UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI GENOVA FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE Corso di Laurea in Scienze Politiche Curriculum “Giornalismo politico, economico e sociale” Teorie e tecniche del linguaggio giornalistico “Quod me nutrit me destruit” INCHIESTA SUI MEDIA E I DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE Relatore: Candidato: Chiar.mo Prof. Mario Bottaro Elena Dellepiane Anno Accademico 2007 – 2008 INDICE Introduzione pag. 3 Capitolo 1 – Aspetti sanitari 8 1-1 L’anoressia nervosa 13 1-2 La bulimia nervosa 15 1-3 Terapie dei disturbi alimentari 18 1-4 Una spiegazione convincente 19 Capitolo 2 – Media tradizionali 23 2-1 I quotidiani 32 2-2 La televisione 54 2-3 La radio 63 2-4 Considerazioni sui media tradizionali 66 2-5 La campagna di Oliviero Toscani 67 Capitolo 3 – Multimedialità 74 Capitolo 4 – Canzoni, libri e film 96 Capitolo 5 – La parola all’esperto 103 5.1 Intervista a Fabiola De Clercq 104 5.2 Intervista a Barbara Masini 118 5.3 Intervista a Simona Tedesco 126 5.4 Intervista a Mario Clavarino 136 5.5 Intervista ad Agostino Giovannini 143 5.6 Intervista a Chiara Rizzello 153 Conclusioni 164 Bibliografia e sitografia 169 M. C. Escher, Mani che disegnano, 1948, litografia, Museo Escher, L’Aia Introduzione 1 World of Escher, www.worldofescher.com 1 La scelta del titolo “Quod me nutrit me destruit”, letteralmente “ciò che mi nutre mi distrugge”, non è un voluto latinismo ma una frase, tra le più esplicative dei disturbi del comportamento alimentare (DCA), ricorrente all’interno dei siti e blog pro-anoressia, alla quale le persone sofferenti di DCA attribuiscono un duplice significato Nella prima interpretazione, il “nutrimento” rappresenta l’affetto e l’amore. Con tale accezione i malati di DCA manifestano la vera radice dei propri disturbi, quella che Fabiola De Clercq definisce “fame d’amore”2, cioè la sensazione di vuoto e la conseguente necessità di attenzione affettiva, ma anche la difficoltà nel recepirla. Nella seconda valenza, le persone affette da DCA, intendono come “nutrimento” proprio il cibo. Accanto alla consapevolezza della sua necessità come sostentamento per il fisico, il cibo è visto come ostacolo al controllo del proprio corpo. Al di là della premessa relativa alla scelta del titolo, ritengo importante spiegare i motivi che hanno determinato la scelta dell’argomento della mia tesi, a partire dalla forma: l’inchiesta giornalistica. In Italia, a causa dei lunghi tempi necessari per la realizzazione e dei conseguenti costi, oggi sono poche le redazioni nelle quali si effettuano indagini giornalistiche e reportage. In effetti il tempo da me impiegato è stato notevole, a partire dalla ricerca e dal reperimento del materiale necessario, lo studio e la comprensione del problema, passando poi alle interviste ai personaggi ritenuti interessanti fonti di informazione e di documentazione e alla parte investigativa del lavoro, fino alla stesura finale. In tutti questi passaggi è stato importante non perdere di vista il fine dell’inchiesta: fornire un’informazione, il più possibile approfondita, caratterizzata dagli elementi della novità, della completezza e della verità. In un primo momento, la scelta di seguire questa particolare forma giornalistica è stata collaterale alla scelta del tema, perché ne evidenziava il carattere innovativo. Ma la vera essenza giornalistica, il vero spirito 2 F. De Clercq, Fame d’amore. Donne oltre l’anoressia e la bulimia, Milano, Rizzoli, 1998, p. 38 indagatore è emerso proprio nel corso della realizzazione del lavoro, quando mi sono calata in un sottobosco mediatico drammatico e sostanzialmente inesplorato come quello dei siti e dei blog pro-anoressia, quando ho partecipato a un forum per capire meglio i protagonisti e la loro reale sofferenza. Il desiderio di informarmi e di informare su qualcosa che non ha finora trovato, a mio parere, i giusti spazi nei media è stata la vera forza motrice che mi ha spinta in questo lungo percorso e che ha consolidato la mia decisione di percorrere la strada dell’inchiesta giornalistica. La mia attenzione verso i DCA nei media, è nata quasi per caso tra le pagine di internet nel mese di ottobre del 2007, dopo la campagna pubblicitaria “NoAnorexia, No-l-ita” firmata da Oliviero Toscani. Mentre cercavo varie opinioni al riguardo, sono arrivata a un blog3 nel quale un post4 riportava quanto letto dall’autore su un blog pro-Ana e ne indicava il relativo link5. Dopo aver letto poche sconcertanti parole, ho voluto capirle