"Il Diritto Fallimentare e delle società commerciali", n

annuncio pubblicitario
ISSN 0391-5239
ISSN
0391-5239
Annata
LXXXVII
Annata LXXXIX
Gennaio-Febbraio 2012
Novembre-Dicembre
2014
N.
N. 16
RIVISTA BIMESTRALE
DI DOTTRINA
E GIURISPRUDENZA
BIMESTRALE DI
DOTTRINA E
già
(1924-1940), RENZO
RENZO PROVINCIALI (1941-1981),
(1941-1981),
già diretta
diretta da
da ITALO
ITALO DE PICCOLI (1924-1940),
ANGELO BONSIGNORI (1982-2000)
(1982-2000) e E GIUSEPPE
GIUSEPPE RAGUSA
RAGUSA MAGGIORE (1982-2003)
(1982-2003)
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N. 6 - 2014 — IL DIRITTO FALLIMENTARE — Annata LXXXIX
N. 1 - 2012 — I L D I R I T T O F A L L I M E N T A R E — Annata LXXXVII
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CASSAZIONE CIVILE
Sez. I, 9 maggio 2014, n. 10105
Pres. U. Vitrone – Est. L. Nazzicone
Fallimento – Fallimento delle società – Trust – Trust interno – Trust interno liquidatorio e cancellazione della società in liquidazione – Sopravvenuta dichiarazione di fallimento della società cancellata: conflitto con la legge fallimentare – Prevalenza della norma fallimentare –
Reviviscenza della società cancellata.
(Artt. 10 e 15 legge fallim.; 2495 cod. civ. 13, 15, 16, 18, Conv. de
L’Aja/L 364/1989)
Nel constatare lo stato di insolvenza e dichiarare il fallimento di una società cancellata dal registro delle imprese, deve essere, incidenter tantum, disconosciuto il «trust liquidatorio» costituito in palese elusione della disciplina fallimentare, elusione indiziariamente confermata dalla contestuale cancellazione della società (1).
(1) Riconoscimento e disconoscimento del trust interno liquidatorio nel fallimento.
1. – La sentenza in commento è rilevante, non tanto per la sua prima parte, nettamente
distinta dalla seconda, nella quale vengono ribaditi orientamenti ormai consolidati da parte
della giurisprudenza, non solo di legittimità, in materia societaria e fallimentare-societaria;
quanto e meglio per la sua seconda parte che affronta il tema, divenuto di attualità, del trustinterno-liquidatorio, ma anche e per la prima volta, sia pure in via quasi apodittica, della riconoscibilità del trust interno.
2. – Dunque, la prima parte. Contro la decisione della corte di Roma, di conferma di
quella del locale tribunale, che aveva dichiarato il fallimento della società Zeta, cancellata dal
registro delle imprese dopo essere stata messa in liquidazione, il liquidatore propone reclamo perché erroneamente (i) lo si era ritenuto legittimato a rappresentare la società cancellata
dal registro delle imprese, dunque estinta, per cui i soci erano gli unici legittimati, (ii) era stato individuato l’effetto della cancellazione nel momento dell’avvenuta iscrizione nel registro
delle imprese invece che in quello, precedente, della domanda di cancellazione, (iii) era stato
dichiarato lo stato di insolvenza nonostante l’avvenuto conferimento dell’attivo e del passivo
nel trust appositamente istituito da esso liquidatore.
Il Collegio investito delle censure osserva (i) di non avere motivo di discostarsi dal principio affermato dalle Sezioni unite (1), avendo cura di richiamare il «principio» affermato da
alcune delle decisioni vertenti su fattispecie del tutto simili... nelle quali è stato ribadito che il
contradditorio si instaura con l’ultimo rappresentante legale, ossia l’amministratore o il liquidatore, sul presupposto della continuità aziendale nello stato in cui versava la società al momento della sua cancellazione, adottando la fictio di esistenza del soggetto collettivo, e ciò al
(1) Da ultimo, A. Di Majo, La successione delle società estinte. Profili sostanziali, in Contr. imp., 2014/3/543
segg., ove i riferimenti giurisprudenziali e dottrinari, secondo il quale «la decisione delle Sezioni Unite della Cassazione colma una profonda lacuna, destinata a superare lo schermo della personalità giuridica, allorquando questo
schermo, con la estinzione del soggetto, venga a rappresentare un pregiudizio grave per i diritti dei terzi» (pag. 551).
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1. – I motivi. La società fallita deduce:
1) la violazione della legge fallim., artt. 10 e 15, art. 2495 cod. civ., e
art. 75 cod. proc. civ., per avere la corte d’appello ritenuto legittimato a partecipare al procedimento per la dichiarazione di fallimento, per conto della
società, l’ultimo liquidatore, sebbene la società sia ormai cancellata dal registro delle imprese e dunque estinta, onde l’istanza per la dichiarazione di
fallimento avrebbe dovuto essere notificata a tutti i soci;
2) la violazione degli artt. 156, 257 e 160 cod. proc. civ., per avere la
corte d’appello reputato valida la notificazione dell’istanza al liquidatore,
privo ormai di ogni collegamento con la società estinta, trattandosi di notificazione inesistente;
3) l’omessa o insufficiente motivazione circa la decorrenza del termine
annuale di cui alla legge fallim., art. 10, dalla corte territoriale individuata nel
momento dell’avvenuta iscrizione della cancellazione nel registro delle imprese, in luogo che dalla domanda, risalente al giorno 11 novembre 2010,
senza considerare che, invece, l’effetto della cancellazione deve retroagire a
tale data;
4) la violazione della legge fallim., art. 10, e art. 2495 cod. civ., per avere
la corte d’appello ancorato la decorrenza del termine in questione all’effettiva iscrizione nel registro delle imprese della cancellazione della società, condichiarato fine dell’istruttoria prefallimentare e delle successive impugnazioni. Sicché, l’ipotesi
difensiva che sosteneva la legittimazione passiva dei soci viene rigettata sulla scorta della disciplina fallimentare: la loro posizione non è assimilabile in toto a quella del fallito, tanto che
non ne occorre l’audizione se non abbiano compiuto atti di prosecuzione dell’impresa mentre
per le società, il contraddittorio con gli organi sociali è funzionale alle esigenze dell’istruttoria
prefallimentare e alla difesa dell’impresa (2);
(ii) l’attuale testo dell’art. 10, legge fallim. è stato uniformato alla decisione del giudice
delle leggi e non si rinvengono ragioni che possano giustificare il disattendere la soluzione
adottata e, quindi, l’individuare il momento da cui decorre il fatidico anno, necessario per
dichiarare il fallimento dell’impresa, diverso da quello della avvenuta iscrizione nel registro
delle imprese. Infatti, la funzione pubblicitaria, dichiarativa o costitutiva degli effetti, svolta
dal registro delle imprese, impone l’iscrizione dell’evento, ed è solo da questo momento che i
terzi ne possono prendere conoscenza. Per avere conferma alla correttezza della conclusione, si può con il noto brocardo constatare che laddove l’ordinamento ha voluto ammettere effetti retroattivi dell’iscrizione rispetto a tale momento, lo ha espressamente previsto e la sentenza ha cura di indicare la fattispecie più vicina a quella in esame: la facoltà di arretrare o posticipare gli effetti dell’atto di fusione.
(2) Sono soltanto i rapporti giuridici che fanno capo alla società estinta che si trasferiscono ai soci, per «assicurare la permanente devoluzione del patrimonio sociale come residualmente costituito da ogni somma ricevuta
dai soci in sede di liquidazione ovvero da ogni altra utilità conseguita per effetto della liquidazione e attinta dal patrimonio sociale e questo a garanzia dei creditori nonostante l’intervenuta estinzione della società, con chiaro richiamo al principio di cui all’art. 2740 cod. civ. e analogia meramente descrittiva alla successione», così G. Reg. Bologna, 20 aprile 2014, richiamando Cassazione, sez. un., 12 marzo 2013, n. 6070, precedente cui si è riportato anche il Collegio della sentenza in commento.
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tro il principio generale, espresso in tema di notificazioni, secondo cui i tempi tecnici degli uffici pubblici non possono gravare sulla parte che presenta
l’istanza; e tenuto conto del fatto che il termine annuale per l’imprenditore
persona fisica decorre dal suo venir meno, non dalla data di registrazione dell’evento, mentre anche l’ipoteca ha effetto costitutivo sin dalla domanda;
5) la contraddittoria motivazione in ordine all’esistenza dello stato di
decozione, nonostante la costituzione del trust proprio al fine di liquidare
l’ingente patrimonio aziendale, senza tenere conto del fatto che, pur reputando inopponibile od invalido il trust, la conseguenza sarebbe l’attribuzione alla società del patrimonio conferito e l’inesistenza dell’insolvenza;
6) la violazione degli artt. 101 e 102 cod. proc. civ., per non essere stato
convocato nel procedimento anche il trust, dal momento che la corte del merito si è pronunciata circa la validità del medesimo, sia pure incidentalmente;
7) la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per avere la corte d’appello
affermato l’invalidità del trust, sebbene non domandata dalla creditrice
istante Equitalia Sud s.p.a.;
8) l’omessa o insufficiente motivazione sui fatti comprovanti la liceità
del trust, sebbene documentati dalla società, quali la segregazione dei beni
conferiti rispetto al patrimonio personale del trustee, la disponibilità dei
beni a favore dei creditori, che di esso sono i beneficiari, la condizione riso-
Le diverse fattispecie invocate dal ricorrente, utili alla retorica processuale, non risultano producenti, per debolezza intrinseca, quella degli effetti della notificazione degli atti del
processo, specie se la si attualizza e si constata la quasi simultaneità che si ottiene con le notificazioni a mezzo posta elettronica certificata; per il precedente, prontamente richiamato dal
Collegio, che indebolisce la tesi della difesa, di per sé rilevante se si ha presente il «rischio»
intoppo processuale che è la costante della processualità, non solo italica (ma questa ben più
significativa). La salvaguardia degli interessi contrapposti andrebbe meglio perseguita contrastando le disfunzioni processuali piuttosto che addossando al creditore il rischio della durata
del relativo procedimento. Ma questo è argomento fin troppo frusto;
(iii) l’essere stato dichiarato lo stato di insolvenza nonostante l’avvenuto conferimento
dell’attivo e del passivo nel trust appositamente istituito e dallo stesso liquidatore, è il tema
centrale della decisione: tutti gli altri motivi, dal quinto all’ottavo, vertono sull’avvenuta istituzione del c.d. trust liquidatorio e sulla rilevanza del medesimo, al fine di reputare integro il
contraddittorio nel procedimento per la dichiarazione di fallimento e raggiunti gli effetti che
con questo istituto la società ha voluto perseguire.
3. – Ciònonostante, il significato della locuzione «trust interno» (di cui si occupano tanto la sentenza quanto quelle da questa richiamate) come genere (3), la natura e la conoscenza
(3) Per evidenziare la pluralità di specie si sostiene che il termine andrebbe al plurale (M. Lupoi, Trusts,
Milano, 1997 e 2001): sotto il profilo classificatorio, si distinguono le tre specie di (i) trust inglese, (ii) trust internazionale, (iii) trust da Convenzione; in questa specie si distinguono le due sottospecie (a) trust estero, (b) trust
interno [così M. Lupoi, Il trust nell’ordinamento giuridico italiano dopo la Convenzione dell’Aja del 10 luglio
1985, in Vita not., 1992, pag. 976; Trusts, Milano, 2001, pag. 536]; assunta la specie «trust da convenzione», che
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lutiva apposta al trust per l’ipotesi di fallimento della società preponente, il
compimento di una serie di attività in favore della liquidazione e la messa a
disposizione del curatore di tutto quanto in possesso del trust.
2. – Società cancellata e fallimento. Il primo ed il secondo motivo, da
trattare congiuntamente, in quanto fra di loro connessi, sono infondati.
Come ormai chiarito dalle Sezioni Unite nel 2013 (sez. un., 12 marzo
2013, nn. 6070, 6071 e 6072), il legislatore ha operato una fictio limitata alla procedura fallimentare.
Hanno precisato le Sezioni unite che alla situazione processuale della
società cancellata dal registro delle imprese in seguito a liquidazione la legge pone un’eccezione con la legge fallim., art. 10: ove il fallimento venga dichiarato entro un anno dalla cancellazione, la società (in persona del legale
rappresentante) continua ad essere destinataria della sentenza dichiarativa
e delle successive vicende impugnatorie: è una fictio iuris che postula la società esistente, ma ai soli fini del fallimento, nel quale dunque il contradditorio si instaura con l’ultimo rappresentante legale, ossia l’amministratore
o il liquidatore. Il principio, che in precedenza era stato già affermato (Cassazione, 5 novembre 2010, n. 22547) ed in seguito è stato ribadito in fattispecie del tutto simili alla presente (Cassazione, sez. I, 30 maggio 2013, n.
dell’istituto, che sarebbe da questa designato, rimangono ignoti anche dopo questa decisione
della Corte. Il giudice di legittimità conosce la legge che ha ratificato la Convenzione de L’Aja e,
di certo, conosce i lavori che l’anno preceduta e accompagnata e, quindi, sa che il negozio, che
gli è sottoposto, in astratto è riconoscibile in forza di convenzione internazionale i cui effetti l’ordinamento si è impegnato a riconoscere come proprî (4), se rispondente ai requisiti dell’istituto
delineato dal raggiunto accordo dei partecipanti al tavolo dei lavori della Convenzione; come sa
che da questa, si ritiene, «non possano dedursi in alcun modo né argomenti contrari all’ammissibilità astratta nel nostro ordinamento della fattispecie negoziale individuata né tanto meno la sua
mancata previsione (nel senso di regolamentazione) nel nostro sistema giuridico» (5).
Tuttavia la sentenza, richiamati gli elementi caratterizzanti la figura sorta dal compromesso raggiunto dalla Convenzione, racchiusi nel suo art. 2 (6), si riporta al proprio prece-
ripropone le due grandi classi, «trust liberale» o «trust con beneficiario» e «trust di scopo», in cui confluirebbero
tutte le specie del genere trust, che si identificano con le diverse «finalità» e «scopi» perseguiti, la decisione in
commento si occupa della sotto-specie «trust liquidatorio» e del suo scopo.
(4) «La convenzione, di cui si propone la ratifica, non è in alcun modo diretta ad introdurre il trust nel nostro
sistema giuridico come strumento di autonomia privata aperta a tutti. Il suo scopo è rigorosamente limitato a facilitare nel nostro territorio le operazioni di trusts costituiti all’estero in conformità con il locale sistema giuridico»,
«Relazione al disegno di legge concernente l’autorizzazione alla ratifica e l’esecuzione», Camera 25 marzo 1986,
ministro degli affari esteri (Andreotti) di concerto con ministro di grazia e giustizia (Martinazzoli) e con ministro
dell’industria (Altissimo), ripresentata, con il n. 1934, il 24 novembre 1987.
(5) L. Gatt, Il trust italiano, la nullità della clausola di rinvio alla legge straniera nei trust interni, in
NGCC, 2013, II, pag. 626.
(6) È opinione diffusa che l’art. 2 non fornisce la definizione di trust, neppure del trust da Convenzione o
trust amorfo o shapeless trust, nonché del termine «trustee» (J. Harris, The Hague Trusts Convention, Scope, Application and Preliminary Issues, Oxford, Portaland Oregon 2002, pag. 104, il quale cita anche C. Reymond, nt.
