HEGEL: Sviluppo della Fenomenologia dello Spirito La

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HEGEL: Sviluppo della Fenomenologia dello Spirito
La Fenomenologia dello Spirito, scritta a Jena nel 1807, costituisce la prima
opera che segna la maturità del pensiero dialettico - speculativo di Hegel.
Dalla formulazione del titolo si impongono due iniziali considerazioni al senso
complessivo dell'opera:
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il protagonista tematico è lo spirito ovvero il processo o "storia romanzata
della coscienza", come la definisce lo stesso Hegel; cioè è la coscienza che rivive, ri-percorre, rammemora, ri-costruisce, ri-avvolge il nastro del proprio
percorso lungo le tappe epocali, già formate e depositate nella storia, che ne
hanno segnato lo sviluppo. Pongo l'insistenza sul prefisso o ricorrenza del
"ri" nei verbi che ho appena usato, per mettere in chiaro che l'esigenza
filosofica che muove questo lavoro di Hegel è l'esigenza del ritornare sui
propri passi, per capire meglio se stessi, gettare uno sguardo intelligente
sulla propria storia, ri-cordare, concettualizzando, le esperienze che la
coscienza ha vissuto.
2) Il termine "fenomenologia" allude non allo studio dei fenomeni della
conoscenza scientifica di cui Kant ha parlato nella Critica della Ragion
Pura, bensì ci si riferisce al senso etimologico derivante dal greco e che
significa "manifestazione". Hegel si propone infatti di descrivere lo sviluppo
della coscienza attraverso le sue manifestazioni nella storia della civiltà
occidentale, tappe o epoche che vanno ripensate e rivissute affinchè la
coscienza stessa acquisti la piena consapevolezza di sè nel suo presente
come risultato dell'intero processo storico - spirituale.
Per semplificarne l'andamento bisogna seguire le sezioni articolate da Hegel
secondo lo schema dialettico - triadico di Tesi/Antitesi/Sintesi, in cui la
coscienza sviluppa la presa di coscienza su di sè, riflettendosi, attraverso
l'intero processo (ricorda che il termine "speculativo" deriva dal latino
"speculum"/specchio, lo specchiarsi, il riflettersi).
Questo sviluppo è la messa in pratica di quei caposaldi citati nelle lezioni
preliminari ad Hegel e, per quanto detto sopra sul "fenomeno", evidenzia
soprattutto il caposaldo per cui il finito appartiene e riflette un momento
dell'Infinito.
Se, al contrario, il finito rimanesse isolato, separato, astratto dal contesto
infinito che lo condiziona si avrebbe una comprensione assolutamente
negativa e si imporrebbe ciò che Spinoza aveva già espresso : « omnis
determinatio est negatio », ovvero che ogni determinazione finita, presa
isolatamente, in sè, sarebbe incomprensibile.
Lo schema triadico che costituisce l'ossatura almeno della prima parte della
Fenomenologia dello Spirito si articola in:
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A) COSCIENZA (Tesi)
B) AUTOCOSCIENZA (Antitesi)
C) RAGIONE (Sintesi)
L’uomo in quanto coscienza non è un sasso. Vive. Osserva. Desidera. Vuole.
Quindi: in che modo e quando la coscienza si sveglia e comincia a svilupparsi?
Dobbiamo, insieme ad Hegel, immaginare lo sviluppo della coscienza negli
stessi termini di gradualità che sussiste tra il seme e il frutto; tra la ghianda e
la quercia. Per inciso: il seme si trasforma necessariamente in fiore e il fiore si
trasforma necessariamente in frutto. A ben vedere la trasformazione è anche
superamento. Ma è un superamento che conserva e vive di ciò che ha superato
e senza di cui non sarebbe ciò che è diventato.
Il seme muore perché il fiore viva e il frutto è tale solo in virtù della morte del
fiore. Da questa immagine emerge la “potenza del negativo”.
il negativo non è annientamento di ciò che non è più, è piuttosto il suo
arricchimento.
Se il seme rimanesse seme, nel linguaggio hegeliano sarebbe un “positivo”
identico a se stesso privo di alterazioni: sarebbe una “tesi” irrigidita e non
suscettibile di trasformazione e, a sua volta, la negazione è destinata ad essere
negata ovvero a essere messa in relazione all’interno di un contesto che è
sempre in movimento e trasformazione.
Ogni “sintesi”, dunque, è sempre il provvisorio superamento e conservazione
(Auf-hebung) di stadi che si avvicendano in una necessaria trasformazione che
arricchisce, nelle sue molteplici vicissitudini il soggetto che si trasforma, sia
questo soggetto un seme, una ghianda, un uomo, la coscienza, un’epoca o, in
fine, lo spirito di un popolo.
E’ necessario anche per la coscienza concepire uno sviluppo da gradi minimi a
gradi più compiuti e maturi di crescita.
Allora: in che modo e quando la coscienza viene alla luce?
La coscienza al suo grado minimo viene alla luce in termini di coscienza
sensibile.
A) COSCIENZA
(certezza sensibile – percezione – intelletto matematico)
La coscienza si desta quando è stimolata e impressa da percezioni e affezioni
all’interno dell’esperienza sensibile.
“Stimolata”, “impressa”: grammaticalmente sono participi passati e, quindi,
filosoficamente alludono alla iniziale e immediata condizione passiva della
coscienza empirica.
