Quod me nutrit me destruit - Risky-Re

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI GENOVA
FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE
Corso di Laurea in Scienze Politiche
Curriculum “Giornalismo politico, economico e sociale”
Teorie e tecniche del linguaggio giornalistico
“Quod me nutrit me destruit”
INCHIESTA SUI MEDIA E I DISTURBI
DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE
Relatore:
Candidato:
Chiar.mo Prof. Mario Bottaro
Elena Dellepiane
Anno Accademico 2007 – 2008
INDICE
Introduzione
pag. 3
Capitolo 1 – Aspetti sanitari
8
1-1
L’anoressia nervosa
13
1-2
La bulimia nervosa
15
1-3
Terapie dei disturbi alimentari
18
1-4
Una spiegazione convincente
19
Capitolo 2 – Media tradizionali
23
2-1
I quotidiani
32
2-2
La televisione
54
2-3
La radio
63
2-4
Considerazioni sui media tradizionali
66
2-5
La campagna di Oliviero Toscani
67
Capitolo 3 – Multimedialità
74
Capitolo 4 – Canzoni, libri e film
96
Capitolo 5 – La parola all’esperto
103
5.1
Intervista a Fabiola De Clercq
104
5.2
Intervista a Barbara Masini
118
5.3
Intervista a Simona Tedesco
126
5.4
Intervista a Mario Clavarino
136
5.5
Intervista ad Agostino Giovannini
143
5.6
Intervista a Chiara Rizzello
153
Conclusioni
164
Bibliografia e sitografia
169
M. C. Escher, Mani che disegnano, 1948, litografia, Museo Escher, L’Aia
Introduzione
1
World of Escher, www.worldofescher.com
1
La scelta del titolo “Quod me nutrit me destruit”, letteralmente “ciò che mi
nutre mi distrugge”, non è un voluto latinismo ma una frase, tra le più
esplicative dei disturbi del comportamento alimentare (DCA), ricorrente
all’interno dei siti e blog pro-anoressia, alla quale le persone sofferenti di
DCA attribuiscono un duplice significato
Nella prima interpretazione, il “nutrimento” rappresenta l’affetto e l’amore.
Con tale accezione i malati di DCA manifestano la vera radice dei propri
disturbi, quella che Fabiola De Clercq definisce “fame d’amore”2, cioè la
sensazione di vuoto e la conseguente necessità di attenzione affettiva, ma
anche la difficoltà nel recepirla.
Nella seconda valenza, le persone affette da DCA, intendono come
“nutrimento” proprio il cibo. Accanto alla consapevolezza della sua necessità
come sostentamento per il fisico, il cibo è visto come ostacolo al controllo del
proprio corpo.
Al di là della premessa relativa alla scelta del titolo, ritengo importante
spiegare i motivi che hanno determinato la scelta dell’argomento della mia
tesi, a partire dalla forma: l’inchiesta giornalistica.
In Italia, a causa dei lunghi tempi necessari per la realizzazione e dei
conseguenti costi, oggi sono poche le redazioni nelle quali si effettuano
indagini giornalistiche e reportage.
In effetti il tempo da me impiegato è stato notevole, a partire dalla ricerca e
dal reperimento del materiale necessario, lo studio e la comprensione del
problema, passando poi alle interviste ai personaggi ritenuti interessanti fonti
di informazione e di documentazione e alla parte investigativa del lavoro, fino
alla stesura finale.
In tutti questi passaggi è stato importante non perdere di vista il fine
dell’inchiesta:
fornire
un’informazione,
il
più
possibile
approfondita,
caratterizzata dagli elementi della novità, della completezza e della verità.
In un primo momento, la scelta di seguire questa particolare forma
giornalistica è stata collaterale alla scelta del tema, perché ne evidenziava il
carattere innovativo. Ma la vera essenza giornalistica, il vero spirito
2
F. De Clercq, Fame d’amore. Donne oltre l’anoressia e la bulimia, Milano, Rizzoli,
1998, p. 38
indagatore è emerso proprio nel corso della realizzazione del lavoro, quando
mi sono calata in un sottobosco mediatico drammatico e sostanzialmente
inesplorato come quello dei siti e dei blog pro-anoressia, quando ho
partecipato a un forum per capire meglio i protagonisti e la loro reale
sofferenza.
Il desiderio di informarmi e di informare su qualcosa che non ha finora
trovato, a mio parere, i giusti spazi nei media è stata la vera forza motrice
che mi ha spinta in questo lungo percorso e che ha consolidato la mia
decisione di percorrere la strada dell’inchiesta giornalistica.
La mia attenzione verso i DCA nei media, è nata quasi per caso tra le pagine
di internet nel mese di ottobre del 2007, dopo la campagna pubblicitaria “NoAnorexia, No-l-ita” firmata da Oliviero Toscani.
