Pagina 162 Entriamo nel Libro dell’ ESODO L’arduo cammino della Libertà nella Responsabilità Con il sostegno divino SHEMOT Nomi “Questi sono i nomi dei figli di Israele venuti in Egitto” “I figli di Israele furono fecondi…aumentarono moltissimo….il paese fu pieno di loro” “Sorse un nuovo re alla testa dell’Egitto, che non aveva conosciuto Giuseppe” NOMI - E’ la prima parola, che dà il titolo ebraico al libro dell’Esodo, il libro della metamorfosi di un modesto clan in un popolo, attraverso la crescita demografica in un grande paese straniero. Invero la crescita demografica non sarebbe bastata per tale sviluppo, se alle origini e nell’anima del clan non vi fosse stata la premessa e la promessa di divenire un popolo e più che un popolo, una civiltà e un retaggio spirituale nel segno della benedizione dall’alto. Cambia poco, ma, per la precisione, il gruppo di ebrei immigrati in Egitto, contava più di settanta, quasi duecento, dovendo comprendere le donne e i fanciulli, come si è detto nel commento precedente. Ora, infatti, è chiarito il criterio di censimento, basato sui capi famiglia: dei 70 Ish uveitò, [ogni] uomo e sua casa (famiglia). Il tempo corre. Giuseppe e i suoi fratelli, i loro figli, i loro nipoti sono morti. Altre generazioni del casato di Giacobbe si susseguono in terra di Egitto. Anche il testo biblico corre. Ci narra di loro in estrema sintesi, dicendo soltanto che divennero molto numerosi, addirittura potenti e che il paese fu pieno di loro. Certamente, divennero assai numerosi rispetto all’esiguità iniziale, ma vi è un’esagerazione, nella quale si echeggia la valutazione esterna di ambienti egiziani, che osservavano la crescita di una minoranza allogena all’interno del paese. Poi, come avviene, l’esagerazione fatta dall’esterno, si congiunge con una sottesa soddisfazione della minoranza, nel vedersi crescere e acquistare influenza. Il Libro dei giubilei, un interessante testo non entrato nel canone ebraico e salvato dalla cultura etiopica in lingua gheez, aggiunge, idealizzandoli, che gli ebrei erano solidali tra loro Pagina 163 e si volevano fraternamente bene. Anche questa è una credenza diffusa tra i non ebrei circa gli ebrei e va bene se gli ebrei, nel compiacersene, mettano in atto tanta concordia e solidarietà, non dimenticando la concentrica solidarietà umana. Il libro dei Giubilei, su cui tornerò, è pubblicato negli Apocrifi dell’Antico Testamento a cura di Paolo Sacchi, in edizione UTET. Gli storici delineano un contesto politico generale, fatto non solo di una maggioranza egiziana e di una minoranza ebraica, ma di una più larga immigrazione e infiltrazione di popolazioni venute dall’Est, estesa al punto di occupare posizioni di potere e finanche di esercitare il potere regio con una dinastia di origine straniera. Il gruppo più forte di queste popolazioni e il nome saliente che designa la grande immigrazione-infiltrazione è HYKSOS. Nelle fonti egizie, compare anche un altro nome di elementi allogeni, HABIRU, che si èipotizzato potersi riferire agli Ivrim, gli ebrei. Secondo altri, la radice HBR simile a HVR indica degli associati, dei federati (confrontare con l’ebraico ebraico Hevrah) o gruppi e bande di soldati mercenari o dipendenti pagati per altre prestazioni, che a volte avanzavano pretese o si ribellavano. Può essere che nella sopravvalutazione biblica del numero e dell’influenza dei discendenti di Giacobbe entri la sensazione data dal contestuale afflusso di altre popolazioni venute da Est, con le quali c’erano elementi di affinità. Si ritiene che il faraone, a fianco del quale Giuseppe ebbe un importante ministero, fosse della dinastia Hyksos. E’ allora pensabile che la dinastia Hyksos si fosse integrata nell’Egitto, si identificasse in un Egitto pluriculturale e agisse, o ritenesse di agire, per il suo bene. Gli ebrei, nel solco dell’integrato Giuseppe, facevano probabilmente lo stesso. Dovevano essersi integrati, perfino assimilati, in notevole misura, nella società e civiltà egiziana, pur conservando certe loro caratteristiche, tra cui, in gran parte, l’onomastica e l’importante elemento della lingua ebraica. Vi erano probabilmente matrimoni misti di ebrei e di egiziani, come risulta da un esempio recato nel capitolo 24 del Levitico, ma si veda, in contrario, più in là, il commento di Rashì a pp. 172 - 173. Non dimenticarono l’ebraico e si può ritenere che fossero, in gran parte, bilingui, tra l’ebraico e la lingua egizia. Le successive esperienze storiche della diaspora ebraica nel mondo antico, medievale e nel mondo moderno dall’emancipazione ad oggi aiutano, per presumibili analogie, a rappresentarci la situazione degli ebrei in Egitto; tanto più che lo stesso Egitto, più tardi, in epoca ellenistica, divenne un primario centro della diaspora. La loro principale occupazione era rimasta la pastorizia ma altri lavori si erano aggiunti, come dimostrano le Pagina 164 abilità dimostrate durante l’esodo, e più tardi si diedero anche alla professione militare, come nella colonia di Elephantina. Cambiano le condizioni dal favore dei primi faraoni ai provvedimenti oppressivi di successivi sovrani faraoni. Nella sofferenza della collettiva schiavitù, giunge il soccorso divino, con la scelta delle guide, la liberazione e la rivelazione. Nel XVI secolo avanti l’era cristiana avvenne la riscossa nazionale egizia contro gli Hyksos. Sull’onda lunga della ristabilita fisionomia originale egizia si emarginarono le minoranze allogene, tra cui doveva spiccare la discendenza di Giacobbe. Le sue ricchezze, quali che potessero essere, facevano gola allo Stato e a privati