Il primo modo attraverso cui la coscienza entra in contatto con la vita è quando
entra in contatto con la realtà attraverso i 5 sensi, in un orizzonte
immediatamente empirico.
Vi invito a soffermarvi sull’avverbio “immediatamente”.
Ciò che è immediato è per definizione senza mediazione e la mediazione è
l’operare di una ragione concettuale. Come ha insegnato Kant, al suo primo
livello conoscitivo la mente dell’uomo “intuisce” i fenomeni della realtà prima
di pensarli e il termine “intuizione”, in filosofia, allude alla presa immediata di
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qualcosa. E, sempre Kant, la modalità immediata con cui il soggetto afferra i
fenomeni è la sensibilità che funziona con quelle due intuizioni fondamentali
che sono lo spazio e il tempo e che prendono le “misure” alla realtà esterna.
Ciò implica il fatto che la coscienza “subisce” l’oggetto dell’esperienza (la
Physis per i primi filosofi greci, per esempio) attraverso le percezioni.
Aristotele nella prima proposizione con cui fa cominciare la sua Metafisica
dice che la filosofia nasce dal “thaumazein”, dalla “meraviglia” di fronte
l’osservazione sensibile dei fenomeni che circondano l’uomo nel suo destarsi
dal torpore di semplice animale.
La conoscenza con cui la coscienza si desta è conoscenza empirica, legata alla
base materialistica della realtà. Nel rapporto soggetto – oggetto in cui consiste
la conoscenza, il soggetto è passivamente dipendente e “soggiogato” dal suo
oggetto; soggetto e oggetto sono scissi, fratturati, separati.
Siamo al grado minimo dello spirito appesantito dalla materia e dalla certezza
sensibile o dalle percezioni sensoriali. Siamo al livello di estrema frattura o
scissione tra un soggetto che conosce e percepisce e un oggetto esterno che si
imprime sul soggetto.
Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu: “Niente è nell’intelletto
che prima non sia passato dai sensi”. Si tratta della classica affermazione
dell’empirismo che stabilisce che l’intelletto non conosce se non dopo che ha
ricevuto i dati sensibili dalla realtà esterna.
A pensarci bene voi, noi, come abbiamo cominciato a “pensare”? Di certo non
in termini di astrazione o complessità, ma attraverso immagini o
l’immediatezza della semplicità visiva, rappresentativa, iconica. La “A” di Ape,
la “C” di ciliegia, corrispondentemente alla presa visiva sulle api e sulle ciliegie
ed è attraverso le immagini che poi la conoscenza si è superata attraverso i
gradi di astrazione deduttiva e logica.
Lo ha detto anche Platone quando, spiegando il Mito della Caverna (nella
“Repubblica”), ha descritto una linea della conoscenza che parte dalle
immagini e solo gradualmente culminerebbe con la contemplazione pura del
mondo delle Idee.
Hegel quindi ri-percorre i gradi di sviluppo della coscienza individuale quando
entra in contatto con la realtà: dapprima in termini di recettiva certezza
sensibile di questo o quel fenomeno come dati contingenti e occasionali di
esperienza; dati cioè del momento (“questo” albero, “questa” pagina). Poi la
coscienza impara a mettere in relazione le cose e i fenomeni tra loro, ma
rimane pur sempre in un orizzonte empirico – percettivo (qui Hegel allude alla
corrente dell’Empirismo inglese del XVII sec. con Hobbes, Locke, Hume, per
esempio). Poi la coscienza impara a plasmare e pensare la realtà dei fenomeni
attraverso gli strumenti del pensiero puri a-priori (così li ha chiamati Kant
nella Critica della Ragion Pura) che sono le modalità di spazio – tempo e le 12
categorie attraverso cui la realtà esteriore è catalogata.
Kant, pervenendo al ruolo attivo e conoscitivo dell’intelletto, sicuramente ha
realizzato una grande rivoluzione copernicana nella sfera conoscitiva della
coscienza, ma secondo Hegel, rimane pur sempre un intelletto vincolato
all’orizzonte della natura dei fenomeni. Che ne è dello Spirito?...ovvero: la
ragione etica come principio soggettivo di libertà può realmente dirsi definita
e fondata nell’orizzonte conoscitivo? La risposta è “no”.
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Per Hegel l’Intelletto che conosce la realtà non coincide ancora con la pienezza
della coscienza autonoma e realizzata appieno, perché l’Intelletto anche se
conosce rimane pur sempre vincolato al mondo della materia e della fisica. La
Ragione di cui parla Hegel e a cui deve tendere la filosofia, non è il freddo
intelletto (“tabellesco”, chiamato così da Hegel nella Prefazione alla sua
Fenomenologia) della scienza limitato ai fenomeni esterni della natura, ma è
la Ragione meta-fisica e infinita dello Spirito, della Storia, come processo
infinito, come contesto sociale e politico. E’ Spirito etico e collettivo,
intersoggettivo, sociale; non può ridursi allo “spirito tabellesco”, calcolatore e
analitico sulla natura.
Per questo, pervenendo anche alla considerazione da parte di Kant di trovare
in sé l’inclinazione alla libertà ed autonomia morale dato che dal punto di vista
della conoscenza la ragione è finita, Hegel va oltre Kant e sottolinea che
l’autonomia o auto-coscienza è tale solo all’interno di rapporti con altre
coscienze; quando la coscienza individuale impara ad uscire fuori di sé per
incontrare e interagire dialetticamente con altre coscienze, in un tessuto di
relazioni che possono anche essere opposizioni ma da cui la coscienza può ritrovarsi più appagata e completa invece di rimanere chiusa in se stessa e
all’interno delle proprie astratte certezze sensibili e scientifiche.
