Scarica il testo - Società Italiana di Pediatria

Aprile-Giugno 2016 • Vol. 46 • N. 182 • Pp. 89-103
Prospettive in Pediatria
Pediatria d’urgenza
Chiara Zuiani1
Ilaria Tosetto2
Luigi Titomanlio3
Liviana Da Dalt2
Pediatria d’urgenza:
novità dalla letteratura
1 Scuola di Specializzazione in
Pediatria, Università degli Studi
di Trieste; 2 UOC Pronto Soccorso
Pediatrico e Pediatria d’Urgenza,
DAI Salute della Donna e del
Bambino, Azienda Ospedaliera,
Università di Padova; 3 Urgences
Pédiatriques, Département
Hospitalo-Universitaire Hôpital
Robert Debré, Paris, France
Lo shock settico è una patologia gravata da un’importante mortalità e la cui incidenza è in
aumento. La comprensione dei meccanismi fisiopatologici ha determinato la necessità di
formulare nuove definizioni per il concetto di sepsi e shock settico eliminando i concetti di
SIRS e di sepsi severa. Tra gli score clinici, il SOFA risulta il miglior indice predittivo per la
prognosi e ne è stata proposta una versione semplificata basata sull’obiettività del paziente,
il qSOFA. In seguito all’epidemia africana del 2014 sono state descritte le caratteristiche della
Malattia da Virus Ebola il cui quadro clinico principale è l’interessamento gastrointestinale
con perdita massiva di liquidi e tendenza a evolvere verso lo shock, una percentuale minore
di pazienti presenta sanguinamenti maggiori. La terapia di base è il supporto della volemia,
delle alterazioni metaboliche e nutrizionali. Attualmente sono in fase di sperimentazione la
profilassi primaria tramite vaccinazione e nuovi farmaci antivirali per il trattamento.
La bronchiolite è una delle più frequenti cause di malattia respiratoria e ospedalizzazione del
lattante e l’unica terapia validata è quella di supporto. In merito all’ossigeno-terapia recenti
evidenze hanno mostrato che il valore target di SpO2 pari a 90% si dimostra sicuro ed efficace quanto saturazioni maggiori e che eventuali desaturazioni transitorie non sono associate a un outcome sfavorevole. Nei bambini ricoverati per patologia acuta l’utilizzo di fluidi
isotonici per l’idratazione endovenosa di mantenimento è consigliata rispetto alle soluzioni
ipotoniche che sono correlate a un maggior rischio di iponatremia. Nel primo trimestre di
vita invece sembra più opportuno l’utilizzo di soluzioni ipotoniche con apporto glucidico superiore al 5% per il rischio più frequente in questa fascia d’età di sviluppare un’ipernatremia
o un’ipoglicemia. In ogni caso durante l’idratazione endovenosa è fondamentale un attento
monitoraggio clinico e bioumorale per prevenire le diselettrolitemie.
Riassunto
Septic shock is a life-threatening condition associated with a high mortality rate and its incidence is increasing. Current evidence in the pathophysiology of sepsis has highlighted
the need for new definitions of sepsis and septic shock. SIRS and severe sepsis are no
longer used in the new classification. The SOFA score mostly correlates with prognosis
and a simpler and clinical version called the qSOFA has been recently proposed. After the
Ebola outbreak in Africa in 2014, clinical features of the disease were described. A common sign is the gastrointestinal dysfunction with fluid loss and an increased risk of developing hypovolemic shock. Current therapy is based on fluids, as well as nutritional and
metabolic support. Experimental vaccines and antiviral drugs are under development.
Bronchiolitis is one of the most common causes of hospitalisation in infants. Breathing
support therapy is the only one with demonstrated efficacy. Recently, a target of blood
oxygen of 90% has been shown to be safe; transient oxygen desaturations are not associated with worse outcome. In children admitted for acute illness, maintenance intravenous
therapy is preferably carried out with isotonic fluid because hypotonic fluids increase the
risk of hyponatremia. In children younger than three months, hypotonic solution with a
glucose >5% is the best choice. During intravenous fluid therapy, analysis of serum electrolytes is recommended to prevent dyselectrolytaemia.
Summary
89
C. Zuiani et al.
Sepsi e shock settico
Metodologia della ricerca
bibliografica effettuata
La ricerca degli articoli è stata condotta nella banca
bibliografica Medline, utilizzando come motore di ricerca PubMed.