egizi. Le loro braccia, come tutte le braccia da adibire a lavoro non rimunerato, con poca spesa di mero sostentamento, in società ad economia schiavistica, apparvero un facile ingrediente da sfruttare per la politica di imponenti lavori pubblici dei nuovi Faraoni, con costruzione di nuove città. Lo farà, analogamente, da parte ebraica, il re Salomone, sottoponendo a lavori obbligatori per progetti edilizi ed urbanistici i discendenti di popolazioni non ebraiche rimaste in terra di Israele (emoriti, ittiti, perizei, hivvei, gebusei) e continuarono a farlo i successori: ce lo dice il primo libro dei Re al capitolo 9. Tuttavia, contemporaneamente, i primi grandi re di Israele promossero competenze per importanti servizi tra le popolazioni del paese e fra stranieri di fuori del paese. Il Faraone spiega il piano persecutorio al suo popolo, si direbbe per convincere l’opinione pubblica alla svolta politica verso una minoranza, e siamo edotti dalla campagna antiebraica negli anni ’30 – ’40 del Novecento, di qualcosa di simile, per meglio comprendere il discorso del sovrano agli egiziani, che si potevano stupire delle restrizioni a carico di una gente che conoscevano, che viveva tra loro oppure in zona contigua a loro, avendo elementi di vita in comune. Così è reso, in sintesi, nella Torah: <<Ecco, il popolo di Israele è più numeroso e più potente di noi. Orsù, agiamo con saggezza (scaltrezza, previdenza) nei suoi riguardi, affinché, moltiplicandosi non accada che, accadendo una guerra, si unisca ai nostri nemici e combatta contro di noi e salga (fuori) dal paese>>. In questa sorta di avviso o di proclama, il faraone esprime la preoccupazione per il pericolo di una massa straniera, quale quinta colonna, che si sollevi in appoggio a un esercito straniero dall’interno del paese nel corso di Pagina 165 una guerra. L’Egitto combatteva frequenti guerre contro altre potenze ed il pericolo, se adottiamo il punto di vista del governo egiziano, poteva effettivamente sussistere, ma ciò fa pensare che già con questa massa straniera, non integrata, non corressero buoni rapporti, mentre la florida condizione degli ebrei, da secoli in Egitto indurrebbe a pensare che non avessero propositi ostili od eversivi e che anzi fossero interessati a concorrere alla difesa del paese in caso di attacco esterno. essere di favorirne Ad ogni modo, temendoli, la soluzione avrebbe potuto l’emigrazione, ma l’ultima parte del periodo rende problematico il discorso, perché il faraone si preoccupava anche che gli ebrei uscissero dal paese. vuol dire? Che A nemico che fugge non si fanno ponti d’oro? Un’ipotesi è che si trattasse della provincia di Goshen, dove gli ebrei, per decisione di Giuseppe e autorizzazione del suo faraone, si erano insediati: cioè che, uscendo da quella provincia, dove erano stanziati, potessero dilagare in tutto l’Egitto. Ma, poco prima, il testo biblico ha detto che gli ebrei erano divenuti potenti e che <<il paese fu pieno di loro>>. Quale paese fu pieno di loro? Solo Goshen, dove all’inizio dovevano essere una minoranza e dove stavano diventando la maggioranza? Oppure il complesso dell’Egitto, dove, uscendo dalla zona assegnata, si stavano spargendo? Una tesi, per spiegazione storica, è che l’Egitto era impegnato, con operazioni di stazionamento e talora di guerra, nel controllo della terra di Canaan (a Timnah si conserva bene il resto archeologico di un tempio egizio), dove probabilmente c’erano ancora, tra i ribelli al dominio egiziano, degli ebrei non emigrati in Egitto (già lo si è detto nei commenti a parashot precedenti), sicché una massa di ebrei fuoriusciti dall’Egitto, in cerca di una patria indipendente, si sarebbe unita alla resistenza indigena o a nuove ondate di popolazioni asiatiche che, traversando la terra di Canaan, tendevano a penetrare in Egitto. Il Libro dei giubilei narra, a questo proposito, di un Mamekeron, re di Canaan, che riuscì ad uccidere in battaglia un re egiziano ed inseguì gli egiziani tentando di entrare nel grande paese, ma fu fermato dal rafforzamento dell’Egitto sotto un nuovo faraone. Il testo biblico è conciso e dall’esternazione regia del temuto pericolo passa al provvedimento del lavoro coatto nel settore edilizio (durissimi lavori di malta e di mattoni), con costruzione di nuove città, e in altri settori produttivi, tra cui l’agricoltura. L’assoggettamento al lavoro coatto è organizzato con una amministrazione di appositi funzionari, saré missim Vaiasimu alav saré missim E stabilirono su di esso (sul popolo dei figli di Israele) funzionari dei missim Pagina 166 Il singolare di questo sostantivo è mas, che indica una tassa, un tributo, oppure una imposizione di lavoro In Francia si chiamava corvée, una prestazione di lavoro dovuta dagli umili ai signori feudali. Dunque il governo egiziano risolve il pericolo della massa straniera togliendole libertà di movimenti, controllandola strettamente e obbligatorio. Dal sfruttandola piano politico – militare si passa economicamente con il lavoro alla riduzione in servitù e alla convenienza economica nello sfruttamento del lavoro coatto per lo Stato. Malgrado la riduzione in condizioni miserevoli, la popolazione ebraica aumentava per la forte natalità. Questa avrebbe potuto convenire all’Egitto, ora che gli ebrei erano asserviti e strettamente controllati, per crescita di manodopera a basso costo, come avveniva nelle piantagioni dell’America al tempo dello schiavismo, per il valore economico dell’uomo ridotto in schiavitù. Invece il governo faraonico torna a preoccuparsi per il gran numero degli ebrei e passa dalla politica