B) AUTOCOSCIENZA
(“Servo – Padrone”; Stoicismo; Scetticismo; Ascetismo; “coscienza infelice”)
La coscienza diventa autocoscienza quando “esce fuori di sé” ovvero esce dalla
chiusura del proprio individualismo e finitezza, per immergersi in mezzo ad
altre coscienze. L’autocoscienza insomma si realizza solo in un tessuto
dinamico di relazioni intersoggettive che, nella logica del linguaggio
speculativo hegeliano, coincide con la “potenza del negativo”.
Il negativo, infatti, è la relazione con l’altro da sé; è il principio di
contraddizione che costituisce le relazioni, i legami, i nessi, il “leghein”/legare
proprio del termine Logos: si pensi alla dialettica di Eraclito come unione dei
diversi.
Hegel supera il principio di unione implicito, per esempio, nell’amore che, da
una parte è un sentimento (quindi non coincide con la razionalità) e, dall’altra,
è considerato una dimensione di unità “a buon mercato” che tende per sua
natura egoistica a sfuggire dal dolore, pazienza, drammaticità e travaglio del
concetto.
Viene spontaneo pensare alle considerazioni che sull’amore già Aristotele
aveva elaborate nella sua Etica Nicomachea, quando sottolineava che l’amore
è una unione a due e tendenzialmente si chiude rispetto all’apertura sociale che
invece può avere l’amicizia, considerata quest’ultima come il trampolino più
idoneo all’acquisizione della virtù razionale della Giustizia e del senso sociale.
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1. SERVO - PADRONE
Tornando all’autocoscienza come risultato della interazione a partire dalla
conflittualità sociale, Hegel parte dalla figura più famosa della
Fenomenologia: quella della dialettica Servo – Padrone.
Questo esempio celebre è tratto dalla storia delle società antiche basate sul
sistema di schiavitù, ma anche relativo al momento di trapasso dall’Impero
Romano d’Occidente crollato sotto le pressioni barbariche dopo le quali il
sistema economico si è riconvertito in un sistema feudale – vassallatico.
Uomini un tempo liberi sono stati costretti a rifugiarsi sotto la protezione di
uomini potenti militarmente e possessori di beni terrieri che potessero
garantire la sussistenza in condizioni di crisi generalizzata (alludo, per
esempio, al sistema delle “Curtes” in cui emerge la figura del Dominus e la
condizione di servitù della gleba).
Nel ripercorrere le dinamiche sociali della coscienza in condizioni di servitù,
Hegel evidenzia che inizialmente nel rapporto padrone – servo la posta in
gioco è la vita stessa ovvero, da parte del più debole, la paura della morte.
Per aver salva la vita e sfuggire all’angoscia della morte, il servo si è sottomesso
rinunciando alla propria libertà e diventando a tutti gli effetti una “cosa” nelle
mani del Signore. Ma storicamente il rapporto di indipendenza – dipendenza
ha avuto il destino di rovesciarsi attraverso l’essenza del processo produttivo –
lavorativo a cui l’individuo è sottoposto.
Hegel vuole insomma evidenziare non la staticità dei rapporti sociali, ma una
processualità intesa in termini di progressiva emancipazione dalla
a) Paura della morte
b) Servizio
c) Lavoro.
E’ attraverso il servizio che la coscienza servile impara ad autodisciplinarsi,
disciplinando e controllando gli impulsi/bisogni animaleschi e irrazionali
come appunto l’angoscia della morte e rendendosi superiore agli impulsi
biologici e pulsionali. Il lavoro, o meglio l’ ”etica del lavoro” nobilita l’uomo in
quanto realizza l’allontanamento dall’appetito immediato, attraverso la
produzione di cose; attraverso il dare forma alle cose.
Lo schiavo da semplice “cosa” o animale, diventa faber o creatore di forme in
ciò che fa. Il Signore, dal canto suo, non produce, non è attore attivo nel
processo produttivo, ma si limita a possedere o godere in modo parassitario
dipendendo a tutti gli effetti da ciò che possiede e la sua indipendenza in realtà
non ne fa una coscienza libera.
La figura servo-padrone si conclude quindi nell’indipendenza acquisita della
coscienza rispetto alle cose e la ri-presa della propria dignità ed essenza
(Wesen) ovvero come riscatto dalla alienazione che la rendeva passiva.
La dialettica servo – padrone offrirà enormi spunti sulla riflessione successiva
soprattutto da parte di Marx, nell’analisi del sistema produttivo in cui i servi
sono gli operai e che riduce il lavoratore ad un essere alienato ed espropriato
del proprio prodotto e della sua propria essenza e dignità.
Nel grande romanzo della coscienza nel suo percorso storico –
fenomenologico, Hegel si sofferma su quelle figure che non compiono né
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mantengono l’autocoscienza se non in termini di chiusura e fallimento di una
ricchezza di sé all’interno della realtà, perché nelle successive epoche storiche
la coscienza dell’uomo è rimasta impigliata nella sua individualità non
risolvendo la propria scissione con il reale, la vita e la storia.
Le figure che seguono esprimono le modalità di questa chiusura; motivo che
porterà Hegel a parlare di “cattiva coscienza” o, meglio, di “coscienza infelice”.
