Un quarto di secolo passato a lavorare nell`ambito del

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Il factoring tra finanza e servizi
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Intervento al Factoring Tour – Brescia, 10.10.2006
Il tema del mio intervento è la funzione economica dell’attività di factoring, quale si è sviluppata in questi
anni in Italia e quale potrà delinearsi nel futuro prevedibile, data l’evoluzione ambientale di cui hanno dato
ampiamente conto gli interventi precedenti.
Un quarto di secolo passato a lavorare nell’ambito del factoring italiano mi ha vaccinato contro ogni tentativo
di semplificare e banalizzare l’etichetta factoring. Quando ho iniziato ad occuparmene, nel 1983, era
un’attività di finanziamento, prevalentemente rivolta verso medie imprese scarsamente capitalizzate ed era,
giustamente, considerata un succedaneo del finanziamento bancario: forniva più credito, a più caro prezzo,
utilizzando i crediti commerciali ceduti solo come leva finanziaria. Pure, già allora esistevano applicazioni
specifiche decisamente più ampie, in cui il finanziamento diveniva solo una componente, utile ma non
decisiva rispetto alla scelta imprenditoriale.
Gli anni ’90 hanno visto un progressivo cambiamento nel profilo della clientela dei factors italiani, sempre più
spesso costituita da imprese di grandi dimensioni, con esigenze più diversificate che hanno portato ad
ampliare il ventaglio di finalità imprenditoriali coinvolte nella realizzazione di un programma di factoring:
riduzione degli assets in bilancio, outsourcing, finanziamento alle reti di vendita o ai fornitori 1 . In parallelo,
l’applicazione delle tecniche del factoring dava origine anche alla realizzazione di veri e propri sistemi di
pagamento per nicchie specifiche di business (penso all’esperienza sviluppata da Mediofactoring nel settore
del turismo organizzato).
Il cambiamento della clientela e l’ampliamento dell’operatività hanno determinato l’emersione di un profilo di
attività più variegato, in cui le componenti fondamentali di credito e di servizio si mescolano per generare
volta a volta soluzioni più o meno standardizzate. Questa evoluzione ha anche indotto un dibattito ancora
aperto all’interno della professione in merito all’identità dell’attività che svolgiamo: prevalentemente
finanziaria o prevalentemente di servizio? E’ un dibattito che si riapre periodicamente e che ha implicazioni
molto ramificate, ancorché specialistiche: dal trattamento delle operazioni ai fini dell’imposizione indiretta,
sino al trattamento contabile dei proventi, ma che coinvolge anche il tema della misurazione dei rischi a fini
di vigilanza prudenziale.
Fatto è che, nel caso del factoring italiano, finanza e servizio sono le due facce di una medesima moneta.
Quello che tiene insieme questi due profili diversi è la “materia prima” alla quale si applicano: il capitale
circolante dell’impresa, crediti e debiti commerciali visti volta a volta (o contemporaneamente) come una
risorsa potenziale ed un problema da risolvere.
Un problema, perché l’obiettivo dell’impresa è vendere i propri prodotti o servizi: dilazionare l’incasso di
queste vendite può generare squilibri finanziari (se pago i miei fornitori prima di quanto mi paghino i miei
clienti) e in ogni caso genera attività “inutili” rispetto all’obiettivo dell’impresa: gestione del credito
mercantile, sollecito del pagamento, imputazione del pagamento; tutte attività che assorbono risorse in
modo improduttivo, senza contare il rischio che il pagamento non venga effettuato.
I crediti commerciali sono contemporaneamente una risorsa, perché si prestano ad essere monetizzati,
con l’obiettivo di ottimizzare la gestione delle risorse finanziarie dell’impresa.
Questo approccio strategico alla gestione del circolante (problema/opportunità) emerso nelle esperienze più
interessanti del mercato italiano di questi anni non esiste in natura: esso è il risultato specifico
dell’evoluzione storica dell’attività di factoring nel nostro Paese, in un contesto caratterizzato da termini di
pagamento mediamente più lunghi che altrove e da un uso abbondante del credito mercantile nel
finanziamento delle imprese. Se guardiamo all’esperienza dei Paesi anglosassoni, il factoring è un puro e
semplice strumento di finanziamento e le soluzioni di gran lunga più diffuse tendono ad escluderne in radice
ogni possibile evoluzione in quanto attività di servizio. Il più grande mercato del factoring a livello mondiale è
quello inglese, in cui la quasi totalità dei volumi è costituita, in realtà, da operazioni di invoices discounting,
vale a dire finanziamento del circolante aziendale senza alcun tipo di comunicazione ai debitori (e dunque,
senza alcuna possibilità di immaginare anche l’effettuazione di attività non finanziarie).