di sfruttamento umano, per convenienza economica, alla politica genocida di annientamento con l’ordine dato alle levatrici ebree di eliminare alla nascita i maschi, lasciando vivere le femmine. L’apparente clemenza verso la metà femminile del popolo si sarebbe risolta, entro non molto tempo, nella scomparsa del popolo stesso, come identità etno-culturale, per la fine dei congiungimenti tra ebrei. Questa era già una soluzione finale, in capo a una generazione o due, del problema ebraico. Anzi la tradizione dice che coniugi cominciarono già ad astenersi dai rapporti sessuali per non far nascere bambini destinati alla soppressione. La soluzione finale hitleriana reca luce per lo scioglimento della contraddizione che c’è nella formula schiavizzazione più genocidio: schiavizzare gli adulti atti al lavoro e sopprimere i bambini insieme a tutti i non abili, quindi una schiavizzazione a tempo, buona per una generazione. Questa cosa è nettamente contraria al puro disegno economico dello schiavismo normale e tradizionale, che invece alleva i bambini, come gli animali, per perpetuare il patrimonio. Nel caso hitleriano ci sono due spiegazioni dell’ assurdo economico: l’elemento psicologico dell’odio di razza e la connessa deliberazione di far presto per risolvere la questione ebraica in pochi anni, durante il trambusto della guerra mondiale. L’ordine dato alle levatrici ebree, che si chiamavano Shifrah e Puah, di eliminare i connazionali maschi alla nascita, suppone, nell’ottica del faraone, un condizionamento degli ebrei oppressi alla collaborazione nell’oppressione ed eliminazione dei loro fratelli. E’ un problema serio che si pone nella storiografia della shoah, ed il comportamento intelligentemente renitente delle due donne suona, in contrario, a prova di una capacità di Pagina 167 resistenza e di fratellanza tra gli oppressi. Al rimprovero del faraone (o di suoi funzionari) per aver lasciato in vita i maschi esse risposero vantando la robustezza delle donne ebree che partoriscono prima di aver bisogno del loro intervento. Sicché il faraone rinuncia alla soppressione immediata in sala parto e ordina che ogni neonato maschio ebreo sia gettato nel Nilo. E’ a questo punto che nasce Moshè, l’uomo destinato alla liberazione del popolo ebraico, da Amram e Jokheved (i nomi dei genitori compaiono nella successiva parashah Vaerà), e viene posto dalla madre, dopo tre mesi dalla nascita, in un cesto spalmato di pece e bitume, sulla riva del Nilo. Lo affida alla sorte ed alla provvidenza, che si fa strada attraverso chi meno si sarebbe potuto immaginare, la principessa di Egitto, figlia del Faraone, venuta con le sue ancelle a prendere un bel bagno nel fiume allora salubre e non inquinato. La figlia del re è la prima a disobbedirgli. Vede un cesto galleggiare, se lo fa portare da un’ancella, lo apre, vede un bel bambino e capisce che è un bambino degli ebrei, affidato alla buona sorte. Vatered bat parò lirhoz al haieor Vatterè et hatevah Vatishlakh et amatah vattikahea Vatiftah vattirehu et haieled La principessa lo dà da allattare ad una donna ebrea, che, guarda caso, è la mamma, appostata trepidamente nelle vicinanze, grazie al provvido accorrere della figlia Miriam, vigile nei paraggi per seguire il fratellino. Quando il fanciullo esce dalla prima infanzia, la madre lo conduce alla principessa, che lo aveva evidentemente richiesto. La figlia del Faraone lo adotta, gli mette nome Moshè dalla radice ebraica hoshia, che vuol dire salvare perché è stato salvato dalle acque. Tale è la spiegazione che la Torah dà del nome, congrua con la salvezza del fanciullo dalle acque in lingua ebraica, ma alla luce dell’egittologia, essendo la principessa egiziana, il nome Mosè è riconducibile ad un vocabolo egiziano che vuol dire figlio o ragazzo: un ragazzo, un figlio per antonomasia, che la principessa ha adottato ed ha educato a corte. Il termine mose si trova, come suffisso, in celebri nomi egizi, Pagina 168 quale Tutmosi, nome portato da ben quattro faraoni di una dinastia regnante in un tempo precedente, non di molto, rispetto alla nostra vicenda. Il Libro dei giubilei ci dà il nome della principessa egiziana: Tarmut, o Termuti. Da questa fonte lo prese, nell’opera Antichità giudaiche, Giuseppe Flavio. Il Libro dei giubilei narra inoltre che il padre di Mosè (chiamato Enbaram, invece che Amram, come attestato nella Torah) proveniva da Hebron in terra di Canaan. Sarebbe cioè stato uno degli ebrei rimasti là, o discendente di ebrei venuti in Egitto in una ondata migratoria successiva rispetto al tempo di Giuseppe e di Giacobbe. Sempre secondo il Libro dei giubilei, sarebbe stato il padre a dare istruzione a Mosè e addirittura a introdurlo a corte. In una comparazione di racconti leggendari, la salvezza del bambino dalle acque ricorre per altri grandi personaggi dell’antichità, in particolare il re Sargon, fondatore della dinastia accadica, vissuto molto prima della nostra vicenda. La leggenda ha precedenti ed analogie, ma è bene ambientata nello scenario egiziano, con centralità del Nilo e della Corte, e si staglia nella situazione del popolo ebraico oppresso, quando nasce e cresce avventurosamente il liberatore per vie della provvidenza. Del resto, anche dalla storia recente, emergono casi di bambini salvati in circostanze eccezionali di nascondiglio, di esposizione, di consegna dai genitori o da altri a persone che ne hanno avuto cura. La salvezza di Mosè per cura della figlia del Faraone e la sua educazione a corte, proprio in un periodo di persecuzione degli ebrei, pone il problema dell’identità e della