FRANCESCO GUIDICINI
Interviste
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tMICHAEL NYMAN
L’anello mancante
tra barocco,
minimal e
improvvisazione
Nato a Londra nel 1944, grande appassionato di calcio
(è un assiduo tifoso dei Queen’s Park Rangers), Michael
Nyman ha lasciato fin dal 1976 un’impronta indelebile
sulla musica contemporanea.
In occasione di una sua recente visita in Italia, non ci
siamo certo fatti sfuggire l’opportunità di intervistarlo.
di M au r i z io P r i nc i pat o
La copertina
dell’album di
esordio della
Michael Nyman
Band, uscito nel
1981 e oggi, per
la prima volta,
ristampato su
cd dallo stesso
compositore.
■ La tua etichetta, Mn, ha recentemente ristampato «Sangam» (del
2002, tra stilemi occidentali classici e musica indiana, con i fratelli
Misra e il virtuosistico mandolinista Shrinivas) e l’esordio della Michael Nyman Band («Michael Nyman», 1981). Ti senti ancora vicino
a quest’ultimo?
Sì, nel modo più assoluto. «Michael Nyman» – che anticipa gli sviluppi creativi
della mia carriera – continua ad affascinarmi sotto il profilo artistico e stilistico, per molte ragioni. All’epoca mi
rappresentava pienamente, molto più di
quanto non fosse stato per il mio lavoro
d’esordio, «Decay Music», prodotto nel
1976 per la Obscure di Brian Eno [alla
quale Daniel Soutif ha dedicato un «Jazzthetics» in Musica Jazz 8/2011]. Erano
passati cinque anni dalla fondazione del
mio primo gruppo, la Campiello Band.
Nessuno sapeva se la sua evoluzione,
ovvero la Michael Nyman Band, sarebbe sopravvissuta e per quanto tempo.
L’album ha una valenza basilare nella
mia discografia. Tra le altre cose, era
la prima volta che lavoravo con David
Cunningham, che avrebbe poi prodotto
tutti i miei dischi fino al 1991. In «Michael Nyman» c’è molta più elettronica
di quanto un autore come me – di matrice e formazione accademiche – solitamente inserisce o usa. Contiene i primi brani che realizzai per i documentari e per i film di Peter Greenaway,
come Initial Treat / Secondary Treat del
1978 (fortemente influenzata dallo stile di Anton Webern), Bird List Song del
’79, Bird Anthem dell’80. C’è anche la
mozartiana In Re Don Giovanni, composta nel 1977 per il primo concerto della
Campiello Band e fonte d’ispirazione
per Greenaway quando stava scrivendo
la sceneggiatura dei Misteri del giardino
di Compton House. Infine, ci sono i due
pezzi a mio giudizio più rilevanti: MWork e Waltz.
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Interviste
■ In Waltz suonano due abili sperimentatori e improvvisatori: Evan Parker al sax soprano e Peter Brötzmann
al clarinetto basso. Perché chiamasti
proprio loro?
Li seguivo e apprezzavo da tempo. Evan
e Peter facevano parte della componente
che mi attirava di più nel mondo musicale occidentale: quel contesto aperto in
cui convivevano sperimentazione, ricerca e istanze della musica contemporanea
come il minimal e la ripetizione modulare. Chiamarli fu un piccolo azzardo. A
qualcuno sembrò contraddittorio, dato
che nei miei tipici lavori non c’è praticamente spazio per l’improvvisazione. Ma
avevo bisogno di qualcuno che facesse a
pezzi la versione originaria di Waltz.
■ Sarebbe a dire?
Avevo scritto Waltz nel 1976 per gli studenti della Foster Social Orchestra del
Trent Polytechnic a Nottingham. Il risultato della loro esecuzione era insoddisfacente. Così decisi, insieme a David, di fare
qualcosa di drastico e chiamai le persone
più indicate per ribaltare la situazione.
■ Waltz si basa su un fraseggio elementare (Fa/Sib/Sol7/Do), che anticipa
la levità di Sheep And Tides e Bees In
Trees (dalla colonna sonora di Giochi
nell’acqua). Come si sviluppò l’azione
distruttiva – o rigenerante – di Parker
e Brötzmann?