Mentre cercavo varie opinioni al riguardo, sono arrivata a un blog3 nel quale
un post4 riportava quanto letto dall’autore su un blog pro-Ana e ne indicava il
relativo link5.
Dopo aver letto poche sconcertanti parole, ho voluto capirle meglio nel loro
contesto e ho selezionato il sito di cui si parlava6. La cura della grafica, il rosa
scelto per lo sfondo e il carattere del testo confondevano la lettura di quello
che mi appariva come il delirio di una giovane donna.
In un primo momento, ciò che mi ha sconvolta è stato il contrasto tra l’atrocità
di quanto scritto e la gioiosa e leggera veste grafica.
Solo più tardi, grazie al mio approfondimento, avrei capito che non si trattava
di un delirio, ma del disperato grido di aiuto di una persona malata.
Inizialmente credevo che la realtà dei blog pro-anoressia fosse nota e di
essere tra i pochi a ignorarla. Ma più chiedevo, anche a persone assidue
frequentatrici e conoscitrici della rete, maggiormente realizzavo che,
3
4
“Pepe Nero Blog”, www.pepeneroblog.com (28 ottobre 2007)
Un post è l'articolo inserito in un blog da un utente registrato o dall'amministratore
del blog
5
Il link è, come è noto, il collegamento fra due documenti o fra due zone di un
documento. Cfr. “Dizionario della lingua italiana De Mauro”, www.demauroparavia.it (7
maggio 2008)
6
“Dentro i miei silenzi - detesta il vuoto dei rumori della realtà...”,
www.dentroimieisilenzi.blogspot.com (28 ottobre 2007)
contrariamente a quanto pensavo, questo utilizzo di internet era quasi
sconosciuto.
È stato ancora più sorprendente ricercare tra gli archivi web dei più grandi
quotidiani italiani e trovare pochissimi riscontri, al massimo uno o due articoli,
su questa realtà pesantissima.
Allora ho compreso che esiste un problema nella comunicazione e, dopo
ulteriori ricerche, ho capito che esso non è solo legato ai blog pro anoressia,
ma è esteso più generalmente ai DCA, nonostante si tratti della prima causa
di morte fra le malattie psichiatriche7.
Il problema è legato non solo alla dinamica dell’informazione e relativa
frequenza (tipo di notizia e periodo di emissione), ma anche alla scarsa
chiarezza e, spesso alla mancanza di competenza, con le quali i media,
quando lo fanno, trattano l’argomento.
Per contro, è giusto riconoscere che mentre in passato i DCA potevano
rientrare tra gli argomenti “tabù”, ora sono generalmente oggetto di maggiore
attenzione. Perciò, anche se si tratta di una tendenza relativamente recente,
anche i media vi dedicano più attenzione.
Nell’inchiesta ha trovato spazio anche la discussa campagna pubblicitaria di
Oliviero Toscani per il marchio “Nolita” contro l’anoressia, importante dal
punto di vista mediatico per il grande risalto che ha avuto e per le opinioni
spesso contrastanti espresse in merito. Molti hanno commentato
questa
pubblicità: ho voluto verificare a distanza di tempo, quali sono state le reali
conseguenze della campagna e se, nel frattempo, qualche parere è
cambiato.
Tra i media ho inserito un’opera cinematografica e una rappresentazione
teatrale italiane, oltre un famosissimo docu-film statunitense girato all’interno
di un centro per la cura dei DCA, nei quali la condizione delle persone malate
emerge in tutta la sua drammaticità.
7
L. Fornari, I disturbi alimentari: che cosa sono e come si manifestano, Educare.it –
Rivista telematica sui grandi temi, www.educare.it (7 maggio 2008).
Per avere informazioni e chiarimenti sui vari tipi di DCA, mi sono avvalsa di
pubblicazioni scientifiche e mi sono rivolta a specialisti del settore che hanno
offerto con disponibilità la propria preziosa collaborazione.
Non mancano osservazioni sulle istituzioni italiane e su iniziative di intervento
per la prevenzione e la cura dei DCA. Sono anche richiamati i recenti
provvedimenti in proposito adottati da Spagna e Francia.
Qualche
riflessione
è
naturalmente
dedicata
alla
ricerca
in
Italia,
fondamentale per lo studio dei disturbi del comportamento alimentare, ma
carente di finanziamenti da parte delle istituzioni.
Queste prime considerazioni, che troveranno i dovuti approfondimenti,
evidenziano l’approssimazione della conoscenza da parte di molti italiani nei
confronti dei DCA, spesso sottovalutati e attribuiti solo alla ricerca del
raggiungimento di modelli e di canoni estetici impossibili.
La vera difficoltà nel percorso svolto attraverso i disturbi del comportamento
alimentare è stata quella di limitare il coinvolgimento emotivo. Comprendere,
man mano che il lavoro procedeva, la gravità e la vastità del problema ha
spesso messo a dura prova la lucidità necessaria per ottenere un prodotto
giornalistico.
