle
variazioni territoriali senza il concorso delle condizioni richieste
dall’art. 132, co. 1 Cost. perché ciò porterebbe ad affidare al
Parlamento nazionale l’iniziativa di attivare il procedimento di
variazione, segnando così “una lesione della trama ascensionale che
governa l’intero articolo in commento (…) disattendendo così il
principio informatore dell’art. 5 Cost., che implica appunto l’iniziativa
dei Consigli comunali”357. In questo modo sarebbe rovesciata la
dinamica del procedimento di cui all’art. 132 Cost., in una logica
discensionale in cui le scelte sulla variazione sarebbero spettate allo
Stato centrale e non più alle popolazioni interessate, la cui
consultazione avrebbe assunto il ruolo di mera certificazione,
355
In questo senso si veda: L. FERRARO, commento all’art. 132 della
Costituzione italiana, in Commentario alla Costituzione, a cura di BIFULCO R.,
CELOTTO A., OLIVETTI M., Torino, 2006, p. 2545.
356
Si veda: L. FERRARO, commento all’art. 132 della Costituzione italiana, in
Commentario alla Costituzione, a cura di BIFULCO R., CELOTTO A.,
OLIVETTI M., Torino, 2006, p. 2545.
357
Cfr. L. FERRARO, commento all’art. 132 della Costituzione italiana, in
Commentario alla Costituzione, a cura di BIFULCO R., CELOTTO A.,
OLIVETTI M., Torino, 2006, p. 2545.
281
snaturando e depotenziando la forza giuridica del popolo sovrano,
nella sua frazione più vicina alla decisione da assumere.
Il successivo co. 14 dell’art. 53 del progetto di riforma
costituzionale indicava con precisione quali fossero le popolazioni
interessate, prevedendo che:
“Le popolazioni interessate di cui al comma 13 sono costituite dai
cittadini residenti nei Comuni o nelle Province di cui si propone il
distacco dalla Regione”.
Con questo inciso veniva di fatto evidenziata la seconda deroga all’art.
132 prospettata dal precedente co. 13 e cioè l’assenza del parere dei
Consigli regionali interessati.
A prima vista il principio ispiratore di questa norma è ravvisabile nel
concetto di popolazioni direttamente interessate alla variazione
territoriale, individuato nella sentenza 334/2004 della Corte
Costituzionale358, ma se si analizzano i due contesti normativi (quello
dell’art. 132 Cost. come specificato dalla sentenza 334/2004 e l’art.
53, co. 14 del progetto) si vedrà che così non è.
Il giudice delle leggi enuclea il criterio identificativo delle popolazioni
direttamente interessate, dando per presupposto che gli interessi delle
popolazioni indirettamente interessate dalla variazione territoriale
siano tutelati dal parere obbligatorio delle Assemblee regionali; al
contrario nell’art. 53, co. 14 delle disposizioni di transizione, tale
strumento di garanzia non è più previsto, in ragione della sospensione
operata dal co. 13: di conseguenza le popolazioni indirettamente
interessate non sono in nessun modo tutelate. Il medesimo criterio,
impiegato all’interno di contesti normativi differenti, genera effetti
358
Si veda: Sentenza della Corte Costituzionale 10 novembre 2004 n. 334 in Le
Regioni n. 3/2005. Si veda Capitolo III, pp. 169 ss.
282
distorsivi, perché le popolazioni direttamente interessate sarebbero
irragionevolmente privilegiate rispetto alle altre.
In merito alle motivazioni sostanziali sottese a questo progetto,
la dottrina conclude che: “la significativa riduzione delle misure di
garanzia (…) faceva in definitiva paventare una possibile operazione
di scomposizione-ricomposizione dei territori regionali funzionale alla
c.d. devolution, che, infatti, rappresentava una delle proposte
qualificanti del Progetto medesimo. Si sarebbe potuto, cioè, assegnare
per tale via ad alcuni territori la possibilità
di godere di regimi
giuridici differenziati e più favorevoli, che verosimilmente sarebbero
stati il prodotto della specifica attribuzione di nuove materie alla
potestà legislativa esclusiva delle Regioni”359.
1.2- Il disegno di legge costituzionale per la modifica dell’art. 132,
co. 2 proposto durante la XV legislatura
A seguito delle sempre più frequenti richieste di distaccoaggregazione avutesi nell’ultimo triennio, il Governo precedente360
aveva approntato due soluzioni per arginare la questione:
- da una parte aveva predisposto un disegno di legge costituzionale
(poi naufragato con la fine anticipata della legislatura) di modifica del
secondo comma dell’art. 132 Cost., al fine di individuare esattamente
la sfera delle popolazioni interessate alla variazione territoriale;
359
Cfr. L. FERRARO, commento all’art. 132 della Costituzione italiana, in
Commentario alla Costituzione, a cura di BIFULCO R., CELOTTO A.,
OLIVETTI M., Torino, 2006, p. 2546.
360
Ci si riferisce all’Esecutivo guidato da Romano Prodi (Governo Prodi II, dal 17
maggio 2006 al 6 maggio 2008).
283
- dall’altra ha istituito un “Fondo per la valorizzazione e la
promozione delle aree territoriali svantaggiate confinanti con le
Regioni a Statuto speciale” (detto “Fondo Letta”) con lo scopo di
appianare la disparità di trattamento finanziario tra quei Comuni che si
trovano in una Regione a Statuto speciale e quelli con essi confinanti
che si trovano in una Regione a Statuto ordinario: la ratio del
provvedimento è quella di placare le spinte secessioniste dei Comuni
“di confine”.
Durante la seduta del 30 marzo 2007 il Consiglio dei Ministri
aveva approvato un disegno di legge costituzionale per la modifica del
capoverso dell’art. 132 Cost. Il disegno è stato presentato alla Camera
dei deputati il 17 aprile 2007 (Atto Camera n. 2523)361 per essere
discusso in aula ma, come detto sopra, la fine anticipata della
legislatura non ne ha permesso l’esame parlamentare.
Dalla relazione che ha accompagnato il d.d.l. in aula si evince che lo
scopo della modifica era quello di individuare esattamente la sfera
della popolazioni interessate chiamate ad esprimersi in merito alla
proposta di distacco-aggregazione, dal momento che il farraginoso e
complesso sistema normativo individuato dalla legge 352/1970, ed in
particolare dall’art. 42, ha impedito de facto il compimento di
qualsiasi procedimento di modifica dei confini regionali, mortificando
sul nascere ogni autonoma iniziativa degli enti locali. Oltre a ciò, si
deve dire anche che la modifica al secondo comma dell’art. 132 Cost.,
approvata in occasione della modifica del Titolo V della Costituzione,
e volta a circoscrivere l’ambito della consultazione referendaria
unicamente alle popolazioni che intendono distaccarsi, ha una
formulazione ambigua e lacunosa che ha determinato notevoli
361
Si veda il sito web: www.camera.it.
284
difficoltà interpretative circa l’ambito di applicazione. In soccorso è
venuta la sentenza n. 334 del 2004 della Corte Costituzionale362, la
quale ha specificato che, secondo la novella del 2001, popolazioni
interessate dalla consultazione referendaria siano unicamente quelle
che intendono distaccarsi dalla Regione, cioè le popolazioni
direttamente interessate. La pronuncia della Consulta non è tuttavia
stata esente da critiche soprattutto da parte di quei territori (acquirenti)
nei quali dovrebbe svolgersi il processo di aggregazione che non
potevano esprimersi in merito al procedimento, se non attraverso i
pareri non vincolanti delle Regioni perchè ciò, a parere del precedente
Governo, mortificava eccessivamente le esigenze dell’ente territoriale
di aggregazione.
Per ovviare a questi due ordini di problemi, la proposta di ulteriore
modifica all’art. 132, co. 2 Cost. si proponeva di specificare in
concreto quali dovessero essere le popolazioni interessate che sono
chiamate ad esprimersi sull’ipotesi di distacco-aggregazione, e cioè la
popolazione locale dell’ente che richiede il distacco o l’aggregazione,
prevedendo in caso di esito positivo di questa consultazione, che si
debba sottoporre la richiesta di variazione territoriale all’ulteriore
vaglio referendario delle popolazioni che, in qualche misura,
subiscono effetti di qualche natura da siffatto processo: per quanto
riguarda il distacco di Province, si tratta della popolazione delle due
Regioni interessate; in merito al distacco di Comuni, si tratta invece
della popolazione delle due Province (rispettivamente cedente ed
acquirente) delle due Regioni coinvolte nel processo.
362
Si veda: Sentenza 28 ottobre 2004 n. 334 della Corte Costituzionale in
Giurisprudenza costituzionale n. 6/2004.
285
Erano state previste quindi due fasi: un prima fase, da svolgersi
unicamente presso la popolazione locale strettamente interessata dalla
modificazione territoriale, che si poneva in termini pregiudiziali
rispetto ad una seconda, di portata più ampia, da svolgersi presso le
popolazioni controinteressate degli enti locali cedenti ed aggreganti.
