4
Rischio di credito
Definizione 3 Il rischio di credito è il rischio derivante dal cambiamento
di valore associato a cambiamenti inattesi della qualità del credito.
Obiettivo del credit risk management: creare un “cuscinetto” di capitale di riserva, da utilizzare per far fronte alle perdite derivanti da tali
cambiamenti.
Gli ingredienti di base per identificare la rischiosità di una singola controparte sono:
(i) la Probabilità di Default (PD);
(ii) la Loss Given Default (LGD);
(iii) la Exposure At Default (EAD).
La normativa di vigilanza. Il primo accordo di Basilea (1988) prevedeva
che il capitale di riserva fosse almeno pari all’8% delle attività ponderate
in base al rischio. Come è stabilita la ponderazione? 100% per tutti gli
impieghi a clientela, 20% per i prestiti a banche, 0% per i prestiti allo Stato.
Problema: un peso solo per tutta la clientela privati può trasformarsi in
un incentivo a prestare ai clienti più rischiosi, che richiedono la stessa riserva
di capitale dei clienti meno rischiosi, ma producono margini più elevati.
Da qui la necessità di un nuovo accordo (noto come “Basilea 2”). Esso è
basato su una radicale riforma del criterio dell’8%. In Basilea 2 ci sono due
(tre) approcci alternativi:
(1) approccio standard: le banche che non hanno sistemi di rating interni
useranno rating esterni, certificati dalle autorità di vigilanza; il capitale
richiesto è pari all’8%, pesato come segue: da 20 a 150% per imprese
o banche; da 0 a 150% per Stati sovrani; 100% per clientela priva di
rating.
(2) approccio dei rating interni, suddiviso in:
(2a) approccio di base: la banca elabora un proprio sistema di rating (trasparente, documentato, verificabile, periodicamente revisionato) per
30
misurare la PD; LGD ed EAD sono misurate con parametri fissati
dalle autorità.
(2b) approccio avanzato: anche LGD ed EAD sono stimate internamente
dalla banca. Lo possono adottare solo le banche che siano in grado di
dimostrare la correttezza, la coerenza, la trasparenza e l’efficacia delle
metodologie adottate, basate su dati storici sufficientemente numerosi.
4.1
Rating
Come si determina la PD? Ci sono due possibilità:
(i) calcolo sulla base di dati di mercato. L’esempio più noto è la cosiddetta
Expected Default Frequency (EDF) di Moody’s|KMV;
(ii) modelli di natura statistica: calcolo sulla base di rating.
I rating sono una misura del merito di credito di un’azienda. Per le aziende “più grandi” sono pubblicamente disponibili rating prodotti dalle agenzie
(Moody’s, S&P, Fitch). Soprattutto in Europa, tuttavia, la stragrande maggioranza delle controparti non ha un rating di agenzia, e dunque i rating
sono calcolati internamente dalle banche; a tale scopo si utilizzano tecniche
statistiche (analisi discriminante, regressione logistica,...) che stimano un
rating interno sulla base di variabili esplicative quantitative (principalmente tratte dai bilanci delle aziende) e qualitative (qualità del management,
struttura dell’azienda, situazione politica e sociale del Paese in cui l’azienda
ha sede).
Il tipo di problema ed i dati disponibili portano a preferire metodologie
appartenenti alla famiglia dei metodi di analisi discriminante o di regressione
logistica (logit, probit). Infatti:
a) la quantità che si vuole stimare (la PD) è una probabilità, dunque una
quantità compresa fra 0 e 1;
b) la variabile dipendente è l’indicatore dell’evento def ault, che assume
valore 1 per le imprese insolventi e 0 per le imprese in bonis;
31
c) le variabili indipendenti sono tipicamente ratio basati su dati di bilancio, cioè variabili quantitative continue. Ne consegue che la regressione
ordinaria non è appropriata in quanto non dà garanzia di ottenere una
stima della variabile dipendente compresa fra 0 e 1.
Storicamente, la prima applicazione è basata sull’analisi discriminante:
Z-score (Altman 1968):
Z = 1.2X1 + 1.4X2 + 3.3X3 + 0.6X4 + X5 ,
dove:
X1 : capitale circolante / totale attivo,
X2 : utili non distribuiti / totale attivo,
X3 : utili ante interessi e imposte / totale attivo,
X4 : valore di mercato del patrimonio / valore contabile dei debiti a
lungo termine,
X5 : fatturato / totale attivo.
Soglia: 1.81; le imprese il cui score Z è maggiore della soglia vengono
classificate in bonis, le altre insolventi. Questi modelli hanno poi preso il
nome di modelli di scoring.
I modelli correntemente utilizzati sono prevalentemente basati sulla regressione logistica. Oltre alle variabili di bilancio, tra le variabili indipendenti vengono considerate variabili dummy che riflettono fattori geo-settoriali
ed indici basati sui dati andamentali; la variabile dipendente è l’indicatore
di def ault. Si stimano poi i parametri della relazione:
0
eX
P (1D = 1) = f (X) =
.
