Con il cuore e con la mente / Antonella Jori

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MA COS’HANNO NELLA TESTA?
Con il cuore C
e con la mente
Antonella Jori
Ascoltare le emozioni dei giovani
è un passaggio ineludibile
se si vuole giungere
a offrire loro
una formazione completa
ome si può parlare dei nostri ragazzi di scuola senza cadere in generalizzazioni e banalizzazioni? Nella
mia riflessione, per ora, ho pensato che ne possiamo parlare almeno a due livelli: il primo proviene dalla realtà
quotidiana ed è il semplice fatto che ogni mattina io non
incontro i giovani d’oggi e neppure i giovani del liceo
in cui lavoro e vivo, ma incontro Francesco, Giulia,
Alessandro, Michele, Sofia, Caterina, Oscar, Lucia,
Margherita, Elisa, Giacomo, Costanza… Incontro, cioè,
ragazzi concreti, con un nome ed un volto, una storia,
quell’insieme originalissimo e, come tale, non replicabile di emozioni-sentimenti-pensieri che costituisce quella cosa fragile e splendida che è ogni essere vivente.
Il secondo livello proviene invece da quella realtà opposta e simmetrica che ogni persona reca in sé in ogni tempo e luogo: bisogni profondi che sono uguali per tutti.
I ragazzi necessitano sempre di sentirsi accolti come persone e quindi amati, benvoluti individualmente. Non credo che il bisogno di essere e sentirsi amati e accettati nella propria originalità possa mai venir meno o cambiare
lungo le generazioni e da persona a persona. Penso sia,
accanto a quello di amare conoscendo e conoscere amando, il bisogno più radicale che ci portiamo dentro dalla
nascita alla fine biologica dell’esistenza in questo corpo.
Nella mia esperienza ultraventennale - Mi sembra finalmente di aver capito che anche con i ragazzi, come in
ogni relazione, non bisogna mai dare nulla per scontato.
Per loro mi pare sia molto importante ricevere anche solo
piccoli gesti di attenzione, un sorriso, un messaggio di
incoraggiamento, una carezza anche solo verbale; sentirsi rispettati come persone, che fa parte dell’amore e
della bene-volenza. Hanno bisogno di essere presi in considerazione alla pari, pur nella diversità e asimmetria dei
ruoli propri dell’educatore e del ragazzo; considerati non
inferiori e subalterni; essere richiamati e corretti sempre
in un contesto di amorevolezza, quand’anche ferma e
chiara, mai umiliante. Sappiamo certamente molto bene
che un bravo docente non è quello che afferma la propria autorità con le armi impositive dell’autoritarismo,
ma con quell’autorevolezza che viene da una competenza culturale, disciplinare e umana sempre in formazione,
aperta all’integrazione di stimoli e contenuti nuovi, da
un percorso di costante autoconsapevolezza e riflessività,
dal dialogo e dal confronto con tutte le componenti della comunità scolastica e della propria vita.
Mesi fa un alunno esprimeva apprezzamento per gli atteggiamenti dei docenti che trattano gli studenti come persone
adulte, ragionano con loro, li ascoltano, si fanno carico dei
loro vissuti profondi, delle loro emozioni senza censurarle.