Lo scopo era quello di evitare che il desiderio di variazione fosse
avvertito soltanto dagli organi rappresentativi dell’ente e non anche
dai suoi stessi rappresentati e che si determinasse uno spreco di
risorse, soprattutto finanziarie, derivante dall’attivazione di un
procedimento assai complesso quale è quello del referendum che
dovrebbe tenersi, in due Regioni o in due Province, prima ancora di
conoscere la volontà della popolazione che richiede il passaggio.
L’obiettivo della modifica era dunque quello di differenziare in ogni
stato e grado popolazioni e correlate aree d’interesse, graduando i
relativi strumenti di garanzia ed evitando, al tempo stesso, la loro
duplicazione: secondo il Governo appariva tautologico, ripetitivo e
scarsamente incline al rispetto di taluni interessi consentire che la
medesima entità, che intende distaccarsi, eserciti sia il potere
d’impulso (con la richiesta degli organi rappresentativi), sia quello di
consultazione (attraverso il referendum). Il rischio che si può correre
in una simile situazione era quello di vedere snaturata la
configurazione geografica, sociale e culturale del territorio cedente o
di quello acquirente a seguito di una modifica non adeguatamente
ponderata.
Per ovviare a questi inconvenienti la modifica introduce una
procedura tripartita, configurando tre livelli d’interesse connessi ad
altrettanti strumenti di garanzia:
286
- una richiesta di distacco, riservata ai soli enti interessati e alle
popolazioni locali di riferimento, che al riguardo esprimono una
valutazione preliminare di opportunità;
- un referendum, riservato alle popolazioni delle due Province o delle
due Regioni interessate dal distacco o dall’aggregazione (popolazioni
controinteressate);
- un procedimento legislativo statale.
Si noti la netta differenza di struttura e di funzioni tra la richiesta di
distacco, da riservare al solo ente interessato e alla sua popolazione,
ed il referendum, diretto ad integrare il processo di autoidentificazione
territoriale e perciò riservato anche alle popolazioni controinteressate
dalla richiesta di modificazione territoriale.
L’intervento cercava di segnare una netta differenza rispetto alla
novella del 2001, in cui si confondevano le due fasi della richiesta e
della consultazione, specificando che la richiesta è logicamente
limitabile alle popolazioni interessate in senso stretto, ossia a quelle
che chiedono la variazione territoriale, mentre il referendum aveva la
funzione di valutare gli orientamenti delle popolazioni coinvolte nel
procedimento complessivo, con la conseguenza di poter essere esteso
anche a quei soggetti che subiscono effetti significativi dalla
variazione territoriale.
L’idea di fondo sottesa alla modifica consisteva nel fatto che le
variazioni territoriali delle Regioni dovevano essere il frutto di
fenomeni giuridici volontari, non falsati da una variazione richiesta a
seconda delle convenienze delle popolazioni che passano ad altra
Regione per meri motivi economici.
Dal punto di vista giuridico si noti poi che l’aggregazione costituisce
una forma di “annessione” che presuppone quindi un accordo tra due
287
entità distinte, cioè l’incontro di due volontà, cosa che non è prevista
nell’attuale formulazione dell’art. 132, co. 2 Cost.; di conseguenza
questa convergenza di volontà non può che essere riservata tanto ai
soggetti che richiedono per sé il distacco, tanto a quelli che lo
subiscono. Conseguenza positiva della modifica è anche il fatto che
l’emersione d’interessi locali contrapposti già in sede referendaria
bloccherebbe fin da subito il procedimento, con un beneficio indubbio
anche per l’attività parlamentare, che non dovrebbe più compiere tutta
quella serie di valutazioni derivanti dal fatto di dover ponderare la
proposta, approvata con referendum, il parere dei Consigli regionali
delle Regioni coinvolte ed anche l’opportunità della variazione
nell’ottica dell’interesse generale del Paese.
Per tutti questi motivi sono stati previsti due livelli “ottimali” di
popolazioni effettivamente e sostanzialmente interessate dalla
variazione territoriale:
- nel caso di passaggio ad altra Regione di un’intera Provincia si
considerano interessate le popolazioni di entrambe le Regioni;
- nel caso di passaggio ad altra Regione di un Comune il livello
ottimale è costituito dai territori delle due Province di provenienza e di
destinazione.
Il testo del d.d.l. costituzionale era il seguente:
“Il secondo comma dell’art. 132 della Costituzione è sostituito dal
seguente:
«Si può con legge della Repubblica, sentiti i Consigli regionali
interessati, consentire che Province e Comuni siano staccati da una
Regione e aggregati ad un’altra. La relativa iniziativa è preceduta
dalla richiesta della Provincia o del Comune, previa approvazione
delle rispettive popolazioni secondo le norme dei propri Statuti. Per il
288
passaggio di una Provincia ad un’altra Regione, la richiesta dev’essere
inoltre approvata, mediante referendum, dalla maggioranza delle
popolazioni di ciascuna delle Regioni interessate. Per il passaggio di
uno o più Comuni da una Provincia ad un’altra appartenente a diversa
Regione, la richiesta dev’essere invece approvata, mediante
referendum, dalla maggioranza delle popolazioni di ciascuna delle due
Province interessate»”.
Sul testo si era espressa favorevolmente anche la Conferenza unificata
Stato-Regioni in data 8 marzo 2007 con la raccomandazione di
prevedere nella norma in questione anche il caso di modifiche
territoriali relative alle Regioni a Statuto speciale.
Il d.d.l. ha suscitato forti perplessità in quanto rappresenta
un’involuzione rispetto alla facilitazione apportata nel procedimento
di distacco-aggregazione con la riforma costituzionale del 2001 e la
successiva precisazione avutasi con la sentenza 334/2004.
La dottrina si è dimostrata quasi all’unanimità contraria alla modifica
costituzionale in questione, in certi casi criticandola senza mezzi
termini.
Da una parte vi è chi (Ratto Trabucco363) cerca di analizzare le
ragioni che hanno spinto il legislatore a proporre tale modifica: quella
“ufficiale” viene ravvisata nell’opportunità di tutelare in maniera più
adeguata i diritti delle popolazioni controinteressate alla variazione
territoriale, cosa che il testo di legge vigente non assicura. La critica
sul punto è pienamente condivisibile: da un lato s’introduce un
referendum nella Provincia o nella Regione di distacco ed in quella di
363
Cfr. F. RATTO TRABUCCO, Riforma del procedimento di distaccoaggregazione di Comuni da una Regione all’altra: un attacco alle autonomie
locali che grida vendetta, www.forumcostituzionale.it, 2008.
289
aggregazione, dall’altro si continua a prevedere il parere dei Consigli
regionali, con un’inutile duplicazione degli strumenti di tutela che in
un certo senso sminuisce il valore della pronuncia popolare. A tal
proposito si precisa che il referendum nell’ente locale da cui si chiede
il distacco dovrebbe avere un mero valore consultivo, incapace di
bloccare l’intero procedimento, mentre appare molto più logico
acquisire il consenso dell’ente locale di aggregazione.
La seconda osservazione sul disegno di legge non appare pienamente
condivisibile: si critica il fatto che il legislatore non abbia preso in
considerazione la possibilità di mutare “l’abnorme quorum del voto
favorevole della maggioranza degli iscritti nelle liste elettorali al fine
dell’approvazione del quesito di variazione territoriale (…) sia in
rapporto alla disciplina prevista per le altre tipologie di referendum
previste in costituzione (…), sia circa la normativa dettata dalla legge
n. 459 del 2001 per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti
all’estero”364. Come si è sostenuto in precedenza365, simili
considerazioni possono essere accettabili in merito al voto degli
italiani residenti all’estero, non per quanto riguarda il quorum sui
generis prescritto per il referendum territoriale dall’art. 45, co. 2 della
l. 352/1970.
La critica si fa più decisa quando si “scovano” le ragioni “reali” del
d.d.l. I parlamentari italiani vengono accusati di non conoscere la
storia e pertanto di non essere in grado di comprendere il presente; se
infatti sapessero che la perimetrazione delle Regioni imposta dal
Costituente era artificiale e che alcune variazioni territoriali furono
364
Cfr. F. RATTO TRABUCCO, Riforma del procedimento di distaccoaggregazione di Comuni da una Regione all’altra: un attacco alle autonomie
locali che grida vendetta, www.forumcostituzionale.it, 2008, pp. 1 ss.
365
Si veda Capitolo III, paragrafo 3.4, in particolare p. 181.
290
imposte negli anni solamente per mere ragioni politiche, allora si
potrebbe comprendere il motivo delle recenti richieste di distaccoaggregazione. In realtà il sistema centralista persiste nel coartare in
forma sempre più subdola lo spazio d’azione dell’ente locale,
mortificando il diritto di autoidentificazione delle comunità locali.
La motivazione reale dell’avversione delle oligarchie partitiche verso
qualsiasi forma di variazione territoriale è determinata anche e
soprattutto dal timore che una riperimetrazione dei confini regionali
comporterebbe una consequenziale nuova perimetrazione anche dei
collegi elettorali, con la possibilità di registrare una diminuzione dei
consensi in sede elettorale.
Con la predisposizione di una modifica costituzionale come quella in
esame, il legislatore ha voluto solo marginalmente tutelare le
popolazioni controinteressate, il vero scopo essendo quello di rendere
più difficoltosa una variazione territoriale che potesse arrecare danno
alla “casta” politica.