1 + e X0
Esistono poi mappature (calcolate dalle agenzie di rating) che associano
ai rating una PD; a grandi linee, tali mappature sono costruite come segue:
(i) per ciascuna classe di rating, si calcola il tasso medio di default su un
periodo di tempo “lungo”;
32
(ii) si stima una regressione lineare semplice fra il logaritmo del tasso
medio di default appena calcolato (variabile dipendente) e il rating
(variabile indipendente):
log(D̄) = α + βR + ²,
dove D̄ è il tasso di default medio e R è il rating;
(iii) infine, le PD corrispondenti a ciascuna classe di rating sono stimate
sulla base della retta di regressione.
4.2
La distribuzione delle perdite
La distribuzione di perdita del portafoglio assume un ruolo fondamentale
nel credit risk management.
La perdita L̃ è una variabile aleatoria definita come segue:
L̃ = EAD × LGD × L,
dove

1 con prob. π (se la controparte f allisce),
L = 1D =
0 con prob. 1 − π (se la controparte non f allisce),
D è l’evento “la controparte fallisce in un certo intervallo temporale”, π =
P (D) = P D è la probabilità di default relativa al medesimo intervallo temporale. La perdita attesa (Expected Loss) non è altro che il valore atteso di
L̃; se si ipotizza che EAD e LGD siano delle costanti, si ha:
E(L̃) = EAD × LGD × P (D).
Oltre alla perdita attesa ed inattesa, l’altra quantità centrale è il Capitale
a Rischio (CaR), dato dalla differenza fra il quantile α e la perdita attesa:
CaRα = qα − EL,
dove qα : P (L̃ptf ≤ qα ) ≥ α.
Quando si passa a trattare un portafoglio di N prestiti, è necessario
introdurre la perdita di portafoglio:
L̃ptf =
N
X
i=1
L̃i =
N
X
EADi × LGDi × Li .
i=1
33
Si verifica facilmente che, se EADi e LGDi sono costanti, la perdita attesa
è data da
E(L̃ptf ) =
N
X
E(L̃i ) =
i=1
N
X
EADi × LGDi × P Di .
i=1
Per analizzare il rischio, al solito, non è sufficiente limitarsi alla perdita
attesa; si calcola allora anche la perdita inattesa, definita come la deviazione
standard della v.c. L̃:
U Lptf
v
u N
q
uX
= var(L̃) = t
EADi EADj LGDi LGDj cov(Li , Lj ).
i,j=1
La covarianza fra i default può essere riscritta come segue:
q
cov(Li , Lj ) = ρij × P Di (1 − P Di )P Dj (1 − P Dj ),
dove ρij = corr(1Di , 1Dj ) è la correlazione fra i def ault (default correlation).
Quindi (il quadrato della) perdita inattesa è uguale a
U L2ptf
= var(L̃) =
N
X
q
EADi EADj LGDi LGDj DPi (1 − DPi )DPj (1 − DPj )ρij .
i,j=1
Nel caso di due soli prestiti, con P D1 = π1 , P D2 = π2 , ρ12 = ρ, LGD1 =
LGD2 = EAD1 = EAD2 = 1, si ha
p
U L2ptf = π1 (1 − π1 ) + π2 (1 − π2 ) + 2ρ π1 (1 − π1 )π2 (1 − π2 ).
Consideriamo 3 casi:
(i) ρ = 0; diversificazione perfetta.
(ii) ρ > 0; il default dell’una incrementa la PD dell’altra. Infatti:
P (L2 = 1, L1 = 1)
E(L1 L2 )
=
=
P (L1 = 1)
π1
π1 π2 + cov(L1 , L2 )
cov(L1 , L2 )
=
= π2 +
.
π1
π1
P (L2 = 1|L1 = 1) =
Dunque, il def ault dell’una ha un impatto sull’altra attività in portafoglio. In particolare, nel caso estremo ρ = 1 e con π1 = π2 = π, si ha
p
U Lptf = 2 π(1 − π), vale a dire che il portafoglio contiene il rischio di
una sola controparte ma con intensità doppia; in questo caso il def ault
di una controparte implica il def ault dell’altra con probabilità 1.
34
(iii) ρ < 0; è speculare al caso (ii): il default dell’una diminuisce la PD
dell’altra.
Prima di analizzare il modello di Merton, che costituisce un fondamentale
prerequisito alla studio della correlazione fra i def ault, consideriamo per
completezza il caso (poco realistico) di indipendenza fra le v.c. di pedita
relative alle singole controparti.
Il modello di Bernoulli. Un vettore N -dimensionale L è una statistica di
perdita bernoulliana se le sue distribuzioni marginali sono v.c. bernoulliane,
vale a dire Li ∼ Bin(1; πi ), dove πi = P Di , i = 1, . . . , N . Le variabili L =
PN
0
i=1 Li e L = L/N sono rispettivamente la perdita assoluta e percentuale
di portafoglio.
(a) Il caso più semplice: controparti indipendenti con PD uniforme.