8
J. Ensor, Maschere, 1892, olio su tela, Museo d’Arte Menard, Komaki
Capitolo 5:
La parola all’esperto
8
Vince’s ear, www.vincesear.com
5-5 Intervista ad Agostino Giovannini
Agostino Giovannini, si è laureato in Scienze Sociali presso l’Università degli
Studi di Parma.
Nel 2004 ha intrapreso la prima ricerca investigativa a valenza scientifica
italiana sul fenomeno web pro-anoressia, presso il PASM dell’Az.Usl di
Reggio Emilia.
Studioso indipendente, oggi, prosegue gli studi sul fenomeno pro anoressia e
collabora al progetto Risky-Re: prima ricerca sui comportamenti a rischio nei
giovani della provincia di Reggio Emilia nonché network informativo e
divulgativo sui comportamenti a rischio ad ampio spettro, del quale è
direttore il professore Umberto Nizzoli.
Gestisce inoltre una rubrica sul disagio psico-sociale e fisico per la testata
giornalistica on line RedAcon (Agenzia di stampa dell’Appennino Reggiano9),
opera come moderatore di gruppi di supporto per soggetti binge e, con altre
mansioni, in diversi settori del sociale.
- Può descrivere brevemente le caratteristiche dei più comuni DCA?
«I DCA, altrimenti conosciuti come disturbi del comportamento alimentare,
raggruppano quella fascia di persone, incasellate patologiche (sofferenti di
un disturbo patologico, appunto) dai manuali di psicopatologia (si veda il
DSM IV).
Comunemente conosciamo anoressia nervosa e bulimia nervosa, ma è
probabile che in futuro saranno introdotti nei manuali diagnostici, patologie
quali il Binge o BED (sindrome da abbuffata compulsiva) e similari».
- Quali sono caratteristiche principali dei DCA?
«Le caratteristiche predominanti sono: percezione corporea distorta (il
vedersi grasse/i anche a pesi molto bassi), che monopolizza i pensieri della
persona, da questa dipendono anche il cibo e l’autostima. Questi ultimi
condizionano ogni atto della vita psico-sociale della persona affetta da DCA,
quasi come se si trattasse della dipendenza da sostanze psicotrope».
9
RedAcon, www.redacon.radionova.it
- Nell’ambito della sua esperienza, ha visto presentarsi nuove forme di
DCA parallelamente all'evoluzione della società?
«Parlare di nuove forme di DCA non è cosa semplice; all’occhio clinico si
sono mostrati nuovi prototipi di patologie, talvolta atte ad allargare la gamma
dei disturbi già affermati (per esempio vomiting, ossia la patologia della
dipendenza dal vomito auto-indotto e altre patologie come le abbuffate
notturne), talvolta atte a definire nuovi disturbi prima di allora non ancora
evidenti. Tra questi ultimi, vi sono l’ortoressia (morboso rapporto con cibo
esclusivamente sano) e l’anoressia reverse (della quale, ad esempio,
soffrono alcuni culturisti, i quali orientano tutti i propri bisogni intorno alla
prevalenza della massa muscolare su quella grassa)».
- E altri fenomeni, comunque associati ai DCA?
«Nel 2003 ho personalmente effettuato una scoperta, non di un nuovo
disturbo, ma di una nuova espressione di esso: il fenomeno pro anoressia
nel web.
Questo fenomeno, emerso dal mio studio, si mostra come un’evoluzione
imprevista della sintomatologia sociale che, talune persone affette da DCA o
da disturbi correlabili, hanno espresso in una sorta di richiamo e di tentativo,
mal riuscito, di operare cambiamenti nella percezione sociale e personale dei
DCA.
Sul fenomeno pro-Ana ho scritto molto e, nel 2004, ho effettuato con il prof.
Umberto Nizzoli la prima ricerca scientifica italiana a riguardo».
- Esiste una parola-chiave, un minimo comune denominatore, per i
diversi DCA?
«Sì, ovviamente è: cibo. Sia l’anoressia nervosa (che lo ripudia), sia la
bulimia nervosa (che ne abusa e smaltisce in modo non appropriato), seppur
con differenti meccanismi, sono entrambe patologie nelle quali il malessere
ruota intorno all’ossessione del cibo».
- Per un profano è difficile districarsi tra le diverse terminologie
mediche attribuite ai DCA. Ad esempio, c’è differenza tra anoressia e
anoressia nervosa (e tra bulimia e bulimia nervosa)?
«Forse tanta, forse nessuna. L’anoressia è mentale e/o nervosa, ma resta
una forma anoressica, lo stesso per la bulimia. Si tratta per lo più di diagnosi
strutturate sui manuali di psichiatria di un tentativo, a mio avviso in parte
inopportuno, di medicalizzare a ogni costo, incasellando la sofferenza
mentale come un virus, attraverso prognosi e cure standardizzate».
- Può spiegare meglio?