Nello stesso senso, anche se molto più pacata, è altra recente
dottrina (Malo), la quale sostiene che: “più che come mezzo per
esprimere una convergente volontà, il voto referendario delle
popolazioni diverse da quella direttamente investita dal distaccoaggregazione si prospetta come un insormontabile potere di veto, che
tende a soffocare «il principio di autodeterminazione delle autonomie
locali»”366.
Altri (Motroni) fanno invece una critica più velata, sostenendo
che “il Parlamento nazionale, oltre a valutare l’opportunità politica
366
Cfr. M. MALO, Forma e sostanza in tema di variazioni territoriali delle
Regioni (a margine della pronuncia 66/2007 della Corte Costituzionale) in Le
Regioni n. 3/2007, Bologna, p. 650.
291
dell’operazione (…), dovrà garantire la “genuinità” complessiva
dell’operazione, al fine di evitare che la nobile questione
dell’autodeterminazione
dell’autonomia
locale
non
dissimuli
l’esistenza di progetti politici occulti (…). Tale compito pare
razionalmente perseguibile attraverso attente valutazioni politiche e
non facendo ricorso ad illogici aggravamenti delle procedure
appositamente previste dalla Costituzione”367.
Sul d.d.l. si è soffermata anche altra recente dottrina
(Ferrara368), che lo critica nel punto in cui prevede che la richiesta del
Comune o della Provincia non debba essere più necessariamente
appoggiata dall’approvazione della maggioranza delle popolazioni
direttamente interessate espressa mediante referendum: si ritiene
infatti che ciò servirebbe soltanto a ridurre il rilievo costituzionale e
l’impatto politico della consultazione referendaria.
Una seconda critica riguarda il fatto che la richiesta di variazione
territoriale non debba essere necessariamente appoggiata dalla
maggioranza delle popolazioni di ciascuna delle Province o delle
Regioni interessate: si ritiene infatti paradossale che si chieda il
consenso della maggioranza assoluta delle popolazioni residenti
nell’intera Provincia o Regione, in quanto il grado d’interesse di
queste è senz’altro minore, non essendo direttamente coinvolte dal
trasferimento.
367
Cfr. M. MOTRONI, La migrazione dei Comuni di frontiera verso le Regioni a
statuto speciale: la problematica scelta della fonte idonea a produrre l’effetto di
variazione territoriale, www.federalismi.it, 2008, pp. 19 ss.
368
Cfr. A. FERRARA, Questione settentrionale. Dalla grande alla piccola
secessione: la migrazione territoriale dei Comuni come istanza di
specializzazione in deroga ai principi del federalismo fiscale, www.federalismi.it,
2007, p. 6.
292
Concludendo si ritiene che le critiche dottrinali sopra esposte
siano tutte condivisibili, ma quella che coglie meglio nel segno è
senza dubbio quella (di Ratto Trabucco) che vede in questo d.d.l.
l’ennesimo tentativo da parte del potere centrale di frustrare il diritto
di autodeterminazione delle popolazioni locali. Può essere illuminante
riportare sulla questione un inciso di Fraenkel-Haeberle, la quale
afferma che: “il problema delle blindature statutarie e della sacralità
degli equilibri etnici, dopo essere stato scacciato dalla porta principale
si sia ripresentato da quella di servizio”369.
2-
I Fondi per favorire le aree territoriali confinanti con le Regioni
a Statuto speciale
Nel corso dello scorso anno (2007) si sono registrati degli
interventi provenienti da istituzioni diverse, ma volti tutti a favorire
quelle aree territoriali, ricomprese all’interno di Regioni a Statuto
ordinario confinanti col territorio di Regioni a Statuto speciale
attraverso l’istituzione di specifici Fondi. Il primo intervento è stato
attuato dal Governo, attraverso l’istituzione del Fondo per la
valorizzazione e la promozione delle aree territoriali svantaggiate
confinanti con le Regioni a Statuto speciale (il cosiddetto “Fondo
Letta”); altri interventi sono stati attuati dalla Regione Veneto, da sola,
con la legge regionale n. 30/2007, con cui ha istituito dei Fondi per
interventi in particolari aree, o di concerto con la Provincia autonoma
di Trento, con cui ha siglato un’Intesa volta alla cooperazione dei
territori confinanti, anch’essa istitutiva di un Fondo per l’attuazione
369
Cfr. C. FRAENKEL-HAEBERLE, La “secessione” dei Comuni: una chimera
o una via percorribile?, www.federalismi.it, 2008, p. 5.
293
degli interventi previsti dall’Intesa (l’Intesa è stata ratificata da parte
del Veneto con la legge regionale n. 31/2007).
Nel caso specifico, le aree territoriali svantaggiate poste al
confine tra Veneto e Trentino-Alto Adige, possono contare
attualmente su cospicui finanziamenti così suddivisi: quota parte dei
45 milioni di euro stanziati col Fondo governativo, 9 milioni di euro
stanziati dalla Regione Veneto ed altri 12 quali frutto dell’Intesa tra
Veneto e Trento. A questi si aggiungono i fondi europei dedicati alla
cooperazione tranfrontaliera370. Si può dire che, se alcuni Comuni
avevano chiesto di cambiare Regione solamente per motivi finanziari,
di certo tali motivazioni dovrebbero attenuarsi a seguito di questi
interventi.
Si esamineranno ora nel dettaglio i singoli Fondi.
2.1- Il Fondo per la valorizzazione e la promozione delle aree
territoriali svantaggiate confinanti con le Regioni a Statuto
speciale
Il precedente Governo ha disposto (ed attuato) una seconda
misura (dopo il d.d.l. per la modifica dell’art. 132, co. 2 Cost.) per
arginare le spinte secessioniste dei Comuni “di confine” e risolvere,
almeno in parte, la questione delle disparità di trattamento finanziario
tra Regioni ordinarie e Regioni a Statuto speciale: è stato istituito un
370
Sul tema si veda: Parte (ricchissima) l’intesa per i comuni di confine in
www.anordest.it.
294
Fondo per la valorizzazione e la promozione delle aree territoriali
svantaggiate confinanti con le Regioni a Statuto speciale371.
Il Fondo è stato istituito dall’art. 6, co. 7 del decreto-legge 2 luglio
2007, n. 81 (convertito dalla legge 3 agosto 2007, n. 127), poi
sostituito dall’art. 35 del decreto-legge 1 ottobre 2007, n. 159
(convertito dalla legge 29 novembre 2007, n. 222), il quale prevede
quanto segue:
“All’articolo 6 del decreto-legge 2 luglio 2007, n. 81,
convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2007, n. 127, il
comma 7 è sostituito dal seguente:
«È istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri il
Fondo per la valorizzazione e la promozione delle aree territoriali
svantaggiate confinanti con le Regioni a Statuto speciale, con una
dotazione di 25 milioni di euro per l'anno 2007. Le modalità di
erogazione del predetto fondo sono stabilite con decreto del Presidente
del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per gli affari
regionali e le autonomie locali, di concerto con il Ministro
dell’economia e delle finanze. Il Dipartimento per gli affari regionali
provvede a finanziare, in applicazione dei criteri stabiliti con il
predetto decreto del Presidente del Consiglio e sentite le regioni
interessate, specifici progetti finalizzati allo sviluppo economico e
sociale dei territori dei Comuni confinanti con le regioni a statuto
speciale. Tra i criteri di valutazione dovrà avere particolare
importanza la caratteristica sovracomunale dei progetti».
371
Sul punto si veda: M. BARBERO, Come (non) si risolve la questione delle
“secessioni” dei Comuni di confine (e dei privilegi finanziari delle autonomie
speciali), www.federalismi.it, 2008, pp. 2 ss.
295
«All’onere derivante dal presente articolo, pari a 5 milioni di
euro per il 2007, si provvede mediante corrispondente riduzione dello
stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2007-2009,
nell’ambito dell’unità previsionale di base di parte corrente «Fondo
speciale» dello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle
finanze per l'anno 2007, allo scopo parzialmente utilizzando
l'accantonamento relativo al medesimo Ministero».
Lo scopo del Fondo, come stabilisce il primo comma, è il
finanziamento di progetti finalizzati allo sviluppo economico e sociale
dei territori dei Comuni “di confine”, su proposta degli stessi Comuni.
Le modalità di erogazione del Fondo sono state dettate dal
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri il 28 dicembre 2007.
Si riassumono qui di seguito brevemente i contenuti della disciplina di
attuazione.
Beneficiari possibili del Fondo sono quei Comuni la cui
superficie è contigua al confine delle Regioni a Statuto speciale (Valle
d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia). A ciascuna
“macroarea” è stata assegnata una quota fissa (pari al 5% del Fondo)
ed una quota variabile, calcolata in base alla superficie, al numero ed
alla popolazione dei Comuni confinanti (pari al 20% per la Valle
d’Aosta, al 30% per il Friuli-Venezia Giulia ed al 50% per il TrentinoAlto Adige). Un successivo decreto del Ministro per gli Affari
Regionali e le Autonomie locali del 3 marzo 2008 ha definito le
modalità concrete delle risorse ed ha stilato l’elenco dei Comuni
appartenenti alle tre macroaree previste.