Li ∼ Bin(1; π),
(Li )i=1,...,N indipendenti,
i = 1, . . . , N.
Ne segue che L ∼ Bin(N ; π).
(b) Se le controparti sono indipendenti ma con PD diverse, vale a dire
Li ∼ Bin(1; πi ),
abbiamo E(L) =
(Li )i=1,...,N indipendenti,
PN
i=1 πi ,
var(L) =
PN
i=1 πi (1
i = 1, . . . , N,
− πi ). Si noti tuttavia
che la distribuzione di L in questo caso non è più binomiale.
4.3
Il modello di Merton
Il modello di Merton è il principale rappresentante della classe degli asset value models, che spiegano il default con la diminuzione del valore delle attività
dell’azienda. Si ipotizza che il processo stocastico delle attività dell’azienda
sia un moto browniano geometrico; inoltre, si assume che l’azienda si finanzi tramite un prestito ottenuto da una banca oppure tramite l’emissione di
un’obbligazione. Il def ault si verifica sulla base della seguente condizione:
se alla scadenza il valore delle attività è insufficiente a rimborsare i creditori,
l’azienda fallisce.
In particolare, Robert Merton introduce, nel 1974, un modello fondato
su una struttura finanziaria semplificata dell’impresa debitrice: attivo (At )
35
finanziato con capitale di rischio (Et ) ed una passività (un’obbligazione oppure un prestito concesso da una banca) con valore di mercato Dt e valore
di rimborso F : At = Et + Dt , t ∈ [0, T ]. Per il detentore del debito, il rischio consiste nella probabilità che alla scadenza T il valore dell’attivo (AT )
sia inferiore al valore di rimborso del prestito (F ); tale rischio sarà dunque
misurato dalla probabilità P (AT < F ). La probabilità in questione, che
rappresenta la PD dell’impresa, è tanto maggiore quanto più:
- il rapporto F/A0 è alto;
- la volatilità del rendimento delle attività dell’impresa (σA ) è alta;
- la scadenza T è lontana.
Al tempo 0 si ha A0 = E0 + D0 . Si può inoltre affermare che
P (AT < F ) > 0
⇐⇒
D0 = F e−(r+πr )T
⇐⇒
D0 < F e−rT ,
dove r è il tasso di interesse risk-free e πr è il premio al rischio. Le equivalenze
in questione devono essere valide perché il detentore del debito vuole una
compensazione per il rischio che si assume.
Si noti che, sfruttando l’ipotesi di moto browniano geometrico delle attività dell’azienda e applicando il lemma di Itô, si ricava che la distribuzione
dell’attivo al tempo t è data da
At = A0 emt+σA Zt ,
2 /2, Z ∼ N (0, t) e µ è il tasso di rendimento dell’attivo
dove m = µ − σA
t
dell’impresa. Quindi
¶
µ
µ
µ ¶
¶
log(F/A0 ) − mT
F
√
− mT = Φ
pT = P (AT < F ) = P σA ZT < log
.
A0
σA T
(20)
Il payout alla scadenza del detentore del debito è pari a min{AT − F, 0},
che è il payout di una posizione corta in un’opzione put europea su A con
strike F e scadenza T . Come può il detentore del debito coprire tale rischio
di credito? Non è difficile verificare che la protezione è data dall’assunzione
di una posizione lunga (acquisto) in un’opzione put su A con strike F e
scadenza T . In tal caso infatti, alla scadenza T , il payout del detentore del
36
debito è comunque F , a prescindere dal fatto che l’azienda fallisca o meno;
cashf low e payout del detentore del debito sono riassunti nella seguente
tabella.
Valore attivo
t=0
A0
Cashflow
Payout
debt holder
debt holder
−D0 (prestito denaro)
−D0 − P0
−P0 (acquisto put)
t=T
AT < F
AT (recovery)
F
F − AT (payout put)
t=T
AT ≥ F
F (nominale)
F
0 (opzione scade senza valore)
Dunque, considerando anche la copertura ottenuta tramite l’acquisto dell’opzione, il portafoglio del detentore del debito è costituito da un’opzione
put e da un prestito. Il suo valore in t = 0 è dato da D0 + P0 (A0 , σA , F, T, r)
ed abbiamo appena verificato che il suo payout risk-free è F . Dal momento
che abbiamo assunto valide le ipotesi alla base della formula di Black &
Scholes, ed in particolare il principio di non arbitraggio, il tasso al quale
deve essere scontato il payout del portafoglio è il tasso risk-free. Ne segue
che:
D0 + P0 (A0 , σA , F, T, r) = F e−rT ,
ovvero
D0 = F e−rT − P0 (A0 , σA , F, T, r).
In conclusione, il valore scontato del debito è il valore scontato (al tasso riskfree) del nominale meno il prezzo dell’opzione put necessaria per coprirsi dal
rischio di credito.