Sono state impiegate le seguenti parole chiave: “sepsis AND septic shock”, “septic shock AND infants”,
“sepsis guidelines”, “Ebola virus AND infants”, “Ebola
virus disease AND children”, “Ebola virus disease
guidelines”, “bronchiolitis”; “lower respiratory tract infection AND infants”, “oximetry”, “bronchiolitis guidelines”, “maintenance hydration”, “hypotonic intravenous
fluids”, “dehydration AND children”, “hyponatremia”.
Per ciascuna di esse sono stati applicati i seguenti
limiti: età della popolazione (all child: 0-18 years), lingua (English, French, Italian). È stata attribuita maggiore importanza ai lavori pubblicati negli ultimi 5 anni.
Introduzione
La sepsi e lo shock settico rappresentano patologie
a importante impatto sanitario per l’elevata mortalità,
i costi correlati e l’incidenza, che risulta in aumento
consensualmente all’invecchiamento della popolazione. Lavori in letteratura mostrano che anche in età
pediatrica la prevalenza della sepsi è aumentata negli
ultimi anni, con una riduzione della mortalità e della
durata dell’ospedalizzazione (Balamuth et al., 2014).
Le numerose scoperte scientifiche sulla fisiopatologia
e l’avanzamento delle possibilità terapeutiche ha portato alla necessità di un nuovo consensus internazionale per rivalutare la definizione stessa dei concetti
di sepsi e shock settico, rispetto ai precedenti pubblicati nel 2003. Fino a ora la sepsi era stata definita
come l’attivazione sistemica in senso infiammatorio
dell’organismo (systemic inflammatory response syndrome – SIRS), in risposta alla presenza di un’infezione. La sepsi severa veniva definita come una sepsi
complicata dalla disfunzione d’organo e che poteva
evolvere in shock settico, quest’ultimo definito da
un’ipotensione persistente in presenza di sepsi dopo
adeguato riempimento con fluidi (Tab. I).
Nuove definizioni
Singer et al. hanno ridefinito recentemente i concetti
di sepsi e shock settico. Nella nuova descrizione la
sepsi è un evento a rischio di vita causato dalla disregolazione della risposta dell’organismo alla presenza
di un’infezione. Dal punto di vista clinico, i criteri sono
la presenza di infezione (sospetta o documentata) e
di disfunzione d’organo, definita da un incremento del
punteggio SOFA (Sepsis related Organ Failure Assessment score, vedi Tab. II) maggiore o uguale a 2
rispetto al basale (Singer et al. 2016).
Uno dei cambiamenti maggiori è l’eliminazione del
concetto di SIRS e di sepsi severa da parte degli
autori. La task force ha voluto inserire nella descrizione la natura del processo, sottolineando la
presenza di una risposta infiammatoria esagerata
e non omeostatica in presenza di un agente patogeno insieme alla gravità della condizione, che
quindi necessita di una diagnosi e un trattamento
tempestivi.
Shankar-Hari et al. hanno esaminato 92 studi epidemiologici sullo shock settico che coinvolgono 166.479
pazienti per fornire la nuova definizione di shock settico, descritto come un sottogruppo della sepsi, in cui
le anomalie circolatorie, cellulari e metaboliche sottostanti sono associate a un rischio maggiore di mortalità rispetto alla sola sepsi. Sono stati scelti due criteri
clinici a parte integrante della definizione, l’ipotensione che richiede l’uso di farmaci vasoattivi per mantenere una pressione arteriosa media di 65 mmHg
o superiore e un livello sierico di lattato superiore a
2 mmol/L (18 mg/dl), nonostante un’adeguata terapia
d’idratazione (Shankar-Hari et al., 2016).
Tabella I. Definizione di sepsi e shock settico da parte del consensus internazionale, 2016 (da Singer et al., 2016, mod.).
Sepsi
Shock settico
Definizione
Evento a rischio di vita causato
dalla disregolazione della risposta
dell’organismo alla presenza di
un’infezione
Sottogruppo della sepsi in cui le anomalie circolatorie,
cellulari e metaboliche sottostanti sono associate a un
rischio maggiore di mortalità rispetto alla sola sepsi
Criteri clinici
Presenza di infezione (sospetta
o documentata) e aumento del
punteggio SOFA score ≥ 2, rispetto al
basale
Ipotensione che richiede l’uso di farmaci vasopressori
per mantenere una pressione arteriosa media superiore
a 65 mmhg e un livello sierico di lattato superiore a
2 mmol/L (18 mg/dl), nonostante adeguata reidratazione
90
Pediatria d’urgenza: novità dalla letteratura
Tabella II. Parametri presi in considerazione nella SIRS, nel SOFA e nel qSOFA. La SIRS può essere diagnosticata quando almeno due delle condizioni sono alterate. Il SOFA score è un punteggio per la valutazione della disfunzione d’organo
nei pazienti affetti da sepsi. Per ogni grado di alterazione dei parametri viene assegnato un punteggio variabile tra 0 e
4, la cui somma costituisce il SOFA score, il cui valore è strettamente correlato alla mortalità del paziente considerato. Il
qSOFA è una semplificazione dello score precedente che prende in considerazione solo 3 criteri clinici, tra cui la valutazione dello stato di coscienza, la misura della pressione arteriosa e la frequenza respiratoria (range punteggio, 0-3).