1
L’intervento sul passivo delle grandi aziende ha rappresentato una delle specificità italiane più marcate, permettendo di operare
sull’indotto delle grandi imprese, formato prevalentemente da PMI, riducendo il costo di accesso di queste ultime a questa forma di
finanziamento.
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La diversità nell’approccio si riflette in un diverso tipo di relazione tra factor e impresa. All’interno di una
cornice più marcatamente finanziaria, l’impresa è un debitore delle anticipazioni corrispostegli dal factor ed è
quindi al centro dell’attività di monitoraggio andamentale di quest’ultimo. In un approccio focalizzato al
servizio, o anche in un approccio di tipo strategico, la relazione tra factor e impresa assume caratteri di
partnership che si riflettono anche nella natura degli interlocutori aziendali che interferiscono nella relazione:
non solo i responsabili finanziari, ma anche quelli commerciali, perché le tecniche messe a disposizione dal
factor possono aiutare a vendere di più e costituire un volano per lo sviluppo dell’impresa.
Il diverso focus dell’approccio ha, ovviamente, anche riflessi di tipo organizzativo. Per completare il paragone
con il mercato anglosassone, non è un caso se l’organizzazione dei factors italiani contempla strutture
dedicate alla gestione dei crediti commerciali acquistati, mentre quella dei nostri colleghi anglosassoni vede
invece la presenza prevalente di strutture che si occupano di fare audit presso il cliente cedente.
Ma se l’esperienza italiana ha sviluppato una nozione dell’attività di factoring più complessa del semplice
smobilizzo di attivi di breve durata, il nuovo contesto generato dal processo di unificazione europeo è ben
più profondamente condizionato dai paradigmi anglosassoni.
Anglosassone, e quindi squisitamente finanziaria, è la matrice della maggior parte delle novità che turbano il
sereno procedere del nostro tran tran e di cui si è ampiamente trattato negli interventi precedenti. Basilea 2
non è altro che il tentativo di far evolvere gli approcci di misurazione analitica del rischio caratteristici del
commercial banking verso i lidi di prevedibilità statistica e trasparenza del rapporto rischio/rendimento attinti
dall’esperienza dei mercati finanziari d’oltre oceano dopo oltre mezzo secolo dal crollo di Wall Street.
Parimenti, la sfida dei nuovi principi contabili è anch’essa figlia di una spinta verso l’uniformità e la
comparabilità dei bilanci delle imprese nell’ottica di un investitore che basa su di essi le sue valutazioni di
investimento. In quest’ottica, la misurazione del capitale economico dell’impresa è operata in una logica
liquidatoria e tutto tende alla monetizzazione immediata degli assets.
Siamo dunque in presenza di una discontinuità rispetto alla storia recente del factoring italiano. Qual è,
dunque, lo spazio per un’attività ibrida come quella che si è sviluppata nel nostro Paese e che, comunque,
intermedia oggi oltre il 7% del PIL? La domanda non è oziosa, tenuto conto della ben nota tendenza
nazionale a seguire le mode che ci arrivano da fuori e della correlativa difficoltà a far sistema, difendendo e
promuovendo le soluzioni originali che pure siamo riusciti ad elaborare.
Ognuno di noi può provare a dare la sua risposta ed il pessimismo della ragione ha certamente diritto di
cittadinanza. La mia risposta è comunque positiva. Uno spazio c’è ed è lo spazio dell’economia reale, in cui le
imprese non sono solo capitale investito, ma anche persone, relazioni, obiettivi, processi, regole. In cui i
crediti commerciali non sono solo merce, ma il risultato complesso di contratti, relazioni e processi e, proprio
per questo, faticano a trasformarsi in assets astrattamente monetizzabili.
E’ uno spazio, questo dell’economia reale, che va progressivamente delocalizzandosi verso i Paesi dell’est
europeo e più oltre. E questo pone nuove sfide agli operatori, ad allargare i propri orizzonti operativi ed a
ragionare in termini di mercati progressivamente più ampi di quello domestico. D’altra parte, se è vero che
molti imprenditori italiani stanno raccogliendo questa stessa sfida, non dovremmo imitarli e continuare a
lavorare con loro, piuttosto che limitarci a restare a casa ad occuparci solo di finanza?
Francesco Sacchi
Intesa Mediofactoring SpA
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