Abbiamo cosı̀ interpretato una delle componenti del bilancio dell’azienda
dal punto di vista della teoria delle opzioni. L’aspetto rilevante del modello
consiste nel fatto che anche l’altra componente, vale a dire il capitale di
rischio, è suscettibile di un’interpretazione analoga: se alla scadenza AT ≥
F , gli azionisti hanno il diritto di liquidare l’azienda, cioè di ripagare il
37
debito e assumere la proprietà delle attività rimanenti. In particolare, alla
scadenza T le uniche due possibilità sono le seguenti:
(i) AT < F : dal momento che il valore delle attività non è sufficiente
a ripagare i detentori del debito, si verifica il def ault; non ci sono
attività che possano essere acquisite dagli azionisti, il cui payof f è
nullo;
(ii) AT ≥ F : in questo caso se gli azionisti liquidano l’azienda ne ricavano,
dopo aver rimborsato i detentori del debito, un profitto netto pari ad
AT − F .
Riunendo i due casi in una singola formula, si ha che il payof f netto degli
azionisti è dato da max{AT −F, 0}; questo è il ben noto payof f di un’opzione
call europea su A con strike F e scadenza T , il cui prezzo a t = 0, che
indichiamo con E0 = C0 (A0 , σA , F, T, r), può essere calcolato tramite la
formula di Black & Scholes. Riassumendo, dal punto di vista dell’azienda il
capitale di rischio può essere descritto dalla vendita di un’opzione call agli
azionisti; la posizione degli azionisti è una call lunga sull’attivo dell’azienda.
I risultati fin qui ottenuti, tuttavia, non risolvono il problema principale
che caratterizza i modelli a valore dell’attivo: il processo del valore dell’attivo
non è osservabile. D’altra parte, ciò che è osservabile sul mercato è il valore
del capitale di rischio, e dunque non sorprende che la ricerca si sia ben
presto concentrata sul problema di ricavare il valore dell’attivo dal valore
dell’equity.
La soluzione proposta da Merton (1974) è stata successivamente estesa ed
integrata sia dal punto di vista teorico che da quello applicativo; anticipando
fin d’ora un caso particolarmente importante, il modello di Moody’s|KMV
si discosta, nel calcolo delle probabilità di def ault, dal modello di Merton,
che è basato su ipotesi piuttosto restrittive.
Si osservi che il processo del valore dell’equity è osservabile ed è dato
dalla capitalizzazione di mercato; sulla base di dati di mercato si può anche
stimare la volatilità σE dell’equity; un’altra informazione disponibile è il
valore contabile delle passività. Sulla base di questi tre elementi (valore di
mercato dell’equity, volatilità dell’equity e valore contabile delle passività),
38
si vuole inferire il processo del valore dell’attivo At . Ora, si è visto che
l’equity può essere visto come un’opzione call sull’attivo dell’azienda, in
possesso degli azionisti. Lo strike F è determinato dal valore contabile delle
passività e la scadenza è posta uguale all’orizzonte temporale considerato
(tipicamente pari ad un anno). Sulla base di tale interpretazione si ha
Et = Ct (At , σA , F, T, r),
t ∈ [0, T ].
Tale formula può essere invertita, in modo tale da trovare la soluzione per
At , che risulterà essere funzione di σA , F, T e r. Risulta quindi evidente che
resta da risolvere un’ultima difficoltà: dal momento che il processo del valore
dell’attivo non è osservabile, anche la sua volatilità è ignota. La derivazione
della volatilità dell’attivo utilizza vari risultati del calcolo stocastico, e la
sua formalizzazione matematica presenta una notevole complessità; in questa
sede sarà sufficiente precisare che essa può essere ricavata a partire dal valore
dell’equity e dalla sua volatilità.
Pregi:
(i) identifica con precisione le variabili rilevanti per la determinazione
della PD: rapporto fra valore del debito e valore dell’attivo, volatilità
del valore dell’attivo;
(ii) permette di ricavare in modo oggettivo la PD e il rendimento da
richiedere a fronte della concessione di un prestito.
Difetti:
(i) ipotizza un’unica forma di passività;
(ii) indaga solo il rischio di insolvenza;
(iii) At e σA non sono osservabili sul mercato;
(iv) si basa sulle ipotesi della formula di B&S; in particolare, le ipotesi
di costanza del tasso di interesse risk-free e di mercato perfetto (che
implica l’immediata eliminazione delle possibilità di arbitraggio), sono
alquanto irrealistiche;
(v) la barriera di def ault è costante.
39
Infine, è necessario un chiarimento per quanto riguarda la PD (20). A
seconda dello scopo che ci si prefigge, essa può essere calcolata in due modi
diversi.
1. Se lo scopo è il pricing, per esempio di un bond soggetto a rischio di
credito, allora è necessaria la probabilità risk-neutral:
³
´ 

σ2
log(F/A0 ) − r − 2A T
,
√
pT = P (AT < F ) = Φ 
σA T
(21)
dove r è il tasso di interesse risk-free. Ciò è dato dal fatto che il
modello di Merton utilizza la formula di B&S per prezzare il prestito e
l’equity, e dunque, per quanto attiene il pricing, “vive” in un mondo
risk-neutral. Per inciso, il prezzo al tempo 0 di un bond zero-coupon
con scadenza T soggetto a rischio di credito è dato da
v(0, T ) = vrf (0, T )[(1 − LGD) + LGD · (1 − pT )],
dove vrf (0, T ) è il prezzo di uno zero-coupon risk-free con la stessa
scadenza e pT è la P D (21), vale a dire la P D risk-neutral relativa al
periodo (0, T ).