È possibile dar vita ad aggregazioni temporanee di Comuni: la stessa
legge istitutiva del Fondo prevede che vi possano essere progetti a
carattere
“sovracomunale”.
L’aggregazione
296
può
designare
un
“capofila” e possono rientrare in essa anche Comuni diversi da quelli
dell’elenco, purché il numero di questi ultimi non superi il 30% del
totale dei Comuni presenti nell’aggregazione.
Sono finanziabili “specifici progetti finalizzati allo sviluppo
economico e sociale dei territori dei Comuni confinanti con le Regioni
a Statuto speciale”, che devono rientrare nelle seguenti materie:
- servizi socio-sanitari, di assistenza sociale, scolastici, di trasporto, di
raccolta differenziata e smaltimento dei rifiuti, di telecomunicazione;
- interventi di miglioramento della viabilità comunale, di diffusione
dell’informatizzazione, dell’e-governement ;
- misure per la valorizzazione e la salvaguardia dell’ambiente e la
promozione dell’uso di energie alternative, di promozione del turismo,
del settore primario, dell’artigianato tradizionale, del commercio di
prodotti di prima necessità, di realizzazione di sportelli unici.
Come si vede, le finalità del Fondo si possono riassumere nello
sviluppo economico e sociale dei territori in questione (ex art. 119, co.
5 Cost.), attraverso la realizzazione di infrastrutture o l’organizzazione
ed il potenziamento di servizi relativi alle funzioni di competenza dei
Comuni.
Il limite massimo di finanziamento per ciascun progetto non può
superare i 300.000 euro, elevabili a 1.500.000 euro nell’ipotesi di
progetti a valenza sovracomunale.
I progetti sono valutati secondo una serie di parametri:
- svantaggio relativo dell’area cui il progetto afferisce, misurato
mediante indicatori rappresentativi delle condizioni geo-morfologiche,
socio-demografiche ed economiche dei territori interessati;
- valenza sovracomunale del progetto;
297
- polifunzionalità dell’intervento, cioè la capacità di conseguire
obiettivi riconducibili a più ambiti dell’intervento;
- cofinanziamento da parte di soggetti pubblici o privati di entità
complessivamente non inferiore al 10% del valore dichiarato del
progetto;
- continuità degli effetti nel tempo dell’azione proposta.
Il bando per l’erogazione dei contributi è stato emanato in data 25
marzo 2008 dal Dipartimento per gli Affari Regionali della Presidenza
del Consiglio dei Ministri ed ha specificato i suddetti parametri di
valutazione, assegnando a ciascuno un punteggio sulla base del quale
verranno redatte tre distinte graduatorie di merito per ciascuna delle
tre macroaree. Allo scopo è stata istituita un’apposita Commissione di
valutazione, composta da politici e tecnici di provenienza statale,
senza quindi coinvolgere gli enti locali. A questi ultimi è stato
riservato il ruolo successivo di monitorare e valutare la conformità
degli interventi realizzati rispetto ai progetti approvati e finanziati.
L’istituzione del Fondo è stata oggetto di critica da parte della
dottrina372.
Sotto il profilo della legittimità costituzionale la disciplina
relativa al Fondo non pare coerente con l’art. 119, co. 5 Cost. così
come interpretato dalla Corte Costituzionale: gli interventi finanziari
previsti dal comma 5 riguardano materie nelle quali lo Stato non ha
competenza esclusiva, cioè materie in
regime di competenza
concorrente o di competenza esclusiva regionale. Secondo la Corte
Costituzionale, “l’esigenza di rispettare il riparto costituzionale delle
372
Cfr. M. BARBERO, Come (non) si risolve la questione delle “secessioni” dei
Comuni di confine (e dei privilegi finanziari delle autonomie speciali),
www.federalismi.it, 2008, pp. 4 ss.
298
competenze legislative tra Stato e Regioni comporta (…) che, quando
tali finanziamenti riguardino ambiti di competenza delle Regioni,
queste siano chiamate ad esercitare compiti di programmazione e di
riparto dei fondi all’interno del proprio territorio”373. Se così non fosse
il ricorso ai finanziamenti potrebbe divenire uno strumento d’indiretta
ed indebita ingerenza dello Stato nell’esercizio di funzioni degli enti
locali.
Dal bando per l’erogazione dei Fondi, si desume invece che le Regioni
non sono coinvolte nelle procedure di programmazione ed erogazione
dei Fondi, se non marginalmente ed a posteriori; ciò sarebbe
costituzionalmente illegittimo secondo l’interpretazione data dalla
Consulta dell’art. 119, co. 5 Cost.
Sotto il profilo dell’opportunità politica l’istituzione del Fondo
è ancor più criticabile, in quanto esso rappresenta un modesto
surrogato di una più complessiva riforma che dovrà portare
all’eliminazione dei privilegi finanziari delle Regioni a Statuto
speciale, ormai anacronistici.
Malgrado queste critiche, bisogna tuttavia dare atto al
precedente Governo di aver almeno tentato di dare delle risposte,
seppur insufficienti, alle istanze secessioniste dei Comuni “di
confine”:
- con l’art. 1, co. 661 della legge n. 296 del 2006 (legge finanziaria
per il 2007), in cui aveva previsto che: “le regioni a statuto speciale e
le province autonome di Trento e di Bolzano concorrono al
riequilibrio della finanza pubblica (…) anche con misure finalizzate a
373
Si veda: Sentenza della Corte Costituzionale 16 gennaio 2004, n. 16 in Le
Regioni n. 4/2004, p. 1024; per un approfondimento sul tema si veda: C.
SALAZAR, L’art. 119 Cost., tra (in)attuazione e”flessibilizzazione” (in margine
a Corte Cost. sentt. nn. 16 e 49 del 2004) in Le Regioni n. 4/2004, pp. 1026 ss.
299
produrre un risparmio per il bilancio dello Stato”: si era previsto
quindi che anche le Regioni a Statuto speciale iniziassero a contribuire
alla perequazione statale374, in attuazione dell’art. 119, co. 3 Cost.,
come novellato dalla riforma del Titolo V.
- con l’art. 18, co. 1 del disegno di legge delega licenziato dal
Consiglio dei Ministri il 3 agosto 2007 sull’attuazione dell’art. 119
della Costituzione (attuazione del federalismo fiscale), in cui si
prevedeva che “le regioni a statuto speciale e le province autonome
concorrono agli obiettivi di perequazione e solidarietà e ai diritti e
doveri da essi derivanti”: anche qui si prevedeva che le Regioni a
Statuto speciale contribuissero alla perequazione statale;
- con l’art. 35 della legge 29 novembre 2007, n. 222, istitutivo del
Fondo per la valorizzazione e la promozione delle aree territoriali
svantaggiate confinanti con le Regioni a Statuto speciale.
La questione della secessione dei Comuni di confine è passata
all’attuale Governo375, che in un modo o nell’altro dovrà risolverla per
dare una risposta ad istanze per troppo tempo rimaste inascoltate e che
ancora oggi, malgrado gli interventi attuati, sono disattese.
2.2- Gli interventi attuati dalla Regione Veneto
La Regione Veneto è attualmente l’area maggiormente
interessata dai procedimenti di distacco ex art. 132, co. 2 Cost.; per far
fronte a questa situazione e per dare una risposta alle genti di
montagna che lamentano uno scarso interesse della Regione nei loro
374
Si veda Capitolo V, paragrafo 1.2.
Ci si riferisce all’Esecutivo guidato da Silvio Berlusconi (Governo Berlusconi
IV, dall’8 maggio 2008).
375
300
confronti, l’ente locale ha provveduto, con la legge regionale 26
ottobre 2007, n. 30, recante “Interventi regionali a favore dei Comuni
ricadenti nelle aree svantaggiate di montagna e nell’area del Veneto
orientale”376, ad attuare una serie di interventi a favore di queste
popolazioni. Come sostiene il dettato legislativo, la Regione Veneto
“promuove interventi” volti al “miglioramento della qualità della vita
dei cittadini residenti” in determinate aree svantaggiate, così
individuate:
- i Comuni ricadenti nelle aree svantaggiate di montagna (art. 1, co. 1)
il cui territorio sia ricompreso nell’ambito di una Comunità montana
(art. 2, co. 2). Tra questi è data priorità ai Comuni con popolazione
non superiore ai cinquemila abitanti o a frazioni di Comuni con meno
di cinquecento abitanti, che presentino situazioni di disagio
economico (art. 2, co. 1 lett. a).
I criteri per l’attuazione degli interventi sono stabiliti in base a (art. 3,
co. 2):
a) l’indice di spopolamento, mettendo in rapporto i due ultimi
censimenti;
b) l’indice di abbandono del territorio agricolo;
c) l’indice di anzianità della popolazione.
Per questi Comuni è inoltre prevista una “capillare copertura dei
territori (…) (da parte) dei medici di medicina generale” e un
“adeguato servizio di consegna a domicilio dei medicinali” (art. 4);
- i Comuni ubicati nell’area del Veneto orientale (art. 1, co. 1),
individuata dall’art. 1, co. 2 della legge regionale n. 16/1993377, con
376
Si veda la legge 26 ottobre 2007, n. 30 su BUR n. 94/2007.