meglio nel loro contesto e ho selezionato il sito di cui si parlava6. La cura della grafica, il rosa scelto per lo sfondo e il carattere del testo confondevano la lettura di quello che mi appariva come il delirio di una giovane donna. In un primo momento, ciò che mi ha sconvolta è stato il contrasto tra l’atrocità di quanto scritto e la gioiosa e leggera veste grafica. Solo più tardi, grazie al mio approfondimento, avrei capito che non si trattava di un delirio, ma del disperato grido di aiuto di una persona malata. Inizialmente credevo che la realtà dei blog pro-anoressia fosse nota e di essere tra i pochi a ignorarla. Ma più chiedevo, anche a persone assidue frequentatrici e conoscitrici della rete, maggiormente realizzavo che, 3 4 “Pepe Nero Blog”, www.pepeneroblog.com (28 ottobre 2007) Un post è l'articolo inserito in un blog da un utente registrato o dall'amministratore del blog 5 Il link è, come è noto, il collegamento fra due documenti o fra due zone di un documento. Cfr. “Dizionario della lingua italiana De Mauro”, www.demauroparavia.it (7 maggio 2008) 6 “Dentro i miei silenzi - detesta il vuoto dei rumori della realtà...”, www.dentroimieisilenzi.blogspot.com (28 ottobre 2007) contrariamente a quanto pensavo, questo utilizzo di internet era quasi sconosciuto. È stato ancora più sorprendente ricercare tra gli archivi web dei più grandi quotidiani italiani e trovare pochissimi riscontri, al massimo uno o due articoli, su questa realtà pesantissima. Allora ho compreso che esiste un problema nella comunicazione e, dopo ulteriori ricerche, ho capito che esso non è solo legato ai blog pro anoressia, ma è esteso più generalmente ai DCA, nonostante si tratti della prima causa di morte fra le malattie psichiatriche7. Il problema è legato non solo alla dinamica dell’informazione e relativa frequenza (tipo di notizia e periodo di emissione), ma anche alla scarsa chiarezza e, spesso alla mancanza di competenza, con le quali i media, quando lo fanno, trattano l’argomento. Per contro, è giusto riconoscere che mentre in passato i DCA potevano rientrare tra gli argomenti “tabù”, ora sono generalmente oggetto di maggiore attenzione. Perciò, anche se si tratta di una tendenza relativamente recente, anche i media vi dedicano più attenzione. Nell’inchiesta ha trovato spazio anche la discussa campagna pubblicitaria di Oliviero Toscani per il marchio “Nolita” contro l’anoressia, importante dal punto di vista mediatico per il grande risalto che ha avuto e per le opinioni spesso contrastanti espresse in merito. Molti hanno commentato questa pubblicità: ho voluto verificare a distanza di tempo, quali sono state le reali conseguenze della campagna e se, nel frattempo, qualche parere è cambiato. Tra i media ho inserito un’opera cinematografica e una rappresentazione teatrale italiane, oltre un famosissimo docu-film statunitense girato all’interno di un centro per la cura dei DCA, nei quali la condizione delle persone malate emerge in tutta la sua drammaticità. 7 L. Fornari, I disturbi alimentari: che cosa sono e come si manifestano, Educare.it – Rivista telematica sui grandi temi, www.educare.it (7 maggio 2008). Per avere informazioni e chiarimenti sui vari tipi di DCA, mi sono avvalsa di pubblicazioni scientifiche e mi sono rivolta a specialisti del settore che hanno offerto con disponibilità la propria preziosa collaborazione. Non mancano osservazioni sulle istituzioni italiane e su iniziative di intervento per la prevenzione e la cura dei DCA. Sono anche richiamati i recenti provvedimenti in proposito adottati da Spagna e Francia. Qualche riflessione è naturalmente dedicata alla ricerca in Italia, fondamentale per lo studio dei disturbi del comportamento alimentare, ma carente di finanziamenti da parte delle istituzioni. Queste prime considerazioni, che troveranno i dovuti approfondimenti, evidenziano l’approssimazione della conoscenza da parte di molti italiani nei confronti dei DCA, spesso sottovalutati e attribuiti solo alla ricerca del raggiungimento di modelli e di canoni estetici impossibili. La vera difficoltà nel percorso svolto attraverso i disturbi del comportamento alimentare è stata quella di limitare il coinvolgimento emotivo. Comprendere, man mano che il lavoro procedeva, la gravità e la vastità del problema ha spesso messo a dura prova la lucidità necessaria per ottenere un prodotto giornalistico. 