2. Se invece l’obiettivo consiste in calcolare la PD “reale”, come accade normalmente per scopi di risk management, allora è necessario
calcolare la PD effettiva:
³
log(F/A0 ) − µ −
√
pT = P (AT < F ) = Φ 
σA T

2
σA
2
´ 
T
,
dove µ è il tasso di rendimento atteso dell’attivo dell’impresa.
Osservazione. Riassumiamo le conclusioni del modello di Merton. (1) Il
detentore del debito ha una posizione corta in un’opzione put europea su A
con strike F e scadenza T ; il valore del debito è pari a:
Dt = F e−r(T −t) − Pt (At , σA , F, T − t, r).
(22)
(2) Il detentore del capitale di rischio ha una posizione lunga in un’opzione
call europea su A con strike F e scadenza T :
Et = Ct (At , σA , F, T − t, r).
40
(23)
Considerando che un aumento della volatilità causa un aumento del prezzo
sia della put che della call, ne segue che detentori del debito e del capitale di
rischio avranno preferenze per il rischio contrastanti: i detentori del debito
preferiranno bassa volatilità, perché cosı̀ sarà meno probabile che l’opzione
venga esercitata alla scadenza; gli azionisti preferiranno alta volatilità, perché cosı̀ il guadagno associato alla posizione lunga nell’opzione call sarà più
alto.
Da un punto di vista logico i passi da seguire per applicare il modello
sono i seguenti:
(i) stimare la volatilità dell’attivo σA sulla base di valore contabile delle
passività, valore di mercato dell’equity e volatilità dell’equity;
(ii) invertire la (22) per ottenere At o, più precisamente, µ, che determina
completamente, assieme alla volatilità σA , il processo At ; si noti che
questo passo è necessario solo per calcolare la “vera” PD.
(iii) utilizzare la (23) per prezzare il debito dell’azienda.
4.4
La correlazione fra i default
Le versioni (a) e (b) del modello bernoulliano presentate in precedenza sono
entrambe irrealistiche, in quanto non è plausibile ipotizzare che i def ault
siano indipendenti. E’ quindi necessario introdurre modelli più complessi.
Osservazione. Perché non si può continuare ad utilizzare il modello Bernoulliano introdotto in precedenza ipotizzando che le v.c. Li siano correlate? Perché dovremmo stimare una matrice di correlazione enorme con poche
osservazioni (default). Dunque il problema è legato alla disponibilità di dati.
Problema: costruire un modello per la distribuzione del valore totale del
portafoglio. Il P&L di un portafoglio è volatile; come spiegare le perdite?
Le possibilità sono essenzialmente due:
(a) Cattive condizioni economiche generali;
(b) condizioni economiche generali buone, ma un singolo importante default;
41
Nel primo caso esiste un fattore comune che spiega la perdita (rischio
sistematico); il secondo è un esempio di rischio idiosincratico.
Cerchiamo allora di capire meglio la struttura della dipendenza fra i
def ault.
E’ ragionevole supporre che in un certo stato dell’economia i
def ault siano indipendenti (indipendenza condizionata), ma nel lungo periodo (unconditionally) non lo siano.
A tale proposito, consideriamo le possibili cause di default.
1. Sistematiche (condizioni di ambiente / mercato):
• macroeconomiche globali;
• macroeconomiche nazionali e regionali;
• settoriali;
2. Non sistematiche (condizioni specifiche del debitore):
• posizionamento nel mercato / settore;
• solidità della struttura finanziaria;
• comportamento (qualità del management).
Nell’analisi del rischio di un portafoglio crediti, dobbiamo considerare:
(i) la distribuzione non condizionata delle perdite sull’intero ciclo, cioè
la probabilità che una data perdita si realizzi in un periodo del ciclo
“scelto a caso” (stimata “senza conoscere” lo stato dell’economia);
(ii) la distribuzione condizionata al verificarsi di un determinato stato dell’economia, cioè la probabilità di una data perdita nel periodo in cui
si verifica quel determinato stato.
Stimando oggi in base alla distribuzione delle insolvenze cumulate sul
periodo da oggi a coprire un intero ciclo, si ottengono:
• distribuzione non condizionata;
• PD e rating di lungo periodo (through the cycle).
Stimando oggi in base alla distribuzione delle insolvenze in un periodo,
si ottengono:
42
• distribuzione condizionata allo stato dell’economia osservato (o presunto) oggi;
• PD e rating point in time.