Agirono individualmente e in modo del
tutto diverso. Peter si preoccupò di ascoltare con attenzione il materiale grezzo,
per adottare la stessa tonalità e fare interventi mirati, che fungevano da diversivo opportunamente armonizzato. Evan,
invece, si buttò senza pensarci due volte e suonò liberamente. Il loro apporto
fu importantissimo perché al contempo
complicarono e semplificarono tutto, risolvendo una situazione musicalmente
stagnante. Non mi delusero. Registrammo tutto e poi sovraincidemmo strati
su strati di sax (i cui acuti frammentari
aprono Waltz) e clarinetto basso.
1981
«Michael Nyman Band»
Victor (edizione giapponese)
1982
«The Draughtsman’s
Contract»
Piano
1985
«The Kiss And Other
Movements»
Editions EG
1988
«Drowning By Numbers»
Virgin
■ Ci sono contatti tra l’improvvisazione che innerva Waltz e quella che caratterizza i brani di «Sangam»?
L’unica cosa che hanno in comune è lo spirito di collaborazione dei musicisti. Per il
resto si tratta di due mondi distanti. L’improvvisazione jazz è molto, molto più esotica della musica classica indiana di «Sangam» che è assai controllata. Waltz è… selvaggio! Anch’io mi sentivo spesso così.
■ Qual era il tuo approccio alla composizione a quei tempi?
Diretto, pragmatico e innovativo. Aperto
a tutte le possibilità. Una forma mentis che
nasceva dal fatto di essere continuamente
esposto a ogni tipo di musica, in qualità sia di autore sia di critico o insegnante.
Passavo dai madrigali di Monteverdi alle
opere di contemporanea. Quell’eterogeneità si rifletteva nelle mie composizioni. Dopo «Michael Nyman» non ho più realizzato
un disco caratterizzato da una così evidente varietà di generi. È come se le mie idee
musicali viaggiassero in molte direzioni simultaneamente, senza però rinunciare alla coesione stilistica. È un mio disco; è un
disco della Michael Nyman Band; si riconosce come tale.
■ Sei davvero orgoglioso di quel lavoro…
Ne sono addirittura geloso: guai a chi me
lo tocca! Raccoglie i frutti di un lavoro
protratto nel tempo. D’altra parte, quando uscì non ero più un ragazzo: avevo quarantasette anni.
■ Trentasette...
Hai ragione: mi sono confuso. Quindi ero
un ragazzo... O quasi! Negli anni seguenti il mio stile si è evoluto e raffinato, come
pure la Michael Nyman Band. Gli album
successivi – soprattutto le colonne sonore
– sono più omogenei.
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Interviste
SEMPRE IMPREVEDIBILE...
Compositore e pianista, Michael
Nyman è uno degli autori di
colonne sonore più conosciuti
e amati, grazie ai film di Peter
Greenaway e a Lezioni di piano
di Jane Champion. Di formazione
accademica, focalizza inizialmente
la propria attenzione sulla musica
barocca per poi prendere le
distanze dalla composizione e
lavorare, tra il 1964 e il 1976,
come critico musicale (è proprio
lui, nel 1968, ad applicare per
la prima volta alla musica il
termine «minimalismo»; e nel
1974 pubblica l’importante libro
Experimental Music: Cage And
Beyond - Music In The Twentieth
Century, di recente tradotto in
italiano: La musica sperimentale,
Shake 2011). Quando gli si
domanda se abbia sofferto in quei
lunghi dodici anni in cui si astenne
dallo scrivere musica, risponde:
«Tutt’altro: è stato uno dei periodi
più belli della mia vita. La scena
della musica sperimentale era
vivissima e avevo la possibilità di
seguire direttamente la ricerca
di autori come John Cage e
Steve Reich. A un certo punto
decisi che avrei potuto tornare
alla mia professione originaria e
così scrissi le mie prime colonne
sonore, che mettevano a contatto
la musica barocca, i flussi sonori
di Morton Feldman e le istanze
minimal».