8 J. Ensor, Maschere, 1892, olio su tela, Museo d’Arte Menard, Komaki Capitolo 5: La parola all’esperto 8 Vince’s ear, www.vincesear.com 5-5 Intervista ad Agostino Giovannini Agostino Giovannini, si è laureato in Scienze Sociali presso l’Università degli Studi di Parma. Nel 2004 ha intrapreso la prima ricerca investigativa a valenza scientifica italiana sul fenomeno web pro-anoressia, presso il PASM dell’Az.Usl di Reggio Emilia. Studioso indipendente, oggi, prosegue gli studi sul fenomeno pro anoressia e collabora al progetto Risky-Re: prima ricerca sui comportamenti a rischio nei giovani della provincia di Reggio Emilia nonché network informativo e divulgativo sui comportamenti a rischio ad ampio spettro, del quale è direttore il professore Umberto Nizzoli. Gestisce inoltre una rubrica sul disagio psico-sociale e fisico per la testata giornalistica on line RedAcon (Agenzia di stampa dell’Appennino Reggiano9), opera come moderatore di gruppi di supporto per soggetti binge e, con altre mansioni, in diversi settori del sociale. - Può descrivere brevemente le caratteristiche dei più comuni DCA? «I DCA, altrimenti conosciuti come disturbi del comportamento alimentare, raggruppano quella fascia di persone, incasellate patologiche (sofferenti di un disturbo patologico, appunto) dai manuali di psicopatologia (si veda il DSM IV). Comunemente conosciamo anoressia nervosa e bulimia nervosa, ma è probabile che in futuro saranno introdotti nei manuali diagnostici, patologie quali il Binge o BED (sindrome da abbuffata compulsiva) e similari». - Quali sono caratteristiche principali dei DCA? «Le caratteristiche predominanti sono: percezione corporea distorta (il vedersi grasse/i anche a pesi molto bassi), che monopolizza i pensieri della persona, da questa dipendono anche il cibo e l’autostima. Questi ultimi condizionano ogni atto della vita psico-sociale della persona affetta da DCA, quasi come se si trattasse della dipendenza da sostanze psicotrope». 9 RedAcon, www.redacon.radionova.it - Nell’ambito della sua esperienza, ha visto presentarsi nuove forme di DCA parallelamente all'evoluzione della società? «Parlare di nuove forme di DCA non è cosa semplice; all’occhio clinico si sono mostrati nuovi prototipi di patologie, talvolta atte ad allargare la gamma dei disturbi già affermati (per esempio vomiting, ossia la patologia della dipendenza dal vomito auto-indotto e altre patologie come le abbuffate notturne), talvolta atte a definire nuovi disturbi prima di allora non ancora evidenti. Tra questi ultimi, vi sono l’ortoressia (morboso rapporto con cibo esclusivamente sano) e l’anoressia reverse (della quale, ad esempio, soffrono alcuni culturisti, i quali orientano tutti i propri bisogni intorno alla prevalenza della massa muscolare su quella grassa)». - E altri fenomeni, comunque associati ai DCA? «Nel 2003 ho personalmente effettuato una scoperta, non di un nuovo disturbo, ma di una nuova espressione di esso: il fenomeno pro anoressia nel web. Questo fenomeno, emerso dal mio studio, si mostra come un’evoluzione imprevista della sintomatologia sociale che, talune persone affette da DCA o da disturbi correlabili, hanno espresso in una sorta di richiamo e di tentativo, mal riuscito, di operare cambiamenti nella percezione sociale e personale dei DCA. Sul fenomeno pro-Ana ho scritto molto e, nel 2004, ho effettuato con il prof. Umberto Nizzoli la prima ricerca scientifica italiana a riguardo». - Esiste una parola-chiave, un minimo comune denominatore, per i diversi DCA? «Sì, ovviamente è: cibo. Sia l’anoressia nervosa (che lo ripudia), sia la bulimia nervosa (che ne abusa e smaltisce in modo non appropriato), seppur con differenti meccanismi, sono entrambe patologie nelle quali il malessere ruota intorno all’ossessione del cibo». - Per un profano è difficile districarsi tra le diverse terminologie mediche attribuite ai DCA. Ad esempio, c’è differenza tra anoressia e anoressia nervosa (e tra bulimia e bulimia nervosa)? «Forse tanta, forse nessuna. L’anoressia è mentale e/o nervosa, ma resta una forma anoressica, lo stesso per la bulimia. Si tratta per lo più di diagnosi strutturate sui manuali di psichiatria di un tentativo, a mio avviso in parte inopportuno, di medicalizzare a ogni costo, incasellando la sofferenza mentale come un virus, attraverso prognosi e cure standardizzate». - Può spiegare meglio? «Per un profano è sufficiente sapere che ci sono soggetti che manifestano dolore e sofferenza di vivere sotto la forma di anoressia e bulimia, e che queste sono ben lontane dalle patologie del dimagrimento: non si ci ammala perché si vuol dimagrire. Si vuol dimagrire senza coerenza per manifestare una sofferenza della quale