biografia dell’uomo che riveste un ruolo centrale nel Pentateuco e nella caratterizzazione religiosa del popolo ebraico. La tesi estrema, balenante dall’antichità, ripresa da studiosi moderni e resa famosa nel mondo della cultura da Sigmund Freud nell’opera Der Mann Moses und die monotheistische Religion, in edizione italiana Mosè e il monoteismo (Milano, Pepe Diaz, 1952, e successive) è che Mosè fosse un egiziano postosi a capo degli ebrei. Comincio da una storiella per alleggerire il tema, prendendola da André Chouraqui nel libro Mosè (edizione Marietti): un rabbino chiede a uno scolaretto chi fosse la mamma di Mosè. Lo scolaretto, il solito malizioso Pierino, risponde che la mamma di Mosè era la principessa egiziana. Il rabbino lo corregge, dicendogli che la principessa lo ha trovato nella cesta sul fiume. E Pierino gli replica: <<Signor Rabbino, questo è quello che ha raccontato la principessa>>. Ma la principessa poteva trovare altre scuse e, identificandosi nella salvatrice di un bambino ebreo, avrebbe comunque compiuto una bella sfida e un merito non da poco. Barzelletta a parte, la teoria secondo cui Mosè fosse un egiziano è dovuta, per quanto ne sappiamo, allo scrittore Pagina 169 egiziano Manetone del terzo secolo avanti l’era cristiana, al tempo di quei sovrani Tolomei, che condussero campagne di guerra in Eretz Israel, prelevando schiavi altri ebrei e portandoli in Egitto. Ne ho parlato nel numero 21-24, a. XVI (2008) di “Hazman Veharaion – Il Tempo e L’Idea”, a proposito del profeta Joel e dell’analisi fatta dal biblista Marco Treves, per la datazione del libro di Joel. Secondo Manetone, scrittore e storico egiziano di età ellenistica, ostile agli ebrei, che costituivano nello stesso Egitto una ampia comunità, Mosè sarebbe stato un sacerdote di Heliopolis, degenere e rinnegato, che capeggiò una rivolta di reietti, di negri e di lebbrosi. Gli ebrei sarebbero stati appunto dei lebbrosi, in una rappresentazione dell’ebreo come qualcosa di ammorbante e repellente. Con ben altro, ma strano intento, di intellettuale ebreo moderno , la teoria del Mosè egiziano fu ripresa da Sigmund Freud nell’ultimo e contestato libro, Mosè e il monoteismo, di cui egli stesso negli ultimi giorni si dolse, perché aveva tolto al suo popolo, tanto perseguitato dai nazisti, perfino il suo eroe, per giunta accusando gli ebrei di averlo ucciso, secondo lo schema psicanalitico dell’inconscio patricida. Mosè, per noi, era e resta ebreo, ma vera, e ben credibile, è la sua acculturazione egiziana, la sua privilegiata integrazione a corte (anche in Germania, prima dell’emancipazione, c’erano fortunati ebrei di corte, trattati in altro modo degli ebrei umili). Fino alla piena maturazione della sua personalità come guida e profeta di Israele, l’ebreo Mosè è stato anche un egiziano, insomma un ebreo egiziano, per quel fenomeno di identità composita, che è largamente esteso e comprovato nei nostri tempi. Gli ebrei in Egitto, prima della persecuzione e forse anche dopo, erano alquanto integrati in quella società e cultura. Lo era, almeno, una parte di loro. La stessa tradizione ebraica, con dei midrashim al riguardo, informa delle esperienze di Mosè come egiziano di alto rango e la leggenda dell’educazione ricevuta dalla principessa egiziana ovviamente lo implica. Al capitolo 11, versetto 3 di Esodo (successiva parashah Bo) si legge che l’uomo Mosè era (considerato) molto grande in Egitto tanto dai cortigiani del Faraone come dal popolo: ָה ִאיש מ ֶֹשה גָדול ְמאֹד בּ ְֶא ֶרץ ִמ ְצ ַרים וּב ֵעינֵי ָה ָעם ְ בּ ְֵעינֵי ַע ְב ֵדי ַפרעֹה Il filosofo ebreo Filone di Alessandria, nella Vita di Mosè, afferma che questi fu iniziato alla filosofia simbolica degli antichi egizi. Filone, lui stesso vissuto in Egitto (tra il I secolo a.C. ed il I d.C.), da intellettuale ebreo a contatto con la storia culturale del paese, ha fornito con ciò sensibili indicazioni sulla relazione che può esservi stata tra Mosè e la sapienza egiziana. Di lì Pagina 170 a poco, Stefano, un esponente del movimento ebraico sorto intorno a Joshua di Nazaret, accusato di blasfemia e di eversione davanti al Sinedrio, tenne un riepilogo della storia ebraica fino ad un certo punto condivisibile da ogni ebreo. In questo discorso, parlando di Mosè, Stefano disse che <<venne istruito in tutta la sapienza degli egiziani>> (Atti degli apostoli, capitolo 7, versetto 22). Queste complementari affermazioni, della Torah, di Filone e di Stefano, hanno servito di orientamento quando, dal Rinascimento in poi, si sono sviluppati gli studi sull’antico Egitto (Egittologia) e quando, in parallelo, si è cominciato a voler intendere la Bibbia con una analisi storica, critica, filologica. Si ricostruivano così le relazioni tra il ruolo fondante di Mosè nell’evoluzione dell’Ebraismo e certe premesse che lo stesso Mosè assorbiva da ambienti della sapienza egizia, di cui era partecipe. Al netto contrasto tra la rivelazione monoteistica del monte Sinai e la mitologia politeista degli egizi si venne sostituendo un quadro più articolato della religione egiziana, dove spiccavano, differenziandosi dalle forme popolari, circoli sapienziali dotati di una visione dell’unità cosmica e la selezione di una divinità che eccelleva sulle altre. Il faraone Aknaton, campione di una tale tendenza, tentò di imporre il culto della divinità solare, reprimendo riti e credenze popolari. Dopo la sua morte il tentativo fallì e si tornò al politeismo, ma permasero, o fiorirono, in cenacoli esoterici di iniziati, suggestive ideazioni di misteri e concezioni di una pervasiva energia divina, a vero fondamento