86, e M. Lupoi, nt. 84) e così di quello di trustee.
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13659; 11 luglio 2013, n. 17208; 26 luglio 2013, n. 18138; 13 settembre
2013, n. 21026; 6 novembre 2013, n. 24968), implica una fictio di esistenza
del soggetto collettivo, ai soli fini dell’istruttoria prefallimentare e delle
successive impugnazioni.
Né è fondata la tesi della ricorrente, secondo cui la legge fallim., art. 10,
postulerebbe la notificazione ai soci, e non alla società, in parallelismo all’ipotesi dell’imprenditore individuale, dal momento che in quest’ultimo
caso i successori universali sono gli unici soggetti con in quali è ipotizzabile
l’instaurazione del contraddittorio, ma la loro posizione non è assimilabile
in toto a quella del fallito, tanto che non ne occorre l’audizione se non abbiano compiuto atti di prosecuzione dell’impresa; laddove, per le società,
l’instaurazione del contraddittorio con gli organi sociali è funzionale, al
tempo stesso, alle esigenze dell’istruttoria prefallimentare e alla difesa dell’impresa (in termini, la citata Cassazione, sez. I, 26 luglio 2013, n. 18138).
3. – Il dies a quo legge fallim., ex art. 10. Il terzo ed il quarto motivo
possono essere esaminati congiuntamente, in quanto entrambi vertenti sul
dies a quo della decorrenza termine annuale di cui alla legge fallim., art. 10,
e sono infondati.
dente in tema di sanzioni amministrative relative alla circolazione stradale (7) per ricavarne la
conferma, da un canto, che il trust è privo di soggettività e, dall’altro canto, che alla mancanza sopperisce il trustee, la cui soggettività non è quella di «“legale rappresentante” di un soggetto (che non esiste), ma di soggetto che dispone del diritto». E, assumendo come presupposto che l’ordinamento contempli l’istituto trust interno, se ne rileva che la sua «funzione economico-sociale», al pari del trust convenzionale (o trust amorfo), giusta «la definizione dell’art. 2, consisterebbe nel costituire una separazione patrimoniale in vista del soddisfacimento
di un interesse del beneficiario o del perseguimento di un fine dato, ovvero causa astratta di segregazione patrimoniale» che costituirebbe il proprium del trust.
Dunque, «programma di segregazione» che essendo soltanto lo schema astrattamente
previsto dalla Convenzione (8), necessita del «programma concreto» che rappresenta e costituisce la ben nota «causa concreta del negozio», la quale si concretizza nel «singolo regolamento d’interessi attuato» (9).
Con il termine «segregazione» il testo intende, semanticamente, qualificare la specialità
della «separazione» (10), che si ottiene con il trust, che proprio per questo la sentenza iscrive
(7) Cassazione, sez. II, 22 dicembre 2011, n. 28363.
(8) Sul punto mi permetto di rinviare alla nt. 29 del mio Il trust e la disciplina fallimentare: eccessi di consenso, in questa Rivista, 2009/6.
(9) Che, peraltro, coincide con l’oggetto di interesse della disciplina di prevenzione del riciclaggio: cfr.
The FATF Recommendations e IV Direttiva CE.
(10) Parte della dottrina (M. Lupoi, Trusts, Milano, 2001, pag. 467, e amplius, pag. 571, e altri di cui infra,
ma contra F. Gazzoni, Tentativo dell’impossibile, osservazioni di un giurista «non vivente» su trust e trascrizione,
in Riv. not., gen. feb. 2001), e con essa la maggior parte della giurisprudenza, ritiene di agevolare l’intelligibilità del
fenomeno con il termine segregazione (per tutti, Tribunale Reggio Emilia, 27 agosto 2011, secondo cui «l’effetto segregativo è espressamente previsto dalla Convenzione de L’Aja all’art. 11...», ma a questo proposito, a differenza di
altri, non cita il testo originale: «... the trust property constitutes a separate fund...»); in parte qua neologismo inesistente [il cui etimo è composto da se(d) con significato deduttivo di «via» e da grex-gregis ossia «gregge» (M. Cor-
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Il testo originario della legge fallim., art. 10, prevedeva che l’imprenditore, che pure avesse «cessato l’esercizio dell’impresa», potesse essere dichiarato fallito entro un anno (sempre che l’insolvenza si fosse manifestata
alla categoria dei «negozi fiduciari» (11), differenziandolo per il programma, che, oltre a esse-
tellazzo e P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Bologna, 1988); termine divenuto di attualità con
la ben nota sentenza della Suprema corte americana: O.L. Brown v Board of education of Topeka/1954 in materia
di «segregazione raziale»] che non dovrebbe essere stato attinto dal lessico della genetica (ove è nota la seconda legge di Mendel, «legge della segregazione») e neppure da quello della petrografia («segregazione magmatica») o della metallurgia. Si trova «segregated» nel lessico finanziario anglosassone che lo usa per lo più in unione con altri termini, «segregated fund», per differenziare questi fondi dai «mutual fund», e «segregated appropriation» in contrapposizione a «itemized appropriation» che specifica la particolare finalità dello stanziamento cui si dà corso.
Si intende contrapporre il termine segregazione alla presunta limitatezza semantica del termine separazione
[dall’etimo se-parare], che si dice possa essere riferito soltanto a «patrimonio» per significare l’affrancamento del
trust fund – del patrimonio-in-trust – dalle pretese dei futuri creditori del disponente e l’insensibilità verso quelle
dei possibili creditori del trustee (D. Galletti, Commento all’art. 3, in Disposizioni sulla cartolarizzazione dei
crediti, Legge 30 aprile 1999, n. 130, in NLCC, a cura di A. Maffei Alberti, 2000, pag. 1067, e C. Scaroni, Il patrimonio separato della società veicolo per la cartolarizzazione dei crediti, in Contr. imp., 2005, pag. 1078, nt. 9 e
10); e si sostiene che possa essere riferito anche al singolo diritto, mentre il termine «separato» potrebbe essere
utilizzato soltanto per il patrimonio (D. Galletti, Commento all’art. 3, cit.), tuttavia, gli atti di destinazione hanno per oggetto «beni immobili» o «beni mobili registrati», mentre in trust può essere trasferito e affidato qualsiasi
«bene», inteso il termine nella accezione del codice civile domestico. Però, con il trust, in generale, e con quello
della Convenzione in particolare, il bene o i beni, trasferiti al trustee per realizzare la destinazione dell’atto istitutivo, costituiscono quel trust-fund che presenta più le caratteristiche del patrimonio autonomo che non quelle del
«diritto (sul bene) segregato», come si vorrebbe. Di questa «estasi performativa» (G. Steiner, Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero, Milano, 2007, pag. 30) dei trust-interno-sostenitori, tipica «bolla epistemica» in
termini di new logic (da ultimo, L. Magnani, Introduzione alla new logic, Genova, 2013), non è vittima il legislatore italiano che, a più riprese e in senso appropriato, usa il termine «separazione»: rubrica art. 2647 cod. civ.
«costituzione del fondo patrimoniale e separazione di beni»; rubrica art. 22, D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (testo
unico finanziario); Relazione D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, ove si rende conto della delega a introdurre nel sistema il «fenomeno di separazione nell’ambito di un patrimonio facente capo ad un unico soggetto... la cui prima ipotesi è quella di individuare all’interno del patrimonio della società, di una parte di questo, la sua separazione giuridica dall’intero, e la sua destinazione...»; la Convenzione, nel testo in lingua italiana, sia pure con traduzione non
ufficiale, usa il termine «separato» (art. 11), mentre le due versioni ufficiali usano rispettivamente i termini «distinct» (les biens du trust soient distincts su patrimoine personnel du trustee) e «separate» (the trust property constitutes a separate fund); la prevalente giurisprudenza di legittimità, ove il principio di doppia separazione (Cassazione, 12 settembre 2008, n. 23560, in NGCC, 2009, I, pag. 243 segg., con nota di P. Bontempi).
Usano il termine «séparation» tanto la legge lussemburghese (cfr. il testo) (au principe de séparation entre le
patrimoine formé), quanto il nuovo art. 2011 code civil francese, (Livre III, Titre XIV «De la fiducie: la fiducie est
l’opération par laquelle un ou plusieurs constituants transfèrent des biens... à un ou plusieurs fiduciaires qui, les tenant séparés de leur patrimoine propre...») ... ma questo è... soltanto un parco abbozzo di catalogo/esemplificativo e
ragionato... per dirla con Edoardo Sanguinetti.
(11) Il concetto è foriero di ulteriori sviluppi; affermare che il trust, lo strumento in esame, si inserisce nell’ambito della più vasta categoria dei negozi fiduciari, e specificare che questo si concretizza nell’incarico di svolgere una
data attività per conto e nell’interesse di un altro, affidato a un soggetto officiato di svolgerlo secondo un prestabilito
programma, che ha consistenza più continuativa e complessa rispetto al mandato, vuol anche dire che vi si include
anche il «contratto» che il fiduciante stipula con la società fiduciaria, «soggetto» normato ben più specificamente
del trust, ma, al pari di questo, officiato dal fiduciante – prevengo la fin troppo prevedibile obiezione: questo concetto di vasta categoria dei negozi fiduciari (che non è più quella che stigmatizzava il grassettiano commento alla monografia di Franceschelli sul trust) non può escludere l’«amministrazione» di cui alla legge 23 novembre 1939, n.
1966, per l’evidente contraddizione in cui cadrebbe, a prescindere dal contenuto del «programma» e dalla «separazione» (dal patrimonio del fiduciante, conclamata in quello della società fiduciaria). La differenza tra le due fattispecie non è in discussione, questa verte sulla inclassificabilità come «mandato senza rappresentanza».
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali - n. 6-2014
anteriormente o nell’anno successivo), con espressione tuttavia non univoca, potendo riferirsi sia alla cancellazione della società e sia alla mera disgregazione dell’azienda come iniziativa imprenditoriale.
L’orientamento dominante in giurisprudenza reputava non cessata
l’impresa collettiva sino a quando esistessero rapporti pendenti, con conseguente ammissibilità della liquidazione concorsuale; la sentenza della Corte cost. 21 luglio 2000, n. 319, dichiarò la norma incostituzionale, nella parte in cui non prevedeva che il termine annuale per la dichiarazione di fallimento dell’impresa collettiva decorresse, per le società, dalla cancellazione
dal registro delle imprese.
Il nuovo testo della legge fallim., art. 10, risultante dal D.Lgs. 9 gennaio
2006, n. 5, art. 9, con l’espressione «cancellazione» ha recepito il portato
del giudice delle leggi divenendo l’iscrizione della cancellazione il dies a
quo del termine annuale per la fallibilità delle società cancellate.
re prestabilito (ma tutti i programmi lo sono, altrimenti non sarebbero programmi, come
vuole l’etimo prográphō «scrivo prima»), contempla attività in misura più continuativa e complessa, in sintonia con quella giurisprudenza di merito che, sulla scorta di parte della dottrina, identifica «la causa del negozio istitutivo di trust [con] il programma della segregazione di
una o più posizioni soggettive o di un complesso di posizioni soggettive unitariamente considerato (beni in trust) affidate al trustee per la tutela di interessi che l’ordinamento ritiene meritevoli di tutela (scopo del trust)» (12).
A prescindere dal neologismo in voga, la «segregazione» è pur sempre l’effetto derivante dall’avere destinato quei beni a conseguire l’obbiettivo del destinate-disponente, e la giurisprudenza, che ha deciso la querelle tra i pro e i contro trust-interno-sostenitori evidenzia che
«l’effetto segregativo [è] espressamente sancito come “effetto necessario minimo” dall’art. 11
[conv.] ... deroga all’art. 2740 cod. civ. che, secondo la gran parte degli autori, è stata introdotta
nell’ordinamento dalla stessa legge di ratifica» (13).
Il contesto, però, lascia intendere che si sarebbe voluto indicare che, come negli atti di
destinazione (dell’art. 2645-ter cod. civ.) il destinare è la causa astratta e la specificazione della destinazione giustifica la meritorietà della avvenuta istituzione, così il destinare – a prescindere che sia finalità o scopo (14) – è la causa astratta del trust e la destinazione ne è la causa
concreta (15).
(12) Tribunale Reggio Emilia, 27 agosto 2011, www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/7855.
(13) Tribunale Bologna, 1o ottobre 2003, n. 4545, che precisa: «...effetto segregativo, che, un’altra autorevole dottrina spiega che si verifica perché i beni conferiti in trust non entrano nel patrimonio del trustee se non per
la realizzazione dello scopo indicato dal settlor e col fine specifico di restare separati dai suoi averi (pena la mancanza
di causa del trasferimento).» in La giurisprudenza italiana sui trust, Trusts – Quaderni, Milano, 2009; adde (né potrebbe essere diversamente) Tribunale Reggio Emilia secondo cui «l’effetto segregativo realizzato col trust (e a
questo coessenziale), difatti, non è il fine ma il mezzo (melius, uno dei mezzi) attraverso il quale raggiungere diversi
e più pregnanti obiettivi corrispondenti ad altrettante esigenze (la segregazione patrimoniale è mero corollario di un
trust validamente istituito e l’analisi della validità non può, dunque, avere inizio da questa e/o dagli effetti per i creditori ma dagli scopi del programma negoziale)» (27 agosto 2011).
(14) La ricchezza della lingua italiana consente di esprimere le differenze concettuali con l’opportuno utilizzo semantico dei sinonimi.
(15) Ovvero gli «interessi meritevoli di tutela», secondo l’interpretazione prevalente. Se il qualificare «la separazione patrimoniale in vista del soddisfacimento di un interesse del beneficiario o del perseguimento di un fine dato, tan-
Parte II - Giurisprudenza
613
Nessun elemento autorizza ad interpretare la disposizione con riferimento alla diversa data di presentazione della domanda di iscrizione. Il registro delle imprese, per la sua funzione pubblicitaria, dichiarativa o costitutiva degli effetti, impone l’iscrizione dell’evento; e la legge prevede il prodursi degli effetti proprio dal momento in cui l’iscrizione è avvenuta (cfr.
già gli artt. 2193 e 2448 cod. civ.), a tutela dei terzi; mentre l’esigenza di seguire un procedimento amministrativo per giungere all’iscrizione stessa resta irrilevante i fini predetti, che possono dirsi raggiunti soltanto con il suo
perfezionamento.
Del resto, laddove l’ordinamento ha voluto ammettere effetti retroattivi dell’iscrizione rispetto a tale momento, lo ha espressamente previsto (art.
2504-bis cod. civ., che pone il criterio generale ex lege di decorrenza degli
effetti dalla data dell’ultima iscrizione dell’atto di fusione, derogabile, nel
rispetto di determinati presupposti, con pattuizione di una data antecedente o posteriore e solo riguardo a specifici profili; art. 2504-decies cod. civ.).
