DEMOCRAZIE POPOLARI Regimi dei paesi dell'Europa orientale che dopo la Seconda guerra mondiale entrarono a far parte dell'orbita sovietica. L'espressione "democrazia popolare" fu utilizzata per la prima volta nel 1945 da Tito. Essa avrebbe dovuto servire da fondamento teorico per i comunisti est-europei, per molti dei quali il modello sovietico di dittatura del proletariato non era applicabile alla realtà dell'Europa orientale. In questo senso, il fallimento dei tentativi di costituire, subito dopo la rivoluzione russa, delle repubbliche "sovietiche", ispirate ai principi dottrinali sovietici, in Ungheria (1919), in Slovacchia (1919) e in Polonia (1920), fu ritenuto da alcuni dirigenti comunisti est-europei, soprattutto tra il 1944 e il 1946, un monito contro una eccessiva rigidità dottrinale. Era opinione di W. Gomulka, di K. Gottwald o di G.M. Dimitrov che le categorie bolsceviche andassero applicate in modo elastico alla situazione est-europea, adeguandole alle rispettive condizioni di ciascun paese. Considerato che i partiti e le forze borghesi erano ancora forti e partecipavano attivamente ai governi di coalizione postbellici, si sottolineava la necessità della formazione di un vasto fronte democratico, che comprendesse anche la borghesia progressista; significativa a questo proposito la definizione data dal bulgaro Dimitrov: la Bulgaria non sarà una repubblica dei soviet ma una repubblica popolare, nella quale le funzioni di governo saranno svolte da una stragrande maggioranza popolare: operai, contadini, artigiani e intellettuali. In questa repubblica non ci sarà alcun genere di dittatura. La questione venne formulata in maniera più precisa ed estesa dall'ungherese Martin Horvath, il quale asserì che, poiché una democrazia popolare non elimina il diritto di possedere i mezzi di produzione, può essere semplicemente considerata come la forma più progressiva di democrazia borghese (o, più correttamente, come la sua sola forma progressiva). Infine, la tesi degli studiosi sovietici sosteneva che la democrazia popolare non dovesse essere confusa con una democrazia proletaria, essendo quest'ultima sostanzialmente identica alla dittatura del proletariato, caso questo difficilmente identificabile con le esperienze dell'Europa orientale; non si trattava, quindi, di stati capitalistici nel senso abituale del termine, ma neanche di stati socialisti. In base a questi principi, l'Unione sovietica e alcune democrazie popolari stabilirono relazioni di tipo tradizionale, trattati di amicizia e di alleanza basati sull'eguaglianza tra cofirmatari, ma, poiché le democrazie popolari venivano ideologicamente considerate dai sovietici alla soglia dello sviluppo socialista, l'Urss, convinta sotto questo aspetto di essere più progredita, si attribuiva implicitamente (e più tardi esplicitamente) un ruolo guida, preparando, di fatto, la subordinazione ideologica dei futuri regimi comunisti dell'Europa orientale. Stalin e la guerra fredda: la nascita delle democrazie popolari La vittoria sulla Germania modificò completamente la qualità e la quantità dell'influenza sovietica in Europa e nel mondo. Nel vecchio continente, mentre si profilava l'ineluttabile divisione del grande paese sconfitto, i comunisti guadagnavano posizioni di prestigio e di forza contrattuale in tutti i paesi liberati. Nei Balcani i partigiani comunisti avevano vinto autonomamente in Jugoslavia e in Albania. I comunisti Greci tentarono di giungere al potere tramite l'insurrezione. In Italia e in Francia i locali partiti comunisti conoscevano una rapida ascesa elettorale. Nei paesi del sud del mondo e in particolare in Asia le mire nazionalistiche e anti-coloniali acquisivano sempre maggiori sfumature socialiste. L'URSS si stava trasformando da paese assediato e isolato dell'ante-guerra a superpotenza capofila di un sistema politicoeconomico e ideologico con responsabilità e influenza mondiali. Tale ascesa si concretizzò con la formazione delle democrazie popolari nei paesi dell'est Europa e con la vittoria di Mao in Cina, ma comportò l'instaurarsi di un clima molto teso con gli Stati Uniti e i suoi