Si veda la legge regionale 22 giugno 1993, n. 16 (in BUR n. 53/1993) recante
“Iniziative per il decentramento amministrativo e per lo sviluppo economico e
377
301
popolazione non superiore a cinquemila abitanti, che presentino
situazioni di disagio economico dovute alla sfavorevole contiguità
territoriale con Regioni a Statuto speciale (art. 2, co. 1 lett. b).
In questo caso i criteri di attuazione degli interventi sono individuati
dalla Giunta regionale (art. 3, co. 1). All’art. 6 è previsto che in fase di
prima applicazione siano destinatari dei finanziamenti solamente i
Comuni direttamente confinanti con la Regione a Statuto speciale;
- i Comuni della Provincia di Treviso con meno di cinquemila abitanti,
confinanti con la Regione Friuli-Venezia Giulia, ad esclusione dei
Comuni che fanno parte delle Comunità montane (art. 1, co. 1)378.
Gli interventi a favore di questi Comuni tengono conto anche di altri
interventi, attuati a seguito delle Intese della Regione Veneto con le
Regioni a Statuto speciale (art. 5, co. 1)379; infatti, se “gli interventi da
realizzare ricadono nell’ambito di applicazione delle Intese, gli stessi
sono gestiti dall’organo comune di gestione previsto dalle Intese
stesse” (art. 5, co. 3).
La copertura finanziaria per realizzare gli interventi in questione è
assicurata da un Fondo, costituito con prelevamenti dal bilancio della
Regione:
sociale del Veneto orientale. All’ 1, co. 2 si prevede che: “Ai fini della presente
legge l'area del Veneto orientale comprende i Comuni di: Annone Veneto, Caorle,
Ceggia, Cinto Caomaggiore, Concordia Sagittaria, Eraclea, Fossalta di Piave,
Fossalta di Portogruaro, Gruaro, Jesolo, Meolo, Musile di Piave, Noventa di
Piave, Portogruaro, Pramaggiore, S. Donà di Piave, S. Michele al Tagliamento, S.
Stino di Livenza, Teglio Veneto, Torre di Mosto”.
378
Il comma 1 dell’art 1 della legge regionale 30/2007 è stato così modificato,
inserendo anche quest’ultimo gruppo di Comuni, dal comma 1 dell’art. 81 della
legge regionale 27 febbraio 2008, n. 1.
379
Si fa riferimento, ad esempio, all’Intesa tra la Regione Veneto e la Provincia
autonoma di Trento, sottoscritta a Recoaro Terme il 4 luglio 2007. Quest’Intesa
sarà trattata approfonditamente nel proseguio di questo paragrafo.
302
- per i Comuni ricadenti nelle aree svantaggiate di montagna viene
previsto un prelevamento dal bilancio regionale (per gli esercizi 2007,
2008 e 2009) pari a 9.000.000 di euro (art. 7, co. 1). Per le spese di
gestione di questi enti locali, derivanti dall’attuazione degli interventi
in questione, è previsto un ulteriore prelevamento dal bilancio
regionale (art. 7, co. 3);
- per i Comuni del Veneto orientale si provvede con un prelevamento
dal bilancio regionale (per gli esercizi 2007, 2008 e 2009) pari a
2.000.000 di euro (art. 7, co. 2).
2.3- L’Intesa tra la Regione Veneto e la Provincia autonoma di
Trento
Un ulteriore intervento attuato dalla Regione Veneto nel corso
del 2007 a favore delle popolazioni di montagna è stata l’Intesa con la
Provincia autonoma di Trento, sottoscritta dal Presidente del Veneto
Galan e dal Presidente della Provincia di Trento Dellai in data 4 luglio
2007 a Recoaro Terme (VI). Scopo dell’Intesa è quello di migliorare
l’esercizio delle funzioni amministrative di competenza dei due enti,
soprattutto in materia di sviluppo locale, sanità, cultura, alta
formazione, istruzione e formazione, infrastrutture e reti di trasporto
(art. 1). L’accordo si fonda sulla constatazione che tra popolazioni
venete e trentine confinanti esiste un “profondo legame storicamente
comprovato”380 e che ciò può portare a “realizzare processi di
collaborazione territoriale”381 nell’ambito delle materie appena
elencate. L’ambito di applicazione dell’Intesa viene definito al co. 2,
380
381
Si veda la premessa dell’Intesa.
Si veda la premessa dell’Intesa.
303
in cui si elencano i trentadue Comuni veneti ed i ventinove Comuni
trentini, interessati da essa e sono ricompresi anche quei Comuni
“diversi da quelli confinanti, purché a questi ultimi funzionalmente
collegati per il perseguimento delle specifiche finalità degli interventi
medesimi” (art. 8, co. 4).
Obiettivo dell’accordo è “costituire un modello innovativo di
cooperazione interregionale, particolarmente orientato alle risoluzione
delle problematiche incontrate dalle popolazioni di confine” e
finalizzato a promuovere lo sviluppo del territorio, a gestire in
maniera più efficace i servizi, a scambiare competenze d’interesse
comune, a migliorare le competenze professionali di tutti quei soggetti
coinvolti nella promozione del territorio (art. 3). Per realizzare questi
obiettivi, l’Intesa propone di incrementare tutti quegli strumenti
operativi già utilizzati, favorire forme associative, mettere a
disposizione risorse finanziarie, sviluppare la rete infrastrutturale (art.
4).
Il raggiungimento degli obiettivi di cui al co. 2 è perseguito da un
comune organismo di natura politico-amministrativa, la Commissione
per la gestione dell’Intesa (art. 4). La Commissione è composta dai
Presidenti della Regione e della Provincia (o da loro delegati) e dagli
Assessori di riferimento per le materie oggetto dell’Intesa. I membri
veneti della Commissione sono stati nominati con decreto della Giunta
regionale l’11 dicembre 2007, mentre la componente trentina è stata
nominata il 14 dicembre 2007. La prima riunione della Commissione
si è svolta in data 18 dicembre 2007 a Venezia. La presidenza della
Commissione è ricoperta, a rotazione, da un rappresentante delle due
Amministrazioni contraenti (art. 4, co. 6): attualmente è questa
304
funzione è ricoperta dal Presidente della Regione Veneto Giancarlo
Galan.
La Commissione adotta un Programma triennale contenente “linee
d’indirizzo, direttive e priorità per l’adozione delle misure
d’integrazione territoriale” (art. 5, co. 2); il Programma viene attuato
con un Piano annuale contenente gli interventi da realizzare e le
relative risorse finanziarie (art. 5, co. 4). Il Programma è stato
approvato dalla Commissione in data 18 giugno 2008, che lo ha poi
trasmesso alle due Amministrazioni che dovevano approvarlo nei
successivi trenta giorni (art. 5, co. 5): il Programma è stato approvato
all’unanimità dalla Giunta regionale veneta il 24 giugno 2008 e da
quella provinciale trentina il 30 giugno 2008.
La Commissione, per la gestione dell’Intesa, si avvale di un Gruppo
Tecnico avente competenze giuridico-amministrative e tecnicoeconomiche: esso è composto da personale competente, appartenente
in misura paritetica alle due Amministrazioni contraenti (art. 7, co. 1).
I componenti del Gruppo Tecnico sono stati nominati dalla Regione
Veneto e dalla Provincia autonoma di Trento contemporaneamente
alla Commissione (quindi rispettivamente l’11 ed il 14 dicembre
2008). Le funzioni principali del Gruppo Tecnico consistono in:
- raccogliere ed elaborare le proposte provenienti dagli enti locali (art.
7, co. 1);
- presentare “proposte di sviluppo, valorizzazione e integrazione
territoriale” alla Commissione (art. 7, co. 3).
Per la realizzazione degli interventi in questione è stata prevista
l’istituzione di un apposito Fondo382 (artt. 8 e 9), alimentato mediate
382
Il Fondo in questione è denominato “Fondo regionale per l’attuazione degli
interventi previsti dall’Intesa tra la Regione del Veneto e la Provincia autonoma di
305
prelevamenti dal bilancio dei due enti locali contraenti; la sua
consistenza è decisa annualmente: per ciascuno dei primi due anni
sono stati messi a disposizione 12 milioni di euro (10 milioni dalla
Provincia autonoma di Trento383 e 2 milioni dalla Regione Veneto384).
I progetti dei Comuni che intendono concorrere a questi finanziamenti
devono essere presentati entro l’1 settembre 2008.
L’Intesa è stata ratificata dal Consiglio regionale veneto con la legge
regionale 26 ottobre 2007, n. 31385 e dal Consiglio provinciale di
Trento con la legge provinciale 16 novembre 2007, n. 21386. Come
previsto dall’art. 11 dell’Intesa, questa comincia a produrre i suoi
effetti decorsi quindici giorni dall’entrata in vigore dell’ultima legge
regionale o provinciale di ratifica.
A seguito di questi due interventi della Regione Veneto si può
sostenere che, se le consultazioni referendarie per chiedere il cambio
di Regione attivate negli ultimi tre anni avevano lo scopo di protestare
contro un atteggiamento di sostanziale indifferenza della classe
politica regionale verso particolari situazioni di disagio di alcune aree
territoriali, lo scopo è stato raggiunto, in quanto ora le popolazioni di
queste aree hanno dato visibilità ai loro problemi.