Né, come assume invece la ricorrente, può operarsi alcuna analogia, attese le rationes affatto distinte, con gli effetti della notificazione di un atto
Ed è alle circostanze del caso di specie, da cui desumere la causa concreta dell’operazione
che deve essere rivolta l’attenzione per valutarne la liceità, in modo particolare trattandosi di
strumento estraneo alla nostra tradizione di diritto civile ma che, pur estraneo, si affianca, in
modo particolarmente efficace, ad altri esempi di intestazione fiduciaria volti all’elusione di
to che i beni vengono separati dal restante patrimonio ed intestati ad altro soggetto, parimenti in modo separato dal patrimonio di quest’ultimo come una delle caratteristiche in generale del trust, secondo la definizione dell’art. 2 della Convenzione» può essere condivisibile, non lo è l’affermare che è lo scopo di costituire una separazione patrimoniale; e ciò
anche se la «causa» del negozio trust è un altro dei temi controversi (si veda, tra i tanti interventi A. Palazzo, in Trust:
opinioni a confronto, a cura di E. Barla de Guglielmi, Trusts, Quaderni, Milano, 2006, pag. 268).
Quasi contemporaneamente, sia pure in campo penale, la Suprema Corte ha avuto modo di affermare che «il
fenomeno della destinazione per sua natura comporta, sul versante civilistico, che il patrimonio separato diventi insensibile alle vicende personali del soggetto cui formalmente appartiene, atteso che i beni oggetto del vincolo sono sottratti alla garanzia patrimoniale generica incombente sull’intestatario di tali beni e si è avuto cura di precisare che la funzione destinatoria deve costituire la legittima espressione dell’esercizio di un potere dispositivo di cui il c.d. negozio di
destinazione costituisce l’atto programmatico iniziale, con la conseguenza che siffatto potere ordinante, nel conformare l’uso del bene, non si esaurisce nel solo momento programmatico, ma si articola attraverso un procedimento attuativo che, pur diversamente graduabile a seconda delle concrete vicende negoziali, deve comunque rendere effettiva e rilevante la destinazione anche nei confronti dei terzi. Specificazione cui si aggiunge che la destinazione quale indice essenziale del collegamento fra patrimonio ed attività, costituisce, in generale, una tecnica di funzionalizzazione dei beni
ed acquista oggettività quando è attuata in fatto, ossia attraverso la manifestazione di una concreta attività che ne realizzi il vincolo» (Cassazione pen., 27 maggio 2014, n. 21621, l’evidenza è aggiunta). In dottrina si obietta che all’atto di
destinazione e così alla destinazione in sé rileva la mancanza del «requisito della expressio causae» (P. Manes, La
norma sulla trascrizione di atti di destinazione è, dunque, norma sugli effetti, in Contr. impr., 2006, pag. 632, ove in
adesione a Tribunale Trieste, 7 aprile 2006); la giurisprudenza di merito si confronta sulle due antitetiche posizioni
sulla esistenza-inesistenza del «negozio di destinazione puro» (la cui causa è insita nella «volontà destinatoria» del costituente sorretta da meritevolezza) negata da Tribunale Reggio Emilia, 27 gennaio 2014, che adde a Tribunale Reggio Emilia, 22 giugno 2012, e affermata da Appello Venezia, 10 luglio 2014, secondo la quale è divenuto «possibile
nel nostro ordinamento attribuire rilevanza ed efficacia ai più disparati vincoli di destinazione impressi dall’autonomia
privata, senza pretendere che gli interessi sottesi siano gìà selezionati come meritevoli di riconoscimento da una norma
positiva, e, comunque, anche in assenza di atti traslativi dei beni stessi».
614
Il diritto fallimentare e delle società commerciali - n. 6-2014
del processo, ove vige il principio della scissione del momento perfezionativo della notificazione per il richiedente e per il destinatario, o con l’ipotesi dell’imprenditore persona fisica, ove non è certo l’evento formale della
iscrizione – a differenza che per le società di capitali – a produrre l’effetto
estintivo.
In modo speculare, questa Corte ha già statuito che la fallibilità dell’imprenditore purché la dichiarazione pervenga entro il termine di un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, pur ponendo a carico del
creditore che ha tempestivamente presentato istanza di fallimento il rischio
della durata del relativo procedimento, non è in contrasto con gli artt. 3 e
24 Cost.: ed ha osservato in particolare come, con riferimento al diritto di
difesa, la previsione di un termine annuale rappresenta il punto di mediazione nella tutela di interessi contrapposti, quali, da un lato, quelli dei creditori, e, dall’altro, quello generale alla certezza dei rapporti giuridici (Cassazione, sez. I, 12 aprile 2013, n. 8932).
La stessa esigenza di certezza si pone con riguardo alla questione all’esame, in ordine alla quale deve, in conclusione, affermarsi il principio
che, ai sensi della legge fallim., art. 10, ai fini della decorrenza del termine
norme imperative, da cui sembra di capire che la particolarità della sua efficacia consisterebbe nel suo tendenziale essere «volto» alla elusione di norme imperative.
È intrigante questa osservazione della Corte per chi, come chi scrive, va sostenendo da
tempo che accanto al tentativo in atto di unificare le fattispecie «elusione» e «evasione» per
contrastare la «tax avoidance», resiste la corretta interpretazione che distingue l’elusione lecita dalla elusione illecita e il «fatto fiduciario» con la «intestazione in fiducia», la sua più nota evidenza, non tende di necessità ad aggirare norme imperative. Intrigante perché, pur assumendo, con questa sentenza, che vi sarebbero strumenti, voluti dall’ordinamento, votati a
eludere con particolare efficacia norme imperative – ipotesi che non condivido (16) – tuttavia
lo «strumento» non ne viene demonizzato e posto all’indice ma se ne segnala soltanto la situazione di pericolo per chiedere di rivolgere attenzione all’uso (peraltro, sempre più controllato dalla disciplina di prevenzione del riciclaggio: cfr. The FATF Recommendations e
Proposta di IV direttiva, relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo).
4. – Come in una sorta di riepilogo di ciò di cui si intende proporre il proseguimento,
la motivazione richiama quelli che ritiene essere i propri precedenti, le decisioni imperniate
sul c.d. trust interno, dei cui «profili» la Corte ha avuto modo di occuparsi, pur senza pronunciarsi sulla legittimità della sua presenza (17) nell’ordinamento interno, adducendo le ragioni che lo giustificano: la sentenza «13 giugno 2008, n. 16022 verte sul trust familiare», istituito in Inghilterra, con riferimento al Trust of Land and Appointment of Trustee Act del
(16) Nego, e lo faccio da tempo, che il fatto fiduciario sia di per se stesso, in quanto tale, fattispecie illecita;
sostengo che è l’uso, quindi il motivo, che può essere illecito, ma la fiducia è il rimedio a situazioni di necessità o,
anche, di mera opportunità, come la consolidata tradizione giurisprudenziale del «negozio fiduciario» attesta.
(17) Con ciò non intendo sostenerne la illegittimità o la illiceità o la irriconoscibilità, mi limito al constatare
il fatto, in linea puramente fenomenica.
Parte II - Giurisprudenza
615
annuale entro il quale può essere dichiarato il fallimento di un’impresa
svolta in forma societaria, occorre fare riferimento alla data della sua effettiva cancellazione dal registro delle imprese, a nulla rilevando nei confronti
dei terzi il diverso momento in cui la relativa domanda sia stata presentata
presso il registro delle imprese.
4. – Il trust. I rimanenti motivi, dal quinto all’ottavo, vertono sull’avvenuta istituzione del c.d. trust liquidatorio e sulla rilevanza del medesimo, al
fine di reputare integro il contraddittorio nel procedimento per la dichiarazione di fallimento e raggiunti gli effetti che con questo istituto la società
ha voluto perseguire.
5. – Insussistenza della soggettività del trust. In ordine al sesto motivo,
da trattare con priorità per ragioni d’ordine logico-giuridico, nessuna violazione degli artt. 101 e 102 cod. proc. civ., sussiste, per non essere stato
convocato nel procedimento il trust, dal momento che, a tacer d’altro, questo non costituisce un soggetto a sé stante, ma un insieme di beni e rapporti
con effetto di segregazione patrimoniale.
Secondo l’art. 2 della Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985, relativa
alla legge applicabile ai trust ed al loro riconoscimento, resa esecutiva in
1996, la cui materia del contendere era la condotta dei due trustee, ex coniugi, ma, come viene dichiarato, si è trattato di «un trust internazionale e non interno»; la sentenza 8 ottobre
2008, n. 24813, il cui thema decidendum è l’accettazione dell’eredità da parte di una fondazione costituita per testamento, con nomina dell’ente in qualità di erede universale; la sentenza 22 dicembre 2011, n. 28363 sfiora il tema de quo nel rigettare il secondo motivo del ricorso con il quale era stata denunciata la «violazione e falsa applicazione della L. 16 ottobre
1989, n. 364, artt. 1, 2, 11, 12, di ratifica ed esecuzione della convenzione sulla legge applicabile
ai trusts e sul loro riconoscimento, adottata a L’Aja il 1 Luglio 1985 rilevando che la responsabilità della ricorrente deriva dall’intestazione formale del bene (in conformità alla L. n. 364 del
1989, art. 2, di ratifica della convenzione dell’Aja sulla legge applicabile ai trusts, comma 2,
lett. b laddove si stabilisce che “i beni del trust sono intestati a nome del trustee”)» e null’altro;
l’ordinanza 19 novembre 2012, n. 20254, ha cassato la sentenza della Commissione tributaria
regionale del Lazio per non avere esaminato le ragioni economiche e familiari dedotte per
contestare il carattere elusivo dell’operazione posta in essere con il conferire al trust istituito
un immobile a uso prima abitazione in seguito rivenduto con il conseguito risparmio fiscale;
infine, la sentenza «24 gennaio 2011, n. 13276 si è occupata della confisca dei beni in trust,
qualora esso risulti una mera apparenza (il c.d. sham trust)» (18).
(18) Secondo la quale il trust, «tipico istituto di diritto inglese», consiste nell’affidare determinati beni a un terzo perché «li amministri e gestisca quale “proprietario” (nel senso di titolare dei diritti ceduti) per poi restituirli, alla fine del periodi di durata del trust, ai soggetti indicati dal disponente. Presupposto coessenziale alla stessa natura dell’istituto è che il detto disponente perda la disponibilità di quanto abbia conferito in trust, al di là di determinati poteri che
possano competergli in base alle norme costitutive. Tale condizione è ineludibile al punto che, ove risulti che la perdita
del controllo dei beni da parte del disponente sia solo apparente, il trust è nullo (sham trust) e non produce l’effetto segregativo che gli è proprio. Tale situazione di mera apparenza, che sul versante civilistico sarebbe causa di radicale nullità, è stata argomentatamente ritenuta dal giudice della cautela, per inferire che, al di là delle forme, l’O., trustee egli
stesso, continuava ad amministrare i beni, conservandone la piena disponibilità. Di talché, la costituzione in trust sa-
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali - n. 6-2014
Italia con L. 16 ottobre 1989, n. 364, per trust s’intendono «i rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente – con atto tra vivi o mortis causa
– qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine determinato», caratterizzato dal fatto
che «i beni in trust costituiscono una massa distinta e non sono parte del
patrimonio del trustee» venendo essi «intestati al trustee o ad un altro soggetto per conto del trustee», che ha il potere e l’obbligo, «di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle
disposizioni del trust e secondo le norme imposte dalla legge al trustee».
Come questa Corte ha già ritenuto (Cassazione, sez. II, 22 dicembre
2011, n. 28363, in tema di sanzioni amministrative relative alla circolazione
stradale), il trust non è un soggetto giuridico dotato di una propria personalità ed il trustee è l’unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi,
non quale «legale rappresentante» di un soggetto (che non esiste), ma come soggetto che dispone del diritto.
L’effetto proprio del trust validamente costituito è dunque quello non
di dar vita ad un nuovo soggetto, ma unicamente di istituire un patrimonio
destinato al fine prestabilito.
La serie ha tralasciato le sentenze, emesse in sede penale: 18 dicembre 2004, n. 48708;
30 dicembre 2004, n. 49974 (19); 3 dicembre 2009, n. 46646; 14 maggio 2010, n. 18494; 9 luglio 2010, n. 26311; 30 marzo 2011, n. 13276; 8 giugno 2012, n. 25520, che riprende il proprio precedente 49974/2004 con una nota di larvato criticismo al «sofisticato strumento della
costituzione di un trust assunto come chiaro indice della volontà degli imputati di distrarre i
beni» e alla «elevata abilità distrattiva dimostrata dagli imputati, già con lo stesso ricorso al so-
rebbe stato mero espediente per creare un diaframma tra patrimonio personale e proprietà costituita in trust, con evidente finalità elusiva delle ragioni creditorie di terzi, comprese quelle erariali. Se tale era la finalità dell’iniziativa, risulta irrilevante, contrariamente a quanto assume la difesa, che il trust sia stato costituito il 2 novembre 2010, quando l’O.
non sapeva neppure di essere indagato». Su cui M. Lupoi, La Cassazione e il trust sham, in Trusts, 2011, 469; G. Palasciano, Sequestro (e confisca) di beni in trust autodichiarato, in Il fisco, 20/2011, 2, pag. 3219; F. Fontana, Utilizzo del trust come schermo abusivo alle pretese del Fisco, in RGT, 2011, pag. 688; F. Di Maio, Trust interno, trust auto-dichiarato e confisca dei beni (in trust), in Il Notaro, maggio-giugno 2011.
(19) «... è risaputo infatti che l’istituto del “trust” di origine anglosassone, introdotto nel diritto comunitario
europeo a seguito della Convenzione dell’Aia del 1 luglio 1985, ratificata dal Governo Italiano con legge 16 ottobre
1989, n. 364, non trova specifica disciplina nel nostro ordinamento civile, se non attraverso quelle norme del codice
civile, che disciplinano i negozi giuridici dispositivi di beni mobili e immobili. Tale istituto è finalizzato nella maggior parte dei casi alla formazione di patrimoni separati rispetto a quello del disponente e si articola attraverso la devoluzione al fiduciario (c.d. “trustee”), che ne accetta la piena proprietà, di determinati beni del disponente, i quali
di conseguenza diventano in aggredibili sia dai creditori personali del trustee, sia dai creditori del disponente. Nel
caso in esame, per come si legge nei rogiti allegati agli atti, qui trasmessi, la costituzione dei trusts, i cui beni costituiscono oggetto del sequestro, appaiono all’evidenza, finalizzati, per la fretta con cui si è ricorso a tali sofisticati negozi
giuridici in coincidenza con il deposito del lodo sfavorevole agli indagati e la messa in mora per l’adempimento degli
obblighi da esso derivanti e per lo stretto vincolo di parentela tra fiduciante e fiduciario, ad ostacolare e paralizzare le
azioni del creditore-querelante, non garantite neppure dal diritto in capo a quest’ultimo alla menzionata azione revocatoria, perfettamente inutile di fronte ad una eventuale alienazione dei beni a terzi da parte del trustee», citata
da M. Atzori, Riflessioni finali sui trust liquidatori, in T&AF, 2004, pag. 573; Cons. Naz. Notariato, Note sul
trust istituito da imprese in crisi (in funzione liquidatoria).
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617
6. – Rilevabilità d’ufficio dell’illiceità. È infondato il settimo motivo del ricorso, perché la rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia o nullità dell’atto istitutivo del trust, su cui la società fallita pretende fondare l’insussistenza dei requisiti del fallimento, escluderebbe già la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., da
parte della sentenza impugnata (e si ricorda qui l’ampiezza della rilevabilità
d’ufficio di tale vizio, secondo Cassazione, sez. un., 4 settembre 2012, n.