alleati. Lungo i confini delle rispettive sfere delineate a Jalta i due blocchi contrapposti cominciarono a scontrarsi. Il culmine fu raggiunto con il blocco di Berlino (1949) e con la guerra di Corea (1950-53). L'Unione Sovietica mobilitò immense risorse per recuperare il gap atomico nei confronti degli americani. La corsa al riarmo procedette a tappe forzate. Sul fronte interno l'URSS dovette fare i conti con la prima defezione rilevante: successivamente a crescenti divergenze politiche la Jugoslavia venne espulsa dal Cominform (ufficio di informazione dei partiti comunisti). Proprio mentre se ne costruivano le fondamenta, il sistema socialista internazionale mostrava le prime evidenti crepe. I regimi comunisti in Europa orientale e la cortina di ferro Nell'Europa dell'est il potere comunista si insediò attraverso un processo politico che durò tre-quattro anni. I locali partiti comunisti non salirono subito al potere con l’arrivo dell'Armata Rossa, ma la loro ascesa fu caratterizzata da eventi drammatici, lotte e compromessi inseparabili dal contesto della politica internazionale. Alla vigilia della liberazione la situazione dei vari partiti comunisti nell'Europa dell'est era assai differente, vuoi per il diverso ruolo svolto durante l'occupazione nazista, vuoi per la legittimazione ottenuta attraverso la resistenza. In tutti i paesi dell'est si formarono governi provvisori di coalizione formati da tutti i partiti anti-fascisti (ad eccezione di Jugoslavia e Albania dove i comunisti ebbero il completo monopolio del potere). In particolare in Bulgaria e Cecoslovacchia i comunisti rappresentavano una forza elettorale significativa. Tuttavia in paesi come Polonia, Romania e Ungheria solo la presenza dell’Armata Rossa poté comportare una spinta verso la ricostituzione e il radicamento dei locali partiti comunisti. La situazione di ambiguità venutasi a creare si può spiegare anche in termini ideologici. Ritornato in Bulgaria nel 1945, lo storico leader dell'Internazionale Comunista Georgi Dimitrov elaborò la teoria secondo cui la “democrazia popolare” è un potere democratico, che risiede nella cooperazione di partiti politici antifascisti, con un ruolo essenziale dei comunisti e delle forze della sinistra. Quindi la “democrazia popolare” non era la “dittatura del proletariato” e rappresentava un modello di sviluppo sociale differente da quello dell’URSS staliniana. Ma Stalin per il momento ritenne opportuno accettarlo, spinto da considerazioni di carattere geopolitico e dalla condizione oggettiva dei partiti comunisti, non ancora maturi per detenere il potere mono-partitico. Dopo la fine della guerra pare che il despota si fosse convinto della necessità dicreare attorno alla frontiera sovietica un “cordone sanitario” di stati amici, ripudiando implicitamente la disgraziata scelta del 1939 di spartire la Polonia con la Germania e quindi di porre a contatto il confine sovietico con quello tedesco. Ma tradotto nell'ottica occidentale questo “cordone sanitario” significava la presa del potere comunista e la fine del pluralismo in Europa dell'est. Tuttavia i partiti comunisti dei paesi euroorientali non furono molto più avvantaggiati di quanto non lo furono le forze conservatrici in Europa occidentale e dovettero consolidare le propri posizioni con una propria capacità di iniziativa politica. I comunisti animarono riforme che furono subito molto popolari, come la riforma agraria, la nazionalizzazione delle maggiori industrie e l’avvio di una pianificazione dell'economia. Nel marzo del 1946, ospite di Truman in una conferenza nel Missouri a Fulton, Winston Churchill pronunciò un discorso destinato a restare famoso, il quale rappresentò la formulazione di una piattaforma programmatica e ideologica e l'inizio di una nuova contrapposizione su scala globale. Egli accennò a “disegni di uomini maligni” e allo “spirito aggressivo di potenti nazioni”. Poi procedette in termini più espliciti ringraziando la provvidenza per non aver concesso il monopolio atomico a “qualche Stato comunista o neofascista”. Poi un affondo: “Nessuno sa ciò che la Russia sovietica e la sua