«Per un profano è sufficiente sapere che ci sono soggetti che manifestano
dolore e sofferenza di vivere sotto la forma di anoressia e bulimia, e che
queste sono ben lontane dalle patologie del dimagrimento: non si ci ammala
perché si vuol dimagrire.
Si vuol dimagrire senza coerenza per manifestare una sofferenza della quale
spesso nemmeno il soggetto è consapevole; anzi, talvolta, questa sofferenza
permette al malato di nascondere anche a sé stesso la realtà della malattia».
- Qual è il confine tra magrezza e malattia?
«Uno soltanto: l’ossessione per il cibo e la forma fisica, che diventa
determinante nella vita della persona malata.
Quando l’esistenza di una persona è assorbita da questa ossessione, questa
dirige ogni aspetto della vita socio-relazionale dell’individuo.
Pertanto una cosa è essere magri, un’altra è essere malati».
- Sono frequenti i casi di suicidio tra i malati di DCA?
«Sì purtroppo sono frequenti. Ma cerchiamo di comprendere che un DCA
può essere un’espressione di una depressione recondita, per cui a essere
precisi, raramente la persona si suicida per il disturbo alimentare, bensì per
la patologia più gravosa (il dolore) che sta a monte.»
- Esiste, a suo avviso, un possibile modello di prevenzione
effettivamente efficace per i DCA?
«Sinceramente non nutro fiducia nella prevenzione di queste patologie.
Semplificandole le ritengo espressioni del malessere e del disagio provati
dalla
persona
malata.
Entrambi
possono
derivare
da
fattori
non
pronosticabili, pertanto non i può parlare di prevenzione della sofferenza».
- E a livello sociale?
«Forse solo un tipo di prevenzione sociale, che promuova l’accettazione
delle differenze e che insegni a non semplificare, potrebbe fornire esiti
positivi».
- In un suo articolo afferma l’esistenza di un divario tra i DCA e la
società e che questa ne è spesso inconsapevole autrice. In che senso?
«Come accennavo prima, la società semplifica, raramente accetta che le
modelle super-magre non sono colpevoli dell’insorgenza dei DCA. La società
cerca sempre di non sentirsi incolpare, e lo fa indicando come colpevoli altri
soggetti. Nel caso dei DCA, la colpa è attribuita alla moda e alle persone che
la seguono a qualunque costo.
La società stigmatizza queste sofferenze sbagliandone il giudizio, disapprova
le persone malate che, attraverso il DCA, costruiscono una difesa, talvolta
verso la società stessa. Colpevole diventa il malato, reo di non adattarsi a un
canone preciso da essa stabilito, al quale corrisponde una indefinita
maggioranza».
- Sono molte le persone che non conoscono i DCA?
«Semplificando, ci sono molte persone che non conoscono la differenza tra
una forma bulimica e una anoressica.
Talvolta gli stessi famigliari di persone malate continuano a credere che
questa malattia abbia origine da un semplice desiderio di perdere peso per
assomigliare alle modelle. Questo è un modo per non affrontare una
situazione di difficile gestione, e per evitare sensi di colpa o colpevolizzazioni
da parte di chi è malato».
- Tale scarsa conoscenza, a suo parere, è attribuibile a poca attenzione
verso l’argomento da parte dei media?
«Un tempo la funzione dei media, quindi dell’informazione, era quella di
informare il pubblico attraverso i canali disponibili. Oggi la loro funzione
deraglia a causa dell’attenzione prestata all’audience. Avere informazioni sui
DCA da programmi non specializzati, significa ricevere un’informazione
frammentaria e spesso errata, pertanto il telespettatore o lettore non è posto
in grado di comprendere adeguatamente i disturbi del comportamento
alimentare.
Tuttavia devo ammettere che l DCA sono di difficile comprensione anche per
noi operatori. Servono anni di studio ed esperienza per approcciarli
adeguatamente e non possiamo pretendere lo stesso dai cittadini. Quello che
si dovrebbe iniziare a fare è distruggere definitivamente i moltissimi
preconcetti, del tutto infondati, che pervadono la coscienza sociale odierna
relativamente ai DCA».
- Quando i media
affrontano l’argomento, lo fanno con sufficiente
chiarezza e completezza?
«No, loro stessi non sono abbastanza preparati e non è sufficiente far parlare
ogni tanto l’esperto di turno. Con questo non voglio dire che non si debba
parlare di DCA, anzi, ma che questi andrebbero affrontati in modo meno
semplicistico, con maggior rispetto e serietà».
- Nei mesi successivi alla campagna “No-Anorexia, No-l-ita”, lei ha
riscontrato reazioni o commenti?
«In relazione alla campagna Nolita, ho sentito dire moltissime cose, ma ho
ascoltato principalmente le reazioni sociali, dalle quali emergeva nuovamente
l’associazione tra i DCA e il desiderio di essere fisicamente come le
modelle».
- Non ritiene che lo scalpore seguito alla campagna possa aver
nuociuto ai malati e ai potenziali tali?