In caso di portafogli con elevatissimo frazionamento (es. fidi su carte di
credito, mutui retail) il rischio non sistematico della distribuzione condizionata tende ad essere irrilevante: l’uso di valori medi di PD è ragionevolmente
accurato, grazie alla compensazione tra errori di approssimazione di segno
opposto. Questa ipotesi è più realistica se si lavora con portafogli poco
esposti al rischio sistematico come tende a verificarsi ancora nel retail (ciò
riduce alla radice il problema di corretta specificazione del modello). In
situazioni di frazionamento elevato ma non estremo (es. prestiti a medie
imprese) la presenza di rischio non sistematico è rilevante. In caso di portafogli concentrati (es. prestiti large corporate) questo aspetto è di importanza
cruciale.
4.5
Il modello a mistura bernoulliana
E’ l’estensione al continuo del modello introdotto in precedenza. Statistica
di perdita L = (L1 , . . . , LN )0 , Li ∼ Bin(1, Pi ), dove ora Pi è una variabile
casuale: P = (P1 , . . . , PN )0 ∼ F . Data una realizzazione p = (p1 , . . . , pN )0
di P, le variabili L1 , . . . , LN sono indipendenti. Formalmente:
(Li |Pi = pi ) ∼ Bin(1; pi ),
(Li |P = p)i=1,...,N indipendenti.
Distribuzione condizionata congiunta delle variabili Li :
P (L1 = l1 , . . . , LN = lN |P = p) =
N
Y
plii (1 − pi )1−li .
i=1
Ricordando che, per esempio nel caso discreto,
P (X = x|Y = y)P (Y = y) = P (X = x, Y = y),
P (X = x) =
M
X
P (X = x, Y = yj ) =
j=1
M
X
P (X = x|Y = yj )P (Y = yj ),
j=1
(24)
43
dove M è il numero di valori assunti da Y , la distribuzione non condizionata
delle variabili Li si ottiene sommando:
P (L1 = l1 , . . . , LN = lN ) =
M Y
N
X
pliji (1 − pij )1−li · pij ,
j=1 i=1
dove M = # stati del mondo.
Nel caso continuo si tratta semplicemente di integrare anziché sommare:
Z
P (L1 = l1 , . . . , LN = lN ) =
N
Y
[0,1]N
plii (1 − pi )1−li f (p1 , . . . , pN )dp1 · · · dpN ,
i=1
dove li ∈ {0, 1}.
Esempio (v. file esempio PD.xls). In questo caso il prodotto delle probabilità di default medie delle singole classi è minore o uguale alla probabilità
congiunta di default. Poiché
P (LAAA = 1 ∩ LBBB = 1) = E(LAAA LBBB ) > P (LAAA = 1) · P (LBBB = 1) =
= E(LAAA ) · E(LBBB ),
e ricordando che
cov(LAAA LBBB ) = E(LAAA LBBB ) − E(LAAA ) · E(LBBB ),
se ne deduce che cov(LAAA LBBB ) > 0 e quindi anche corr(LAAA LBBB ) > 0.
Default correlation vs. asset correlation. Il coefficiente di correlazione
lineare fra le v.c. Li e Lj (noto in questo caso come default correlation)
è dato da
cov(Li Lj )
E(Lij ) − E(Li )E(Lj )
pij − pi pj
ρD = p
=p
=p
.
var(Li )var(Lj )
pi (1 − pi )pj (1 − pj )
pi (1 − pi )pj (1 − pj )
Assumendo che per l’evoluzione nel tempo dei rendimenti normalizzati dell’attivo valga il modello di Merton si ha: r ∼ NN (0, R), dove R è la matrice
di correlazione dei rendimenti, pi = E(Li ) = E(1{ri <fi } ) = P (ri < fi ) (dove fi = log(Fi /A0 )), pij = P (ri < fi , rj < fj ), da cui si ricava la default
correlation:
pij − pi pj
.
pi (1 − pi )pj (1 − pj )
ρD
ij = p
44
D’altra parte le v.c. ri , rj hanno distribuzione congiunta normale bivariata
con correlazione Rij . Quindi
Z
pij =
Z
fi
−∞
fj
−∞
fRij (ri , rj )dri drj ,
dove fRij (·) è la densità normale bivariata di valore atteso nullo, varianza
unitaria e covarianza Rij . Dunque la correlazione dei rendimenti influenza
la correlazione dei default in quanto “entra” nella PD congiunta pij . Per
esempio, con N = 2, R12 = R e p1 = p2 = .01, si ottiene
R
ρD
0.1
0.0094
0.2
0.0241
0.3
0.0461
In generale: asset correlation molto maggiore di default correlation!
4.6
Il modello fattoriale
(i) fattori latenti determinano la perdita media nel mercato o in alcuni
suoi settori; in un portafoglio sufficientemente grande, la perdita è
determinata solo dallo stato di questi fattori;
(ii) condizionatamente a tali fattori, perdite su singoli asset sono
indipendenti;
(iii) anche conoscendo i valori assunti dai fattori (cioè lo stato del mondo),
non conosciamo esattamente la perdita sul nostro portafoglio;
(iv) l’errore è dato dal rischio idiosincratico, la cui rilevanza cresce:
(a) quando il portafoglio è piccolo;
(b) quando il portafoglio contiene alcune esposizioni molto grandi.