14828); mentre, più precisamente, di non riconoscibilità si tratta (v. infra).
7. – Trust liquidatorio e insolvenza. Il quinto e l’ottavo motivo possono
essere trattati congiuntamente, ponendo entrambi, sotto il profilo del vizio
di motivazione di cui all’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5, la questione
della liceità ed efficacia del trust in esame e degli eventuali effetti della sua
illiceità, ravvisata dalla corte d’appello, con riguardo al requisito dell’insolvenza della società al fine di fondare la dichiarazione di fallimento.
7.1. – La Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985, resa esecutiva in Italia
con la citata L. n. 364 del 1989, quale convenzione di diritto internazionale
privato, regola la possibilità del riconoscimento degli effetti in Italia ad un
particolare strumento di autonomia negoziale proprio dei sistemi di
fisticato strumento del trust»; 30 marzo 2011, n. 13276; 8 ottobre 2013, n. 41670 (20) e 27
maggio 2014, n. 21621 (21); in tema fiscale, Cassazione pen., 16 settembre 2013.
(20) Il Collegio ritiene «con riguardo alla pretesa applicabilità, in favore del Trust Nipoti di L.G., del principio affermato con riferimento al fondo patrimoniale dalla sentenza di questa Corte n. 598 del 2004, richiamata nel
ricorso, [che è] da escludere, ove si consideri che, a prescindere dalla maggiore o minore intensità ed estensione del
“vincolo di segregazione” derivante dalla creazione del “trust” rispetto a quello derivante dalla creazione del fondo
patrimoniale, nel caso cui si riferiva la citata sentenza non risultava in alcun modo messa in dubbio la reale ed effettiva costituzione del fondo patrimoniale laddove, nella fattispecie in esame, si sostiene, da parte dell’accusa (poco
importa, in questa sede, se a torto o a ragione), il carattere fittizio del trust e, quindi, la effettiva disponibilità dei relativi berti da parte degl’imputati».
(21) «... Ne consegue, pertanto, che ai fini del sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente
ben possono rilevare tutte quelle situazioni, giuridiche o di fatto, nelle quali i beni stessi ricadano nella sfera degli
interessi economici del reo, ancorché il potere dispositivo su di essi venga esercitato per il tramite di terzi (arg. ex sez.
III, 8 marzo 2012, n. 15210, dep. 20 aprile 2012, Rv. 252378).
Al riguardo, inoltre, giova richiamare, per l’affinità dell’epilogo decisorio, la sostanza della linea interpretativa già tracciata da questa Suprema Corte (sez. V, 24 gennaio 2011, n. 13276, dep. 30 marzo 2011, Rv. 249838), allorquando ha avuto modo di affermare, sia pure in relazione alla diversa ipotesi della confisca di cui all’art. 11 della
L. n. 146/2006 e del sequestro preventivo ad essa direttamente funzionale, che sono assoggettabili al sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente beni rientranti nella disponibilità dell’indagato, ancorché conferiti
in trust, che l’indagato trustee continui ad amministrare conservandone la piena disponibilità.
Si è infatti osservato, sul punto, che il trust, tipico istituto di diritto inglese, si concreta nell’affidamento ad un
terzo di determinati beni perché questi li amministri e gestisca quale “proprietario” (nel senso di titolare dei diritti
ceduti) per poi restituirli, alla fine del periodo di durata del trust, ai soggetti indicati dal disponente.
Presupposto coessenziale alla stessa natura dell’istituto è che il disponente perda la disponibilità di quanto abbia conferito in trust, al di là di determinati poteri che possano competergli in base alle norme costitutive. Tale condizione è ineludibile al punto che, ove risulti che la perdita del controllo dei beni da parte del disponente sia solo apparente, il trust è nullo (sham trust) e non produce l’effetto segregativo che gli è proprio.
Nell’ipotesi or ora menzionata si è avuto modo di precisare che quella situazione di mera apparenza, che sul
versante civilistico sarebbe causa di radicale nullità, era stata argomentatamente ritenuta dal giudice della cautela,
per inferire che, al di là delle forme, l’imputato, trustee egli stesso, continuava ad amministrare i beni, conservando-
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali - n. 6-2014
common law, il trust. L’eventuale riconoscimento comporta che il trust sia
regolato dalla legge scelta dalle parti o da quella individuata secondo le regole della stessa convenzione (art. 6-10); l’atto di trasferimento dei beni in
trust resta, invece, regolato dalla lex fori (art. 4).
Peraltro, in ragione della estraneità dello strumento agli istituti giuridici di molti ordinamenti, la Convenzione dell’Aja contiene plurimi limiti di
efficacia per il trust nell’art. 13, art. 15, comma 1, lett. e), artt. 16 e 18.
La prima norma, nell’ambito di quelle deputate proprio a regolare le
condizioni del riconoscimento, prevede: «Nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi significativi, ad eccezione della scelta della legge applicabile, del luogo di amministrazione o della residenza abituale del
Ponendosi come prosieguo del medesimo orientamento deve essere parso superfluo,
pleonastico, il preoccuparsi di giustificare il già giustificato, tanto da aderire al diffuso orientamento presso i giudici di merito di quella forma di trust interno che avrebbe ben potuto presentare il dubbio di legittimità e che, viceversa, si deve essere ritenuto implicitamente superato dall’assumere il trust quale regolamento di interessi veicolato da negozio in astratto riconoscibile in forza di convenzione internazionale. Ignorate le tesi che negano alla «convenzione» la capacità di introdurre il trust in ordinamenti no-trust (22).
5.1. – L’interesse di questa decisione è tutto polarizzato sull’ultima, in ordine di creatività, evoluzione del trust interno, «il c.d. trust liquidatorio», in virtù del quale il liquidatore
della società istituisce il trust e gli conferisce l’intero patrimonio aziendale, attivo e passivo,
«per provvedere, in forme privatistiche, alla liquidazione»; operazione, per lo più accompagnata dalla successiva cancellazione della società dal Registro delle imprese.
Rileva la Corte che la giurisprudenza di merito (23), quasi unanime nell’ammetterne la
figura, è in prevalenza orientata a sanzionarne la nullità «allorché [il trust] abbia l’effetto di
sottrarre agli organi della procedura fallimentare la liquidazione dei beni in contrasto con le
norme imperative concorsuali, secondo le espresse regole di esclusione previste dagli artt. 13 e
15, lett. e), della convenzione dell’Aja del l luglio 1985»; orientamento che essa dichiara di
condividere, sia pure relativizzandolo a seconda che il «motivo» (non lo «scopo») del trust liquidatorio istituito lo caratterizzi come (i) trust endo-concorsuale, (ii) trust anticoncorsuale,
(iii) concorsuale-equipollente. Lo «scopo» dichiarato è pur sempre il conseguire la liquidazione della società, ma la modalità prescelta esclude di seguire l’ordinario procedimento di liquidazione, anche concorsuale.
ne la piena disponibilità. Di tal ché, la costituzione in trust aveva rappresentato un mero espediente per creare un
diaframma tra il patrimonio personale e la proprietà costituita in trust, con evidente finalità elusiva delle ragioni
creditorie dei terzi, ivi comprese quelle erariali».
(22) La giurisprudenza di merito, opportunamente se ne è data pensiero: «si è obiettato, tuttavia, che la
Convenzione de L’Aja rientra tra le norme di diritto internazionale privato (secondo l’opinione prevalente e con alcuni dubbi sulla reale natura degli artt. 11 e 12) e che, dunque, non sarebbe ammessa la possibilità di ricorrere ad
una disciplina straniera del trust (invocando anche le disposizioni convenzionali sull’effetto segregativo) in mancanza di elementi di estraneità della fattispecie. Tale tesi – pur sostenuta in dottrina – contrasta con la tendenza degli
ordinamenti moderni a consentire alle parti l’assoluta libertà di scelta della legge regolatrice dei loro rapporti negoziali» (Tribunale Reggio Emilia, 27 agosto 2011).
(23) G. Fanticini, Il trust liquidatorio e il conflitto con il fallimento: confronto sui pro e i contro, inTrusts,
2009, pag. 533 segg.; Notariato, Note sul trust istituito da imprese in crisi (in funzione liquidatoria), Studio n.
161-2011/I – 1 marzo 2012.
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619
trustee, siano collegati più strettamente alla legge di Stati che non riconoscono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione». Essa è dunque rivolta agli Stati e costituisce una norma di preventiva chiusura.
Le altre, collocate fra le disposizioni generali, a loro volta prevedono
alcune condizioni, e su di esse si tornerà oltre.
7.2. – Ciò che caratterizza in generale il trust, secondo la definizione
dell’art. 2 della Convenzione, è lo scopo di costituire una separazione patrimoniale in vista del soddisfacimento di un interesse del beneficiario o
Nel giustificare l’esposta esigenza di relativizzare il realizzato alla luce del motivo sottaciuto allo scopo dichiarato, la sentenza, suscitando sorpresa, esclude uno dei requisiti che la maggior parte della giurisprudenza di merito pretende per ammettere il trust interno, il possedere
«un quid pluris rispetto a quelli già a disposizione dell’autonomia privata nel diritto interno» (24),
adducendo che «non sembra però che l’ordinamento imponga questo limite, alla luce del sistema
rinnovato dalle riforme attuate negli ultimi anni, che ammettono la gestione concordata delle stesse crisi d’impresa». L’alternativa che pone l’affermazione è il ritenere che si è omessa la premessa, mutuata dal lessico legislativo attuale, «ai fini di», il cui unico fine sarebbe quello di limitare
la valutazione della meritevolezza della causa «concreta» al solo confronto con la disciplina fallimentare e il mantenere la esigenza della vantaggiosità del trust interno, ceteris pari bus, con tutti gli altri istituti del diritto interno, oppure il considerare che la meritevolezza della causa «concreta» prescinda dalla vantaggiosità, essendo questa rimessa alla valutazione soggettiva di colui
che intenda avvalersene preferendola ad altre possibilità parimenti concessegli.
Tuttavia, nel rilevare, puntualmente, che «la ricerca di soluzioni alternative, che riescano
a scongiurare il fallimento, è vista con favore dal legislatore degli ultimi due lustri» se ne limita
l’applicabilità a quelle che, comunque, si svolgano «sotto il controllo del ceto creditorio o del
giudice», poiché questo sarebbe proprio quello evitato (secondo il testo) con l’affidare la liquidazione al trustee; argomento che omette di considerare che l’operato del trustee sarebbe
pur sempre soggetto alla vigilanza, quando non all’espresso consenso, del protector, presenza
imprescindibile appartenendo il trust liquidatorio alla classe trust di scopo, e così al controllo
diretto del ceto creditorio ove questi sia stato designato, nell’atto istitutivo, ad assumerne l’ufficio, ovvero al controllo indiretto del ceto creditorio ove l’atto istitutivo abbia designato una
figura super partes dotata di comune affidabilità.
5.2. – Ammessa la specie, trust liquidatorio, e indicatane la teorica tipologia, la motivazione considera l’eventualità che il trust possa essere istituito per sostituire in toto la procedura liquidatoria, al fine di realizzare con altri mezzi il risultato equivalente di recuperare l’attivo,
pagare il passivo, ripartire il residuo e cancellare la società.
Tipologia di trust che sotto il profilo della gradualità della specie non rispetta il requisito del «quid pluris rispetto a quelle già a disposizione dell’autonomia privata nel diritto inter-
(24) Si veda, ad esempio, «la predetta valutazione deve essere compiuta esaminando non tanto la causa “astratta” del trust quanto piuttosto la meritevolezza della causa “concreta”, costituita dal “programma negoziale” fissato dal
disponente nell’atto istitutivo (così anche Tribunale Trieste, 23 settembre 2005; in dottrina: “la causa del negozio istitutivo di trust è il programma della segregazione di una o più posizioni soggettive o di un complesso di posizioni soggettive unitariamente considerato (beni in trust) affidate al trustee per la tutela di interessi che l’ordinamento ritiene meritevoli di tutela (scopo del trust)”); nell’ambito della medesima indagine, poi, occorre considerare che – come afferma
un autore – il trust è uno strumento “residuale”, al quale è possibile ricorrere solo quando gli ordinari strumenti civilistici non consentono di conseguire il medesimo obiettivo (il quale, comunque, deve rappresentare interessi meritevoli
di tutela e non ripugnanti per il sistema)» (Tribunale Reggio Emilia, 27 agosto 2011).
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del perseguimento di un fine dato. I beni vengono separati dal restante patrimonio ed intestati ad altro soggetto, parimenti in modo separato dal patrimonio di quest’ultimo.
Quello enunciato costituisce, tuttavia, lo schema generale (se si vuole,
la causa astratta) di segregazione patrimoniale propria dello strumento in
esame, che si inserisce nell’ambito della più vasta categoria dei negozi fiduciari, e nel quale quindi un soggetto viene incaricato di svolgere una data
attività per conto e nell’interesse di un altro, secondo un prestabilito programma ed in misura più continuativa e complessa rispetto al mandato; di
conseguenza, ne sono sovente oggetto non solo singoli beni, ma anche un
complesso di situazioni soggettive unitariamente considerato, come
l’azienda, che viene intestata ad altri.
Tuttavia, il «programma di segregazione» corrisponde solo allo schema astrattamente previsto dalla Convenzione, laddove il programma concreto non può che risultare sulla base del singolo regolamento d’interessi
attuato, la causa concreta del negozio, secondo la nozione da tempo recepita da questa Corte (tanto da esimere da citazioni). Quale strumento negoziale «astratto», il trust può essere piegato invero al raggiungimento dei più
vari scopi pratici; occorre perciò esaminare, al fine di valutarne la liceità, le
no» e, quindi, dovrebbe essere ritenuto inammissibile o irriconoscibile; mentre, sotto il profilo comparatistico, si dovrebbe constatare che l’ordinamento, per quanto concerne la disciplina della gestione concordata delle crisi d’impresa non impone «questo limite».
Deduzione che, tuttavia, non può non essere a sua volta relativizzata alle condizioni dettate dalla « regola del procedimento di cancellazione dal registro di una società di capitali», di cui agli
artt. 2492 e 2495 cod. civ., ben riassunte dal decreto del tribunale di Milano (25): (i) il compiuto
procedimento liquidatorio, consistente nel realizzare l’attivo patrimoniale della società per soddisfare i suoi creditori e restituire per equivalente ai soci – postergati ex lege ai creditori – l’eventuale residuo di quanto conferito, (ii) il conseguente redigere e sottoporre ai soci e, quindi, il depositare nel registro delle imprese, il bilancio finale di liquidazione che documenti le attività svolte e indichi la parte eventualmente spettante a ciascun socio o azione nella divisione dell’attivo,
(iii) l’approvare, in maniera espressa o tacita, il bilancio finale di liquidazione stesso, (iv) il chiedere di cancellare la società dal registro da parte del liquidatore; e che «la cancellazione con il suo
effetto estintivo è la conclusione di una fattispecie a formazione progressiva la quale, per realizzarsi, non può prescindere da alcuno dei suoi elementi costitutivi come delineati dal tipo legale sopra indicato pur rimanendo ferme le regole individuate dalla giurisprudenza di legittimità a chiusura del
sistema per l’ipotesi di sopravvenienze attive o di residui attivi non liquidati o addirittura non appostati né nel primo né nei successivi bilanci di liquidazione ex art. 2490 cod. civ. sino a quello finale (le
quali costituiscono comunque una evenienza eccezionale e non una declinazione alternativa del procedimento di liquidazione».