dell’essere. Questi grandi concetti splendevano in brevi iscrizioni, sulla piramide di Sais e nel Tempio di Iside, personificazione divina della Madre Natura: <<Io sono tutto ciò che è, che è stato e che sarà, e nessun mortale ha sollevato il mio velo>>. Con le dovute differenze, rivelatosi, come sapete e presto vedremo, racchiuso nel tetragramma vi si è collegato il nome del Dio a Mosè col significato supremo dell’Essere, יהוה Le differenze vertono sul soggetto di questo essere, se sia un’entità impersonale, che si identifica con la totalità dell’essere (tutto ciò che è) oppure un soggetto personale, un Io divino, che trascende e crea la natura, e che interviene nella storia, liberando gli ebrei dall’Egitto, o chiamando distruttivi imperi a punirli; il Dio che fa delle scelte, il Dio che dà delle disposizioni precise, come è nelle parole dello Shemà, tratte dal Deuteronomio. Questo Dio, distinto (qadosh) e legislatore, è propriamente il Dio di Mosè, ma la differenza con cui spicca non esclude affatto il contatto, sulla base ontologica dell’essere, con scuole della sapienza egizia. Il Dio che si rivela a Mosè sul Sinai è pur sempre il Dio misterioso, Pagina 171 impenetrabile, lo El mistatter di Isaia e di cui parlano i grandi misteri egizi. Va inoltre detto che l’altra rappresentazione, del Dio identificato con la sostanza del tutto, diversa dalla linea maestra della Bibbia, si teorizza nella filosofia di Baruch Spinoza, affiora in altri pensatori ebrei, come Mordekai Kaplan, ed è soffusa, misticamente e poeticamente, nel hassidismo. Secondo certi studiosi, che riprendevano il racconto di Manetone, Mosè sarebbe stato lui stesso un egiziano, che riprendeva, in certo senso, con successo, il tentativo di Aknaton, mettendosi a capo degli schiavi ebrei, in una operazione doppiamente rivoluzionaria: perché abbatteva la fede negli altri dei, imponendo la fede in un unico Dio, e perché guidava la ribellione di una massa di schiavi contro il potere costituito della grande monarchia egiziana. Il filo di questa tesi, secondo cui Mosè era egiziano, è arrivato a Sigmund Freud, che vi ha aggiunto il dramma dell’uccisione di Mosè per mano degli ebrei, reagenti alla sua severa autorità, nella logica del complesso di Edipo che porterebbe il figlio all’ idea di eliminare il padre. La Torah parla di rivolte e di dolori cagionati a Mosè dal suo popolo, ma non ovviamente, di uccisione di Mosè, giunto vecchissimo a veder dall’alto del monte la terra promessa. La Torah ci dà i nomi dei suoi genitori ebrei, del fratello Aronne, della sorella Miriam. Mosè non si è messo a capo di una generica massa di schiavi, ma di un popolo, il suo popolo, che era stato reso schiavo. Che poi un’altra moltitudine di egiziani o di altre popolazioni gli si sia unita (lo dice Esodo, 12, v. 38) è un significativo fatto di umana convergenza, ma l’evento centrale è stato un riscatto nazionale, guidato da un condottiero della nazione. Che Mosè fosse etnicamente ebreo, sebbene di cultura largamente egizia, anche lo ha creduto l’ebraista cristiano del Seicento John Spencer, autore della monografia De legibus Hebraeorum ritualibus et eaurum rationibus e della dissertazione De urim et thummim. Secondo Spencer, Mosè ha tratto dalla sapienza egiziana non soltanto un elemento teologico ma anche precetti rituali. Lo stesso Maimonide, di cui Spencer teneva assai conto, attribuisce l’origine di determinati precetti ad un divino criterio pedagogico, per senso dell’opportunità, in rapporto ai tempi e alle circostanze ambientali. Le circostanze ambientali erano quelle del vicino Oriente, erano di quell’epoca, erano specialmente dell’Egitto. Spencer è stato uno dei molti studiosi, in un complesso plurisecolare del sapere, all’incontro di egittologia e di ebraistica. Per sapere di più intorno a questa tematica, segnalo il libro Mosè l’egizio, edito Pagina 172 da Adephi (Milano, 2007), di Jan Assmann, professore tedesco di egittologia all’Università di Heidelberg. Mosè è stato egiziano come Teodoro Herzl è stato austroungarico e di cultura tedesca. L’uno e l’altro sono stati grandi ebrei, in esistenze fuori della terra di Israele ma volti all’acquisto di questa terra per il loro popolo. Come Herzl è cambiato e ha organizzato il movimento sionista nel prender coscienza delle persecuzioni cui era soggetto il popolo ebraico nel suo tempo, con un particolare impatto del caso del capitano Dreyfus, seguito da giornalista a Parigi, così Mosè allorché, uscito dall’ambiente dorato della Reggia, si imbatte nel maltrattamento di un fratello ebreo, fatto da un sorvegliante egiziano, episodio rivelatore della situazione. L’ebreo di corte, personalmente al riparo dalla persecuzione, compie il gesto isolato, eccezionale per quanto ne sappiamo, di resistenza con la forza, colpendo a morte l’aguzzino del fratello. Non è visto, ma la denuncia gli viene quando il giorno dopo torna sul luogo e vede due ebrei litigare tra loro, altro episodio che gli chiarisce il degrado della situazione: nell’impossibilità di difendersi dai persecutori, i connazionali nell’atteggiamento del giorno prima Mosè arrivano a picchiarsi. Come già mette in atto un precetto che insegnerà da condottiero, per ispirazione del Signore lungo il cammino dell’Esodo: Al titeallem, Non disinteressarti, non puoi non curartene. Rimprovera quello dei due che gli pare abbia torto o forse quello che aveva la meglio nel confronto fisico: <<Perché batti il tuo compagno?