«No, credo che purtroppo non sia cambiato nulla. Teniamo presente che si
trattava solo di un cartellone: un cartellone in rapporto alle migliaia di foto
identiche che quotidianamente girano tra web, riviste e tv.
Forse sono ottimista, ma credo che Olivero Toscani volesse soltanto
provocare una società inefficiente rispetto ai DCA. Purtroppo, nonostante la
provocazione, nulla è cambiato».
- La Spagna ha vietato i defilé alle modelle con indice di massa
corporea inferiore a 18 e ha concluso un accordo di collaborazione con
i
principali
operatori
della
moda
che
contiene
nuove
norme
comportamentali. Partendo dal principio che i DCA hanno radice
psicologica, lei ritiene che comunque la moda dovrebbe adottare nuovi
provvedimenti per disincentivare il perseguimento di modelli fisici
impossibili?
«Se ci illudiamo che anoressia e modelle siano sinonimi si prosegue
semplificando e distogliendo lo sguardo dal vero cuore del problema, così
facendo è impossibile affrontare adeguatamente la cosa. Non escludo che
nella moda vi siano tante forme di DCA, ma non corrisponde al vero la
credenza che il mondo della moda ne sia promotore. Essi esistono a
prescindere dal sistema moda. Pertanto, trovo ridicole e poco efficienti, le
limitazioni imposte sulle passerelle. Mentre trovo lodevoli le case di moda
che propongono capi di vestiario non solo per taglie piccole».
- Come giudica il “manifesto nazionale di autoregolazione della moda
italiana contro l’anoressia” (siglato da Pogas, Camera nazionale della
moda, Altaroma) e il progetto nazionale “le buone pratiche di cura e la
prevenzione dei disturbi del comportamento alimentare” (elaborato
dalle ex-ministre Turco-Melandri)?
«Il manifesto siglato con la Camera nazionale della moda lo trovo una buona
intenzione ma priva di qualsivoglia effetto: la taglia non è causa di un DCA.
Relativamente al recente progetto di legge Turco-Melandri, mi pare ancora in
via di sviluppo e quindi non facilmente giudicabile».
- Il 15 aprile scorso in Francia è stata approvata una proposta di legge
che prevede multe fino a 40 mila euro e 3 anni di reclusione per chi
incita in internet persone a non mangiare, a vomitare il cibo o a
mortificare il proprio fisico, mettendo a rischio la propria salute. Qual è
la sua opinione al riguardo?
«Trovo che la censura di un comportamento, soprattutto se patologico, non
ha altra conseguenza se non quella di renderlo più appetibile e di sottoporre
le persone coinvolte a condizioni di sofferenza psicologica, quindi patologica,
maggiori».
- Ritiene che l’Italia sia carente, dal punto di vista legislativo, nei
confronti dei DCA?
«Sul punto attuattivo sì, sono ancora troppo poche le risorse disponibili,
basta pensare che spesso i Centri di cura funzionano su volontariato e
tirocini, poiché sono pochi i soldi disponibili per il loro normale
funzionamento.
Ovviamente ritengo che non deve essere approvato alcun provvedimento
censorio come quello francese mentre. Andrebbe invece legiferato l’obbligo
alla delicatezza quando si affrontano tematiche gravose come queste, ma
questa è mera fantasia».
- Come è venuto a conoscenza dei blog pro-Ana?
«Dovevo studiare il fenomeno pro-anorexia nato negli Stati Uniti, invece, ho
scoperto (a favore della mia ristretta conoscenza della lingua inglese) che da
alcuni mesi esisteva anche in Italia un analogo movimento. Tengo a
precisare che non ho mai fornito istruzioni su come reperire questi portali, né
ho mai pubblicato link o materiale sensibile che ledesse la privacy dei
membri. Tutto ciò nel rispetto della sofferenza delle persone coinvolte».
- Può fornire una definizione di Ana?
«L’ambivalenza, del pro-Ana è elevatissima, pertanto difficilmente definibile,
comunque “Ana” è la filosofia della magrezza e della liberazione dalla
dipendenza dal cibo. Con “Ana” non viene intesa l’anoressia, ma viene
indicato uno stile di vita alternativo, contrapposto a quello patologizzato.
Anche se il termine “Ana” talvolta è usato come diminutivo di anorexia e
serve per nominarla in tono più affettuoso».
- Cosa l’ha spinta a interessarsi al punto da dedicare la sua tesi di
laurea e una ricerca all’argomento?
«Quando ho intrapreso la tesi sul neo-scoperto fenomeno pro-Ana, ho avuto
un incontro per un’intervista al riguardo con il professore Umberto Nizzoli.
Con mia grande sorpresa il professore Nizzoli non era al corrente di questo
nuovo fenomeno così, a seguito del colloquio, è nata la proposta bilaterale di
intraprendere assieme una ricerca su una novità della quale pochi
sembravano essere al corrente.