Ricorda il decreto che il liquidatore della società aveva depositato e sottoposto ai soci il
bilancio finale di liquidazione nel quale aveva rappresentato che (i) l’intero attivo patrimoniale era stato affidato al trustee mediante apposito negozio di trust, (ii) nessuna sua posta
(25) Sezione specializzata in materia d’impresa, 22 novembre 2013, n. 8851.
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circostanze del caso di specie, da cui desumere la causa concreta dell’operazione: particolarmente rilevante in uno strumento estraneo alla nostratradizione
di diritto civile e che si affianca, in modo particolarmente efficace, ad altri
esempi di intestazione fiduciaria volti all’elusione di norme imperative.
7.3. – Questa Corte ha avuto occasione di pronunciarsi su taluni profili
dell’istituto: così Cassazione, sez. I, 13 giugno 2008, n. 16022, sul trust familiare, qualificato munus di diritto privato, che si sostanzia non nel compimento di un singolo atto giuridico, bensì in un’attività multiforme e continua, peraltro arrestandosi la sentenza su profili di inammissibilità e riguardando un trust internazionale e non interno; Cassazione, sez. II, 8 ottobre 2008, n. 24813, che, nell’escludere ricorresse un patto successorio
vietato ex artt. 458 e 589 cod. civ., in ordine alle disposizioni testamentarie
poste in essere da due soggetti e dirette a costituire un’unica fondazione
nominandola erede universale, ha riflettuto sulla tendenza alla progressiva
erosione della portata del divieto dei patti successori, evidenziata, salvi i diritti dei legittimari, dal recepimento nella normativa nazionale dell’istituto
di common law del trust; la già menzionata sentenza Cassazione, sez. II, 22
dicembre 2011, n. 28363, che ne ha negato la soggettività; Cassazione,
era stata a quella data liquidata, (iii) nessun creditore era stato sempre a quella data soddisfatto, per cui la effettiva liquidazione dell’attivo e l’estinzione del passivo costituivano lo
scopo del trust liquidatorio istituito e dell’avvenuto conferimento (26) dell’intero e intatto patrimonio della società in liquidazione, da cui al Collegio « pare evidente che, nonostante la dichiarata volontà del liquidatore e dei soci (con l’avallo dei sindaci) di assolvere per tale via all’obbligo di ottemperare al procedimento liquidatorio e di considerare pertanto quello approvato quale bilancio finale della liquidazione stessa, che di tali procedimento e documento contabile quelli redatti e posti in essere dal liquidatore e dai soci hanno avuto il mero nomen iuris ma
non il contenuto legale tipico, realizzandosi così in realtà la dilazione a data futura ed incerta
della liquidazione in senso proprio, la quale pertanto a detta data doveva ritenersi non solo non
compiuta ma neppure iniziata; per cui si può affermare che, redigendo ed approvando un tale
documento e procedendo sulla sua scorta a richiedere la cancellazione della società, i liquidatori
e i soci della DPI hanno posto in essere fatti ed atti che non corrispondono se non nominalmente al tipo normativo “liquidazione e cancellazione di società di capitali”, onde quest’ultima è stata senz’altro iscritta in difetto delle condizioni minime previste dalla legge a tale scopo», in
quanto si assume che «la cancellazione dell’ente (e la connessa estinzione) non consegue immediatamente al verificarsi di una causa di scioglimento ma è il risultato di una fattispecie a formazione progressiva, articolata nell’accertamento ad opera degli amministratori della causa di scioglimento (art. 2484 cod. civ.), nella nomina assembleare del liquidatore (art. 2487 cod. civ.),
nella attività di liquidazione in senso proprio, culminante nella redazione del bilancio finale di
(26) Il provvedimento, a questo proposito, cede al lessico preponderante e usa, come la sentenza in commento, il termine «segregazione» in modo non appropriato (ammettendo che lo si possa considerare, comunque,
appropriato): «costituendo tale futura liquidazione dell’attivo ed estinzione del passivo per l’appunto lo scopo del
trust liquidatorio posto in essere e della segregazione mediante tale strumento negoziale dell’intero ed intatto patrimonio della DPI»; anche se il senso di quello che si intendeva affermare è diverso da quello che la formulazione
lascia intendere, la «segregazione», non è lo scopo ma uno degli effetti del trust.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali - n. 6-2014
sez. VI-V, ord. 19 novembre 2012, n. 20254, la quale ha ritenuto necessario
accertare se, in caso d’intestazione di beni immobili al trust, esso risponda
anche a ragioni economico-sociali, o se invece non abbia l’esclusiva funzione di consentire un risparmio fiscale; sotto il profilo penale, Cassazione
pen., sez. V, 24 gennaio 2011, n. 13276 si è occupata della confisca dei beni
in trust, qualora esso risulti una mera apparenza (il c.d. sham trust).
Non si è ancora pronunciata, invece, questa Corte sul trust liquidatorio.
È peraltro diffuso, presso i giudici di merito, l’orientamento secondo
cui il c.d. trust liquidatorio segregazione patrimoniale di tutto il patrimonio
aziendale istituita per provvedere, in forme privatistiche, alla liquidazione
dell’azienda sociale – è nullo, ai sensi dell’art. 1418 cod. civ., allorché abbia
l’effetto di sottrarre agli organi della procedura fallimentare la liquidazione
dei beni in contrasto con le norme imperative concorsuali, secondo le
espresse regole di esclusione previste dall’art. 13, e art. 15, lett. e), della
convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985.
A questa tesi aderisce anche la sentenza impugnata.
Reputa la Corte che l’orientamento vada condiviso, con le precisazioni
che seguono.
liquidazione (art. 2492 cod. civ.) recante l’indicazione della “parte spettante a ciascun socio o
azione nella divisione dell’attivo”, bilancio solo all’approvazione del quale può poi far seguito la
richiesta di cancellazione della società dal Registro delle imprese». Di conseguenza la attività
liquidatoria è indefettibile (27).
Tuttavia, la sentenza in commento, senza renderne ragione, prescinde da questo principio di diritto per interessarsi soltanto del rapporto del trust liquidatorio con la disciplina fallimentare, al cui riguardo ritiene che il trust liquidatorio del tipo endo-concorsuale non si pone in contraddizione con la natura officiosa della procedura e con la sua funzione di tutelare
l’ordine economico, anche perché la soluzione concordata non investirebbe tutte le fasi dell’accertamento dei crediti, dell’acquisizione dell’attivo, del riparto, ma solo taluni momenti specifici e tenuto, altresì, conto che le novelle fallimentari hanno ampliato l’ambito dell’autonomia
negoziale; cosicché sembrerebbe che la pre-condizione sia che la società (in liquidazione)
non venga cancellata e vi sia il consenso, anche tacito, dei creditori, come prevedono le soluzioni concorrenti alle quali fa riferimento la sentenza in relazione alla lettera «e» del comma
3 dell’art. 67 legge fallim. (28).
A diversa conclusione si deve pervenire per il tipo anticoncorsuale, che si confronta con
la situazione di evidente insolvenza dell’azienda in liquidazione, al cui accertarsi verrebbe
meno, la garanzia della par condicio creditorum.
Tuttavia, è meramente teorica la distinzione posta dalla sentenza tra istituti che perderebbero il loro carattere privatistico, laddove il trust sarebbe ancorato a regole e interessi comunque privati del disponente, e la procedura concorsuale, destinata a sopravvenire nel caso di
insolvenza a tutela della par condicio creditorum, che rivestirebbe natura schiettamente pub-
(27) Giusta anche le decisioni delle Sezioni Unite che il Collegio milanese ha cura di richiamare.
(28) Il concordato e gli accordi di ristrutturazione, nonché i trattamenti differenziati fra creditori appartenenti a classi diverse nell’ambito delle proposte di concordato fallimentare e preventivo, su cui, Tribunale Ravenna, 22 maggio 2014.
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7.4. – Ove il trust intervenga con finalità di liquidazione del patrimonio
sociale segregato, in astratto tre le situazioni che possono configurarsi: a) il
trust viene concluso per sostituire in toto la procedura liquidatoria, al fine
di realizzare con altri mezzi il risultato equivalente di recuperare l’attivo,
pagare il passivo, ripartire il residuo e cancellare la società; b) il trust è concluso quale alternativa alle misure concordate di risoluzione della crisi
d’impresa (c.d. trust endo-concorsuale); c) il trust viene a sostituirsi alla
procedura fallimentare ed impedisce lo spossessamento dell’imprenditore
insolvente (c.d. trust anticoncorsuale).
Nel primo caso, potrebbe dirsi lo strumento vietato, qualora si esiga
che esso, per essere riconosciuto nel nostro ordinamento, assicuri un quid
pluris rispetto a quelli già a disposizione dell’autonomia privata nel diritto
interno. Non sembra però che l’ordinamento imponga questo limite, alla
luce del sistema rinnovato dalle riforme attuate negli ultimi anni, che ammettono la gestione concordata delle stesse crisi d’impresa.
blicistica, tale da non essere surrogabile da strumenti che (ove pure siano trasferiti al trustee
anche i rapporti passivi) non garantiscono tale parità, non escludono procedure individuali, non
prevedono trattative vigilate con i creditori al fine della soluzione concordata della crisi, non
contemplano alcun potere di amministrazione o controllo da parte del ceto creditorio o di un organo pubblico neutrale. Poiché, non può non aversi per pacifico che il sopravvenire della dichiarazione di insolvenza è pur sempre il pericolo al quale vanno incontro tutte le «soluzioni
alternative» che si propongono come possibili rimedi della crisi aziendale; per cui sarebbe
utile porre come discrimine, da un canto, lo stato di tensione di liquidità, attestando che la
semi-illiquidità o quasi-illiquidità in se stessa non costituisce insolvenza, dall’altro canto che
il fallimento dichiarato per la riottosità di qualche creditore non determina la risoluzione del
trust, ma soltanto la sostituzione del trustee.
Il presumere che con il trasferire attivo e passivo della società in crisi al trust si intende
eludere il procedimento concorsuale e gli interessi più generali alla cui soddisfazione questo è
preposto, travisando l’avvenuta nomina dei creditori come beneficiarî della liquidazione con
l’intento di escluderli dal governo del patrimonio insolvente, in una situazione per essi priva di
utilità in ragione dell’insindacabile amministrazione del fondo in trust, è quanto dire che il
trust è sham, perché l’intento non sarebbe stato quello di realizzare la liquidazione in modo
più conveniente per i creditori e per gli stessi soci come invece si riteneva nel privilegiare la
capacità del trustee e la minore burocratizzazione dell’iter processuale, senza nulla togliere
agli obblighi di corretta amministrazione che gli incombono come, ben ha indicato il Tribunale di Milano (29) nella sentenza confermata dalla corte territoriale e da quella di legittimità (30).
È poco probabile, se gli estensori non sono degli sprovveduti, che se l’intento è quello
di «segregare tutti i beni dell’impresa, a scapito di forme pubblicistiche quale il fallimento» lo si
ricavi dall’atto istitutivo che reca il programma della destinazione e quindi lo scopo del trust
liquidatorio, la causa concreta. Se il motivo che ha indotto la causa concreta è l’evadere la di-
(29) Tribunale Milano, 21 novembre 2002, in I Contratti, 10/2003/921, con nota di F. Di Maio, La revoca
del trustee di un trust inglese da parte del giudice italiano.
(30) Cassazione, 13 giugno 2008, n. 16022, su cui F. Di Maio, In tema di diligenza del trustee, in Il notaro,
15-30 novembre 2009.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali - n. 6-2014
Nelle altre due fattispecie, poi, la causa concreta va sottoposta ad un
vaglio particolarmente attento e, in caso di esito negativo, il trust sarà non
riconoscibile, non potendo l’ordinamento fornire tutela ad un regolamento
di interessi che, pur veicolato da negozio in astratto riconoscibile in forza
di convenzione internazionale, in concreto contrasti con i fini di cui siano
espressione norme imperative interne.
La ricerca di soluzioni alternative, che riescano a scongiurare il fallimento, è vista con favore dal legislatore degli ultimi due lustri, svolgendosi
peraltro pur sempre tali iniziative negoziate sotto il controllo del ceto creditorio o del giudice; e qui potrebbe inquadrarsi il fenomeno sub b), nella
logica di una valorizzazione negoziale, che non contraddice comunque la
natura officiosa della procedura e la sua funzione di tutelare l’ordine economico, anche perché la soluzione concordata non investirebbe tutte le fasi dell’accertamento dei crediti, dell’acquisizione dell’attivo, del riparto,
ma solo taluni momenti specifici e tenuto, altresì, conto che le novelle fallimentari hanno ampliato l’ambito dell’autonomia negoziale (escludendo al
sciplina fallimentare lo si comprenderà a posteriori, probabilmente quando l’iniziativa non è
andata a buon fine. Tema sul quale si ritornerà.
6.1. – Il contrasto tra i giudicati di merito sulla validità del trust istituito, essendo l’altro tema che il Collegio si è proposto di svolgere, sulla scorta delle ragioni addotte dal Tribunale di Milano e del Tribunale Reggio Emilia in parziale contrasto (31), non avrebbe potuto
non constatare che il trust, interno o esterno che sia, è regolato dalla legge scelta dal disponente, una delle prerogative su cui questi può fare affidamento nel decidere di avvalersene;
non coessenziale all’atto istitutivo, di cui può anche disinteressarsi, ma indispensabile, giacché è alle sue regole che dovrà determinarsi la destinazione impressa ai beni sottoposti al
controllo del trustee, tanto che la decisione su quale debba essere sarà assunta alla luce di
quella posta dall’art. 7 Convenzione, nel momento in cui si renderà necessario decidere sulle
(31) «I sospetti di nullità (o non riconoscibilità) del trust sollevati... trovano fondamento in alcuni precedenti
giurisprudenziali. Secondo l’ordinanza del Tribunale di Milano del 16 giugno 2009 (identiche argomentazioni si
rinvengono in Tribunale Milano, 30 luglio 2009, Tribunale Milano, 17 luglio 2009, Tribunale Milano, 22 ottobre
2009), il trust liquidatorio istituito da un imprenditore insolvente è nullo, per contrasto con l’art. 15 Conv. L’Aja,
poiché l’unica strada percorribile da tale soggetto costituita dal ricorso ad una delle inderogabili procedure concorsuali delineate dalla legge fallimentare, mentre il medesimo trust, se istituito da un imprenditore in bonis, è valido e
risponde a interessi meritevoli di tutela ma, in caso di sopravvenuto fallimento, l’insolvenza costituisce causa sopravvenuta di scioglimento dell’atto istitutivo, analogamente a quelle ipotesi negoziali la cui prosecuzione è incompatibile con la dichiarazione di fallimento; ancor più incisiva è l’argomentazione posta a fondamento della sentenza del
Tribunale di Milano del 29 ottobre 2010, secondo cui è nullo per la sua natura di limite all’esplicazione della inderogabile procedura concorsuale l’atto istitutivo di un trust liquidatorio che non contenga “delle clausole che ne limitino la operatività nel caso di insolvenza conclamata, in modo da restituire i beni comunque alla procedura inderogabile e di carattere pubblicistico prevista per questi casi”. Le pronunce sopra indicate si basano su un “postulato” che, però, non trova chiaro riscontro nell’ordinamento: 1’assoluta inderogabilità, per atto di autonomia privata (e in questo si giustifica il richiamo all’art. 15 Conv. L’Aja, il quale delimita l’applicabilità del testo convenzionale
a favore delle norme interne in tema di insolvenza “quando con un atto volontario non si possa derogare ad esse”,
delle procedure previste dalla Legge Fallimentare» (Tribunale Reggio Emilia, 2 maggio 2012).