>> Lamma takkè reekha? Il violento, rimproverato, gli chiede con quale autorità si ingerisca e se voglia uccidere anche lui come ha ucciso l’egiziano. Mosè è così al corrente che la cosa era risaputa. Lo è venuto a sapere anche il faraone, che voleva punirlo mortalmente e Mosè, fuggendo, giunge in terra di Midian. Il commentatore medievale Rashì, sulla scorta di precedenti fonti narrative, ha individuato l’aguzzino egiziano, ucciso da Mosè, e l’ebreo maltrattato, indicando il motivo al fondo dell’episodio: l’ebreo maltrattato sarebbe il marito di Shelomit, figlia di Divrì, di cui si pala nel capitolo 24 del Levitico, come madre ebrea del ragazzo bestemmiatore messo a morte, il cui padre era invece egiziano, sicché il frutto del congiungimento misto sarebbe appunto così tristo. Ebbene l’egiziano, di cui si parla nel Levitico, sarebbe questo aguzzino, ucciso da Mosè, il quale non era marito di Shelomit, regolarmente sposata con un ebreo, l’ebreo bastonato e vendicato da Mosè. Questo crudele egiziano, invaghitosi di Shelomit, Pagina 173 avrebbe con un pretestuoso ordine allontanato il marito e, venuto in casa, avrebbe giaciuto con lei, ignara di far l’amore con un altro uomo, entrato slealmente nel talamo. Quando poi il marito ha scoperto l’inganno e l’oltraggio, avrebbe osato rivoltarsi contro l’egiziano, che, profittando della sua posizione di quando è sopravvenuto Mosè. sorvegliante dei lavoratori ebrei, lo stava bastonando Nei due ebrei che più tardi litigavano, Rashì, sulla scorta del trattato talmudico Nedarim, ha individuato Datan ed Aviram, i futuri protagonisti della contestazione e rivolta contro Mosè ed Aronne, alleati di Korah, di cui si parla nella parashah intitolata a quest’ultimo, in Numeri, capitolo 16. La prima individuazione ci mostra un risvolto di cupidigia ed abuso al livello privato nella storia della persecuzione egiziana, ma soprattutto tende a smentire che ci potessero essere matrimoni misti con gli egiziani, come io stesso ho desunto, a pagina 163, da questo caso, preso come un caso qualsiasi, indicativo di un fenomeno sociale. Secondo questa versione, la madre del ragazzo bestemmiatore, nato da quell’abuso del sorvegliante, era legittima moglie di un ebreo così umiliato, e non aveva sposato un egiziano ma era stata da lui oltraggiata. Ebbene, sia la prima che la seconda individuazione rispondono ad un criterio esegetico ed omiletico, per cui tutti i fili narrativi si congiungono e tutti i personaggi si ritrovano, a sostegno di una tesi di omogeneità di popolo e di religione. Abbiamo già osservato questo criterio a proposito dell’agnizione della figlia di Dina in Osnat, creduta figlia del sacerdote Potiphera, divenuta moglie di Giuseppe (si torni, se vi interessa, alla pagina 128 di questo commento della Torah). Mosè recepì elementi della cultura egiziana, sviluppandoli da ebreo, e non deve essere stato il solo tra gli ebrei colti. Mosè appariva un distinto egiziano, tanto che quando, fuggendo, ripara nel paese di Midian e difende, cavallerescamente, le figlie di Reuel o Itrò al pozzo, le ragazze riferiscono al padre: <<Un uomo egiziano ci ha difeso dalla violenza dei pastori ed ha anche attinto per noi ed abbeverato il gregge>>. Ish mizrì hizilanu miiad haroim E lì, tra i midianiti, Mosè trova una dimora, trova moglie, Zipporah figlia di Reuel o Itrò, come Giuda aveva fatto tra i canaanei, senza perdersi. Genera da lei i due figli, Ghershom e Pagina 174 Eliezer. E lì, dall’esimio suocero sacerdote di Midian, apprende altre cose, assorbe elementi di un’altra cultura e spiritualità nel suo animo di ebreo acuto ed intenso. Mosè è un ebreo di Egitto, che, nella persecuzione dei fratelli ebrei, ricupera la pienezza dell’identità originaria ebraica, senza perdere l’involucro della formazione egiziana, ma nel contempo lottando contro il governo egiziano per la liberazione del suo popolo, procede verso la maturazione della sua vita, nella nuova stazione di Midian. Il Signore Iddio, che pensa come attuare il deliberato soccorso al sofferente popolo ebraico, studia e sceglie quest’uomo solitario, questo ebreo particolarmente intriso di cultura e di modi egiziani, questo ebreo non schiavo, ricercato come assassino di un egiziano, quest’uomo atipico, di confine, ma intrepido sul confine. Il Signore Iddio lo individua, lo segue, lo fissa, lo sceglie, attende il momento di farlo suo e di farlo veramente se stesso. Ed ecco un giorno, mentre pascola il gregge del suocero, come aveva fatto Giacobbe in Haran, il Dio di Abramo lo sorprende e gli parla dal roveto ardente: “Mosè Mosè”. E Mosè, al pari di Abramo dice “Eccomi - Hinneni”, espressione di una presenza oblativa, che si offre, scandita in risposta alla chiamata dell’Assoluto, in attento ascolto. Si deve togliere i calzari, perché il terreno sul quale sta è suolo sacro: adamat qodesh. Su quel suolo, in quella solitudine, il Dio trascendente instaura un rapporto con un uomo trovato adatto, più di quanto lui pensa di essere nella sua stupita modestia. Il Dio trascendente si presenta, in prima persona alla seconda persona, umana, che gli sta davanti, dicendogli i precedenti atavici del rapporto e viene all’ora urgente dell’ oggi: <<Io sono Iddio di tuo padre, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe. Ho considerato la condizione di avvilimento del mio popolo in Egitto, ho accolto il loro grido …… Voglio scendere a salvarlo dalla mano degli egiziani, traendolo da quel paese per farlo salire ad una terra fertile e spaziosa, in un paese stillante latte e miele……. Quindi va’, perché io ti incarico, quale mio delegato al Faraone>>. Anokhi Elohé avikha et zaakatam shamati Veered lehazilu mijad Mizraim Veattah lekhah veeshlahakhà el Paroh Pagina 175 E’ un