Ingredienti necessari per costruire un modello di portafoglio:
45
(i) la specificazione degli stati del mondo, cioè quali valori i fattori possono assumere e con quali probabilità (in generale si tratta di una
distribuzione continua);
(ii) la specificazione della funzione che individua la probabilità di default
condizionata.
Il modello fattoriale da un punto di vista statistico. Il modello fattoriale è un
modello statistico che si prefigge di spiegare la correlazione fra N variabili
tramite K < N fattori sottostanti. Per l’i-esima variabile casuale si ha
ri =
K
X
Rij Yj + Zi ,
i = 1, . . . , N.
j=1
Tuttavia la specificità del modello si apprezza analizzando il caso multivariato:
r
=
(N × 1)
R
Y
+
(N × K) (K × 1)
Z,
(N × 1)
2 )) e corr(Y, Z) = I . La
dove Y ∼ NK (0, I), Z ∼ NN (0, diag(σ12 , . . . , σN
N
2 ), si noti
matrice R contiene i pesi dei fattori. Posto Σ = diag(σ12 , . . . , σN
che
cov(r) = RR0 + Σ,
Parametri da stimare: R e Σ. Ne segue che il numero di parametri da
stimare si riduce considerevolmente.
In particolare,
var(ri ) =
K
X
2
Rij
+ σi2 ,
i = 1, . . . , N.
j=1
Dunque la varianza dell’i-esima variabile è data dalla somma di una parte
“condivisa” con le altre variabili tramite i fattori comuni e di una parte
specifica (unica per l’i-esima variabile).
Si noti infine che il Capital Asset Pricing Model è un modello fattoriale
in cui K = 1. Il fattore è il rendimento del portafoglio di mercato:
ri − rf = βi (rM − rf ) + Zi ,
46
i = 1, . . . , N,
2 ), Z ∼ N (0, σ 2 ). Quindi var(r ) =
dove rf è il tasso risk-free, rM ∼ N (0, σM
i
i
i
2 + σ 2 ; nel caso multivariato:
βi2 σM
i
r − rf = B(rM − rf ) + Z,
dove, in aggiunta alle ipotesi già esplicitate, cov(rM , Zi ) = 0 e cov(Zi , Zj ) =
2 .
0. Ne segue che cov(ri , rj ) = βi βj σM
4.7
Il modello di Vasicek
Il modello fattoriale “più semplice”, nonché il modello regolamentare, è il
modello bernoulliano ad un fattore con probabilità di default e correlazione
uniformi, introdotto da Vasicek nel 1987. Il singolo fattore rappresenta le
condizioni economiche generali.
Ipotesi del modello di Vasicek
(i) Il modello si basa su un solo fattore ed ipotizza correlazione uniforme:
ri =
√
√
RY + 1 − RZi .
Inoltre:
(ii) ri ∼ N (0, 1),
(iii) Y ∼ N (0, 1),
(v) cov(Zi , Zj ) = 0,
(iv) Zi ∼ N (0, 1),
(vi) cov(Y, Zi ) = 0.
Ne segue che
(i) corr(ri , rj ) = R;
(ii) cov(ri , Y ) =
√
R;
(iii)
var(ri )
rischio totale
=
R · var(Yi )
rischio sistematico
+ (1 − R) · var(Zi ).
rischio specif ico
R esprime la percentuale di rischio spiegata dal fattore ed è quindi
interpretabile come coefficiente di determinazione di un modello di
regressione ⇒ analogo al CAPM!
47
Nel setup del modello di Merton si ha dunque:
ri < fi ⇐⇒
√
√
1 − RZi < fi − RY,
i = 1, . . . , N.
Poiché pi = Φ(fi ), si ha che fi = Φ−1 (pi ), e quindi la condizione precedente
diventa
√
√
√
√
1 − RZi < fi − RY ⇐⇒ 1 − RZi < Φ−1 (pi ) − RY,
oppure
√
Φ−1 (pi ) − RY
√
Zi <
.
1−R
Dato il valore del fattore Y , la probabilità condizionata di default per la
singola controparte è infine data da:
Ã
def
pi (Y ) = P (ri < fi |Y = y) = P
!
Ã
!
√
√
fi − R · y
fi − R · y
√
=Φ
,
Zi < √
1−R
1−R
(25)
dove fi = Φ−1 (pi ). Si noti che la (25) è la formula utilizzata nel modello
Basilea 2 per determinare il requisito di capitale. Infatti Ki = LGDi ·
p(Y )i,stress − LGDi · pi , dove p(Y )i,stress è data dalla (25) con un valore
“negativo” di y: y = Φ−1 (0.001):
!
Ã
!
Ã
√
√
fi − R · y
fi − R · Φ−1 (0.001)
√
√
=Φ
.
p(Y )i,stress = P Zi <
1−R
1−R
Osservazioni.