Attraverso i consigli del mio relatore di tesi, il professore Flavio Bonfà, ho
portato avanti la mia tesi e, nel contempo, la ricerca con il professore Nizzoli.
Gli aiuti di entrambi sono stati stimolanti e fondamentali e, spesso, si sono
incrociati».
- Si è mai chiesto come mai prima di lei nessuno avesse mai compiuto
in Italia studi sul fenomeno pro-anoressia, nonostante fosse già una
drammatica realtà?
«Forse ho avuto fortuna, gli spazi web pro-Ana erano approdati in Italia da
poco tempo, ma un altro fattore è stato determinante e lo è ancora oggi: il
tempo a disposizione.
Quello necessario per studiare adeguatamente e non superficialmente
questo fenomeno, è elevato. Molti professionisti, a causa degli impegni di
lavoro, non possono permettersi di intraprendere un simile percorso.
Io, in quanto laureando, ho potuto condurre la prima ricerca scientifica
italiana sul fenomeno pro-anoressia e, contemporaneamente, completare la
mia tesi di laurea che è stata impiegata come commento integrativo alla
ricerca».
- Quanto è difficile per i soggetti pro-Ana , rispetto ai malati non
frequentatori dei blog, comprendere il proprio status e decidere di
curarsi?
«Non considerando le differenze da caso a caso, posso dire che i soggetti
pro-Ana non accettano le cure poiché questo è contrario alla filosofia di Ana,
che rifiuta di essere inquadrata come malattia, anche se molte di queste
persone provengono da realtà di cure fallite e interrotte».
- E per chi ha già un disturbo alimentare conclamato?
«Diversa cosa sono pazienti o ex pazienti di Centri di cura che, pur andando
e tornando da terapie a loro avviso inefficienti, persistono nel dichiarare la
propria fedeltà ad Ana e a vivere nell’illusione di riuscire comunque a liberarsi
dalla dipendenza dal cibo.
Stiamo parlando di un mondo che, in Italia, è composto per almeno il 90% da
persone bulimiche (mentre negli Stati Uniti è attivo anche il movimento probulimia, nel nostro paese sia anoressiche sia bulimiche, si ritrovano proAna)».
- Dalla sua ricerca sul fenomeno pro-Ana, emerge che mentre il 19% dei
pazienti intervistati conosce e frequenta i siti web pro-Ana, tra i genitori
di soggetti sofferenti di un DCA nessuno ha dichiarato di farlo. Inoltre,
secondo gli stessi, i loro figli non hanno mai visitato i siti web pro-Ana.
Come ha interpretato questo fatto? Cattiva informazione, scarsa
attenzione dei genitori o altro?
«Potremmo dedicare un’intera trattazione a questa domanda comune, a mio
parere, il dato rileva principalmente l’assenza di dialogo e di percezione della
realtà tra genitori e figli: entrambi non si conoscono, vedono dell’altro ciò che
vogliono vedere e, spesso, solo ciò che credono dovrebbe accadere.
Questa mancanza di dialogo genera una fuga dalla realtà».
- Anche tra gli specialisti la conoscenza dei blog pro-Ana è scarsa, solo
il 24% dichiara di conoscerli e ben il 73% ritiene che i propri pazienti
non li frequentino. Alla luce di ciò, a suo avviso è necessario un
aggiornamento degli addetti?
«Successivamente alla mia ricerca la delusione è stata grande; il mondo
specialistico è duro da aggiornare, soprattutto se in modi così radicali.
Insieme al professore Nizzoli, abbiamo spesso ribadito la necessità
dell’aggiornamento costate dei servizi, ma purtroppo ci troviamo in un
sistema molto conservatore. Lo dimostra il fatto che, a distanza di anni dalla
ricerca, ancora in pochi conoscono il fenomeno, persino tra gli addetti ai
lavori, e comunque a un livello superficiale e in modo inesatto».
- Successivamente alla pubblicazione della sua ricerca ha avuto
riscontri positivi tra gli specialisti del settore, in particolare tra il 76%
che non conosceva il pro-Ana?
«Dopo la promulgazione del fascicolo sono stati pochi i contatti (non massmediatici) tra gli specialisti e, oserei dire, che ben poco è stato fatto. Chi mi
contatta frequentemente sono invece giovani studenti laureandi, che spesso
hanno appreso l’esistenza del fenomeno da poco tempo».
- Con quali dinamiche dovrebbe aver luogo l’informazione sul
fenomeno pro-Ana tra gli esperti?
«Innanzitutto bisognerebbe aggiornare gli operatori e, parallelamente,
portare avanti nuovi studi mirati e approfonditi, questo perché il movimento
pro-Ana si è già evoluto troppo e senza controllo».
- Quali sono gli obiettivi della sua ricerca?