spesso nemmeno il soggetto è consapevole; anzi, talvolta, questa sofferenza permette al malato di nascondere anche a sé stesso la realtà della malattia». - Qual è il confine tra magrezza e malattia? «Uno soltanto: l’ossessione per il cibo e la forma fisica, che diventa determinante nella vita della persona malata. Quando l’esistenza di una persona è assorbita da questa ossessione, questa dirige ogni aspetto della vita socio-relazionale dell’individuo. Pertanto una cosa è essere magri, un’altra è essere malati». - Sono frequenti i casi di suicidio tra i malati di DCA? «Sì purtroppo sono frequenti. Ma cerchiamo di comprendere che un DCA può essere un’espressione di una depressione recondita, per cui a essere precisi, raramente la persona si suicida per il disturbo alimentare, bensì per la patologia più gravosa (il dolore) che sta a monte.» - Esiste, a suo avviso, un possibile modello di prevenzione effettivamente efficace per i DCA? «Sinceramente non nutro fiducia nella prevenzione di queste patologie. Semplificandole le ritengo espressioni del malessere e del disagio provati dalla persona malata. Entrambi possono derivare da fattori non pronosticabili, pertanto non i può parlare di prevenzione della sofferenza». - E a livello sociale? «Forse solo un tipo di prevenzione sociale, che promuova l’accettazione delle differenze e che insegni a non semplificare, potrebbe fornire esiti positivi». - In un suo articolo afferma l’esistenza di un divario tra i DCA e la società e che questa ne è spesso inconsapevole autrice. In che senso? «Come accennavo prima, la società semplifica, raramente accetta che le modelle super-magre non sono colpevoli dell’insorgenza dei DCA. La società cerca sempre di non sentirsi incolpare, e lo fa indicando come colpevoli altri soggetti. Nel caso dei DCA, la colpa è attribuita alla moda e alle persone che la seguono a qualunque costo. La società stigmatizza queste sofferenze sbagliandone il giudizio, disapprova le persone malate che, attraverso il DCA, costruiscono una difesa, talvolta verso la società stessa. Colpevole diventa il malato, reo di non adattarsi a un canone preciso da essa stabilito, al quale corrisponde una indefinita maggioranza». - Sono molte le persone che non conoscono i DCA? «Semplificando, ci sono molte persone che non conoscono la differenza tra una forma bulimica e una anoressica. Talvolta gli stessi famigliari di persone malate continuano a credere che questa malattia abbia origine da un semplice desiderio di perdere peso per assomigliare alle modelle. Questo è un modo per non affrontare una situazione di difficile gestione, e per evitare sensi di colpa o colpevolizzazioni da parte di chi è malato». - Tale scarsa conoscenza, a suo parere, è attribuibile a poca attenzione verso l’argomento da parte dei media? «Un tempo la funzione dei media, quindi dell’informazione, era quella di informare il pubblico attraverso i canali disponibili. Oggi la loro funzione deraglia a causa dell’attenzione prestata all’audience. Avere informazioni sui DCA da programmi non specializzati, significa ricevere un’informazione frammentaria e spesso errata, pertanto il telespettatore o lettore non è posto in grado di comprendere adeguatamente i disturbi del comportamento alimentare. Tuttavia devo ammettere che l DCA sono di difficile comprensione anche per noi operatori. Servono anni di studio ed esperienza per approcciarli adeguatamente e non possiamo pretendere lo stesso dai cittadini. Quello che si dovrebbe iniziare a fare è distruggere definitivamente i moltissimi preconcetti, del tutto infondati, che pervadono la coscienza sociale odierna relativamente ai DCA». - Quando i media affrontano l’argomento, lo fanno con sufficiente chiarezza e completezza? «No, loro stessi non sono abbastanza preparati e non è sufficiente far parlare ogni tanto l’esperto di turno. Con questo non voglio dire che non si debba parlare di DCA, anzi, ma che questi andrebbero affrontati in modo meno semplicistico, con maggior rispetto e serietà». - Nei mesi successivi alla campagna “No-Anorexia, No-l-ita”, lei ha riscontrato reazioni o commenti? «In relazione alla campagna Nolita, ho sentito dire moltissime cose, ma ho ascoltato principalmente le reazioni sociali, dalle quali emergeva nuovamente l’associazione tra i DCA e il desiderio di essere fisicamente come le modelle». - Non ritiene che lo scalpore seguito alla campagna possa aver nuociuto ai malati e ai potenziali tali? «No, credo che purtroppo non sia cambiato nulla. Teniamo presente che si trattava