In qualche maniera, con l’istituzione dei due Fondi, si è anche cercato
di appianare le divergenze di ordine finanziario tra Regioni ordinarie e
Trento per favorire la cooperazione tra territori confinanti” dall’art. 3, co. 1 della
legge regionale n. 31/2007.
383
Si veda l’art. 3, co. 1 della legge della Provincia autonoma di Trento del 16
novembre 2007, n. 31.
384
Si veda l’art. 3, co. 2 della legge della Regione Veneto del 26 ottobre 2007, n.
31.
385
Si veda la legge regionale 26 ottobre 2007, n. 31 in BUR del Veneto n.
94/2007.
386
Si veda la legge provinciale 16 novembre 2007, n. 21 in BUR del TrentinoAlto Adige n. 48/2007.
306
quelle ad autonomia differenziata, sopprimendo almeno in parte le
velleità migratorie di certi Comuni secessionisti.
Quello che non si è riusciti a fare, con questi due interventi, è dare una
risposta definitiva ai problemi strutturali che affliggono le zone di
montagna. L’istituzione di questi fondi, seppur encomiabile, serve
solamente a tamponare, non a risolvere definitivamente il problema.
Innanzitutto la natura stessa dei Fondi è incerta: essi sono ricavati dal
bilancio regionale (o provinciale), ma cosa succederebbe se cambiasse
l’ “umore” della maggioranza politica regionale, e dai bilanci non si
ricavassero più o si ricavassero meno somme da destinare a questi
Fondi? Semplice: non sarebbe più possibile attuare interventi a favore
delle aree di montagna.
Quello che le genti di montagna chiedono, seppur in forma
provocatoria con le richieste di passaggio alle Regioni ad autonomia
differenziata, è che siano attuati degli interventi strutturati e definitivi.
La richiesta potrà essere esaudita solamente con una riforma
strutturale anche del regime fiscale dello Stato, permettendo a ciascun
territorio di trattenere la maggior parte dei contributi che in quell’area
vengono prodotti, affinché questi possano essere gestiti dagli
amministratori locali per far fronte ai problemi specifici delle
popolazioni che in quei territori vi risiedono. In altre parole, si auspica
l’introduzione del federalismo fiscale.
3-
Cenni di diritto comparato
Dopo aver analizzato dettagliatamente i procedimenti di
variazione territoriale nell’ambito dell’ordinamento italiano, può
307
risultare interessante vedere come sia sviluppata la tematica all’interno
di altri ordinamenti, in un’ottica comparatistica.
Nell’ambito della Comunità europea, il processo d’integrazione
tra gli Stati appartenenti non ha apportato particolari contributi al tema
della variazione territoriale regionale in ragione del principio del
disinteresse comunitario nei riguardi dell’organizzazione interna di
ciascuno Stato membro387.
In materia l’unico riferimento si rinviene nella Carta europea
dell’autonomia locale (sottoscritta a Strasburgo il 15 ottobre 1985), la
quale, all’art. 5 prescrive che:
“Per ogni modifica dei limiti locali territoriali, le collettività locali
interessate
dovranno
essere
preliminarmente
consultate,
eventualmente mediante referendum, qualora ciò sia consentito dalla
legge”.
La disposizione normativa è alquanto generale, ma, ciononostante si
possono riscontrare alcuni punti di convergenza con il dettato
legislativo dell’art. 132 della Costituzione italiana, in particolare per
quanto riguarda l’individuazione delle popolazioni interessate alla
variazione e la conseguente necessità di raccogliere il loro parere
mediante referendum. Comparando questa norma con l’art. 132 Cost.
si può notare che i punti salienti che caratterizzano il procedimento di
variazione territoriale italiano, cioè la partecipazione attiva delle
popolazioni locali nella scelta di variazione, siano apprezzate anche in
sede comunitaria.
387
Cfr. L. FERRARO, commento all’art. 132 della Costituzione italiana, in
Commentario alla Costituzione, a cura di BIFULCO R., CELOTTO A.,
OLIVETTI M., Torino, 2006, p. 2542.
308
Una riflessione più profonda sulla questione è stata avviata dalla
dottrina388, la quale ha ravvisato nell’ordinamento italiano una
sostanziale incongruità tra i principi sostenuti nella Costituzione
repubblicana e la loro concreta attuazione per mezzo della legislazione
ordinaria. Se infatti l’art. 5 della Costituzione, che è la norma fondante
in tema di autonomie locali, e l’art. 132 Cost., che è una sua diretta
emanazione, sono in linea con quanto stabilito dalla Carta europea, lo
stesso non può dirsi della normativa di attuazione (vedi ad esempio la
legge 352/1970, attuattiva del referendum) che di fatto frustra i poteri
reali delle autonomie locali. L’art. 5 Cost. statuisce che: “La
Repubblica, una ed indivisibile, riconosce e promuove le autonomie
locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio
decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua
legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento” ed è
perfettamente in sintonia con la quanto affermato nel preambolo della
Carta, in cui si sostiene che: “gli Stati membri del Consiglio d’Europa
(…) convinti che l’esistenza di collettività locali investite di
responsabilità effettive consente un’amministrazione efficace e vicina
al cittadino;
consapevoli del fatto che la difesa ed il rafforzamento dell’autonomia
locale nei vari Paesi europei rappresenti un importante contributo
all’edificazione di un’Europa fondata sui principi della democrazia e
del decentramento del potere;
affermando che ciò presuppone l’esistenza di collettività locali dotate
di organi decisionali democraticamente costituiti, che beneficino di
388
Cfr. G. C. DE MARTIN, Carta europea dell’autonomia locale e limiti
dell’ordinamento italiano in Rivista trimestrale di diritto pubblico, Milano, 1988,
pp. 386 ss.
309
una vasta autonomia per quanto riguarda le loro competenze, le
modalità d’esercizio delle stesse, ed i mezzi necessari all’espletamento
dei loro compiti istituzionali”.
Ratio comune alle due norme è che lo Stato democratico si fonda su
un potere diffuso ed articolato (quasi una sovranità) in capo alle
collettività che compongono lo Stato. In base a queste due norme si
prefigura un “sistema che parte dal basso, dalle collettività più
prossime ai cittadini (…) promuovendo le autonomie e la democrazia
sostanziale mediante l’adeguamento costante dei principi e dei metodi
della
sua
legislazione
alle
esigenze
dell’autonomia
e
del
decentramento”389. Le norme di attuazione invece contrastano con
questi principi: un esempio su tutti è quello dell’art. 42, co. 2 della l.
352/1970, dichiarato in parte illegittimo dalla sentenza 334/2004 della
Corte Costituzionale perché “l’onerosità del procedimento strutturato
dalla norma di legge attuattiva si palesa eccessiva (in quanto non
necessitata) rispetto alla determinazione ricavabile dalla nuova
previsione costituzionale, e si risolve nella frustrazione del diritto di
autodeterminazione dell’autonomia locale”390.
Dopo queste considerazioni, si esamineranno ora profili più
squisitamente comparatistici391.
L’art. 131 Cost., che contiene l’elencazione delle Regioni
italiane, ha degli omologhi nelle Carte costituzionali di altri Paesi
europei, in particolare negli Stati a struttura federale; si veda ad
389
Cfr. G. C. DE MARTIN, Carta europea dell’autonomia locale e limiti
dell’ordinamento italiano in Rivista trimestrale di diritto pubblico, Milano, 1988,
p. 387.
390
Si veda: Sentenza 10 novembre 2004, n. 334 in Quaderni regionali n. 3/2005,
p. 218.
391
Cfr. L. FERRARO, commento all’art. 132 della Costituzione italiana, in
Commentario alla Costituzione, a cura di R. BIFULCO, A. CELOTTO, M.
OLIVETTI, Torino, 2006, pp. 2543 ss.
310
esempio la Costituzione austriaca, che all’art. 2, co. 2 individua i
propri Lander; la Legge Fondamentale tedesca, che li elenca nel
Preambolo, indicando la particolare importanza che assumono le
popolazioni locali per l’ “unità e la libertà della Germania”; la
Costituzione belga che all’art. 2 individua le tre Comunità, all’art. 3 le
tre Regioni, all’art. 4 le quattro Regioni linguistiche che compongono
il Paese; la Costituzione svizzera all’art. 1 elenca i propri Cantoni;
simili elencazioni sono presenti anche nelle Carte costituzionali di
Portogallo, all’art. 5, co. 1, ed in quella della Lettonia, all’art. 3. La
Costituzione francese all’art. 72, 3 indica invece le popolazioni
d’oltremare.
Un
caso
particolare
nel
panorama
europeo
è
rappresentato dalla Spagna, la quale nella propria Carta costituzionale
non procede all’individuazione degli enti sub-statali in ragione di quel
principio tale per cui sono i territori che hanno la facoltà di costituirsi
in Comunidad Autònomas: l’art. 147, co. 2, lett. A) e B) della
Costituzione spagnola assegna agli Statuti di autonomia il compito di
fissare, tra i suoi contenuti necessari, sia “la denominazione delle
Comunità”, sia “la delimitazione del suo territorio”.