organizzazione internazionale intendono fare nell'immediato futuro o quali siano i limiti, se ce ne sono, alle loro tendenze all'espansione e al proselitismo”. E infine: “da Stettino sul Baltico a Trieste sull'Adriatico è scesa sul continente europeo una cortina di ferro”. Seguì una descrizione dei “governi polizieschi” che vi si stavano insediando. Il discorso di Churchill annunciò la fine della collaborazione tra i vincitori e aprì quella che, col senno di poi, è stata definita “guerra fredda”. In pratica l'ex primo ministro inglese annunciava al mondo la pericolosità di un nuovo potente nemico della democrazia e chiamava il “mondo libero” a prendere le misure necessarie a contrastarlo sotto la guida della cultura anglo-sassone, liberale e cristiana. I pilastri della politica estera sovietica: un realismo basato su calcoli irrealistici A Mosca il discorso provocò collera e allarme. Stalin rispose al suo nuovo avversario dalle pagine della Pravda sottolineando il fatto che l'aggressività di Inglesi e Americani non fosse in sintonia con le aspirazioni dei popoli alla pace, raggiunta a caro prezzo dopo cinque crudeli anni di sangue. Tuttavia questa aggressività confermò ai dirigenti sovietici la giustezza della tesi leninista secondo la quale il paese dei soviet sarebbe stato sempre osteggiato e accerchiato dalle nazioni capitaliste, a prescindere dalla linea politica internazionale intrapresa. Questo modo di ragionare, non del tutto privo di fondamento, impedì ai dirigenti sovietici di sfruttare appieno le simpatie maturate in occidente. Vi era in loro una scarsa conoscenza del mondo esterno e quindi una limitata capacità di alimentarvi quei consensi che la guerra antifascista aveva stimolato. La diplomazia staliniana fece alcuni passi falsi, come le rivendicazioni territoriali nei confronti dell’Iran e della Turchia, che ricordavano troppo da vicino le vecchie aspirazioni zariste e che non potevano esser soddisfatte in alcun modo senza il consenso degli alleati o senza un disastroso ricorso alla forza. Su entrambe le questioni Stalin dovette battere in ritirata. L'URSS non ottenne soddisfazione ma intanto offrì il destro a tutti i gruppi che le erano ostili per dare inizio alle campagne di opinione e alle prime offensive diplomatiche antisovietiche. La mentalità e le opinioni di Stalin nelle decisioni inerenti la politica internazionale furono determinanti nell'affermazione di uno scenario da “guerra fredda” e possiamo schematizzarle nei seguenti punti. Sopravvalutazione del ruolo che l'Impero britannico avrebbe giocato nel mondo post-bellico e una conseguente sottovalutazione della risolutezza e della determinazione statunitense di emergere come prima potenza mondiale e di svolgere in Europa un ruolo di primo piano. Convinzione che il momentaneo monopolio atomico statunitense non dovesse destare particolari preoccupazioni. Davanti all'eventualità di una nuova guerra per Stalin continuavano ad essere fondamentali l'espansione territoriale raggiunta e l'importanza attribuita alla volontà (il fattore morale in guerra). Per il dittatore i popoli occidentali erano moralmente deboli e poco inclini ad un nuovo sanguinoso conflitto e i governi non avrebbero potuto scatenare una guerra contro l'URSS neanche volendo. Sopravvalutazione dei successi ottenuti dalla ricostruzione in URSS e la convinzione che una nuova grave crisi economica stesse per colpire l'occidente capitalistico. Pare che agli occhi dei sovietici il piano Marshall, inaugurato nel giugno 1947, non fosse solo un programma di sostegno economico a scopo propagandistico antisovietico ma soprattutto un modo con il quale gli Stati Uniti stavano cercando di limitare una grave crisi di sovrapproduzione. Convinzione che le “contraddizioni inter-imperialistiche” sarebbero state col tempo superiori all'antagonismo tra occidente e URSS. All'interno del mondo accademico sovietico non tutti concordarono su questa linea, ma alla fine essa prevalse. Inoltre l'URSS poteva contare su numerosi amici dentro i paesi occidentali, in particolar modo laddove i comunisti e i progressisti aumentavano il loro consenso