SIRS
(Systemic Inflammatory Response
Syndrome)
SOFA SCORE
(Sepsis related Organ Failure
Assessment score)
Quick-SOFA
PaO2/FiO2 ratio
Frequenza respiratoria
GCS
Stato di coscienza
PA media
Pressione arteriosa
Temperatura
Frequenza cardiaca
Frequenza respiratoria
Conta leucociti
Utilizzo di farmaci vasoattivi
Creatinina sierica e diuresi
Bilirubina
Conta piastrinica
Le popolazioni incluse nelle metanalisi, utilizzate per
decretare le nuove definizioni, sono rappresentate
principalmente da adulti americani, per cui un limite è
che attualmente manca un corrispettivo per l’età pediatrica e l’uso dei criteri clinici deve essere modificato, prendendo in considerazione le variabili adattate al
range d’età. Inoltre andrà valutata anche l’applicabilità in paesi a risorse limitate, dove ad esempio il dosaggio dei lattati non è ubiquitariamente disponibile.
Criteri clinici
Non esiste un esame gold standard per la diagnosi
di sepsi, per cui esistono diversi score clinici al fine di
valutarne la presenza e l’andamento. Seymour et al.
hanno esplorato in una metanalisi, che raggruppa un
totale di 148.907 casi di sospetta sepsi, i diversi criteri
clinici e la loro validità predittiva per la mortalità ospedaliera, includendo tra questi il SOFA, la definizione
di SIRS e il LODS score (Logistic Organ Dysfunction
System). Inoltre, hanno introdotto un nuovo indice che
rappresenta un SOFA semplificato: il quickSOFA o
qSOFA (vedi Tab. II).
Per i pazienti ricoverati in unità di terapia intensiva, con
sospetto d’infezione il SOFA, si è rivelato di pari valore
come predittività della mortalità del paziente rispetto al
più complesso LODS e migliore rispetto alla SIRS, sottolineandone la sua validità nell’utilizzo clinico nei casi
di sepsi. Per i pazienti con sospetta infezione al di fuori
della terapia intensiva il nuovo indice proposto, il qSOFA è superiore rispetto alla SIRS come indice predittivo
della mortalità durante il ricovero (Seymour et al., 2016).
In questa prima analisi retrospettiva, il qSOFA sembra essere un utile strumento per il clinico, essendo
valutabile facilmente al letto del paziente e in qualsiasi condizione sanitaria, anche se come sottolineato
dagli autori stessi, è necessaria una validazione con
studi prospettici.
Trattamento
Nuove evidenze stanno ponendo dei dubbi sui dogmi
della terapia della sepsi e dello shock settico: riconoscimento precoce con somministrazione immediata
di terapia antibiotica empirica e idratazione con boli
associata eventualmente a farmaci vasoattivi. Il razionale è quello di cercare di arrestare l’instaurarsi della
catena di eventi molecolari che portano alla disfunzione d’organo, allo sviluppo di shock e che sono la
causa dell’elevata mortalità di questa patologia.
Boli o non boli
Numerosi studi clinici hanno dimostrato che la terapia
a base dei boli di fisiologica nel trattamento iniziale
dello shock settico migliora l’outcome, sia nel paziente pediatrico che nell’adulto (Han et al., 2003; Rivers,
Coba e Whitmill, 2008. Questo dogma viene messo in
dubbio da alcuni studi di letteratura recente, uno dei
principali in tal senso è stato il FEAST trial, studio randomizzato multicentrico che ha coinvolto diversi stati
africani, in cui pazienti pediatrici che si presentavo
con febbre e shock sono stati randomizzati a ricevere precocemente una terapia endovenosa con boli di
fisiologica, boli di albumina o senza l’utilizzo di boli.
Lo studio è stato interrotto al numero di 3141 pazienti,
in quanto è emerso che chi riceveva la terapia d’idratazione a base di boli presentava un aumento della
mortalità del 3,3% a 48 ore e un maggior rischio di
sequele o morte a 4 settimane del 4%.