«In assoluto capire come prevenire il pro-Ana e simili, comprendendolo
appieno, appagando poi le richieste in un contesto protetto e adeguato che
non conduca i soggetti a simili forme di devianza. Ma anche fornire un
rinnovamento delle conoscenze, alla luce delle evoluzioni fisiologiche
dell’utenza, e un aggiornamento del sistema delle cure attuali».
- Quali ulteriori ricerche si propone di realizzare in futuro sul tema?
«Ho confezionato tre versioni di differenti progetti specifici ma a oggi,
sfortunatamente, nessuno di questi è stato realizzato. Purtroppo i limiti dei
finanziamenti sono drammatici.
I miei obbiettivi principali sono validare le tesi che ho potuto maturare, gli
strumenti che ho costruito in questi anni sulla base dell’esperienza maturata
e sviluppare protocolli di intervento sul fenomeno pro-Ana e affini».
- Nel sito da lei curato, ha pubblicato un annuncio in cui lamenta la
carenza di fondi e richiede sostegno finanziario per portare avanti le
sue ricerche. Ha ottenuto risposte positive?
«Sfortunatamente no, non ho ottenuto alcun riscontro positivo».
- Ancora una volta la ricerca italiana viene abbandonata a se stessa
dalle istituzioni, privata dei giusti riconoscimenti e dei mezzi necessari.
Quanto è difficile per lei lavorare in queste condizioni?
«Credo che in Italia il nobile ambito della ricerca (nobile ma soprattutto
necessario) sia condannato a procedere a ritmi negativi.
Non mancano solo gli interventi economici istituzionali, ma anche una cultura
sociale della ricerca.
Siamo abituati ad avere pacchetti completi, fatti da altri Paesi, ma ricerche di
altri Paesi approcciano i problemi di quei luoghi. Ci affidiamo troppo alle
ricerche estere, dimenticandoci che il nostro contesto socio-culturale è
diverso da quello estero. Sarebbe quindi imprescindibile applicare in Italia il
risultato di studi condotti, almeno principalmente, nel nostro territorio».
F. Goya, Il sonno della ragione genera mostri, 1799, acquaforte, Museo Nacional del Prado,
10
Madrid
Conclusioni
10
Art.com, www.art.com
Molte volte, mentre lavoravo a questa tesi, mi sono chiesta se mai mi sarei
curata di approfondire l’argomento dei disturbi del comportamento alimentare
se, nell’assecondare una mia curiosità, non avessi visitato il blog pro-Ana di
cui ero venuta a conoscenza casualmente. La risposta è stata ogni volta
negativa: l’idea che avevo del problema era di umana comprensione, ma le
notizie dei media mi sembravano sufficienti e non sentivo la necessità di
saperne di più.
È bastato un “click” per penetrare in un mondo sconosciuto e, come ho già
detto, nel bene e nel male coinvolgente.
Internet, ancora una volta, si è confermata uno straordinario strumento di
conoscenza e di comunicazione, ma ha anche mostrato il suo aspetto più
oscuro e subdolo; per la prima volta, mi sono trovata di fronte a immagini e
parole strazianti, espressioni di incredibili sofferenze di persone malate.
Dopo aver rilevato l’informazione scarsa e approssimativa fornita dai media
tradizionali sui DCA, la delusione è stata notevole perché nutrivo maggiori
aspettative nei confronti di chi deve rendere un servizio al pubblico: dare
un’informazione veritiera, chiara e il più possibile completa, tale da
contribuire alla formazione di una coscienza sociale.
Una delle difficoltà riscontrate nel tentativo di reperire autonomamente le
indispensabili informazioni attraverso canali diversi da quelli tradizionali, è
stata la comprensione del linguaggio tecnico sanitario: molto dettagliato e
preciso, ma poco accessibile a chi, come me, non ha una formazione
scientifica.
Ho potuto superare le mie difficoltà grazie alla disponibilità di esperti di DCA,
che hanno fornito preziose spiegazioni sull’argomento, oltre a considerazioni
sull’attività dei media. Tutti hanno espresso l’opinione, da me condivisa, che i
media quando, raramente, affrontano la tematica dei DCA lo fanno in modo
poco chiaro e incompleto.
La trattazione dei disturbi alimentari da parte della stampa quasi sempre
legata a fatti di cronaca, è stata giustificata dal condirettore di “A” Simona
Tedesco come una scelta necessaria, dovuta alla sproporzione numerica di
queste patologie rispetto ad altre molto più diffuse, delle quali si scrive anche
in assenza di particolari avvenimenti.
Questa sproporzione è reale, ma in me permane la convinzione che i disturbi
alimentari, in quanto problema sociale ancora circondato da pregiudizi e
superficialità,
meritino
maggiore
attenzione,
indipendentemente
dalla
cronaca, dagli eventi o dalle iniziative a essi collegati.