■ Brani come Bird Anthem, Bird List
Song o la coda di M-Work sono emblematici del tuo modo di comporre colonne sonore, soprattutto quelle
del periodo Greenaway. C’era un’intenzione razionale alla base? Quel tipo di struttura (ritmicamente ossessiva e melodicamente barocca) era
cioè la veste che prediligevi quando
si trattava di scrivere per i film di
Greenaway?
L’evidente continuità stilistica che contraddistingue i brani che citi e le mie
musiche per i film di Greenaway è in
realtà del tutto casuale.
■ Nella storia del cinema è capitato a
molti compositori (Ennio Morricone
con Sergio Leone, Bernard Hermann
con Hitchcock, John Zorn con tanti)
di scrivere colonne sonore prima che
il film fosse completato. Lo facevi anche tu con Greenaway?
Sì. Tranne rare eccezioni, Peter m’interpellava quando aveva in mente un’idea
di soggetto e mi dava indicazioni di base
che fornivano uno spunto chiaro ma al
contempo mi lasciavano libero di comporre, e mi assicuravano un ampio margine d’indipendenza dal girato, che ancora non esisteva. In questo modo potevo
lavorare in totale autonomia senza alcun
limite creativo e consegnare un prodotto
finito, che il regista usava per concepire
scene oppure per dare un ritmo preciso
e coerente al montaggio finale.
■ Come lavoraste su I misteri del
giardino di Compton House e Lo zoo
di Venere?
In quei due casi Peter mi descrisse il contesto generale del film. Non entrò nello
specifico dei dialoghi né parlò di dettagli: mi riferì invece quali fossero le dinamiche relazionali dei personaggi. In
alcuni casi mi mostrò disegni realizzati per l’occasione, opere d’arte che usa-
va come riferimento iconografico, testi
(romanzi o saggi scientifici)… Per me
tutti quegli ingredienti diventavano gli
elementi strutturali di riferimento. Nel
caso di Giochi nell’acqua, invece, il film
nacque prima della musica.
■ Per quale motivo?
Sai, il buon Peter si era messo in testa di
far scrivere la colonna sonora a Henryk
Górecki o a John Adams ma, quando si
rese conto di non avere abbastanza soldi,
tornò da me. Quella volta le sue indicazioni riguardarono la Sinfonia concertante
per violino, viola e orchestra in Mi bemolle
maggiore KV364 di Mozart.
FRANCESCO GUIDICINI
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■ Che tipo di indicazione ti diede?
Mi disse: «Mister Nyman, Tutto ciò
che scriverà deve necessariamente partire dalla Sinfonia concertante di Mozart». Imbastii tredici variazioni sul
tema con il contributo della mia band
(arricchita all’epoca dal Balanescu
Quartet). In realtà Peter aveva capito che nella versione originale di MWork erano presenti alcuni elementi
della Sinfonia concertante e quindi – a
ben vedere – anche in quel caso è partito tutto da me.
■ Bizzarro, non trovi?
Certo, così come fu bizzarra la nostra
relazione professionale. Bizzarra ma
perfetta, sia per lui sia per me. Eravamo entrambi interessati a individuare
significati, strutture, sequenze.
■ Qual è il fine ultimo del Nyman
compositore?
Desidero che il mio lavoro abbia la
massima evidenza. Sempre. Come autore dedicato al cinema, non accetto la
modalità hollywoodiana di commissionare colonne sonore che siano un
mero supporto alle immagini. Voglio
che ci si accorga del mio lavoro, che lo
si assimili, che se ne parli. Sono felice
quando mi dicono: «Mi è piaciuto il
film e mi è piaciuta la musica». Sono
altrettanto felice quando dicono: «Il
film non mi è piaciuto ma la musica
era davvero bella» (oppure quando la si
apprezza anche senza aver visto il film).
Attualmente l’industria del cinema si
basa su decisioni di carattere manageriale che ovviamente investono anche
le colonne sonore. È una progressiva
svalutazione delle idee creative, un appiattimento costante che non fa bene
né agli addetti ai lavori né agli autori,
né tanto meno al pubblico. Il lavoro
del compositore non deve sparire.
Maurizio Principato
Musica Jazz luglio 2012