e il loro radicamento sociale. Le convinzioni di Stalin si rivelarono in gran parte errate e i suoi successori dovettero fare i conti con una impostazione della politica di sicurezza sovietica calibrata su calcoli errati e visioni ormai superate delle relazioni internazionali. Con lo scoppio della guerra di Corea i sovietici dovettero rendersi conto che gli Stati Uniti erano determinati a contenere l'espansione del comunismo nel mondo molto più di quanto non si fosse convinti a Mosca. Dovettero anche arrendersi all'idea che una nazione potente e risoluta, modernamente armata e in impetuosa crescita economica stava innanzi a loro. La ricerca della sicurezza: sovietizzare l'Europa orientale Dopo la morte di Stalin tutti i piani di difesa nazionale dovettero essere modificati sulla base dell'accresciuta importanza strategica delle armi atomiche. Inoltre nel 1949, con la stipula del patto Atlantico, l'Europa occidentale (Francia e Inghilterra in particolare) si ponevano sotto l'ombrello statunitense e ne riconoscevano implicitamente la superiorità dentro il proprio campo. L'unica vera spina nel fianco per il capitalismo occidentale fu vissuta sul terreno della decolonizzazione e della spinta dei popoli del terzo mondo verso l'indipendenza nazionale. Ma proprio su questo terreno, laddove il capitalismo fu più esposto davanti alle proprie contraddizioni, maggiore fu la sottovalutazione staliniana del fenomeno. Tuttavia bisogna essere disposti a riconoscere che quella di Stalin fu una “linea di risposta” ad un mutamento della politica estera americana la quale, dopo la morte di Roosvelt, fu impostata sulla base della convinzione che la situazione venutasi a creare dopo il conflitto non poteva più essere accettata perché troppo vantaggiosa per l'URSS. Questa infatti era troppo prostrata e coinvolta nella risoluzione dei propri problemi interni per giocare una partita basata sul rialzo della posta. Fu l'America, forte della sua superiorità militare ed economica, ad alzare la posta e a convincere Stalin che la fase dell'alleanza antifascista era ormai terminata e che le concezioni che avevano animato fino a quel momento la strategia di difesa sovietica andavano riviste. Stalin decise di trasformare le “democrazie popolari” in un campo compatto e monolitico, basato sul modello sovietico e sulla direzione sovietica. In questo modo l'URSS cercava aldilà dei propri confini la certezza del controllo e quindi della propria sicurezza. Questo processo di sovietizzazione dei paesi dell'est fu accompagnato dal ritorno alle spietate forme di repressione del dissenso e di politica economica che caratterizzarono lo stalinismo nei primi anni trenta. Il documento più importante della svolta può essere considerato la relazione tenuta da Andrej Ždanov alla riunione costitutiva del Cominform (ufficio di informazione dei partiti comunisti) nel settembre del 1947. In presenza dei delegati dei partiti comunisti dell'Europa orientale e di quello italiano e francese, il dirigente sovietico affermò che la fase delle coalizioni antifasciste, sia a livello internazionale che nazionale, doveva considerarsi chiusa, e che gli Stati Uniti si ponevano alla testa di un nuovo “campo della guerra” contro il “campo della pace e del socialismo”. Si trattava di dar vita ad uno schieramento del tutto nuovo, diretto da un unico centro e basato sulla subordinazione incondizionata di tutti gli Stati del blocco e sull'obbedienza assoluta alle direttive del Cremlino, legittimato a intervenire negli affari interni dei partiti e dei paesi. Si trattava di una svolta che bloccava le sperimentazioni avviate lungo le linee delle “vie nazionali al socialismo” e obbligava i governi ad adottare misure di organizzazione e di direzione dell'economia del tutto simili al modello sovietico. Così i paesi dell'est dovettero subire le conseguenze dell'affermazione del modello dello “stalinismo esportato”. Queste furono le sue principali caratteristiche: sottrazione di risorse all'agricoltura per sostenere l'accumulazione e l'industrializzazione, privilegiando in particolare l'industria pesante piuttosto che quella