2. STOICISMO
Lo stoicismo vuole affermare e celebrare la indipendenza dalle cose del mondo
(nonché dai bisogni, pulsioni e passioni che rendono l’uomo schiavo) dal punto
di vista filosofico in termini di autosufficienza e “atarassia” (imperturbabilità
dell’animo). Si tratta però di una libertà interiore astratta, perché il mondo, i
suoi condizionamenti, le pulsioni da cui ci si vuole liberare, continuano ad
esserci nel mentre la coscienza è viva. La libertà interiore, “con o senza catene”,
come recitavano gli stoici, si annuncia come una utopia vaga, impossibile da
realizzare.
Lo stoicismo riflette la concezione di una coscienza libera nella sua
indifferenza al mondo, cosa impossibile dato che l’uomo è “gettato” nel mondo
e nel fiume imperfetto della vita.
3. SCETTICISMO
La posizione filosofica che supera l’indifferenza al mondo dello stoicismo è lo
scetticismo, nella misura in cui vuole annullare il mondo abdicando ad ogni
giudizio di verità e comprensione su di sé e sul mondo stesso. Ab-dicare, ovvero
ab-dicere, astenersi dal dire e dall’affermare. Lo scetticismo tenta di poggiare
sulla skepsis ovvero alla lettera sulla “sospensione di giudizio”, affermando che
la verità non esiste e quindi nemmeno una realtà che possa dirsi o
comprendersi come vera.
Hegel afferma che l’essenza stessa di questo atteggiamento esprime una forte
contraddizione al suo stesso interno: negare la verità e il mondo implica
comunque una formulazione di giudizio, grossomodo come il paradosso del
cretese Epimenide che afferma che tutti i cretesi sono bugiardi.
Lo scetticismo, insomma, si autovanifica come espressione di totale nichilismo
e la sospensione dal mondo e dalla verità è per definizione evasiva,
rinunciataria, astratta ovvero non eticamente immersa nella realtà storica.
4. COSCIENZA INFELICE
L’esito appena descritto della estrema contraddizione scettica da parte di una
coscienza che nega (però affermando di negare!) il mondo, strappa la coscienza
stessa alla realtà storica della vita. La condizione di strappo e scissione estrema
sortisce ciò che Hegel chiama l’”infelicità” della coscienza. La coscienza infelice
esprime la separazione irrimediabile fra finito e infinito. Se ci si riflette un po',
questa separazione irrimediabile è alla radice stessa dell’atteggiamento
religioso e in particolare ascetico: l’uomo che rifiuta le cose del mondo, inteso
come “valle di lacrime”, per proiettarsi in una dimensione oltre il mondo
stesso, imperscrutabile, trascendente.
Il passaggio dallo scetticismo all’ascetismo è un passaggio storicamente
epocale che per Hegel si circoscrive soprattutto nel medioevo cristiano che, a
sua volta, è incarnato da atteggiamenti che potremmo continuare a chiamare
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“infelici”, come per esempio la “mortificazione di sé” e pratiche di
autoflagellazione e martirio corporale.
Questa dimensione della vita di una coscienza mortificata (quindi di una nonvita) è il risultato della separazione accennata poco fa e che Hegel esprime nei
termini di separazione tra “intrasmutabile” e “trasmutabile”, ovvero tra ciò che
è eterno e perfetto (Dio) e ciò che muta e si trasforma (l’uomo, la vita, il
mondo).
Qui Hegel richiama le considerazioni che aveva elaborate ai tempi degli scritti
teologici giovanili e, in particolare, ciò che aveva detto sullo spirito di “timore
e tremore” rispetto al Dio trascendente ed “estraneo” da parte del popolo
ebraico, a sua volta estraneo alla immanenza del mondo negli aspetti naturali
della vita e della appartenenza sociale.
Nel passare in rassegna lo spirito religioso come espressione di una coscienza
infelice Hegel non risparmia il Cristianesimo sulla base di quanto aveva già
sostenuto in “Lo spirito del cristianesimo e il suo Destino” (1798) perché se il
cristianesimo ha sanato le contraddizioni e scissioni della religiosità ebraica, è
pur vero che la stessa incarnazione di Dio in Cristo (simbolo di amore
universale e potenziale cemento etico dell’umanità) ha fallito.
Il fallimento è storicamente avvenuto nella trasformazione dello spirito
ecumenico del cristianesimo nello spirito “positivo” e istituzionalizzato in
regole e apparati estranei al messaggio etico del Vangelo, dando luogo a quelle
figure negative della coscienza medievale come, per esempio:
a) la devozione;
b) il fare;
c) la mortificazione di sé.
L’inclinazione devota costituisce, infatti, una estraneazione da sé, nel senso che
la coscienza devota si s-pende, ap-pende e di-pende dalla grazia e benevolenza
di Dio.
Ciò risulta dallo stesso “fare” come può essere sintetizzato nella formula
benedettina dell’ “Ora et Labora”, attraverso cui l’attività o laboriosità sulle
cose della terra e del mondo sono comunque relativi a “doni” di Dio e, alla luce
di ciò, il fare è alla lettera “rendere grazie a Dio”. Questo credere che le cose del
mondo siano doni di Dio o siano stati creati al fine di glorificare Dio da parte
dell’uomo ha portato Spinoza nel celebre Trattato Teologico-Politico (1670),
già prima di Hegel, a identificarla come la radice dei pregiudizi.