solo di un cartellone: un cartellone in rapporto alle migliaia di foto identiche che quotidianamente girano tra web, riviste e tv. Forse sono ottimista, ma credo che Olivero Toscani volesse soltanto provocare una società inefficiente rispetto ai DCA. Purtroppo, nonostante la provocazione, nulla è cambiato». - La Spagna ha vietato i defilé alle modelle con indice di massa corporea inferiore a 18 e ha concluso un accordo di collaborazione con i principali operatori della moda che contiene nuove norme comportamentali. Partendo dal principio che i DCA hanno radice psicologica, lei ritiene che comunque la moda dovrebbe adottare nuovi provvedimenti per disincentivare il perseguimento di modelli fisici impossibili? «Se ci illudiamo che anoressia e modelle siano sinonimi si prosegue semplificando e distogliendo lo sguardo dal vero cuore del problema, così facendo è impossibile affrontare adeguatamente la cosa. Non escludo che nella moda vi siano tante forme di DCA, ma non corrisponde al vero la credenza che il mondo della moda ne sia promotore. Essi esistono a prescindere dal sistema moda. Pertanto, trovo ridicole e poco efficienti, le limitazioni imposte sulle passerelle. Mentre trovo lodevoli le case di moda che propongono capi di vestiario non solo per taglie piccole». - Come giudica il “manifesto nazionale di autoregolazione della moda italiana contro l’anoressia” (siglato da Pogas, Camera nazionale della moda, Altaroma) e il progetto nazionale “le buone pratiche di cura e la prevenzione dei disturbi del comportamento alimentare” (elaborato dalle ex-ministre Turco-Melandri)? «Il manifesto siglato con la Camera nazionale della moda lo trovo una buona intenzione ma priva di qualsivoglia effetto: la taglia non è causa di un DCA. Relativamente al recente progetto di legge Turco-Melandri, mi pare ancora in via di sviluppo e quindi non facilmente giudicabile». - Il 15 aprile scorso in Francia è stata approvata una proposta di legge che prevede multe fino a 40 mila euro e 3 anni di reclusione per chi incita in internet persone a non mangiare, a vomitare il cibo o a mortificare il proprio fisico, mettendo a rischio la propria salute. Qual è la sua opinione al riguardo? «Trovo che la censura di un comportamento, soprattutto se patologico, non ha altra conseguenza se non quella di renderlo più appetibile e di sottoporre le persone coinvolte a condizioni di sofferenza psicologica, quindi patologica, maggiori». - Ritiene che l’Italia sia carente, dal punto di vista legislativo, nei confronti dei DCA? «Sul punto attuattivo sì, sono ancora troppo poche le risorse disponibili, basta pensare che spesso i Centri di cura funzionano su volontariato e tirocini, poiché sono pochi i soldi disponibili per il loro normale funzionamento. Ovviamente ritengo che non deve essere approvato alcun provvedimento censorio come quello francese mentre. Andrebbe invece legiferato l’obbligo alla delicatezza quando si affrontano tematiche gravose come queste, ma questa è mera fantasia». - Come è venuto a conoscenza dei blog pro-Ana? «Dovevo studiare il fenomeno pro-anorexia nato negli Stati Uniti, invece, ho scoperto (a favore della mia ristretta conoscenza della lingua inglese) che da alcuni mesi esisteva anche in Italia un analogo movimento. Tengo a precisare che non ho mai fornito istruzioni su come reperire questi portali, né ho mai pubblicato link o materiale sensibile che ledesse la privacy dei membri. Tutto ciò nel rispetto della sofferenza delle persone coinvolte». - Può fornire una definizione di Ana? «L’ambivalenza, del pro-Ana è elevatissima, pertanto difficilmente definibile, comunque “Ana” è la filosofia della magrezza e della liberazione dalla dipendenza dal cibo. Con “Ana” non viene intesa l’anoressia, ma viene indicato uno stile di vita alternativo, contrapposto a quello patologizzato. Anche se il termine “Ana” talvolta è usato come diminutivo di anorexia e serve per nominarla in tono più affettuoso». - Cosa l’ha spinta a interessarsi al punto da dedicare la sua tesi di laurea e una ricerca all’argomento? «Quando ho intrapreso la tesi sul neo-scoperto fenomeno pro-Ana, ho avuto un incontro per un’intervista al riguardo con il professore Umberto Nizzoli. Con mia grande sorpresa il professore Nizzoli non era al corrente di questo nuovo fenomeno così, a seguito del colloquio, è nata la proposta bilaterale di intraprendere assieme una ricerca su una novità della quale pochi sembravano essere al corrente. Attraverso i consigli del mio relatore di tesi, il professore Flavio Bonfà, ho