Per quanto riguarda invece la norma sulla variazione territoriale
delle Regioni, si può notare che vi sono varie previsioni normative,
nelle esperienze di altri Stati europei e non, con punti di convergenza
con l’art. 132 della Costituzione italiana.
Sotto il profilo della tipologia di legge richiesta per la
variazione territoriale, come nell’art. 132, co. 1 della nostra Carta
costituzionale è previsto che nelle ipotesi di fusione tra Regioni o di
creazione di una nuova Regione si ricorra alla legge costituzionale in
quanto si va a modificare una norma di pari rango (l’art. 131 Cost.),
allo stesso modo nelle Costituzioni svizzera (art. 53) ed austriaca (art.
311
3, co. 2) è previsto l’utilizzo della legge costituzionale perché si va ad
intaccare l’elencazione degli enti sub-statali presenti in Costituzione.
In Belgio invece, in casi simili non si richiede l’utilizzo di una legge
costituzionale, ma viene prevista una legge ordinaria aggravata sotto il
profilo delle maggioranze richieste, determinata dal fatto che si va ad
intaccare l’area territoriale di uno dei quattro gruppi linguistici
presenti in questo Paese (art. 4, co. 3).
Considerando ora l’aggettivo “interessato”, riferito agli enti
locali che avanzano la richiesta (Province e Comuni), esso è presente
nel medesimo significato anche nella Costituzione svizzera (art. 53,
co. 2 e 3), francese (art. 72-1, co. 3) e tedesca (art. 29, co. 3).
Quest’ultima individua i Lander
“interessati” in quelli “dai cui
territori, o da parti dei cui territori, deve essere tratto un nuovo Land
avente nuovi confini”.
A differenza che nella Costituzione italiana, in vari Paesi
europei sono previste forme di cooperazione “in orizzontale”, cioè tra
le aree territoriali interessate dalla modificazione: la cosa è prevista
nella Costituzione svizzera (per le sole rettifiche di confine) (art. 53,
co. 4), in quella tedesca (art. 29, co. 7) ed in quella spagnola. In
quest’ultima, in virtù del principio di autodeterminazione delle
Comunidad Autònomas, non vengono disciplinate le variazioni
territoriali, che sono di competenza delle singole Comunidad, che
procedono attraverso la revisione dei loro Statuti (art. 147, co. 3 e 152,
co. 2), nella prospettiva della cooperazione tra Comunidad Autònomas
contigue (art. 145, co. 2).
Per quanto riguarda la possibilità di sondare la volontà delle
popolazioni interessate mediante consultazione popolare o referendum
(presente in tutte le ipotesi di variazione territoriale del nostro
312
ordinamento) è significativo rammentare che la Costituzione svizzera,
per modificare il numero dei Cantoni, richiede il “consenso del
Popolo” interessato, oltre che quello dei Cantoni interessati “nonché
quello del Popolo svizzero e dei Cantoni (art. 53, co. 2), prevedendo in
tal modo la consultazione di tutte le popolazioni, sia direttamente
interessate, sia controinteressate dalla modificazione numerica. Per le
semplici modifiche territoriali del territorio svizzero è invece richiesta
solamente la consultazione della frazione di popolo interessata oltre
che quella dei Cantoni coinvolti nella modifica (art. 53, co. 3). La
Costituzione francese prevede invece la possibilità di “consultare gli
elettori iscritti nelle collettività interessate”, “laddove si preveda di
creare una collettività territoriale dotata di uno statuto particolare”
(art. 72, co. 1 e 3); nello stesso articolo si dispone il ricorso alla
“consultazione degli elettori”, nella diversa ipotesi della modifica dei
confini. La consultazione delle popolazioni interessate mediante
referendum è prevista anche nella Legge Fondamentale tedesca.
Nell’art. 29, co. 1 si dà risalto al fatto che i Lander devono avere una
grandezza ed una capacità funzionale tali da poter adempiere con
efficienza ai loro compiti, nel rispetto dei valori di solidarietà
regionale e dei vincoli storici e culturali del territorio. All’art. 29, co. 2
si prevede che i provvedimenti di variazione territoriale “sono adottati
con legge federale che (…) necessità di una conferma con referendum
popolare. Devono (inoltre) essere sentiti i Lander
interessati”. Il
successivo co. 3 dell’art. 29 prevede la possibilità di ricorrere al
referendum popolare (di cui al co. 2) nelle ipotesi d’istituzione di un
nuovo Land oppure nell’ipotesi di variazione dei suoi confini, a patto
che vi sia il consenso della maggioranza delle popolazioni del
territorio interessato. Non si procederà invece a consultazione
313
referendaria quando vi sia una maggioranza avversa nel territorio del
Land interessato; tale ipotesi può però venir sovvertita nel caso in cui
si registri nella porzione di territorio da modificare una maggioranza
pari ai 2/3 della popolazione favorevole alla modifica; tale
maggioranza potrebbe però venire scalzata da una maggioranza di 2/3
della popolazione residente nell’intero territorio dei Lander interessati
dalla modifica, contraria alla variazione. La norma in questione ha un
carattere decisamente garantista, tentando di coniugare le possibili
istanze delle differenti popolazioni.
Passando ora all’esperienza statunitense, è interessante notare che
l’art. IV, sez. 3 della Costituzione degli Stati Uniti d’America riserva
il pieno potere di disporre del territorio al Congresso che può decidere,
unitamente al consenso “dei legislativi degli Stati interessati”, la
riunione di due o più Stati già esistenti; per quanto riguarda invece
l’annessione agli USA di nuovi Stati, il Congresso può decidere da
solo. Si noti come nella Carta costituzionale degli Stati Uniti non sia
previsto nessun tipo di coinvolgimento diretto della popolazione
interessata alla variazione.
314
315
CONCLUSIONI
Lo studio compiuto, per quanto specifico e circostanziato alla
materia della variazione territoriale delle Regioni, rientra nel più
ampio dibattito sull’ente-regione e pertanto le conclusioni riportate di
seguito non saranno circoscritte alla tematica finora descritta, ma a più
ampio spettro, comprendendo per forza di cose un giudizio
complessivo sul sistema regionale italiano.
Il procedimento di variazione territoriale delle Regioni ha come
scopo finale la modificazione dell’ente regionale e di conseguenza,
per poterlo giudicare idoneo o meno allo scopo cui era stato pensato,
bisogna prima dare un giudizio su tale ente così come istituito dal
Costituente.
Come si è visto, la ripartizione storico-statistica su cui si fonda
l’ordinamento regionale italiano, oltre che essere priva di scientificità,
era già considerata obsoleta e sorpassata da molti Costituenti, e fu
accettata solamente per motivi prettamente politici, in quanto
costituiva il miglior punto d’equilibrio tra le diverse visioni delle varie
forze politiche presenti in Assemblea Costituente. Da quella scelta
sono passati più di sessant’anni, e sono stati anni in cui l’Italia ha
cambiato completamente fisionomia dal punto di vista non solo
economico, ma soprattutto sociale e culturale. La ripartizione pensata
dal Costituente è inadeguata ad assecondare le esigenze di un moderno
Stato che è divenuto uno dei principali protagonisti del panorama
internazionale. I criteri su cui si fonda la ripartizione territoriale di cui
all’art. 131 Cost. non sono in grado di dare forma al tessuto sociale
italiano ormai da qualche decennio, in quanto i nuovi fattori
aggreganti di una comunità, identificativi di un ente locale territoriale,
316
sono di ordine economico. Le comuni radici storico-culturali sono la
base da cui partire; la soggettività economico-programmatoria
dell’ente locale i nuovi criteri che ne definiscono l’estensione
territoriale.
Ciononostante l’art. 132 Cost., a cui il Costituente aveva affidato il
pur encomiabile scopo di modificare la ripartizione regionale,
correggendo eventuali situazioni dubbie che non aveva avuto tempo di
esaminare, può essere considerato ancor oggi attuale ed idoneo al fine
a cui era stato pensato.
Da parte loro, le forze politiche centrali nulla hanno fatto per
correggere la ripartizione, preoccupate dal fatto che qualsiasi
mutamento degli equilibri raggiunti avrebbe potuto portare ad una
perdita dal punto di vista del consenso elettorale. La ripartizione
territoriale della Repubblica col tempo si è stabilizzata ed ogni
correzione è divenuta sempre più difficile.
La dottrina giuridica poi, pur suggerendo nuovi concetti di
Regione, non si è altrettanto spesa per far passare il concetto che le
popolazioni stanziate su una determinata area territoriale si
autoidentificano con essa e che, di conseguenza, devono avere una
peso fondamentale per quanto riguarda qualsiasi mutazione; anzi, uno
dei dibattiti che ha maggiormente diviso la dottrina riguarda la natura
giuridica della consultazione referendaria nel procedimento di
variazione territoriale ex art. 132 Cost.
Come si è visto molti Autori considerano il referendum svolto presso
le popolazioni interessate meramente consultivo, sminuendo la
volontà di queste di fronte alle decisioni del potere centrale, che non
era certamente favorevole all’idea di variare il territorio dello Stato.