A ben vedere l’estremizzazione della devozione passa attraverso l’umiliazione
o mortificazione di sé in vista della vita eterna e salvezza dalla caducità e
imperfezione della vita.
Le tappe dello spirito che arrivano alla mortificazione di sé in una deriva etica
di espropriazione e rinuncia al mondo pieno di contraddizioni si svolgono in
direzione di una “rinascita” della coscienza epocale quando non potendo
attingere Dio e l’Infinito, la coscienza stessa si rende conto di essere divina o
“soggetto”!
Quanto alla interiorizzazione di Dio nella coscienza si pensi per esempio a
Cartesio che fa di Dio un’idea innata della ragione e, anzi, l’esistenza di Dio è
dimostrata a partire dal Cogito o, ancora, si pensi a Kant quando nel 1793
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scrive La religione entro i limiti della semplice ragione argomentando che Dio
è un’esigenza morale, ovvero un postulato della ragion pura pratica: sono
entrambe posizioni che esprimono bene il capovolgimento della negatività in
cui per secoli ha riversato la coscienza infelice, divenendo ragione e
soggettività (Subjectum, fondamento) a pieno titolo.
E’ questa “negazione della negazione” a determinare il ritorno della
autocoscienza nella dimensione della ragione. Ciò avviene storicamente a
partire dall’Età rinascimentale – moderna attraverso la maturazione razionale
dell’antropocentrismo e del razionalismo tra il XVI e XVII sec.
C) RAGIONE
Interiorizzare Dio da parte della coscienza significa pervenire alla
affermazione della ragione come “subiectum”, fondamento di realtà. La
ragione infatti è arrivata a pensarsi e a riflettersi come certezza di ogni realtà e
la realtà è tale in termini di ragione.
Lo sviluppo di questa ragione, certa di essere fondamento della realtà, non è
da subito pienamente consapevole di sé e attraversando difficoltà e
presunzioni di completezza, si articola, infatti, nei momenti di:
1. Ragione osservativa (sfera “teoretica” o conoscitiva)
2. Ragione attiva (sfera pratica o morale)
3. Ragione individuale “in sé e per sé”
La RAGIONE OSSERVATIVA
La Ragione osservativa esprime la tappa del Naturalismo rinascimentale ed
Empirismo inglese, tra il XVI e il XVII sec in cui la ragione, attraverso la
conoscenza scientifica, prima di comprendersi come l’unica vera realtà di cui
si possa parlare cerca inquietamente la verità fuori di sé, nella natura appunto,
in mezzo ai fenomeni e alle esperienze empiriche.
Un primo modo di elevarsi dalla semplice esperienza esterna è quello,
attraverso la rivoluzione galileiana, per esempio, di passare dalle osservazioni
al metodo sperimentale elaborando le leggi matematiche della fisica.
Si ricordi, per esempio, la nota metafora galileiana per la quale la Natura è un
“libro scritto in caratteri numerici e geometrici” o, ancora, quando Cartesio ha
ricondotto l’esistenza stessa della natura in termini di rappresentazione
matematica col contrassegno di “Res Extensa” che è una idea innata della
mente umana. Successivamente la ragione impara ad applicare le leggi
scientifiche oltre che alla natura a se stessa: nasce così la scienza nuova del
‘700 che è la Psicologia che però ha il difetto di non cogliere la dimensione
spirituale e sociale della ragione, ma solo le dinamiche caratteriali ed esteriori
dell’individuo.
Hegel, infatti, è molto critico nei confronti della Psicologia e delle sue branche
disciplinari che dispregiativamente chiama pseudo-scienze: si riferisce alla
Fisiognomica e alla Frenologia.
La Fisiognomica deduce il carattere della personalità dai tratti esteriori
dell’individuo.
La Frenologia deduce il carattere della persona dalle misure e conformazioni
fisiche del cranio umano.
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Per questo Hegel dice che queste false scienze finiscono per “ridurre la ricerca
dell’essere dello spirito ad un osso” e ciò dimostra storicamente che ancora una
volta si è in presenza di una crisi della ragione filosofica che non sa ancora
pienamente cogliere se stessa perché rimane impigliata nella scissione di se
stessa (soggetto)rispetto il suo esterno (oggetto)
La RAGIONE ATTIVA
Al culmine di questa scissione la ragione comincia a recuperare se stessa
attraverso l’ATTIVITA’, ovvero ponendo se stessa nella dimensione morale e
non più superficialmente nei limiti della sfera conoscitiva/scientifica,
allontanandosi cosi dalle sabbie mobili del materialismo e dell’empirismo.
L’unità dell’io col mondo è la via di questa attività o sforzo (Streben), ma è
messo in luce che non può trattarsi di uno sforzo solitario, intimistico,
solipsistico, pena: il richiudersi in una posizione astratta da anime “belle” e
cariche di buone e “pie” intenzioni come ironicamente è detto da Hegel.
Un primo moto reattivo alla delusione per le scienze naturali, compresa la
psicologia, è quello di immergersi, da parte della ragione attiva, nella ricerca
del GODIMENTO e del PIACERE. Questa ricerca, però, è vana e la sua vacuità
è tale perché prima o poi il piacere si scontra con la cieca necessità del destino,
ovvero la mortalità dell’uomo.
Con questa considerazione Hegel anticipa una serie di suggestioni non solo
leopardiane (vedi la dottrina del “piacere figlio d’affanno”) ma anche di
Schopenhauer per cui il piacere è solo un’illusoria e penzolante parentesi tra
dolore e noia. La “felicità” che può procurare il godimento nel piacere è
effimera, transitoria perché sfuma nella necessità del suo sparire con la morte.