Van Paridon et al. hanno pubblicato uno studio prospettico su 79 bambini con sepsi/shock settico ricoverati in terapia intensiva, in cui l’idratazione aggressiva
iniziale si è dimostrato un fattore indipendente sulla
durata del ricovero in terapia intensiva e sulla durata
della ventilazione meccanica, concludendo la necessità di maggiori studi pediatrici sul potenziale rischio/
91
C. Zuiani et al.
beneficio dei boli (van Paridon et al., 2015). Abdulebda
et al. hanno condotto uno studio retrospettivo stratificando il rischio di mortalità di 317 pazienti ricoverati in
terapia intensiva pediatrica per shock settico e hanno
valutato la correlazione con il bilancio dei fluidi ricevuti nelle prime 24 ore. I risultati mostrano un’outcome
peggiore per i pazienti che presentavano un rischio di
mortalità basso e indipendente per le coorti a medio
e alto rischio (Abulebda et al., 2014).
Questa letteratura discordante mette in luce che verosimilmente, in assenza di ipotensione severa, non
tutti i pazienti traggano beneficio dal trattamento iniziale di idratazione con boli ed emerge l’esigenza di
identificare dei marker più specifici, che permettano
di adattare la terapia per il singolo paziente (Wheeler,
2015).
L’utilizzo dell’antibiotico
Le linee guida internazionali raccomandano la somministrazione di una terapia antibiotica empirica entro un’ora dall’arrivo del paziente, raccomandazione
basata su degli studi su paziente adulto che mostrano un aumento della mortalità in relazione al ritardo
della somministrazione dell’antibiotico (Dellinger et
al., 2012). Ogni ora di ritardo nella somministrazione
dell’antibiotico si associa a un aumento dell’8% della mortalità nell’adulto (Kumar et al., 2006). Weiss et
al. hanno condotto uno studio retrospettivo su 130
pazienti pediatrici ricoverati in terapia intensiva, analizzando se il ritardo nella somministrazione dell’an-
tibiotico modifica la sopravvivenza. I risultati hanno
mostrato che una mancata somministrazione di antibiotico nelle prime tre ore aumenta significativamente
il rischio di mortalità (Weiss et al., 2014).
I farmaci vasoattivi:
dopamina versus adrenalina
In caso di shock refrattario alla terapia con i boli è
raccomandato l’utilizzo di farmaci vasopressori per
mantenere un’adeguata pressione di perfusione agli
organi vitali. Nell’adulto il farmaco di prima scelta è
la noradrenalina e in casi selezionati la dopamina,
mentre nelle linee guida pediatriche è raccomandato l’utilizzo della dopamina ed eventualmente dell’adrenalina (Dellinger et al., 2012). Un recente RCT ha
arruolato 120 pazienti pediatrici con shock settico
refrattario randomizzando l’utilizzo in prima intenzione della dopamina o dell’adrenalina, dimostrando un
miglior outcome in chi ha ricevuto l’adrenalina contro una maggior incidenza di infezioni e una mortalità
maggiore nel gruppo con la dopamina (Ventura et
al., 2015). Attualmente in letteratura è l’unico studio
randomizzato pediatrico che confronti i due farmaci,
i cui risultati vanno presi in considerazione e validati
da ulteriori trial.
Tutte queste evidenze, a volte controverse, mostrano
come non sempre le raccomandazioni dell’adulto siano applicabili al bambino e di come siano necessari maggiori RCT sul trattamento della sepsi e dello
shock settico in età pediatrica.
Box di orientamento
• Cosa sapevamo prima
Sepsi, sepsi severa e shock settico sono un concatenarsi di alterazioni fisiopatologiche correlate alla
presenza di un’infezione e gravate da un alto tasso di mortalità.
• Cosa sappiamo adesso
Le definizioni per sepsi e shock settico sono cambiate, eliminando i concetti di SIRS e sepsi severa. Tra
gli score clinici, il SOFA score è stato nuovamente validato come il miglior indice predittivo per la mortalità, in caso di sepsi, e ne è stata proposta una versione semplificata, il qSOFA. Manca ancora un’estensione delle definizioni per l’ambito pediatrico.
• Quali ricadute sulla pratica clinica
Il qSOFA è un nuovo score di facile utilizzo per il clinico per valutare la gravità del paziente in base all’esame obiettivo. La terapia della sepsi e dello shock settico attualmente è controversa specialmente per
quanto riguarda l’idratazione iniziale a base di boli, che rimane indiscussa in caso di ipotensione severa,
ma rimane una zona d’ombra per il paziente che si presenta con una sospetta sepsi non ancora in stato
di shock.