Ma, allo stesso modo, i ragazzi non chiedono di essere
iperprotetti. Può darsi che siano di fatto abituati ad esserlo e
quindi abbiano sedimentato in loro l’idea che non sono
capaci di non esserlo, ma nel profondo non lo chiedono, al
contrario domandano di essere lasciati camminare con le
proprie gambe, anche nelle difficoltà. Spesso si scopre che,
L’école valdôtaine 85 - 2010
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di fronte a problematicità scolastiche, sono i genitori che
tendono a voler sottrarre i propri figli alla scuola dove stanno sperimentando percorsi in salita; sono spesso loro che
faticano, in modo di certo non condivisibile, ma senz’altro
comprensibile, a sopportare la frustrazione di un eventuale fallimento, mentre i ragazzi chiedono di essere incoraggiati a permanere nella via irta e quindi la loro richiesta tacita è quella di correre il rischio di una possibile sconfitta
come parte di quel percorso appassionante e forte che è la
vita. Ho notato poi che è importante esplicitare ai giovani
che, quando sono ripresi e corretti, è perché si è interessati a loro, alle loro persone e alle loro vite intere, alla loro crescita. Per questo li si corregge, li si marca un po’ a uomo e
un po’ a zona, senza perderli d’occhio, perché ci si tiene e
non ci si pone come controparte, ma come complici della
loro crescita personale. Questa sottolineatura viene sempre
ben accolta dai ragazzi: si sentono importanti, si sentono
accompagnati. È inoltre significativo il messaggio verbale
di vivere nel presente, proponendo relazioni piene, dense,
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in quel preciso momento, con quelle persone lì, standoci pienamente, desiderosi di comunicare, di ascoltare, di imparare, di crescere insieme; non sbilanciati nel dopo, nelle ore
successive o altrove.
Quando dico ai ragazzi che io in quel momento desidero stare con loro, creare comunicazione e relazioni umane con loro, acquisire crescita culturale con loro, mi pare
che apprezzino il messaggio. Bisogna ritornarci su più
volte, a volte negoziare, ma sostanzialmente il messaggio
è apprezzato: che un adulto sia contento di relazionarsi
con loro e la ritenga la cosa migliore che possa capitargli in quel preciso momento è gradito. Che si possa vivere “con il cuore e la mente nel momento presente” (P. Poveda)
è qualcosa su cui si aprono a riflettere. È ben accolto
anche uno stile di relazione in cui alla dimensione di
un amore personale si unisce l’attenzione a un amore
più universale: l’amore dell’educatore che promuove
l’originalità di ognuno, attento a generare diversità relazionate tra loro e ad armonizzarle.
La solidarietà - Perché l’attenzione all’amore personale non divenga stimolo a fuorvianti ripiegamenti
narcisistici, ma sia presupposto per un’apertura sempre più inclusiva e a sua volta personalizzante, è importante proporre percorsi formativi di conoscenza e presa
di coscienza dell’urgenza della solidarietà e dell’attenzione specifica alla realtà degli ultimi. La solidarietà
appresa, vissuta, espressa e, prima ancora, sentita nei
confronti dei più diseredati, può divenire canale per
quell’incessante e mai concluso percorso di educazione affettiva vivibile con ognuno dei propri prossimi.
Sono ben accolti e addirittura caldeggiati dai nostri
alunni i progetti di volontariato concreto. Le esperienze
di servizio alle Mense Caritas diurna e serale sono fortemente positive: in esse i ragazzi sperimentano le loro
capacità di comunicazione, imparano a svolgere lavori
manuali, guardano in faccia le persone più impoverite
dalla vita e lì vi trovano stranieri di diverse nazionalità
fuggiti da guerre o da altre crudeltà e ingiustizie, italiani senza fissa dimora, persone cadute in disgrazia
per tracolli lavorativi o fallimenti affettivi, tossicodipendenti, invalidi e non, uomini e donne, anziani e giovani. Vi trovano Marco, cui cade la testa nel piatto perché non ha retto alla violenza familiare, è fuggito e sta
in mezzo a una strada strafatto, Maria che parla da sola
e si aggira ogni giorno con le buste stracolme fin quando non riapre l’ostello la sera, Ivan con negli occhi la
guerra e i suoi orrori, Ahmed che sorride e mangia di