In un ulteriore moto reattivo e contro l’ostilità del mondo che ha rivelato la
ricerca del piacere, la ragione si rifugia nella fortezza rassicurante della
“LEGGE DEL CUORE” che riguarda le buone e pie intenzioni citate
precedentemente. La legge del cuore ha il difetto di innalzare le intenzioni
verso un bene o virtù di perfezione che siano alternativi alla realtà effettiva che
non si riesce a vivere. Secondo Hegel il destino di questo atteggiamento è
quello di sconfinare in ciò che lui chiama il “DELIRIO DELLA PROPRIA
PRESUNZIONE”.
Ognuno, in questo atteggiamento di aggrapparsi su astratte e buone intenzioni
a dispetto di una realtà in cui non ci si immerge e non ci si apre, erigendo a
legge il proprio sentimento e punto di vista per migliorare il mondo, percepisce
inevitabilmente come ostili gli altri. Gli altri, a loro volta rivendicano il loro
punto di vista e la propria “legge del cuore”, determinando una conflittualità
ideologica irrisolvibile se non attraverso la legittimazione del male o
addirittura del delitto, figlio del sentimentalismo o dei facili entusiasmi
individualistici che si innescano pericolosamente attraverso la spontaneità e
l’immediatezza anziché la mediazione paziente e lucida del concetto.
A questa immediatezza sentimentalistica la ragione ha opposto, storicamente,
la lucida attività di sovvertire l’ordine del mondo attraverso la VIRTU’ come
ideale di perfezione o “sommo bene” (direbbe Kant). Ma anche in questo caso
c’è un problema irrisolto: tra la virtù che vagheggia un Bene perfetto e il corso
effettivo del mondo che si vorrebbe cambiare, esiste uno scarto il cui esito è il
fallimento titanico di realizzazione della virtù assunta come ideale. E’ lo scacco
della irrealizzabilità di un “regno dei Fini” appeso sotto la forma della
intenzionalità, benché virtuosa, di una ragion pratica individuale. Lo scacco,
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insomma, è determinato dalla scissione tra l’essere e il dover essere che si tenta
di imporre alla realtà.
L’esempio storico di questo fallimento è dato dall’esito della Rivoluzione
Francese.
L’esito della rivoluzione è stato quello di innalzare un altare alla Dea Virtù in
nome della quale il corso del mondo è andato incontro al terrore di Robespierre
e non al suo effettivo miglioramento. La virtù come imperativo categorico astorico è per definizione trascendente e astratta; si è imposta come un
anacronismo rispetto ai tempi in cui gli ideali di Egualité, Fraternité e Libertè
sono stati anacronistici rispetto ad una realtà effettuale ancora inzuppata dalle
disuguaglianze particolaristiche
dell’Ancien regime da una parte e
dell’aristocrazia borghese dall’altra.
La realizzazione di tali ideali virtuosi e ipocriti non potevano che sortire il
destino di una forzatura e di una “positività”: evidentemente Hegel allude non
solo al già citato terrorismo di Robespierre ma al dominio di Napoleone, un
altro “figlio” della Rivoluzione Francese o della virtù miglioratrice del mondo.
LA RAGIONE INDIVIDUALE IN SE’ E PER SE’
La Ragione, per come si è manifestata nella storia con la Rivoluzione Francese,
si impone ancora nella sua individualità astratta (“Holderlin direbbe
“aorgica”): Hegel vuole dimostrarne l’inadeguatezza della pura condizione di
intenzionalità se non è conforme alle condizioni reali per la sua realizzazione
effettiva.
Di fronte all’esito terroristico e disperato che la ragione ha incontrato nella
storia nel volerne forzare il corso a partire da idee retoriche o “del cuore”, Hegel
analizza le sue ulteriori articolazioni epocali in:
1. REGNO ANIMALE DELLO SPIRITO O INGANNO;
2. RAGIONE LEGISLATRICE;
3. RAGIONE ESAMINATRICE DELLE LEGGI.
Dopo la illusoria realizzazione universale dell’intenzione verso il Sommo Bene
o perfezione virtuosa appena descritta, la ragione ripiega nella volontà di
realizzare la propria operosità, attraverso la cura degli affari, compiti mondani
e quotidiani, spacciandoli per il proprio dovere morale. Hegel, al contrario,
afferma che questo è un INGANNO o, aggiungo io, un modo per stare apposto
con la coscienza, perché il “mondo animale” dei compiti contingenti
costituisce una dimensione non pura né universale, bensì particolaristica e
legata agli interessi individuali e empirici.
Il filosofo ungherese György Lukàcs ha riconosciuto in questa ulteriore
manifestazione della coscienza il particolarismo utilitaristico della mentalità
borghese. A parer mio è anche una anticipazione di quel falso stadio etico che
il filosofo danese Sören Kierkegaard vedrà incarnato nella figura del “marito”,
appiattito nella logica di un ruolo da assolvere di fronte alla precarietà tragica
e caotica dell’esistenza: il “marito” come simbolo della ipocrisia dei doveri
socialmente accettabili (o socialmente utili) rispetto all’autenticità disperata
dell’esistenza.