leggera; attribuzione allo Stato di poteri assoluti di controllo e di direzione dell'industria e dell'agricoltura, nonché di compiti di pianificazione e gestione dell'economia nazionale e delle singole aziende; formazione di un sistema di controllo e di organizzazione della società attraverso un partito unico o partito-Stato, identificato e accorpato agli organi di governo e collegato alla società attraverso delle cinghie di trasmissione (i soviet, i ministeri, i sindacati, gli organi giudiziari, le associazioni di categoria) prive di autonomia; conquista e mantenimento del consenso attraverso un particolare patto sociale basato sull'egualitarismo, sulla garanzia per tutti i cittadini della piena occupazione, di un salario minimo garantito, di servizi essenziali, seppur modesti e inadeguati (la casa, la sanità, l'istruzione, la vecchiaia), su rapporti di lavoro basati su ritmi, produttività e qualità decisamente bassi e sull'ideologia socialista come strumento di unificazione e di massificazione; eliminazione, attraverso mezzi di repressione imponenti e spietati (“metodi amministrativi”, processi farsa basati su prove estorte con la tortura degli imputati, costruzione di campi di internamento), di ogni forma di dissenso e opposizione, in nome della difesa del socialismo. Gli esiti della sovietizzazione: stalinismo e scisma jugoslavo Il contrattacco di Stalin alla politica americana aggravò la spaccatura dell’Europa e del mondo. Gli Stati Uniti avevano spezzato le vecchie alleanze antifasciste in Europa occidentale, promuovendo l'espulsione dei comunisti e dei socialisti dai governi di coalizione. In risposta l'URSS non cercò di difenderle, ma le demolì a sua volta. Questa fu la logica della guerra fredda: gli uni e gli altri accentuarono il controllo delle proprie sfere di influenza. Ai paesi schierati con Mosca i sovietici chiesero una maggiore identificazione con il loro sistema ed esportarono insieme al modello economico e politico anche le contraddizioni e le brutalità (anche se su scala assai ridotta) che ne accompagnarono l'edificazione in URSS. Tali metodi gettarono nello sgomento ampi settori dell'opinione pubblica che in occidente avevano nutrito simpatia o neutralità benevola nei confronti dello Stato sovietico. Tali metodi furono anche la causa del primo scisma all'interno del campo comunista. Infatti nel 1948 la Jugoslavia venne espulsa dal Cominform, il partito comunista locale e il suo leader Tito divennero il simbolo di una nuova eresia che causò una caccia alle streghe in tutta l'Europa orientale. Tuttavia non fu l'inesistente “revisionismo” di Tito a offendere Stalin (in realtà, prima del 1948, la Jugoslavia si vantava di essere il paese più somigliante all'URSS e tale posizione di prestigio le fu riconosciuta da tutti i partiti fratelli) ma piuttosto il rifiuto jugoslavo di permettere all'URSS di intromettersi nelle faccende interne di politica economica e di politica estera. In particolare Stalin fu allarmato dal progetto di Tito di formare una federazione di Stati socialisti dei Balcani con Bulgaria, Albania ed eventualmente la Grecia. L'autonomismo di Belgrado e la sua intraprendenza dovettero apparire inaccettabili agli occhi del despota, che mirava invece a cancellare ogni forma di “via nazionale” e imporre il ruolo dirigente dell'URSS nel quadro di un “campo monolitico”. Gli stalinisti degli altri paesi dell'est ne approfittarono per chiudere i conti, sotto la guida scrupolosa dei servizi di sicurezza sovietici, con i locali sostenitori delle “vie nazionali”. Nonostante le repressioni e la decapitazione di interi quadri dirigenti, nei paesi dell’est l'aspirazione ad un socialismo nazionale e a forme di sperimentazione originali e alternative non sparirà mai e riaffiorerà all'interno e all'esterno del partito unico, segnando profondamente la storia del campo comunista fino al suo scioglimento. Coloro che dovettero fare i conti con l'eredità dello stalinismo cercarono nella prima fase delle democrazie popolari e delle “vie nazionali” le ragioni e le radici dei loro impulsi riformistici in materia di relazioni internazionali.