incarico sorprendente, impegnativo che richiede ardimento e fiducia. Perché il Signore Iddio non parla direttamente lui al Faraone? Perché agisce per gli uomini attraverso uomini. Gli deve parlare Mosè, e se non si ritiene capace per un difetto di pronuncia, che egli sta esagerando per schivarsi, vada col fratello Aronne. La morale è che il Faraone deve imparare ad avere un interlocutore del popolo che sta opprimendo e disprezzando; e questo popolo deve imparare a vedere in un suo rappresentante l’uomo capace di affrontare il Faraone. Il rapporto lo vuole tenere con il popolo che ha deciso di liberare e con cui stringerà un patto, nel solco del patto di Abramo. La liberazione bisogna conquistarsela, facendosi arditi. Non deve bastare a Mosè avere ucciso un egiziano in difesa di un solo fratello. Deve affrontare il Faraone in difesa di tutto il proprio popolo. Mosè chiede a Dio il suo nome, perché immagina gli venga chiesto per primi dai connazionali, quando andrà a dir loro di avere incontrato la divinità. Ciò fa pensare che il senso religioso degli ebrei si fosse illanguidito, che avessero perso la chiara nozione di Dio, tanto da dover chiedere come Dio si chiamasse. Il nome è biblicamente importante per ogni uomo ed anche per il Signore Iddio. Ma il nome, nel fissare la designazione di un individuo, lo limita, lo fissa su un segno vocale, e invece Dio è illimitato. Il Signore allora si qualifica come l’ Essere per eccellenza: <<Io sono quello che sono>>, detto, con la forma verbale ebraica, in una tensione dinamica, in una progressione al futuro: <<Io sarò quello che sarò>>, che vado ad essere Ehjié asher Ehjié Abbiamo visto l’affinità relativa di questa definizione teologica con le iscrizioni egizie sul fulcro ontologico dell’essere. Ad altezza spirituale e intrinsecamente filosofica. Si dice, ed è così, che la Bibbia non è una filosofia, ma l’Unità divina, che la ha ispirata, non disdegna la filosofia, che è integrità e profondità di pensiero. Martin Buber, filosofo, ha insistito che la Bibbia non è filosofia. Certo, lo sappiamo, basta leggerla per rendersene conto. La Bibbia non è filosofia, ma parla pure ai filosofi che la commentano con elementi filosofici, come fecero Filone giudeo alessandrino e la sua scuola. La Bibbia non è filosofia ma, in certe parti, la sottende e la ispira, magari la provoca e la sfida ma la ispira. E questa autodenominazione Pagina 176 del Signore, centrata sul concetto dell’essere, essere per eccellenza, essere assoluto, ha precisamente di filosofico l’asserzione del Fondamento ontologico, per di più in tensione dinamica al futuro, che conferisce all’essere la proprietà del divenire. Il Signore Dio suggerisce a Mosè la prima limitata e introduttiva richiesta da fare nell’arduo approccio al Faraone: la richiesta, in suo nome, di concedere un congedo per un cammino di tre giorni nel deserto, onde compiere un rito ed un sacrificio a Dio. Sarebbe già un importante conseguimento, per un periodo di libertà, di aggregazione, di ritrovamento del culto con coscienza nazionale e religiosa. Il Signore avvisa Mosè che la prima missione non avrà successo, ma è egualmente necessaria come inizio dell’offensiva. Ci vorrà ben altro, ma ormai il piano divino entra in azione. Il Signore avvisa Mosè che il Faraone ha il cuore duro, anzi che lui stesso indurirà il cuore del Faraone. Il Signore lo dice, per la conoscenza che ne ha, assumendosi la responsabilità di come sono fatti certi uomini di potere, e non solo di potere. Ma l’ardua missione deve cominciare. L’ardua missione comincia con tutte le possibili difficoltà. Riesce addirittura controproducente, perché per tutta risposta vengono aggravati i lavori coatti degli ebrei e gli stessi ebrei si risentono contro Mosè ed Aronne. La missione ha bisogno di diversi mezzi e il Signore, oltre a suggerire le parole, provvede Mosè di una efficacia in gesti dimostrativi di potenza e autorevolezza, come stendere il bastone e farne sortire un serpente, prendere il serpente per la coda e trasformarlo di nuovo in bastone. Mosè e Aronne si cimenteranno in tali prodigi, competendo con i maghi dell’Egitto, perché in quell’antico tempo prescientifico, ed ancora a lungo nei secoli, si credeva di potere influire sulla materia attraverso gesti e formule di magia. C’erano i maghi, erano presi sul serio, molti credevano ai loro sortilegi, c’era una forte immaginazione che li accompagnava. Vi erano anche abilissimi trucchi del mestiere, in una sorta di tecnica della magia. E’ stata lunga la strada evolutiva per passare dall’illusoria scorciatoia di gesti e formule allo studio e agli esperimenti di tecnologie e di applicazioni scientifiche, comprendendo le strutture della materia e i modi per le trasformazioni. Del resto, anche nel passato coesistevano con la magia e la taumaturgia le tecnologie razionali o sapientemente manuali, così come tuttora, nell’umana complessità, coesistono con le scienze e le tecnologie residui di magia e taumaturgia. L’Ebraismo, proprio con la legislazione mosaica, ha proibito la magia, ma ha creduto nella possibilità di eventi ed atti prodigiosi, se operati da Dio o da uomini pii, veramente ispirati da una energia divina, come nel caso di Mosè e Aronne, come segni (otot) visibili, tangibili e Pagina 177 percepibili, del sostegno divino. La stessa Torah mette in guardia dalla magia dei pervertitori, riconoscendo oggettivamente che ci sanno fare. Nel congedarlo, il Signore ribadisce a Mosè l’uso della verga per il compimento di miracoli, a complemento di quello che dirà, insieme con Aronne, al Faraone: Et hammatteh hazeh