Da parte di Hegel, il ripiegare da parte della coscienza nel regno animale dei
bisogni e delle azioni utilitaristiche (corrispondenti alle “regole dell’abilità” di
cui parlava kant rispetto all’assolvimento di Imperativi ipotetici) è un sintomo
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di deriva etica e arretramento rispetto alla responsabilità di prendersi
autenticamente cura di sé.
All’avvertimento di questo inganno, la ragione tenta di uscire dalla
“dispersione” della cura mondana dei propri compiti (scambiati per la “cosa
stessa” cioè il dovere/realizzazione morale), per orientarsi verso una
legislazione universale intrinseca alla ragione stessa: anche in questo caso
sembra esserci un riferimento negativo alla legge kantiana o forma
dell’imperativo categorico che prescrive purezza e incondizionatezza. Vi
ricordate la formula con cui veniva recitato l’imperativo categorico? “Agisci
come se…”. Quel “come se” la dice lunga sul carattere vago e astratto del bel
proponimento della moralità kantiana. Il problema, però, è che c’è
contraddizione/scissione tra una legislazione valida universalmente e la sua
radice individualistica. Ovvero: è contraddittorio che una massima soggettiva,
usando il linguaggio di Kant, possa ergersi a legge universale disinteressata.
Faccio seguire alcuni esempi delle “ricette” di una morale fondata sulle buone
intenzioni ma che suonano come astratte:
- “Agisci come se la massima della tua volontà sia conforme ad una
legislazione universale”;
- “Agisci in modo da trattare gli altri e l’umanità intera come fini in sè e
mai come mezzi”;
- “Non fare agli altri ciò che non vorresti sia fatto a te stesso”;
- “Ama il prossimo tuo come te stesso”;
- “Dire sempre la verità”.
Quest’ultimo imperativo della coscienza individuale, per esempio, non è detto
venga sempre e universalmente assunto da ogni individuo: piuttosto essa
poggia sulle occasioni o accidentalità che di volta in volta vive l’individuo.
Inoltre la verità (che ognuno avrebbe sempre il dovere di dire) non è universale
ma è legata alla “cognizione e all’opinione che ognuno a volta a volta ne ha”
(Hegel).
Insomma si è nel campo del relativismo e non dell’universale realizzazione di
un “Regno dei Fini”. E, peggio, si entrerebbe anche nel campo della più
clamorosa ipocrisia.
Anche porsi nella prospettiva di analizzare una possibile legge universale,
diciamo quasi a tavolino, significherebbe sottoporre quest’ultima al proprio
metro individuale, benché razionale.
Anche in questo caso si è all’interno di un cortocircuito che si genera tra
l’individuale e l’universale, se si rimane nella prospettiva limitata e astratta
dell’individuale stesso. E questa, tra l’altro, è secondo Hegel la posizione che
ha assunto l’Illuminismo; posizione inchiodata agli equivoci del soggettivismo
razionalistico moderno che, come si è detto, si impone a partire dal
Rinascimento e attraverso la Rivoluzione scientifica si è affermata nel
cartesianesimo e nella “rivoluzione copernicana” della centralità dell’intelletto
matematico con Kant.
Eppure la ragione, proprio con Kant, ha raggiunto i suoi vertici alti di
consapevolezza critica quanto a validità, limiti, legittimità e impossibilità: ma
per Hegel si è trattato pur sempre di una ragione inchiodata alle sue
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impossibilità e scissioni non risolte, soprattutto nell’ambito morale di una
ragione che, a-priori, si è pretesa “pura” pratica non potendolo mai essere se
non in un ideale, “virtuale” (virtuoso almeno intenzionalmente ma non di
fatto) regno dei Fini.
Dopo i travagli romanzeschi della coscienza che di volta in volta ha provato a
riscattarsi dal suo stato di “minorità” e passività, traducendosi in
autocoscienza e pervenendo allo statuto di ragione morale, ci si sarebbe
aspettati da parte di Hegel un “lieto fine” del romanzo nella definitiva
riconquista del trono della ragione. Ci si sarebbe aspettati che la conclusione
del viaggio avesse come capolinea la ragione intesa come facoltà individuale
dell’uomo di determinare la realtà sia dal punto di vista conoscitivo, come
ragione teoretica, sia da quello morale, come ragion pratica. Invece no!
Perché?
La seconda parte della Fenomenologia dello Spirito è la risposta a questa
domanda; una risposta che cerco di sintetizzare in una sola formula: Hegel
invita a pensare la ragione non in termini individualistici – soggettivi, bensì in
termini universali come Ragione della Storia o Spirito Assoluto in cui la
ragione individuale deve riconoscersi e per cui deve uscire dai suoi ristretti
ambiti.
La Ragione assoluta della Filosofia o della Civiltà non può essere incarnata da
una singola filosofia o da un singolo uomo, bensì dalla Storia ovvero dallo Stato
che danno fondamento, sostanza etica e senso al singolo individuo,
determinandolo e condizionandolo.
La seconda parte della Fenomenologia dello Spirito tratta appunto della
Ragione che si fa Spirito, anticipando ciò che Hegel nella successiva
Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio tratterà sotto i termini di
Spirito Oggettivo che culmina nello Stato quale incarnazione etica e sostanziale
dello Spirito Assoluto nella storia.
E’ lo Stato che determina l’individuo e la condizione culturale di un popolo e
non il contrario.