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cuni pagamenti dall’area di quelli revocabili, mediante i piani di risanamento
attestati di cui alla legge fallim., art. 67, comma 3, lett. d), il concordato e gli
accordi di ristrutturazione legge fallim., ex art. 67, comma 3, lett. e), e potendosi prevedere trattamenti differenziati fra creditori appartenenti a classi diverse nell’ambito delle proposte di concordato fallimentare e preventivo legge fallim., ex art. 124, comma 2, lett. b), e art. 160, comma 1, lett. d)).
Al contrario, l’alternatività degli strumenti lecitamente utilizzabili va
esclusa, qualora – come nel caso sub c) – non due istituti privatistici si comparino, ma strumenti di cui l’uno, quale il trust, ancorato a regole ed interessi comunque privati del disponente, e l’altro di natura schiettamente
pubblicistica, qual è la procedura concorsuale, destinata a sopravvenire nel
caso di insolvenza a tutela della par condicio creditorum e che non è surrogabile da strumenti che (ove pure siano trasferiti al trustee anche i rapporti
passivi) né garantiscono tale parità, né escludono procedure individuali, né
sorti dell’atto istituito o su qualcuno dei momenti del trust (32) ivi inclusa la sua estinzione.
Ed è alla legge di ciascun atto istitutivo che deve farsi riferimento per decidere in merito alla
sua validità, come ben è evidenziato (nel paragrafo 7.5.).
Ed è a questo proposito che la Corte ritiene di dover mettere ordine, constatando che al
vaglio di validità, giusta la legge regolatrice scelta dal disponente o applicabile secondo la regola della Convenzione (33), è preliminare la formulazione del giudizio di riconoscibilità del
trust nel nostro ordinamento. Giudizio che dovrebbe essere prodromico a quello di meritevolezza, il grimaldello usato per giustificare il trust interno, dovendo accertare che il negozio
istituito – «che si inserisce nell’ambito della più vasta categoria dei negozi fiduciari» – abbia i
requisiti per essere riconosciuto come trust, giusta la finalità stessa della Convenzione. E, infatti, il riconoscimento è il pomo della discordia con coloro che lo limitano ai trust istituiti in
Paesi trust compatibili (34).
(32) Con riferimento alla competenza giurisdizionale le Sezioni Unite, con successiva decisione, richiamando il Regolamento(CE) 44/2001 del 22 dicembre 2000, ne hanno limitato la operatività: «la previsione dell’art. 5, n. 6, del citato regolamento 44/2001, nonché la corrispondente disposizione della pure citata Convenzione
di Lugano, consentono di convenire taluno in giudizio in uno stato membro diverso da quello del proprio domicilio
“nella sua qualità di fondatore, trustee o beneficiario di un trust costituito in applicazione di una legge o per iscritto
o con clausola orale confermata per iscritto, davanti ai giudici dello Stato membro nel cui territorio il trust ha domicilio”, ma non dettano una regola di competenza giurisdizionale esclusiva, onde l’esistenza anche di un foro diverso
ed alternativo consente all’attore di privilegiare quest’ultimo; nella presente causa sono state convenute in giudizio
persone aventi pacificamente il proprio domicilio in Italia, per le quali dunque risulta applicabile il criterio generale
stabilito dall’art. 2 del medesimo regolamento, che attribuisce la competenza giurisdizionale ai giudici dello Stato
membro in cui è domiciliato il convenuto» (Cassazione, sez. un., 20 giugno 2014, n. 14041, ord.). Come è noto la
giurisprudenza – intesa in senso onnicomprensivo – conosce l’istituto «trust», come attestano, per la dottrina, F.
Franceschelli, Il «trust» nel diritto inglese, Padova, 1935, e per la giurisprudenza le decisioni puntualmente riportate in La giurisprudenza italiana sui trust (dal 1899 al 2006), Trusts-Quaderni, Milano, 2006; la «novità», in
senso etimologico, è il «trust interno», di cui l’ordinanza delle Sezioni unite non si occupa.
(33) Così, implicitamente, confermando la giurisprudenza di merito, Tribunale Bologna, 1o ottobre 2003,
cui si riporta Tribunale Reggio Emilia, 27 agosto 2011.
(34) «Si deve ribadire – con la giurisprudenza di merito che ha già affrontato la medesima problematica – che
l’art. 13 consente agli Stati aderenti alla Convenzione (senza riserve, come accaduto per l’Italia) di negare il riconoscimento di un trust “interno” nel caso in cui il ricorso all’istituto e alla disciplina straniera appaia fraudolento e ripugnante: occorre, però “un intento in frode alla legge, volto, cioè, a creare situazioni in contrasto con l’ordinamento
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prevedono trattative vigilate con i creditori al fine della soluzione concordata della crisi, né contemplano alcun potere di amministrazione o controllo da parte del ceto creditorio o di un organo pubblico neutrale.
Del pari, altro è rispetto alle soluzioni negoziali delle crisi d’impresa il
realizzare un’operazione – come il trasferimento in trust dell’azienda sociale – elusiva del procedimento concorsuale e degli interessi più generali alla
cui soddisfazione esso è preposto: operazione che, sotto le vesti di attribuire ai creditori la posizione di beneficiari, non permetta loro la condivisione
del governo del patrimonio insolvente, in una situazione per essi priva di
utilità in ragione dell’insindacabile amministrazione del fondo in trust.
Ove, pertanto, la causa concreta del regolamento in trust sia quella di
segregare tutti i beni dell’impresa, a scapito di forme pubblicistiche quale il
fallimento, che detta dettagliate procedure e requisiti a tutela dei creditori
del disponente, l’ordinamento non può accordarvi tutela. Il trust, sottraendo il patrimonio o l’azienda al suo titolare ed impedendo una liquidazione
Tuttavia la Corte non è di questo dibattito che si preoccupa quanto di stabilire a
quale dei «plurimi limiti di efficacia» ammessi dalla stessa Convenzione debba farsi riferimento per il riconoscere il negozio istituito come trust (interno) liquidatorio; e, seguendo l’articolato, il primo di essi è l’art. 13 con quel «aucun Etat n’est tenu de reconnaître
un trust dont...» che nella versione in lingua inglese prevede «no State shall be bound to
recognize a trust the...», al quale la prevalente giurisprudenza di merito, coerente alla
dottrina, e in aderenza al Rapporto di Von Overbeck (35), si riporta proprio per la fondamentale valutazione del riconoscimento. La Corte, invece, esclude che si possa fare riferimento (i) tanto all’art. 13, che si rivolge allo Stato (36), e così implicitamente negando
che si tratti di norma self-executing, ma meglio specificando che la valutazione, dovendo
essere condotta non sulla scorta della «causa astratta» del negozio ma alla luce della
«causa concreta» induce la meritevolezza (37), (ii) quanto all’art. 16, il quale richiama le
norme di «applicazione necessaria», ossia di norme della lex fori operanti come limite all’applicazione del diritto straniero eventualmente richiamato da una norma di conflitto, e
se è così lo è perché entrambe presuppongono il trust già riconosciuto nell’ordinamento –
deduzione che per essere ragionevole non può non constatare la contraddizione «sebbene in parte regolato comunque da tali norme» che ritiene sia, comunque superata dai
in cui il negozio deve operare” (così Tribunale Bologna, 1 ottobre 2003)» (Tribunale Reggio Emilia, 27 agosto
2011).
(35) A.E. Von Overbeck, Rapport explicatif, in Actes et documents de la Quinzième session (1984), tomo
II, Trust – Loi applicable et reconnaissance, II, La Haye, Olanda, 1985, « La faculté prévue par l’article 13 est
ouverte aux juges de tous les Etats contractants, mais il est évident qu’il s’agit en fait d’une clause de sauvegarde en
faveur des Etats ne connaissant pas le trust»; e «On notera encore que cette disposition permet au juge d’un Etat ne
connaissant pas le trust de refuser la reconnaissance du trust parce qu’il estime qu’il s’agit d’une situation interne»; e
«La clause sera surtout utilisée par les juges qui estiment que la situation a été abusivement soustraite à l’application
de leur propre loi», § 123 e § 124, pag. 397.
(36) La giurisprudenza di merito intende il combinato disposto degli artt. 11 e 13 Conv. rivolto al giudice
al quale sarebbe così consentito di «qualificare la tipologia di trust concretamente adottata al fine di apprezzarne il
programma negoziale... e di vagliare la compatibilità del trust e degli atti collegati (nonché della legge straniera prescelta dalle parti) con l’ordinamento giuridico italiano» (ex plurimis, Tribunale Trieste, 19 settembre 2007, decr.).
(37) Tribunale Trieste, 23 settembre 2005, cui adde Tribunale Reggio Emilia, 27 agosto 2011.
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vigilata – in quanto rimette per intero la liquidazione dell’attivo alla discrezionalità del trustee – determina l’effetto, non accettabile per il nostro ordinamento, di sottrarre il patrimonio del debitore ai procedimenti pubblicistici di gestione delle crisi d’impresa ed all’attivo fallimentare della società
settlor il patrimonio stesso.
7.5. – Ciò posto, occorre determinare le conseguenze di tale contrasto
con i richiamati principi e discipline dell’ordinamento.
Come sopra accennato, secondo la Convenzione dell’Aja il trust è regolato dalla legge scelta dal disponente (art. 6) o, ma solo in mancanza di scelta, dalla legge con la quale ha collegamenti più stretti in dipendenza del
luogo di amministrazione del trust, dell’ubicazione dei beni, della residenza o domicilio del trustee e del luogo in cui lo scopo va realizzato (art. 7),
disciplinando la legge così determinata la validità, l’interpretazione, gli effetti e l’amministrazione del trust (art. 8).
Ove pertanto, come si desume nella specie dal ricorso, il trust sia regolato dalla legge di Jersey (Channel Islands), la validità del medesimo, se lo
si vuole riguardare quale atto istitutivo, andrebbe vagliata alla stregua di
quella disciplina (nata per permettere con una certa ampiezza il ricorso allo
strumento fiduciario).
precedenti, è questo il senso semiotico della parentesi – (iii) quanto all’art. 18, che riguarda specifiche disposizioni della stessa Convenzione.
Interpretazione, anche questa, controcorrente (38). Invocare come norma di riferimento quella dell’art. 15 che nel ragionamento di meritevolezza, si è visto, fornisce la giustificazione dell’escludere il negozio riconosciuto come trust convenzionale, in quanto in conflitto
con la disciplina inderogabile interna o per l’intento in frode alla legge, volto a creare situazioni in contrasto con l’ordinamento in cui il negozio deve operare, vuol dire riconnettere il rifiuto del riconoscimento alla inderogabilità della disciplina concorsuale (39) che inderogabi-
(38) Notariato, Studio n. 161-2011/I – 1 marzo 2012, cit. (nt. 17) par. 3.
(39) La giurisprudenza di merito che «a più riprese ha sancito la meritevolezza degli interessi perseguiti (salvo casi di frode che sono stati opportunamente stigmatizzati e concernano i beni della stessa azienda che si trova in
stato di insolvenza)», infatti, richiama la regola dell’art. 15 Conv. Cfr. Tribunale Mantova, 18 aprile 2011: «Un
trust liquidatorio che si ponga come dichiarato scopo quello di tutelare i creditori ricorrendo alla segregazione patrimoniale di tutto il patrimonio aziendale, quando l’impresa si trova già in stato di insolvenza (ed avrebbe pertanto
dovuto accedere agli istituti concorsuali), è incompatibile con la clausola di salvaguardia di cui all’art. 15, lettera e)
della convenzione dell’Aja 1 luglio 1985. Un trust attuato in tale situazione costituisce un atto privatistico che mira
a sottrarre agli organi della procedura concorsuale la liquidazione dei beni in assenza del presupposto sul quale poggia il potere dell’imprenditore di gestire il proprio patrimonio, ossia che l’impresa sia dotata di mezzi propri. Se così
non fosse a qualunque imprenditore insolvente che intende evitare il fallimento potrebbe essere consentito lo spossessamento di tutti i propri beni mediante conferimento in trust rendendoli non aggredibili dai creditori. In questo
caso, la causa in concreto perseguita dal disponente si pone in contrasto con le norme di cui agli articoli 13 e 15, lettera e) della citata convenzione e comporta la nullità dell’atto istitutivo del trust o comunque la nullità dell’effetto
segregativo che ne scaturisce. Lo scopo di protezione dichiarato dal trust costituisce pertanto non un mezzo di tutela
del patrimonio nell’interesse dei creditori bensì un abusivo utilizzo del trust finalizzato a sottrarre il disponente alla
legislazione concorsuale italiana e comunque un atto negoziale in frode alla legge ex art. 1344 cod. civ. in quanto mirante a realizzare effetti (la sottrazione del patrimonio dell’imprenditore insolvente ai creditori) ripugnanti per l’or-
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Ma al vaglio di validità secondo il diritto straniero prescelto è preliminare la formulazione di un giudizio di riconoscibilità del trust nel nostro
ordinamento, nel raffronto con le norme inderogabili e di ordine pubblico
in materia di procedure concorsuali. E poiché il trust – secondo gli accertamenti di merito della sentenza impugnata, che ha ravvisato come esso fu
costituito in una situazione di insolvenza – si palesa oggettivamente incompatibile con queste, lo strumento, ponendosi in deroga alle medesime, sarà
«non riconoscibile» ai sensi dell’art. 15 della Convenzione.
Tale norma, invero, espressamente prevede che la Convenzione non
possa costituire «ostacolo all’applicazione delle disposizioni della legge designata dalle norme del foro sul conflitto di leggi» in tema di «protezione dei
creditori in caso di insolvenza» (ed applicandosi a società italiana disponente le disposizioni della legge fallimentare interna), e l’ultimo comma aggiunge che «qualora le disposizioni del precedente paragrafo siano di ostacolo al
riconoscimento del trust, il giudice cercherà di attuare gli scopi del trust in
altro modo», così dunque palesando che proprio al giudice compete, e proprio per i motivi elencati nel primo comma, denegare il disconoscimento (e
che dar corso alla procedura fallimentare costituisce appunto un modo compatibile con l’ordinamento di realizzare il fine liquidatorio).
le non è e, soprattutto, sottovalutare il fatto sostanziale che il negozio è già sorto come
trust (40).
Se la coerenza impone di escludere la sanzione di nullità al negozio istituito, poiché
questa presuppone che l’atto sia stato riconosciuto, si deve anche ammettere che il vaglio del
giudice interviene quando il negozio liquidatorio, sia o non sia riconosciuto come trust, è già
stato istituito, la legge regolatrice scelta o, comunque vigente, il trustee nominato, il patrimonio della liquidazione conferito (41). È soltanto a conferimento avvenuto che il creditore non
convinto eccepisce la illegittimità del trust oppure contesta la insolvenza della società conferente. In assenza di una di queste due situazioni, la destinazione è raggiunta.