portato avanti la mia tesi e, nel contempo, la ricerca con il professore Nizzoli. Gli aiuti di entrambi sono stati stimolanti e fondamentali e, spesso, si sono incrociati». - Si è mai chiesto come mai prima di lei nessuno avesse mai compiuto in Italia studi sul fenomeno pro-anoressia, nonostante fosse già una drammatica realtà? «Forse ho avuto fortuna, gli spazi web pro-Ana erano approdati in Italia da poco tempo, ma un altro fattore è stato determinante e lo è ancora oggi: il tempo a disposizione. Quello necessario per studiare adeguatamente e non superficialmente questo fenomeno, è elevato. Molti professionisti, a causa degli impegni di lavoro, non possono permettersi di intraprendere un simile percorso. Io, in quanto laureando, ho potuto condurre la prima ricerca scientifica italiana sul fenomeno pro-anoressia e, contemporaneamente, completare la mia tesi di laurea che è stata impiegata come commento integrativo alla ricerca». - Quanto è difficile per i soggetti pro-Ana , rispetto ai malati non frequentatori dei blog, comprendere il proprio status e decidere di curarsi? «Non considerando le differenze da caso a caso, posso dire che i soggetti pro-Ana non accettano le cure poiché questo è contrario alla filosofia di Ana, che rifiuta di essere inquadrata come malattia, anche se molte di queste persone provengono da realtà di cure fallite e interrotte». - E per chi ha già un disturbo alimentare conclamato? «Diversa cosa sono pazienti o ex pazienti di Centri di cura che, pur andando e tornando da terapie a loro avviso inefficienti, persistono nel dichiarare la propria fedeltà ad Ana e a vivere nell’illusione di riuscire comunque a liberarsi dalla dipendenza dal cibo. Stiamo parlando di un mondo che, in Italia, è composto per almeno il 90% da persone bulimiche (mentre negli Stati Uniti è attivo anche il movimento probulimia, nel nostro paese sia anoressiche sia bulimiche, si ritrovano proAna)». - Dalla sua ricerca sul fenomeno pro-Ana, emerge che mentre il 19% dei pazienti intervistati conosce e frequenta i siti web pro-Ana, tra i genitori di soggetti sofferenti di un DCA nessuno ha dichiarato di farlo. Inoltre, secondo gli stessi, i loro figli non hanno mai visitato i siti web pro-Ana. Come ha interpretato questo fatto? Cattiva informazione, scarsa attenzione dei genitori o altro? «Potremmo dedicare un’intera trattazione a questa domanda comune, a mio parere, il dato rileva principalmente l’assenza di dialogo e di percezione della realtà tra genitori e figli: entrambi non si conoscono, vedono dell’altro ciò che vogliono vedere e, spesso, solo ciò che credono dovrebbe accadere. Questa mancanza di dialogo genera una fuga dalla realtà». - Anche tra gli specialisti la conoscenza dei blog pro-Ana è scarsa, solo il 24% dichiara di conoscerli e ben il 73% ritiene che i propri pazienti non li frequentino. Alla luce di ciò, a suo avviso è necessario un aggiornamento degli addetti? «Successivamente alla mia ricerca la delusione è stata grande; il mondo specialistico è duro da aggiornare, soprattutto se in modi così radicali. Insieme al professore Nizzoli, abbiamo spesso ribadito la necessità dell’aggiornamento costate dei servizi, ma purtroppo ci troviamo in un sistema molto conservatore. Lo dimostra il fatto che, a distanza di anni dalla ricerca, ancora in pochi conoscono il fenomeno, persino tra gli addetti ai lavori, e comunque a un livello superficiale e in modo inesatto». - Successivamente alla pubblicazione della sua ricerca ha avuto riscontri positivi tra gli specialisti del settore, in particolare tra il 76% che non conosceva il pro-Ana? «Dopo la promulgazione del fascicolo sono stati pochi i contatti (non massmediatici) tra gli specialisti e, oserei dire, che ben poco è stato fatto. Chi mi contatta frequentemente sono invece giovani studenti laureandi, che spesso hanno appreso l’esistenza del fenomeno da poco tempo». - Con quali dinamiche dovrebbe aver luogo l’informazione sul fenomeno pro-Ana tra gli esperti? «Innanzitutto bisognerebbe aggiornare gli operatori e, parallelamente, portare avanti nuovi studi mirati e approfonditi, questo perché il movimento pro-Ana si è già evoluto troppo e senza controllo». - Quali sono gli obiettivi della sua ricerca? «In assoluto capire come prevenire il pro-Ana e simili, comprendendolo appieno, appagando poi le richieste in un contesto protetto e adeguato che non conduca i soggetti a simili forme di devianza. Ma anche fornire un rinnovamento delle conoscenze, alla luce delle evoluzioni fisiologiche dell’utenza, e un