2^ PARTE della FENOMENLOGIA DELLO SPIRITO
La seconda parte della Fenomenologia anticipa la Filosofia dello Spirito di
Hegel che culmina nelle tre edizioni della Enciclopedia delle scienze filosofiche
in compendio (1817 ad Heildelberg, 1827 e 1830 a Berlino), nelle Lezioni di
Filosofia della Storia (pubblicate postume dai suoi allievi berlinesi) e, in
particolare, in un testo cruciale del periodo berlinese dedicato all’Eticità, Stato
e Diritto che è Lineamenti della Filosofia del Diritto del 1821.
Le sezioni di questa seconda parte fanno capo alla trattazione di:
A) SPIRITO (la ragione che fa il suo ingresso nella sfera dello Spirito storico
ed etico della società);
B) RELIGIONE (punto di vista in cui la ragione si riconosce nelle
rappresentazioni simboliche dell’appartenenza allo spirito religioso di un
Popolo);
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C) SAPERE ASSOLUTO (punto di vista in cui la ragione si riflette e
riconosce dal punto di vista speculativo del concetto e della Filosofia
dialettica)
Avendo parlato di ragione e avendo visto che in tutte le sue vicissitudini epocali
la ragione ha sempre avuto il destino di inciampare nel circolo vizioso della sua
individualità e quindi nella sua incompiutezza, cosa intende Hegel con la
nozione di “Spirito”?
Perché e quando la ragione si fa “Spirito”?
Lo Spirito non è la ragione individuale pere ciò che è emerso nel passare in
rassegna le precedenti figure limitate della coscienza.
Lo Spirito è la Ragione che si fa mondo, ovvero è la dimensione comunitaria e
culturale di un’epoca in cui la ragione dei singoli è inserita e necessariamente
condizionata; storicamente condizionata; contestualmente condizionata.
La ragione singola che abbia la pretesa di valere come fondamento della realtà
è per Hegel una ragione “meschina”.
C’è un passo della Fenomenologia in cui ciò emerge esplicitamente:
“L’intelligente ed essenziale del bene è l’intelligente, universale operare dello
Stato; operare, al cui paragone, l’operare del singolo diviene qualcosa di così
meschino che non val quasi la pena di parlare”
La struttura tematica della seconda parte della Fenomenologia, come
anticipazione della successiva sistemazione e analisi della Enciclopedia e in
particolare attinente lo Spirito Oggettivo, è articolata secondo le sezioni di
SPIRITO – RELIGIONE – SAPERE ASSOLUTO.
Dato, però, che mi sono proposto di chiudere questo riassunto della
Fenomenologia chiarendo il passaggio dalla ragione allo Spirito, mi soffermo
sulle considerazioni che Hegel fa su come bisogna intendere il processo dello
Spirito nel suo affermarsi come sapere Assoluto. Quindi, limitando la
descrizione sui nessi che riguardano lo Spirito, Hegel ne parla scandendolo nei
seguenti passaggi epocali.
1. “SPIRITO VERO”
Hegel parte dalla considerazione dello “Spirito vero” che corrisponde alla
“bella eticità” o eticità classica della Polis greca in cui si riflette l’immediatezza
partecipata del singolo nella sua Comunità, in quanto cittadino, tanto che
l’individualità stessa viene a perdersi o ad annullarsi in questa immediatezza o
senso di totale appartenenza.
2. “SPIRITO ESTRANIATO NELLA CULTURA”
Qui Hegel evidenzia la trasformazione della immediatezza dello spirito vero
dell’Ellade, in termini di frattura tra l’individuo e la Società. Lo scollamento e
l’estraneazione comincia dall’Età dell’Impero Romano d’Occidente, si
consolida nell’Età Moderna per poi estremizzarsi nella Cultura (Auf-Klarung)
dell’Illuminismo. Questo tipo di Cultura è una cultura critica, demolitrice della
realtà effettuale attraverso o in direzione di ideali astratti come lo è la Cultura
che si scolla dalle contraddizioni presenti senza elaborarle o comprenderle
nella loro complessità storica.
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L’esito di questa crepa tra Società e Cultura, come già detto prima rispetto ad
una Ragione che ha l’arroganza di migliorare il mondo a partire da un ideale
di Virtù assoluto e perfetto, è esemplificato dal Terrore in cui è culminata la
Rivoluzione Francese.
3. “RICONQUISTA DELL’ETICITA’”
Il termine ri-conquista allude all’elemento speculativo di riconquista unitaria
di sé da parte dello Spirito nella ricomposizione e comprensione delle
contraddizioni che lo hanno disperso o estraniato nella storia.
La riconquista passa attraverso l’Eticità come mediazione delle fratture tra
l’individuo e la vita della Società a cui l’individuo appartiene. Perché questa
mediazione emerga e si compia è stato necessario passare attraverso il
travaglio delle contraddizioni e chiusure di tutte le figure precedentemente
illustrate: dall’anima bella del sentimentalismo romantico alla moralità
astratta di tipo kantiano o attinente alle “leggi del cuore”, fino alla fede o allo
slancio ascetico come espressione del rifiuto del mondo in prospettive
trascendenti, di salvezza, di eternità attraverso anche la devozione e la
mortificazione di sé.
In realtà Hegel riconosce che la Religione è servita allo Spirito di un Popolo per
rappresentarsi, sia pur simbolicamente, l’Assoluto ma, appunto, rimanendo in
un ambito di semplice rappresentazione, non pervenendo alla mediazione
concettuale tipica della visione speculativa della filosofia che è la sola a poter
garantire il ritorno in sé e per sé dello Spirito in termini di spere Assoluto.
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