La sentenza segue il percorso meno aderente al concetto stesso di trust: il giudice pronuncia la sentenza dichiarativa del fallimento e disconosce il trust istituito (42), perché finisce
dinamento giuridico italiano» e Tribunale Reggio Emilia, 14 marzo 2011: «non appare meritevole di tutela il trust
costituito dal liquidatore mediante conferimento dell’intero patrimonio societario attivo e passivo con lo scopo dichiarato di agevolare “l’eventuale commercializzazione del patrimonio, prevenendo eventuali azioni revocatorie
concorsuali” ed altresì di provvedere al pagamento dei creditori sociali nel rispetto della par condicio qualora, dall’analisi complessiva dell’atto istitutivo, si possa affermare che il trust in esame non fornisca alcuna utilità aggiuntiva alla liquidazione della società se non quella di sgravare il liquidatore dei compiti ad esso imposti dalla legge e di
assegnargli la posizione di trustee”)», Tribunale Ravenna, 4 aprile 2013.
(40) Constatazione già in Tribunale Emilia, 2 maggio 2012; ma non per argomentare quanto in seguito,
sebbene, per indicare, in accordo con quella dottrina alla quale aderisce, una modalità di trasferimento dei beni
in trust al curatore del fallimento dichiarato.
(41) Non si è ancora verificato il caso di «accertamento negativo preventivo» o di «ricorso in prevenzione»
contro l’atto istituendo, ma, sia pure in astratto, si deve escluderli poiché, come ben si coglie dalla sentenza in
commento, e si è detto, è alla «causa concreta» che si deve fare riferimento, quindi all’atto già definito la cui realizzazione si è poi mostrata non rispondente: si dice, infatti, l’atto è stato istituito in costanza di insolvenza.
(42) Incidenter tantum. Però, si disconosce ciò che è stato già riconosciuto, perché il trust è già stato
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Non sembra invece potersi fare riferimento all’art. 13, che si rivolge allo Stato; né all’art. 16, il quale richiama le norme di «applicazione necessaria», ossia di norme della lex fori operanti come limite all’applicazione del
diritto straniero eventualmente richiamato da una norma di conflitto, e che
dunque presuppongono il trust già riconosciuto nell’ordinamento, sebbene in parte regolato comunque da tali norme («onde, in presenza di simili
fattispecie, il giudice deve porre in disparte la regola di conflitto competente e fare spazio alla norma di applicazione necessaria nei limiti che essa stabilisce»: Cassazione, sez. I, 28 dicembre 2006, n. 27592; Cassazione, sez.
un., ord. 20 febbraio 2007, n. 3841); lo stesso quanto all’art. 18, che riguarda specifiche disposizioni della stessa Convenzione.
La conseguenza è che il giudice che pronuncia la sentenza dichiarativa
del fallimento provvede incidenter tantum al disconoscimento del trust liquidatorio, il quale finisce per eludere artificiosamente le disposizioni concorsuali sottraendo al curatore la disponibilità dell’attivo societario; una
volta accertata la non riconoscibilità, lo strumento non produce alcun effetto giuridico nel nostro ordinamento, in particolare non quello di creare
un patrimonio separato, restando tamquam non esset; in tal caso, posto
per eludere artificiosamente le disposizioni concorsuali sottraendo al curatore la disponibilità
dell’attivo societario: pero, l’eludere disposizioni concorsuali e così sottrarre a quella disciplina e al suo ufficio la disponibilità dell’attivo societario è espressamente ammesso dal sistema,
tant’è che non lo si accetta soltanto se l’obiettivo è perseguito artificiosamente. Il requisito
della artificiosità appartiene all’area del motivo, non anche a quella della causa, specie se intesa come causa concreta. La causa concreta del trust liquidatorio esprime anche la modalità
con cui si intende perseguire il risultato di liquidare in forma ordinata l’attivo aziendale, di
non immediata monetizzazione, per soddisfare il passivo al meglio (o al meno peggio) delle
condizioni del mercato; scelta, quella così proposta – liquidazione condotta dal trustee, affrancato da obblighi procedurali pur sempre rispettoso delle attese dei beneficiarî, come tutelate dal sistema trust – che sulla scorta del giudizio controfattuale di fattibilità si conferma
più producente rispetto a quelle offerte dall’ordinamento.
La sopravvenuta irrealizzabilità della destinazione per lo stato conclamato di insolvenza
comporta per la Corte che se ne deve accertare – ora per allora – la coesistenza al momento
del conferimento in trust; coesistenza che, pur non impedendo all’imprenditore insolvente
di evitare le procedure concorsuali, previste dalla stessa legge fallimentare, e di perseguire altri accordi con i creditori (i quali potrebbero, anche nel conclamato stato di insolvenza, accettare la cessio bonorum), fissa la frattura, il discrimen fra il lecito e l’illecito nella artificiosità
con la quale sarebbe stato istituito il trust. E, a quanto si legge, l’artificio sarebbe costituito
dal tacere l’insolvenza (43).
istituito nel momento in cui il giudice del merito lo esamina per disconoscerlo, a posteriori con effetto ex
tunc.
(43) Sorprende la ragione con la quale si raffronta negativamente la soluzione negoziale della crisi d’impresa
con il trasferimento in trust dell’azienda sociale che risulterebbe «elusiva del procedimento concorsuale e degli interessi più generali alla cui soddisfazione esso è preposto in quanto sotto le vesti di attribuire ai creditori la posizione di beneficiari non permetterebbe loro di condividere il governo del patrimonio insolvente, mettendoli nella situazione per
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che la Convenzione ex art. 15 cit. non può costituire «ostacolo» all’applicazione della disciplina dell’insolvenza, è quest’ultima a porsi, all’inverso, come ostacolo al riconoscimento del trust.
La sanzione della nullità (ex artt. 1343, 1344, 1345 e 1418 cod. civ.) presuppone che l’atto sia stato riconosciuto dal nostro ordinamento; il conflitto con la disciplina inderogabile concorsuale determina invece la stessa
inesistenza giuridica del trust nel diritto interno.
Il trust deve essere disconosciuto dal giudice del merito, ogni volta che
sia dichiarato il fallimento per essere accertata l’insolvenza del soggetto,
ove l’insolvenza preesistesse all’atto istitutivo.
Dalla dichiarazione di fallimento deriva, quindi, l’integrale non riconoscimento del trust, ai sensi dell’art. 15, comma 1, lett. e), della Convenzione, ponendosi esso oggettivamente in contrasto con il principio di tutela
del ceto creditorio e per il fatto stesso che non consente il normale svolgimento della procedura a causa dell’effetto segregativo, il quale impedirebbe al curatore di amministrare e liquidare l’azienda ed, in generale, i beni
conferiti in trust.
Con un salto logico e temporale, sfuggito nello svolgere il ragionamento argomentativo, la sentenza conclude che il postumo accertamento comporta la non riconoscibilità, che a
sua volta determina la caducità degli effetti giuridici voluti dalla Convenzione (e dalla legge
di ratifica), «in particolare non quello di creare un patrimonio separato[non doveva essere segregato], restando tamquam non esset»; e, per rafforzare il proprio argomento, adduce «che
la Convenzione ex art. 15 cit. non può costituire “ostacolo” all’applicazione della disciplina dell’insolvenza, è quest’ultima a porsi, all’inverso, come ostacolo al riconoscimento del trust».
Ma il trust è stato riconosciuto nel momento in cui si è ritenuto che i suoi interessi erano meritevoli di tutela, giusta quel «vaglio particolarmente attento» al quale è stata sottoposta la
causa concreta, da notaio e dal trustee nell’accettare l’ufficio. Superato il giudizio di meritevolezza, il passepartout del trust interno, si chiude lo spazio al successivo disconoscimento (44). Questo è un altro dei momenti che la sentenza non esplora (45).
essi priva di utilità; dove la ragione della dichiarata carenza di utilità consiste nell’insindacabile amministrazione del
fondo in trust». Assodato che le sentenze risolvono sempre il singolo fatto, così come esposto e con le ragioni addotte dalle parti, quindi ben può essere che quello affrontato dal Collegio abbia le caratteristiche che si descrivono, «altro è» affrontare a livello di principio di diritto la fattispecie «trust liquidatorio», il cui protector o enforcer potrebbe
essere costituito dal «comitato dei creditori», di cui all’art. 40 segg. legge fallim. con i maggiori «poteri fiduciarî» di
cui, in genere dispone, questa figura nel «trust di scopo», in primis proprio quello di sindacare l’amministrazione del
fondo in trust; amministrazione il cui esito dovrebbe essere proprio quello di attribuire ai creditori quanto loro spetta in veste di beneficiarî del trust istituito: si veda, ad es. Tribunale Reggio Emilia, 14 maggio 2007.
(44) Nel ragionamento complessivo si inserisce la non indifferente questione, che appartiene alla disciplina fallimentare, dell’individuare il discrimine tra lo «stato di crisi», che apre la strada delle soluzioni propositive
e lo «stato di insolvenza» che obbliga la dichiarazione di fallimento.
Trovato il consenso sul limite, va anche considerato se la società è già in liquidazione, poiché la valutazione
del giudice, per l’art. 5 legge fallim., deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio
sociale consentono di soddisfare i creditori sociali in modo uguale e integrale, e ciò in quanto, non proponendosi
l’impresa in liquidazione di restare sul mercato, ma avendo come esclusivo obiettivo quello di provvedere al soddisfacimento dei creditori sociali, previa realizzazione delle attività sociali, e alla distribuzione dell’eventuale residuo
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La non riconoscibilità permane, sebbene il trust indichi fra i suoi scopi
proprio quello di tutelare i creditori dell’impresa ricorrendo alla segregazione patrimoniale ed alla liquidazione, per la denegata equivalenza delle
due procedure.
Invero, l’insolvenza, come non è nelle fattispecie generali esclusa dalla
mera capienza del patrimonio del debitore, così non è nella specie scongiurata dalla destinazione di quel patrimonio al soddisfacimento dei creditori.
Ed infatti, ciò che può evitare la situazione d’insolvenza non è in sé l’istituzione del trust, ma, semmai, l’attuazione del programma, con l’avvenuto
pagamento dei creditori e la soddisfazione delle obbligazioni originariamente in capo al debitore.
Nelle ipotesi in cui, come nel caso in esame, l’atto istitutivo contenga la
clausola (riportata dalle parti) di risoluzione allorché sopravvenga una vicenda concorsuale nei confronti della disponente (c.d. clausola di salvaguardia), essa resta inoperante, come tutto il negozio, privo in via assoluta
di effetti in quanto non riconosciuto ab origine.
6.2. – Si è già rilevato che la sentenza assume come uno dei suoi «postulati» che le uniche soluzioni alternative, capaci di scongiurare il fallimento, viste con favore dal legislatore
degli ultimi due lustri, sono quelle negoziate sotto il controllo del ceto creditorio o del giudice, donde deduce e adduce l’assoluta inderogabilità che giustifica il richiamo all’art. 15 Conv.
L’Aja, il quale delimita l’applicabilità del testo convenzionale a favore delle norme interne in
tema di insolvenza; ma non rende ragione della implicita dichiarazione di falsità della controtesi di chi sostiene che siffatto «postulato» non trova riscontro nell’ordinamento e che ivi non
è rinvenibile il divieto di affrontare la crisi aziendale per atto di autonomia privata (46), mentre afferma che «ciò che può evitare la situazione d’insolvenza non è in sé l’istituzione del trust,
ma, semmai, l’attuazione del programma, con l’avvenuto pagamento dei creditori e la soddisfazione delle obbligazioni originariamente in capo al debitore» (par. 7.5.).
Constatando che l’interpretazione prevalente, allo stato attuale, in tema di trust interno
individua il «giudizio di meritevolezza» come momento del valutare sia la riconoscibilità sia
la liceità del trust liquidatorio – e nessuna delle sentenza di legittimità la ha sconfessata – ci si
deve chiedere se il principio di diritto che emerge dalla sentenza determini che il notaio e lo
tra i soci, non è più richiesto che disponga, come invece la società in piena attività, di credito e di risorse, e quindi di
liquidità, necessari per soddisfare le obbligazioni contratte (Cassazione, 14 ottobre 2009, n. 21834).
È ben vero che la sentenza in commento pone l’accento sulla artificiosità della soluzione attuata, che, come
par di capire, dovrebbe riferirsi al suo insieme: messa in liquidazione, istituzione del trust, trasferimento dell’attivo e del passivo al trustee, per cui lo stato di crisi andrebbe valutato a liquidazione non deliberata, ma rimane
ancora da considerare la consapevolezza del trustee sul carattere pregiudizievole dell’atto, che non può non integrare la attribuita artificiosità. Il trust è una sorta di sistema complesso che è vero che ogni sua componente si determina in ragione di autonome motivazioni egoistiche, ma il cui risultato è la liceità o l’illiceità dell’insieme, tanto che non è dichiarabile sham per la sola intenzione fraudolenta del disponente.
(45) La giurisprudenza, tutta quella finora formatasi, assume in modo implicito, che il vaglio di meritevolezza le appartenga come competenza esclusiva; poiché, però non è prevista una procedura come quella della ex
omologazione, quel vaglio appartiene – con la connessa responsabilità, che è il suo rovescio – sia al notaio sia al
trustee: su cui Notariato, 2007, Il trust: diritto interno e Convenzione de L’Aja, Ruolo e responsabilità del notaio.
(46) Tribunale Reggio Emilia, 2 maggio 2012.
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Ove, inoltre, la Società sia stata cancellata dal registro delle imprese
dopo l’istituzione del trust, essa è estinta ma, per quanto sopra esposto, ai
sensi della legge fallim., art. 10, opera la fictio iuris dell’esistenza dell’ente:
rispetto a questa va, pertanto, valutato il requisito dell’insolvenza.
In conclusione, il trust liquidatorio in presenza di uno stato preesistente di insolvenza non è riconoscibile nell’ordinamento italiano, onde il negozio non ha l’effetto di segregazione desiderato; l’inefficacia non è esclusa
né dal fine dichiarato di provvedere alla liquidazione armonica della società nell’esclusivo interesse del ceto creditorio (od equivalenti), né dalla clausola che, in caso di procedura concorsuale sopravvenuta, preveda la consegna dei beni al curatore.
7.6. – Se l’atto istitutivo del trust è tamquam non esset, occorre poi considerare quale sorte abbia il trasferimento dei beni o dell’azienda operato
in favore del trustee.
stesso trustee, specie se professionista, debbano essere chiamati a rispondere in responsabilità o, quanto meno, in via disciplinare per avere male valutato le condizioni dell’avvenuto riconoscimento. Perché non può essere messo in dubbio che il trust esiste, nella sua concretezza operativa, nel momento in cui viene disconosciuto dal giudice fallimentare: è il dis-conoscimento del riconosciuto, dal momento che l’atto istitutivo non è condizionato ad alcuna
sorta di «omologazione».
7. – Se il trust non è riconoscibile, per la accertata pre-insolvenza, i beni – l’attivo e il
passivo – trasferiti al trustee perderebbero il beneficio di essere «patrimonio destinato» o
«patrimonio separato» (47); il che val quanto dire che sarebbero aggredibili presso il trustee.
Aggredibilità, però, a sua volta, limitata dalla avvenuta dichiarazione di fallimento, dato che
«il trust deve essere disconosciuto dal giudice del merito, ogni volta che sia dichiarato il fallimento per essere accertata l’insolvenza del soggetto» (48).