(i)
R = 0 ⇒ pi (Y ) = Φ(Φ−1 (pi )) = pi ;
C’è solo rischio specifico!
(ii)

p(Y ) = 1
R=1⇒
p(Y ) = 0
C’è solo rischio sistematico!
48
(quando y < fi )
(quando y > fi );
La PD condizionata come funzione di Y (p = 0.003, R = 0.2)
La PD condizionata come funzione di p (R = 0.2, Y = −3)
1
0.8
0.6
0.4
0.2
−2
−1
0
1
2
3
0
4
La PD condizionata come funzione di p (R = 0.2, Y = 0)
0
0.2
0.4
0.6
0.8
1
La PD condizionata come funzione di p (R = 0.2, Y = 3)
1
0.8
0.6
0.4
0.2
0.2
0.4
0.6
0.8
0
1
0
0.2
0.4
0.6
0.8
1
(iii) in generale, cioè per R ∈ (0, 1), la probabilità di default unconditional
si ottiene “mediando” rispetto ai possibili valori del fattore, vale a dire,
formalmente, integrando rispetto alla distribuzione del fattore:
Z
pi = EY (pi (Y )) =
pi (y)φ(y)dy.
R
L’evoluzione della probabilità condizionata p(Y ) in funzione di Y (cioè dello
stato dell’economia) e di p è rappresentata nella figura seguente.
4.8
La distribuzione delle perdite per il portafoglio
PN
Introduciamo ora la perdita percentuale di portafoglio L(N ) =
i=1 wi ·
Pp
LGDi · Li , dove wi = EADi /( i=1 EADi ). Il contributo fondamentale
di Vasicek è consistito nell’aver dimostrato che in un portafoglio con PD
e correlazione uniformi, vale a dire pi = p, Ri = R (i = 1, . . . , N ), la
conditional percentage loss distribution converge all’aumentare di N e che la
forma limite è p(Y ):
Ã
lim L
N →∞
(N ) def
= L = p(Y ) = Φ
!
√
f − R·Y
√
,
1−R
Osservazioni.
49
dove f = Φ−1 (p).
(26)
1. (p = 0.003, R = 0.0001)
2. (p = 0.003, R = 0.05)
5000
4000
3. (p = 0.003, R = 0.2)
300
1200
250
1000
200
800
150
600
100
400
3000
2000
1000
0
50
0
0.005
0.01
0.015
0.02
0
200
0
0.005
0.01
0.015
0.02
0
0
5
10
15
20
−3
x 10
4. (p = 0.003, R = 0.9999)
5. (p = 0.01, R = 0.05)
500
100
400
80
300
60
200
40
100
20
6. (p = 0.05, R = 0.05)
20
15
10
0
0
0.2
0.4
0.6
0.8
1
0
5
0
0.01
0.02
0.03
0.04
0
0
0.05
0.1
0.15
0.2
(a) Nella distribuzione limite, l’aleatorietà della perdita percentuale di
portafoglio dipende solo dall’aleatorietà del fattore Y ; in altre parole,
aumentando il numero di controparti il rischio specifico è completamente eliminato.
(b) Il risultato espresso dalla (26) non dipende dalla particolare distribuzione di probabilità scelta per il fattore Y ; tuttavia, sotto l’ipotesi
Y ∼ N (0, 1), la densità di p(Y ) si ricava in forma chiusa, che dipende
dai due parametri p e R e che indicheremo con fp,R (·); è di particolare
interesse esaminare in dettaglio quattro casi limite.
(i) R = 0 ⇒ limN →∞ fp,0 = δp , dove δp identifica una distribuzione
di probabilità degenere, cioè una distribuzione di probabilità che
assume il valore p con probabilità 1. Ciò significa che per N → ∞
siamo certi che la perdita percentuale di portafoglio è uguale a p;
(ii) R = 1 ⇒ fp,1 = Bin(1; p); in altri termini, per ogni N possiamo rimpiazzare la perdita percentuale di portafoglio con L1 ∼
Bin(1; p) ed è dunque ovvio che anche L = Bin(1; p);
(iii) p = 0 ⇒ f0,R = δ0 ; tutte le controparti sopravvivono con certezza;
(iv) p = 1 ⇒ f1,R = δ1 ; tutte le controparti falliscono con certezza.
50
Per la distribuzione L è molto semplice calcolare Expected Loss, Unexpected Loss e Capitale a Rischio, in quanto sia il valore atteso che i quantili
sono calcolabili analiticamente; in particolare il quantile α è dato da
Ã
!
√
Φ−1 (p) − R · qα (Y )
√
qα (L) = Φ
,
1−R
dove qα (Y ) è il quantile α di Y , e valore atteso e varianza sono dati da
E(L) = p,
var(L) = Φ2 (Φ−1 (p), Φ−1 (p); R),
dove Φ2 (·, ·; R) è la funzione di ripartizione della normale bivariata con valore
atteso nullo, varianza unitaria e correlazione R.
51