gusto dalla sua carrozzella a rotelle, la signora
Francesca silenziosa e piena di austera dignità, il signor
Mario che aspetta di ritrovare lavoro e che non ha più
la famiglia, Dario che è salito dal Sud per fare corsi di
formazione e, a causa dell’affitto da pagare, non riesce
a comprarsi da mangiare, persino chi legge la Bibbia e
ne vuole parlare, chi la chiede perché è malato terminale e cerca parole totali per affrontare l’ultima sfida;
trovano chi aspetta la mensa per dire due parole con
qualcuno e chi si vergogna di essere lì e non vuole
vedere nessuno. I nostri ragazzi apprendono così uno
stile di relazione attento alle persone come tali: “Non
si ama l’umanità. Si ama quest’uomo, questo bambino, questa sorella, quest’amico, si amano gli uomini ad uno ad uno”
(E. Ronchi). Imparano il saper farsi da parte e il saper
farsi avanti, il saper aspettare, la gratuità di un sorriso
dato e a volte non ricambiato. Ed è così che si abituano
ad un amore personale che si protende inclusivamente
verso l’universale, ma in una dimensione inter-soggettiva. Nei percorsi formativi a scuola li ho visti con le
lacrime agli occhi quando hanno incontrato giovani rifugiati provenienti dall’Africa o dalla Bosnia con storie di
violenze orribili sulle spalle; li ho visti rimettere in
discussione i loro stereotipi e riflettere sui perversi
meccanismi finanziari del mondo odierno; li ho visti
toccati dalla presa di coscienza dell’esistenza dei
circuiti del traffico d’armi che alimenta le guerre nel
mondo, dello sfruttamento del lavoro minorile e della
prostituzione: dove le vite umane diventano carne da
macello per alimentare la ricchezza di pochi. Li ho visti
vibrare e far vibrare l’uditorio in quei convegni dove
hanno potuto comunicare le loro rielaborazioni e le
loro poesie dedicate a questi nuovi amici venuti da lontano. E ancora li ho visti cominciare a credere nella
possibilità di cambiare poco a poco qualcosa, acquisendo stili relazionali nuovi, facendo circolare informazioni alternative, iniziando a unire le forze (Poveda),
a creare circuiti di cooperazione che possano aprire
sentieri nuovi, fino a cancellare il concetto stesso di
clandestinità, da noi creato per respingere persone vive
e zone vitali del nostro essere.
Il nostro ruolo - Trovo importante che l’educatore si
faccia carico delle emozioni dei ragazzi, che sappia farle emergere e li abitui a riconoscerle e a nominarle.
Anche nei contenuti deve tendere a suscitare emozioni, perché sono le e-mozioni che muovono la vita da
dentro a fuori e quindi favoriscono il consolidarsi della motivazione all’apprendimento e alla crescita.
Ritengo che sia poco rilevante l’utilizzazione del lei o
del tu nella comunicazione interpersonale: se qui a
Roma nelle scuole elementari è normale che le maestre siano chiamate per nome e con il tu, è altrettanto
normale che alle scuole secondarie di secondo grado
si giunga decisamente all’utilizzazione del lei, che coincide con il linguaggio che spontaneamente si usa nel
quotidiano fra giovani e persone adulte, senza forzature.
In genere, come docenti, pensiamo concordemente
che sia importante mantenere una certa asimmetria
relazionale, proprio come si ritiene che il genitore debba essere molto vicino e in ascolto dei figli, ma non
amico. La relazione docente-discente, insegnante-studente, quand’anche vissuta con sensi di profonda e
reciproca affettuosa appartenenza, non può e non deve
essere tra pari, ma ha senso se sa permanere e farsi
carico di questa sostanziale diversità di ruoli.
Tutte queste armonie si riferiscono ad attitudini ben
sperimentate e consolidate nelle persone e nei progetti
educativi degli educatori cui personalmente mi ispiro.
Penso a Filippo Neri, Giovanni Bosco, Pedro Poveda,
Lorenzo Milani: educatori con il cuore, da assorbire
e incarnare, capaci di guardare la vita, la storia, le umanità delle persone nel punto d’intersezione della terra
col cielo, con la concretezza delle fioriture di maggio
e la leggerezza del profumo dei fiori nell’aria.
Antonella Jori - Docente e secondo collaboratore del dirigente scolastico - Liceo Classico Giulio Cesare di Roma.
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