Il negozio di trasferimento, che è condizionato dal regime di circolazione del bene trasferito, regime che appartiene alla lex fori (e lo sarebbe anche se non vi fosse la disposizione
della Convenzione richiamata non solo dalla Corte), si è comunque perfezionato e i «beni»
sono stati effettivamente trasferiti al trustee; sicché se l’atto istitutivo non esiste per l’ordinamento, il negozio di trasferimento deve essere considerato tamquam non esset, essendone venuta a mancare la causa (però, rimane pur sempre, come «fatto»), con la conseguenza, ricordata dalla sentenza, della sanzione di nullità portata dalla disposizione della prima parte del
comma 2 dell’art. 1418 cod. civ. (49).
Tuttavia, i «beni» – l’attivo e il passivo della società in liquidazione – sono stati trasferiti
al trustee, la liquidità è confluita sul conto bancario aperto per il trust, gli immobili e i mobili
registrati sono stati intestati al trust (50), e il trustee ha iniziato a compiere gli atti per realizza-
(47) L’«inefficacia» della «separazione» o «destinazione» non sarebbe scongiurata dalle eventuali «clausole che ne limitino l’operatività in caso di insolvenza conclamata» (Tribunale Mantova, 18 aprile 2011) o che prevedano la consegna dei beni al nominato curatore.
(48) Come, ormai, è ovvio «ove l’insolvenza preesista all’atto istitutivo».
(49) «Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall’articolo 1325, ...».
(50) «Contro il disponete a favore del trust con unica formalità di trascrizione senza che ciò presupponga la
soggettività del trust» (Tribunale Torino, 18 marzo 2014, decreto; 10 febbraio 2011; Appello Venezia, 10 luglio
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Secondo l’art. 4 della Convenzione, questa non si applica alle questioni
preliminari relative alla validità degli «atti giuridici in virtù dei quali dei beni sono trasferiti al trustee». Alla stregua, dunque, della legge interna, dal
momento che il negozio istitutivo del trust si pone come antecedente causale (almeno dal punto di vista logico-giuridico, anche qualora contestuale)
dell’attribuzione patrimoniale operata con l’atto di trasferimento dei beni,
ove non riconoscibile il primo diviene privo di causa il secondo (nullo ex
art. 1418 cod. civ., comma 2, prima parte, perché operato in esecuzione di
negozio non riconoscibile).
In tal modo, il curatore, per effetto dello spossessamento fallimentare
che priva il fallito della disponibilità di suoi beni, tra i quali sono da ricomprendere tutti i diritti patrimoniali inefficacemente trasferiti, può materialmente procedere all’apprensione di essi.
7.7. – La corte d’appello ha accertato, in punto di fatto, che il trust è
stato costituito dalla società insolvente, affidando il ruolo di trustee allo
re lo scopo, vendere il vendibile per pagare i creditori; il liquidatore ha presentato il bilancio
di finale liquidazione e la società è stata cancellata dal Registro delle imprese (51): dunque, (i)
irriconoscibilità del negozio come trust, (ii) nullità del negozio di trasferimento, (iii) illegittimità della cancellazione o (iv) diversità del chiamato a rappresentare la società cancellata, (v)
liceità delle operazioni compiute dal trustee (52) e (vi) legittimità dei terzi acquirenti dal trustee, fatta salvezza di eventuali azioni revocatorie se e in quanto proponibili (e, dunque, ancora, se e in quanto sia accertabile la consapevolezza del trustee). Ossia, una parte del percorso, del «programma concreto», che si dice legittimato dal «programma di segregazione», è
già stato compiuto. Questa variante del tema non è stata presa in considerazione dalla decisione e la soluzione potrebbe essere proprio quella indicata dalla giurisprudenza di merito
con la citata clausola di sopravvenuta dichiarazione di insolvenza che impone al trustee di
consegnare i beni al curatore o a chi per esso (53).
2014, secondo cui «la Convenzione dell’Aja, cui il nostro Stato ha aderito, nel descrivere il trust non lo circoscrive
ad atti esclusivamente traslativi dei beni che no vengono assoggettati, stabilendo solo che ad essi venga data una specifica destinazione e scopo, sicché la valutazione di compatibilità con la legislazione interna va riferita alla ammissibilità nell’ordinamento di ipotesi di sottoposizione a vincoli di beni determinati anche al di fuori di fenomeni separativi della proprietà, o disponibilità, dei beni stessi dal disponente... all’interno di un siffatto quadro normativo, e
fatta salva la condizione di liceità e compatibilità prevista dall’ultima parte dell’art. 12 della Convenzione dell’Aja,
non vi sono disposizioni espresse né principi del nostro ordinamento che, ponendosi come limiti interni all’applicabilità dell’art. 12 stesso, configurino un divieto di trascrizione del trust, anche nella forma del trust interno autodichiarato, che non comporti effetti traslativi dei beni e per la cui ammissibilità, ad eccezione del divieto dell’illiceità,
deve considerarsi richiesto il solo rispetto delle condizioni stabilite dalla Convenzione»; contra, Tribunale Reggio
Emilia, 25 marzo 2013; 25 febbraio 2014).
(51) Sul punto cfr. infra par. 8.
(52) Quelle di cui la corte territoriale ha contestato la mancanza: «il mancato compimento di qualsiasi concreta attività di liquidazione (non essendo indicato nel c.d. libro degli eventi quali di tali attività siano state avviate
nei confronti dei creditori sociali)» attestabili in qualunque modo, non essendo prescritto di istituire alcun libro
degli eventi, sia dalla Convenzione sia dalla «legge regolatrice» [anzi, sconosciuto dalla quasi totalità delle leggi
regolatrici]: è la stessa contabilità del trust che le documenta.
(53) «... Dunque tutte le volte che il trust liquidatorio contenga nelle sue regole e nel suo programma una pretesa di sopravvivenza rispetto all’apertura della procedura concorsuale i vizi dell’atto istitutivo sarebbero originari e
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stesso liquidatore sociale e che è mancato il compimento di qualsiasi concreta attività di liquidazione, non essendo indicate nel c.d. libro degli eventi quali di tali attività siano state avviate in favore dei creditori sociali.
Sulla base di tali elementi e degli altri rilevati – l’entità del debito nei
confronti di Equitalia Sud s.p.a., gli infruttuosi tentativi di pignoramento,
il ridotto attivo indicato dalla società per contestare il suo stato di insolvenza, l’immediata cancellazione della società dal registro delle imprese – la
corte d’appello ha ravvisato il concreto pericolo che il trust sia stato utilizzato al solo fine di eludere la disciplina imperativa concorsuale.
La ricorrente contrappone (sotto il profilo del vizio motivazionale) la
considerazione secondo cui, al contrario, una serie di indizi, che assume
provati innanzi ai giudici di merito, rendevano palese la piena liceità del
trust, ovvero: la segregazione dei beni conferiti rispetto al patrimonio personale del trustee e la costituzione del trust proprio a beneficio dei credito-
8.1. – Le due osservazioni finali suscitate dal testo sono rivolte, l’una, alla avvenuta
cancellazione della società in liquidazione dal Registro delle imprese; l’altra, alla fattispecie
«trust autodichiarato».
L’effetto della cancellazione è condizionato, si è già visto, da un canto, dal momento in
cui questa viene annotata; dall’altro canto, dalla regola di cui all’art. 2191 cod. civ.
Per il primo, il decorso dell’anno serve come discrimine per la legittimazione soggettiva
del chiamato al contraddittorio, il liquidatore se entro l’anno, i soci se trascorso l’anno dal
momento della annotazione della avvenuta cancellazione.
Per il secondo, si ha che può essere disposta, anche «d’ufficio» (54), la cancellazione della iscrizione relativa alla cancellazione dal Registro delle imprese, se è avvenuta «senza che
esistano le condizioni richieste dalla legge», in particolare quando il bilancio finale di liquidazione non presenta il contenuto richiesto dall’art. 2492 cod. civ. per essere (i) stata deliberata
la nomina del liquidatore, (ii) stato disposto il conferimento di tutto il patrimonio attivo e
passivo dell’ente all’apposito trust liquidatorio costituito nella stessa giornata, (iii) stato sottoposto all’assemblea dei soci il bilancio finale di liquidazione, privo di qualsiasi indicazione
sull’esito delle attività liquidatorie, ossia l’avvenuta integrale liquidazione dell’attivo con il
pagamento dei creditori e dei finanziatori postergati ex art. 2467 cod. civ., il residuo attivo da
distribuire pro quota ai soci, residuo che delimita, ex art. 2495, comma 2, cod. civ., la misura
della responsabilità patrimoniale personale degli (ex) soci rispetto agli eventuali creditori sociali rimasti insoddisfatti (55).
Questa interpretazione – per la quale «restano irrilevanti eventuali considerazioni in ordine alla mancanza di interesse del fallimento (che ha chiesto nell’ambito di distinto procedimento contenzioso declaratoria di nullità/inefficacia dell’atto di istituzione del trust)» – è un
non sopravvenuti, con riverbero su tutti gli atti di disposizione del disponente ed anche su quelli medio tempore
compiuti dal trustee. Naturalmente anche tale rigorosa impostazione non esclude che il curatore agendo nell’interesse della massa ben potrebbe decidere, attraverso un percorso transattivo, di approfittare del trust, ove più conveniente dell’esperimento delle azioni giudiziarie, laddove l’opzione fosse condivisa dai creditori concorrenti», M. Atzori,
Riflessioni finali sui trust liquidatori, in Aa.Vv., Moderni sviluppi del trust, Padova, 2011, pag. 549 segg.
(54) Come indicherebbe la rubrica dell’art. 2191 cod. civ., «cancellazione d’ufficio».
(55) Tribunale Milano, sez. specializzata in materia d’impresa, 22 novembre 2013, n. 8851; e Giudice registro, 12 settembre 2013.
Parte II - Giurisprudenza
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ri; la condizione risolutiva apposta al trust per il caso di declaratoria di fallimento della società preponente; il compimento di varie attività liquidatorie; l’avere il trust posto a disposizione del curatore tutto quanto in suo
possesso. Ne deriva, nell’assunto, che non sussiste lo stato di decozione,
anche tenuto conto della circostanza che, ove sia invalido e privo di effetti
il trust, la conseguenza sarebbe l’attribuzione alla società del patrimonio
conferito.
Le censure in esame sono in parte inammissibili, laddove, sotto la veste
del vizio motivazionale, mirano a riproporre un giudizio sul fatto: come è
reso evidente dalla stessa riproduzione, nel corpo del ricorso, di alcuni documenti, da cui dovrebbe trarsi la prova della liceità del trust. L’inammissi-
altro aspetto della medesima questione originata dalla ammissibilità del «trust liquidatorio»,
in particolare del momento in cui se ne determina la riconoscibilità. Infatti, se lo scopo è il
sostituirsi alla «liquidazione», che pretermetterebbe il procedimento endosocietario, nascerebbe irriconoscibile e lo dovrebbe essere anche per il notaio (56) chiamato a redigere l’atto e
per il liquidatore che lo istituisce e per il trustee che ne accetta l’ufficio (57).
Tuttavia, (anche se questa è soluzione forse meno interessante per i cultori del trust liquidatorio) il liquidatore, trasferito l’intero patrimonio sociale, attivo e passivo, all’istituito
trust, potrebbe attendere di vedere realizzato lo «scopo» per presentare il bilancio di finale
liquidazione e chiedere la cancellazione della società (58).
8.2. – Sulla fattispecie trust-auto-dichiarato, che nel caso esaminato viene escluso in ragione della alterità soggettiva, la sentenza ripropone il disfavore della Corte, osservando che
la corte del merito aveva assunto, correttamente, la circostanza come indizio significativo della
illiceità dell’atto, in quanto manca nella sostanza un vero affidamento intersoggettivo dei beni.
In precedenza aveva confermato la decisione del giudice a quo il quale aveva ritenuto,
con motivazione pertinente e plausibile, che «in ragione del peculiare regime del trust in questione, la relativa costituzione sarebbe avvenuta in frode ai diritti dei creditori... osservando
che in sostanza, si sarebbe trattato di un mero espediente giuridico, posto in essere dall’O. al fine precipuo di tenere distinti i beni in questione dal proprio patrimonio personale, di fatto però
mantenendo la disponibilità dei beni conferiti, in quanto egli stesso era trustee, ossia soggetto
fiduciario incaricato della gestione (in definitiva, fiduciario di se stesso), senza vincolo di sorta
od obbligo di giustificare i propri poteri, dunque al di là di qualsivoglia controllo da parte dei beneficiari. E si precisa è appena il caso di osservare che il trust si sostanzia nell’affidamento ad
(56) Il tema è stato ben affrontato dal Consiglio Nazionale del Notariato, nello Studio citato (nt. 17), il cui
par. 6 è destinato ad «alcune conclusive riflessioni sulla posizione del notaio chiamato a ricevere siffatti trust» volte
a evidenziare quello che potrebbe essere il rischio del professionista qualora non adottasse particolare attenzione
all’atto che gli si chiede di redigere e che «rende consigliabile l’estrema cautela nel ricevere siffatti atti istitutivi di
trust». l’approfondito «Studio» non si occupa dell’aspetto funzionale dell’accettazione del trustee all’ufficio che
gli è proposto. È ben vero che, al pari della sentenza in esame, lo Studio è influenzato dalla casistica in cui prevale, il cosiddetto «trist-interno-auto-dichiarato», però la consapevolezza del trustee nell’accettare l’ufficio è argomento forte per delimitare l’area di responsabilità del notaio e lo stesso accertamento dello «stato» dell’azienda
nel momento del conferimento.
(57) Non anche per il protector, per la sostanziale differenza del rispettivo ufficio.
(58) L’effetto destinazione-separazione potrebbe comunque conseguire il risultato voluto, poiché i creditori potrebbero accettare la moratoria proposta dal trustee.
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Il diritto fallimentare e delle società commerciali - n. 6-2014
bilità del sindacato di merito sulla decisione impugnata impedisce, tuttavia, alla Corte la conoscenza diretta dei documenti depositati dalle parti nei
precedenti gradi, anche qualora essi vengano riprodotti mediante fotocopia all’interno del ricorso stesso; mentre il giudice del merito ha asserito essere rimaste indimostrate le predette circostanze.
Per il resto, alla stregua dei principi esposti, la sentenza impugnata non
si presta a nessuna delle censure formulate; quanto alla coincidenza della
persona del trustee con quella del liquidatore, se da un punto di vista formale non qualifica il trust come «auto dichiarato» in ragione della alterità
soggettiva, la circostanza è stata però correttamente assunta dalla corte del
merito come indizio significativo della illiceità dell’atto, mancando nella
sostanza un vero affidamento intersoggettivo dei beni.
un terzo di determinati beni perché questi li amministri e gestisca quale «proprietario»... presupposto coessenziale alla stessa natura dell’istituto è che il detto disponente perda la disponibilità di quanto abbia conferito... condizione è ineludibile al punto che, ove risulti che la perdita
del controllo dei beni da parte del disponente sia solo apparente, il trust è nullo (sham
trust)...» (59).
Federico Di Maio
Avvocato in Milano
(59) Cassazione pen., 30 marzo 2011, n. 13276, l’evidenza è di chi scrive.
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