Se le istituzioni stanno cercando di affrontare la complessa problematica dei
DCA mediante l’adozione di codici etici e di programmi di prevenzione
sociale, non comprendo perché i mezzi di comunicazione si limitino a
rendere noti tali provvedimenti, anziché farsi anch’essi artefici di un’opera di
prevenzione. Prevenzione che, per essere efficace, non dovrebbe parlare
solo di sintomatologie e casi di morte ma, piuttosto, prospettare la possibilità
di guarigione e segnalare le strutture specializzate in grado di aiutare le
persone che ne hanno bisogno.
Per quanto i miei giudizi sui media siano tendenzialmente negativi, ho trovato
in “A” un esempio incoraggiante per le cautele che la rivista afferma di
adottare nel proporre l’immagine corporea e per il suo principio di “approccio
alla verità”, soprattutto quando applicato a temi relativi alla salute,
Credo che tali accorgimenti debbano essere messi in pratica da tutti i media,
i quali, devono anche vigilare sui contenuti pubblicitari proposti al pubblico e
cercare di slegare l’idea di successo da quella di bellezza e magrezza,
orientandola verso altri valori quali istruzione, merito e professionalità.
Tornando alle istituzioni, ho riscontrato una generale attenzione verso i DCA
manifestata non solo con la predisposizione di provvedimenti, ma anche con
la creazione di nuove strutture pubbliche specializzate nella cura di queste
patologie. In particolar modo, ho avuto prova dell’impegno della Regione
Liguria: è stato grazie alla sensibilità e all’interessamento dell’assessore alla
Salute Claudio Montaldo, che ho potuto avere un contatto diretto con il
responsabile del Centro dei disturbi del comportamento alimentare della Asl3
di Genova, Barbara Masini.
Relativamente al fenomeno pro-Ana, azzardare un giudizio è difficile se non
impossibile, poiché bisogna considerare troppe variabili spesso tra loro in
contrasto. Non si può negare che questi spazi internet sono oggettivamente
pericolosi, ma è altrettanto vero che sono luoghi virtuali nei quali persone
malate danno libero sfogo alla propria “fame d’amore”11, pertanto
umanamente non condannabili.
La società non è esente da colpe: troppo disattenta e frettolosa nei giudicare.
Come sostiene lo scopritore dell’esistenza del fenomeno in Italia, Agostino
Giovannini, la superficialità porta a identificare i disturbi alimentari con la
mera ricerca della forma fisica propria delle modelle.
Ritengo che se la società stessa avesse provato a informarsi e a informare di
più, a superare alcuni stereotipi e pregiudizi intorno ai DCA e a chi ne soffre,
se verso questi ultimi fosse stata più accogliente e comprensiva, oggi la
realtà pro-Ana sarebbe più conosciuta a tutti e meno frequentata da chi in
essa si rifugia per non sentire il peso del giudizio altrui.
In quanto alla possibilità di imporre la rimozione di questi siti e blog
rendendoli illegali, la comunità pro-Ana ha già dimostrato la sua capacità di
superare
l’ostacolo,
come
spiega
Mario
Clavarino,
ad
esempio
appoggiandosi a gestori di servizi web di paesi dove non esistono limitazioni
di questo tipo.
Le opinioni raccolte sul fenomeno pro-Ana a volte risultano diverse e
contrastanti anche se espresse da esperti del settore. Penso che, per
affrontare meglio l’argomento, forse essi stessi dovrebbero trovarsi e
collegialmente definire un programma di prevenzione, informazione e
divulgazione idoneo e condiviso, in collaborazione con le istituzioni.
Vista la scarsa attenzione dei mezzi di comunicazione tradizionali, la
prevenzione potrebbe compiersi anche attraverso media alternativi, come
cinema e teatro. Questo ultimo medium, per quanto inusuale, si è già
dimostrato molto efficiente grazie a rappresentazioni come “La bambina con
la pelliccia”12, al cui termine è prevista l’apertura di un dibattito che vede
l’intervento di esperti ABA e la partecipazione del pubblico.
11
F. De Clercq, Fame d’amore, Milano, Rizzoli, 1998, p. 38.
La bambina con la pelliccia, regia di Eleonora D’Urso con Federica Bagnetti, tratto
da Tutto il pane del mondo, di Fabiola De Clercq.
12
Anche internet si è rivelata attiva sul fronte della prevenzione, ad esempio
attraverso i gruppi di self-help (auto aiuto, auto-mutuo aiuto) come quello
nato intorno al blog “Briciole di pane” di Chiara Rizzello che, oltre a offrire
conforto e supporto, si preoccupa di diffondere il messaggio che dai DCA si
può guarire, purché ci si affidi a strutture competenti. Queste sono indicate
con relative coordinate all’interno del blog che, in questo modo, fornisce
anche un utile servizio.
Per concludere, mi affido alle parole riportate in uno dei “Capricci” di
Francisco Goya, scelto come immagine introduttiva per questa ultima parte
e messaggio, che andrebbe sempre tenuto presente, valido anche quando si
parla di DCA: “il sonno della ragione genera mostri”.
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