aggiornamento del sistema delle cure attuali». - Quali ulteriori ricerche si propone di realizzare in futuro sul tema? «Ho confezionato tre versioni di differenti progetti specifici ma a oggi, sfortunatamente, nessuno di questi è stato realizzato. Purtroppo i limiti dei finanziamenti sono drammatici. I miei obbiettivi principali sono validare le tesi che ho potuto maturare, gli strumenti che ho costruito in questi anni sulla base dell’esperienza maturata e sviluppare protocolli di intervento sul fenomeno pro-Ana e affini». - Nel sito da lei curato, ha pubblicato un annuncio in cui lamenta la carenza di fondi e richiede sostegno finanziario per portare avanti le sue ricerche. Ha ottenuto risposte positive? «Sfortunatamente no, non ho ottenuto alcun riscontro positivo». - Ancora una volta la ricerca italiana viene abbandonata a se stessa dalle istituzioni, privata dei giusti riconoscimenti e dei mezzi necessari. Quanto è difficile per lei lavorare in queste condizioni? «Credo che in Italia il nobile ambito della ricerca (nobile ma soprattutto necessario) sia condannato a procedere a ritmi negativi. Non mancano solo gli interventi economici istituzionali, ma anche una cultura sociale della ricerca. Siamo abituati ad avere pacchetti completi, fatti da altri Paesi, ma ricerche di altri Paesi approcciano i problemi di quei luoghi. Ci affidiamo troppo alle ricerche estere, dimenticandoci che il nostro contesto socio-culturale è diverso da quello estero. Sarebbe quindi imprescindibile applicare in Italia il risultato di studi condotti, almeno principalmente, nel nostro territorio». F. Goya, Il sonno della ragione genera mostri, 1799, acquaforte, Museo Nacional del Prado, 10 Madrid Conclusioni 10 Art.com, www.art.com Molte volte, mentre lavoravo a questa tesi, mi sono chiesta se mai mi sarei curata di approfondire l’argomento dei disturbi del comportamento alimentare se, nell’assecondare una mia curiosità, non avessi visitato il blog pro-Ana di cui ero venuta a conoscenza casualmente. La risposta è stata ogni volta negativa: l’idea che avevo del problema era di umana comprensione, ma le notizie dei media mi sembravano sufficienti e non sentivo la necessità di saperne di più. È bastato un “click” per penetrare in un mondo sconosciuto e, come ho già detto, nel bene e nel male coinvolgente. Internet, ancora una volta, si è confermata uno straordinario strumento di conoscenza e di comunicazione, ma ha anche mostrato il suo aspetto più oscuro e subdolo; per la prima volta, mi sono trovata di fronte a immagini e parole strazianti, espressioni di incredibili sofferenze di persone malate. Dopo aver rilevato l’informazione scarsa e approssimativa fornita dai media tradizionali sui DCA, la delusione è stata notevole perché nutrivo maggiori aspettative nei confronti di chi deve rendere un servizio al pubblico: dare un’informazione veritiera, chiara e il più possibile completa, tale da contribuire alla formazione di una coscienza sociale. Una delle difficoltà riscontrate nel tentativo di reperire autonomamente le indispensabili informazioni attraverso canali diversi da quelli tradizionali, è stata la comprensione del linguaggio tecnico sanitario: molto dettagliato e preciso, ma poco accessibile a chi, come me, non ha una formazione scientifica. Ho potuto superare le mie difficoltà grazie alla disponibilità di esperti di DCA, che hanno fornito preziose spiegazioni sull’argomento, oltre a considerazioni sull’attività dei media. Tutti hanno espresso l’opinione, da me condivisa, che i media quando, raramente, affrontano la tematica dei DCA lo fanno in modo poco chiaro e incompleto. La trattazione dei disturbi alimentari da parte della stampa quasi sempre legata a fatti di cronaca, è stata giustificata dal condirettore di “A” Simona Tedesco come una scelta necessaria, dovuta alla sproporzione numerica di queste patologie rispetto ad altre molto più diffuse, delle quali si scrive anche in assenza di particolari avvenimenti. Questa sproporzione è reale, ma in me permane la convinzione che i disturbi alimentari, in quanto problema sociale ancora circondato da pregiudizi e superficialità, meritino maggiore attenzione, indipendentemente dalla cronaca, dagli eventi o dalle iniziative a essi collegati. Se le istituzioni stanno cercando di affrontare la complessa problematica dei DCA mediante l’adozione di codici etici e di programmi di prevenzione sociale, non comprendo perché i mezzi di comunicazione si limitino a rendere noti tali provvedimenti, anziché farsi anch’essi artefici di un’opera