Agli occhi di chi scrive ciò pare quasi assurdo: come si può così miopi
317
e non vedere che la ratio sottesa ai procedimenti ex art. 132 Cost. era
quella di dare una collocazione territoriale più opportuna a
popolazioni che non l’avevano? Le popolazioni interessate siano
almeno lasciate libere di esprimere una volontà vincolante per il
legislatore; nel caso in cui ciò andasse contro gli interessi unitari dello
Stato, il Parlamento potrebbe sempre fare a meno di approvare la
legge di variazione.
Sempre in merito all’istituto referendario, una questione ancor
più grave, sollevata molto di recente, è il caso dei referendum
cumulativi
che
hanno
suscitato
alcuni
problemi
di
ordine
costituzionale, nonostante l’apparente linearità dell’art. 132, co. 2
Cost.
Celebrare
un
unico
referendum
coinvolgente
più
amministrazioni comunali può essere possibile; è incostituzionale
invece procedere ad un conteggio unico dei voti perché ciò sarebbe in
contrasto con la ratio dell’art. 132 Cost.: “ciascun Comune decide per
sé”, direbbe un illustre costituzionalista392.
Facendo ora qualche considerazione sulle singole ipotesi di
variazione territoriale, si ritiene che i procedimenti di creazione o di
fusione non siano mai stati attivati non solo perché il procedimento
superaggravato previsto ne rendeva realmente difficile l’attuazione,
ma soprattutto perché esso non era in grado di soddisfare
concretamente le esigenze delle popolazioni interessate alla modifica.
Comunque sia, si ritiene un fatto positivo che il procedimento per la
creazione di una nuova Regione (a parte il caso eccezionale del
Molise) non sia mai stato attivato: gli enti regionali italiani sono fin
392
Sul punto si veda: DE MARTIN G. C., De Martin: legittimo il quesito unitario
ma la conta va fatta Comune per Comune (intervista) in L’Amico del Popolo del
13 ottobre 2007, n. 47.
318
troppo numerosi e sarebbe invece opportuna una loro riduzione, da
attuarsi con l’accorpamento tramite la fusione di Regioni che prese
singolarmente siano considerate poco efficienti dal punto di vista
amministrativo ed economico. La cosa è però difficilmente
realizzabile: per quale motivo una Regione dovrebbe fondersi con
un’altra, vedendo così diminuire il proprio apparato burocratico, la
propria classe politica, la propria forza ed il proprio peso a livello non
solo locale, ma soprattutto nazionale? Per un encomiabile motivo di
efficienza degli apparati dell’ente e di conseguenza del sistema? Pare
difficilmente realizzabile anche se sarebbe auspicabile.
Opportuna
sarebbe
una
ripartizione
del
territorio
regionale
completamente rivista, creando enti di una maggior dimensione e che
si fondassero su criteri completamente diversi, più attuali e moderni di
quelli usati dal Costituente: la Regione dovrebbe essere un ente che
innanzitutto occupa una superficie territoriale omogenea, non dal
punto di vista morfologico, ma da quello economico e sociale; un ente
in cui il collante siano anche i comuni trascorsi storici, ma soprattutto
quelli di ordine economico. Come s’intuisce però la creazione di un
ente siffatto dovrebbe essere decisa dall’alto, perché le popolazioni
locali,
motivate
da
un
certo
campanilismo,
difficilmente
rinuncerebbero alla loro “indipendenza”.
Per quanto riguarda il procedimento di distacco-aggregazione,
le considerazioni che si possono fare sono le medesime, anche perché
la maggior parte delle sue recenti attivazioni, hanno come motivazione
la ricerca di una situazione tributaria e fiscale agevolata, piuttosto che
il ricongiungimento per motivi storici-culturali a Regioni sentite come
più affini. Ad ogni procedimento di distacco aggregazione sinora
attivato è sempre sottesa in maniera più o meno marginale una
319
motivazione storica, ma viene scontato chiedersi come mai tutti questi
Comuni si siamo mossi solamente nell’ultimo triennio. Forse perché la
sentenza n. 334/2004 ha facilitato il procedimento? Questa
spiegazione può essere in parte vera ma allo stesso tempo è anche
riduttiva.
In realtà la frustrazione delle attese federaliste e l’intoccabilità degli
ambiti competenziali e finanziari delle Regioni ad autonomia
differenziata hanno determinato nel corso degli ultimi anni il sorgere
di una “questione settentrionale”. Per superare questi problemi, visto
che dallo Stato centrale non arrivava alcuna risposta, alcune
popolazioni locali hanno deciso di “far da sé”, trovando degli
escamotages che consentissero loro di avere tutti quei benefici, portati
dal federalismo fiscale, pur senza la sua effettiva istituzione. La
soluzione si è intravista chiedendo il passaggio a Regioni ad
autonomia speciale, aventi una situazione finanziaria agevolata
rispetto alle Regioni ordinarie; il mezzo per realizzare ciò è stato
l’attivazione dell’art. 132, co. 2 Cost. In quest’ottica, tutte le istanze
sono da vedersi come il sintomo di una protesta contro l’autorità
centrale, miope verso i problemi di alcune comunità, residenti
soprattutto in zone di montagna ed al confine con Regioni a Statuto
speciale.
Come si è visto le Regioni “di migrazione” non sono favorevoli alla
perdita di una parte del proprio territorio; soprattutto il Veneto, la
Regione maggiormente interessata da queste istanze, per scongiurare
ciò ha usato il metodo del bastone e della carota:
tergiversando
dapprima nel dare il proprio parere obbligatorio sulle richieste di
distacco, rallentando i procedimenti in corso, istituendo poi dei Fondi
a vantaggio di quelle aree territoriali da dove venivano le richieste di
320
distacco. Questa soluzione non risolve tuttavia il problema in quanto è
temporanea e non strutturale: l’entità del Fondo viene decisa per brevi
periodi; per il triennio 2008-2010 essa è consistente, ma cosa
succederebbe se per gli anni successivi non si potessero erogare
somme di tale entità? Si ritornerebbe alla situazione in cui gli enti
locali chiederebbero di passare alla Regione Trentino-Alto Adige per
avere una maggiore disponibilità finanziaria.
Per dare una soluzione definitiva al problema bisognerebbe
attuare una riforma strutturale della finanza statale, in modo che i
tributi non vadano più allo Stato centrale che poi li ridistribuisce, ma
restino all’ente dove sono raccolti, di modo che quelle aree territoriali
disagiate siano in grado di far fronte da sole alle loro esigenze ora
inascoltate, e non siano più attirate verso le Regioni a Statuto speciale.
Non bisogna però dimenticare che la Repubblica italiana è uno Stato a
struttura unitaria e quindi è necessario anche stabilire che l’ente
regionale eroghi una quota delle proprie entrate allo Stato centrale, per
premettere il suo funzionamento e per scopi solidaristici, come aiuto
verso le Regioni a basso livello contributivo: in questo modo si
potrebbe realizzare il federalismo fiscale, continuando a conservare la
struttura unitaria del nostro Stato.
Ci sono però anche altre interessanti proposte per tentare di
fermare la “migrazione” dei Comuni di confine. La Regione Veneto,
come si è detto, è quella maggiormente colpita da questi fenomeni; per
arginare il problema, che interessa soprattutto la Provincia di Belluno,
nella proposta di revisione dello Statuto regionale era stato inserito
l’art. 25, co. 3 in cui si proponeva d’istituire una particolare autonomia
321
per detta Provincia, essendo “tranfrontaliera e interamente montana,
abitata da significative minoranze linguistiche”393.
La proposta, seppur motivata, non ha trovato però il favore del
Presidente della Regione Veneto Galan394, che l’ha ritenuta
discriminatoria per le altre genti della montagna veneta. A seguito
della presa di posizione del Governatore, è stato presentato un nuovo
testo che mira a “conferire forme e condizioni particolari di autonomia
amministrativa e finanziaria agli enti locali il cui territorio sia tutto o
in parte montano”, eliminando quindi ogni esplicito riferimento alla
Provincia di Belluno395.
A parere di chi scrive il problema è ben più vasto ed inizia ad
interessare
un
numero
sempre
più
consistente
di
Regioni;
provvedimenti locali, come quello appena visto, sono certamente
apprezzabili ma non rappresentano la soluzione definitiva del
problema. L’unica via possibile è una riforma federalista della finanza
statale: se si riuscisse a far ciò molto probabilmente si vedrebbe il
numero
delle
richieste
di
distacco-aggregazione
diminuire
drasticamente, rimanendo solamente quelle istanze che sono
effettivamente motivate da ragioni di correzione dei confini regionali;
ciò riporterebbe l’art. 132, co. 2 Cost. alla sua funzione originaria e
cioè quella di permettere l’autoidentificazione di una popolazione con
un territorio.
393
Sul punto si veda l’art. 25, co. 3 della proposta di revisione dello Statuto della
Regione Veneto, presentato alla Presidenza del Consiglio regionale il 13 luglio
2006 e trasmesso alla Commissione per lo Statuto e per il regolamento del
Consiglio ed ai Consiglieri regionali il 19 luglio 2006.
394
Sul punto si veda l’intervista al Presidente Galan apparsa su Il Padova del 1°
settembre 2008, p. 26.
395
In merito a ciò si veda: Nella bozza del nuovo Statuto regionale tolti i
riferimenti diretti al Bellunese (articolo) in L’Amico del Popolo del 13 settembre
2008.
322
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