tikkahbeiadekha Asher taaseh bo et haotot Questa verga prenderai nella tua mano e con essa opererai dei prodigi. D’altronde anche la magia degli altri popoli si connetteva a forme di religiosità. Mosè, dopo l’incarico ricevuto dal Signore, rientra a Midian, comunica al suocero di voler tornare in Egitto dal suo popolo e il venerabile suocero gli dice <<Lekh le Shalom>>, una bella espressione biblica, che userà più tardi il profeta Eliseo. Mosè Prende con sé la moglie e i due figli, caricandoli affettuosamente sull’asino. Durante il viaggio è colpito una sorta di malore e sta per morire, ma il male si risolve con l’atto energico di Zipporah, che, presa una selce, circoncide il figlio, non è detto quale, credo il minore Eliezer, forse Ghershom (o Ghershon) già era circonciso. Pare che il Signore lo abbia colpito per aver trascurato la milà del bambino e ci pensa, con cuore ardito di madre (che donne nella Bibbia), Zipporah, la quale con quel sangue del bambino rafforza il vincolo coniugale. Tanto più rimarchevole è il gesto di questa donna, che non è nata ebrea. Il Signore informa Aronne dell’arrivo del fratello e glielo manda incontro. I due fratelli saranno strettamente uniti e complementari nell’impresa. Il Faraone, come il Signore aveva predetto, rifiuta il permesso di un congedo al popolo, disconosce il Dio degli ebrei, aggrava il rigore del trattamento nei loro confronti. accusano Mosè ed Aronne di aver peggiorato la loro condizione, Gli ebrei e Mosè, travagliato come sarà spesso nella sua missione, chiede a Dio: <<O Signore perché hai fatto del male a questo popolo? Perché mi hai inviato per questo (per fare questa cosa) ?>> Adonai, lama hareota laam hazzè, lama ze shlahtani? Pagina 178 Il Signore lo rincuora, esortando ad aver fiducia nella sua azione in tempi lunghi: <<Vedrai cosa sto per fare al Faraone>>. La storiografia individua i due Faraoni oppressori degli ebrei in Ramses o Ramesse II, un altro suffisso Mese Mose (circa 1304-1237 avanti l’era cristiana, o secondo altri computi, circa 1279-1212) e nel figlio Meneptah o Merneptah, regnante tra gli anni trenta e gli anni venti del tredicesimo secolo, o alla fine del tredicesimo secolo. Siamo comunque, verosimilmente, nel tredicesimo secolo avanti l’era cristiana. Il Libro dei giubilei, più volte citato in questa derashah, è uno dei testi, considerati apocrifi, non riconosciuti ufficialmente dalle autorità rabbiniche e non entrati nel corpus o canone del Tanakh, composto in un certo ambiente, in una delle scuole di pensiero dell’Ebraismo tardo antico, nel secondo secolo avanti l’era volgare. Si chiama così perché divide la cronologia della storia ebraica ed universale in giubilei, cioè cinquantennî. E’ una parafrasi della Torah, dall’inizio di Bereshit, creazione del mondo, al capitolo 12 di Shemot, Esodo, con varianti ed aggiunte. Ma non comincia da Bereshit bensì dalla rivelazione del Signore a Mosè, al quale, in retrospettiva, un angelo, scriba del Signore, racconta tutti gli accadimenti precedenti e svela squarci del futuro, con severa predizione dell’esilio. Fu scritto originariamente in ebraico, ma l’originale si è perso. Il testo più completo è in lingua gheez, la stessa lingua dotta dei Beta Israel di Abissinia. E’ inserito nel canone della Chiesa cristiana copta, che ci ha conservato questo testo fortemente giudaico, con punte di vero esclusivismo, come a proposito dei sichemiti uccisi da Ruben e Levi, che vengono nel libro apprezzati, perché gli ebrei non si dovevano mescolare con stranieri. Il Libro dei giubilei era letto dagli esseni ed è stato ritrovato, in parte, tra i loro rotoli di Qumran. Il testo è pubblicato, tra gli Apocrifi dell’Antico Testamento, in edizione UTET, Torino, 2006, a cura di Paolo Sacchi, con la cooperazione di traduttori ed esegeti. ** La haftarah è tratta dall’inizio del libro di Geremia, quando egli, a somiglianza di Mosè, cerca di esimersi dalla missione che Dio gli affida. Il Signore dice a Geremia di averlo scelto come profeta, che parlasse alle genti, prima ancora che nascesse. Lo straordinario annuncio, nel segno della predestinazione, non poteva non scuoterlo, e Geremia, turbato, cerca di sottrarsi Pagina 179 al ruolo che dall’alto gli si impone, adducendo l’età immatura e l’inesperienza: “Ahimé, mio Signore, ma ecco io non so parlare, perché un ragazzo son io”. Aah Adonai innè lo jadati dabber ki naar anokhì Il Signore lo rassicura, assegnandogli un incarico addirittura di costruire e di demolire, di piantare e di distruggere mediante le parole che gli ispirerà, esortandolo quindi a non temere le genti cui si dovrà rivolgere, e gli fornisce la visione del ramo di mandorlo, simbolo, per la fioritura precoce in primavera, della vigile prontezza nel capire, nel dar messaggi, nell’agire. Così Geremia inizia la sua missione di profeta, invero più triste di quella di Mosè, perché Mosè guiderà il popolo alla liberazione, nel cammino verso la terra promessa, dove si costituirà una società ebraica ed uno stato ebraico, mentre Geremia profetizzerà nel tragico periodo dell’invasione babilonese, esortando a sottomettersi al potere straniero del re Nabucodonosor e sarà accusato di cedimento e di tradimento. Mosè guida all’uscita dall’esilio, mentre Geremia profetizza il nuovo esilio, al di là del quale il Signore libererà nuovamente il suo popolo. Ad ogni modo, i grandi spiriti di Israele, con le rispettive generazioni, nelle diverse sorti e dei diversi compiti, si succedono e si collegano lungo la continuità della tradizione, nella storia del popolo e dell’idea. Shabbat Shalom, Bruno Di Porto