di prevenzione. Prevenzione che, per essere efficace, non dovrebbe parlare solo di sintomatologie e casi di morte ma, piuttosto, prospettare la possibilità di guarigione e segnalare le strutture specializzate in grado di aiutare le persone che ne hanno bisogno. Per quanto i miei giudizi sui media siano tendenzialmente negativi, ho trovato in “A” un esempio incoraggiante per le cautele che la rivista afferma di adottare nel proporre l’immagine corporea e per il suo principio di “approccio alla verità”, soprattutto quando applicato a temi relativi alla salute, Credo che tali accorgimenti debbano essere messi in pratica da tutti i media, i quali, devono anche vigilare sui contenuti pubblicitari proposti al pubblico e cercare di slegare l’idea di successo da quella di bellezza e magrezza, orientandola verso altri valori quali istruzione, merito e professionalità. Tornando alle istituzioni, ho riscontrato una generale attenzione verso i DCA manifestata non solo con la predisposizione di provvedimenti, ma anche con la creazione di nuove strutture pubbliche specializzate nella cura di queste patologie. In particolar modo, ho avuto prova dell’impegno della Regione Liguria: è stato grazie alla sensibilità e all’interessamento dell’assessore alla Salute Claudio Montaldo, che ho potuto avere un contatto diretto con il responsabile del Centro dei disturbi del comportamento alimentare della Asl3 di Genova, Barbara Masini. Relativamente al fenomeno pro-Ana, azzardare un giudizio è difficile se non impossibile, poiché bisogna considerare troppe variabili spesso tra loro in contrasto. Non si può negare che questi spazi internet sono oggettivamente pericolosi, ma è altrettanto vero che sono luoghi virtuali nei quali persone malate danno libero sfogo alla propria “fame d’amore”11, pertanto umanamente non condannabili. La società non è esente da colpe: troppo disattenta e frettolosa nei giudicare. Come sostiene lo scopritore dell’esistenza del fenomeno in Italia, Agostino Giovannini, la superficialità porta a identificare i disturbi alimentari con la mera ricerca della forma fisica propria delle modelle. Ritengo che se la società stessa avesse provato a informarsi e a informare di più, a superare alcuni stereotipi e pregiudizi intorno ai DCA e a chi ne soffre, se verso questi ultimi fosse stata più accogliente e comprensiva, oggi la realtà pro-Ana sarebbe più conosciuta a tutti e meno frequentata da chi in essa si rifugia per non sentire il peso del giudizio altrui. In quanto alla possibilità di imporre la rimozione di questi siti e blog rendendoli illegali, la comunità pro-Ana ha già dimostrato la sua capacità di superare l’ostacolo, come spiega Mario Clavarino, ad esempio appoggiandosi a gestori di servizi web di paesi dove non esistono limitazioni di questo tipo. Le opinioni raccolte sul fenomeno pro-Ana a volte risultano diverse e contrastanti anche se espresse da esperti del settore. Penso che, per affrontare meglio l’argomento, forse essi stessi dovrebbero trovarsi e collegialmente definire un programma di prevenzione, informazione e divulgazione idoneo e condiviso, in collaborazione con le istituzioni. Vista la scarsa attenzione dei mezzi di comunicazione tradizionali, la prevenzione potrebbe compiersi anche attraverso media alternativi, come cinema e teatro. Questo ultimo medium, per quanto inusuale, si è già dimostrato molto efficiente grazie a rappresentazioni come “La bambina con la pelliccia”12, al cui termine è prevista l’apertura di un dibattito che vede l’intervento di esperti ABA e la partecipazione del pubblico. 11 F. De Clercq, Fame d’amore, Milano, Rizzoli, 1998, p. 38. La bambina con la pelliccia, regia di Eleonora D’Urso con Federica Bagnetti, tratto da Tutto il pane del mondo, di Fabiola De Clercq. 12 Anche internet si è rivelata attiva sul fronte della prevenzione, ad esempio attraverso i gruppi di self-help (auto aiuto, auto-mutuo aiuto) come quello nato intorno al blog “Briciole di pane” di Chiara Rizzello che, oltre a offrire conforto e supporto, si preoccupa di diffondere il messaggio che dai DCA si può guarire, purché ci si affidi a strutture competenti. Queste sono indicate con relative coordinate all’interno del blog che, in questo modo, fornisce anche un utile servizio. Per concludere, mi affido alle parole riportate in uno dei “Capricci” di Francisco Goya, scelto come immagine introduttiva per questa ultima parte e messaggio, che andrebbe sempre tenuto presente, valido anche quando si parla di DCA: “il sonno della ragione genera mostri”.