Bibliografia
Abulebda K, Cvijanovich NZ, Thomas
NJ, et al. Post-ICU admission fluid bal-
92
ance and pediatric septic shock outcomes:
a risk-stratified analysis. Crit Care Med
2014;42:397-403.
** Studio retrospettivo pediatrico che
mostra un’outcome peggiore nei pazienti che
hanno ricevuto un trattamento con boli che
presentavano un rischio di mortalità basso.
Pediatria d’urgenza: novità dalla letteratura
Balamuth F, Weiss SL, Neuman MI, et al.
Pediatric severe sepsis in U.S. children’s hospitals. Pediatr Crit Care Med 2014;15:798-805.
** Review sull’efficacia della terapia a
base dei boli di fisiologica nel trattamento
iniziale dello shock settico.
** Studio epidemiologico sull’incidenza
della sepsi nel paziente pediatrico.
Seymour CW, Liu VX, Iwashyna TJ, et al.
Assessment of clinical criteria for sepsis:
for the Third International Consensus Definitions for Sepsis and Septic Shock (Sepsis-3). JAMA 2016;315:762-774.
Dellinger RP, Levy MM, Rhodes A, et al.
Surviving sepsis campaign: international
guidelines for management of severe sepsis and septic shock: 2012. Crit Care Med
2013;41:580-637.
Han YY, Carcillo JA, Dragotta MA, et al.
Early reversal of pediatric-neonatal septic
shock by community physicians is associated with improved outcome. Pediatrics
2003;112:793-9.
** Studio pediatrico, in cui la terapia
a base dei boli di fisiologica nel trattamento iniziale dello shock settico migliora
l’outcome di mortalità.
Kumar A, Roberts D, Wood KE, et al.
Duration of hypotension before initiation of
effective antimicrobial therapy is the critical determinant of survival in human septic
shock. Crit Care Med 2006;34:1589-96.
* Studio sull’adulto che dimostra un aumento di mortalità proporzionale al ritardo
di somministrazione dell’antibiotico.
Rivers EP, Coba V, Whitmill M. Early
goal-directed therapy in severe sepsis
and septic shock: a contemporary review
of the literature. Curr Opin Anaesthesiol
2008;21:128-40.
*** Metanalisi dell’evidenza in letteratura
per la validazione degli score clinici attualmente in uso per la sepsi e lo shock settico,
introduzione del nuovo score qSOFA.
Shankar-Hari M, Phillips GS, Levy ML, et
al. Developing a new definition and assessing new clinical criteria for septic shock:
For the Third International Consensus Definitions for Sepsis and Septic Shock (Sepsis-3). JAMA 2016;315:775-87.
*** Metanalisi delle evidenze in letteratura e validazione della nuova definizione di
shock settico.
Singer M, Deutschman CS, Seymour
CW, et al. The Third International Consensus Definitions for Sepsis and Septic
Shock (Sepsis-3). JAMA 2016;315:80110.
children with sepsis admitted to intensive
care. Crit Care 2015;19:293.
** Studio prospettico pediatrico, in cui
l’idratazione con boli iniziale si è dimostrata un fattore indipendente sulla durata del
ricovero in terapia intensiva e sulla durata
della ventilazione meccanica.
Ventura AMC, Shieh HH, Bousso A, et
al. Double-blind prospective randomized
controlled trial of dopamine versus epinephrine as first-line vasoactive drugs
in pediatric septic shock. Crit Care Med
2015;43:2292-2302.
*** Recente RCT che dimostra un
miglior outcome nell’utilizzo dell’adrenalina
come farmaco vasoattivo di prima scelta
nello shock settico.
Weiss SL, Fitzgerald JC, Balamuth F,
et al. Delayed antimicrobial therapy increases mortality and organ dysfunction
duration in pediatric sepsis. Crit Care Med
2014;42:2409-17.
** Studio retrospettivo pediatrico sulla
relazione temporale tra la somministrazione di antibiotico e mortalità nello shock
settico.
*** Consensus internazionale che ha
validato le nuove definizioni di sepsi e
shock settico.
Wheeler DS. Is the “golden age” of the
“golden hour” in sepsis over? Crit Care
2015;19:447.
van Paridon BM, Sheppard C, Joffe AR;
Alberta Sepsis Network. Timing of antibiotics, volume, and vasoactive infusions in
** Commento sulle novità in letteratura
e sui dati discordanti emersi sul trattamento della sepsi.
Malattia da Virus Ebola
Introduzione
In seguito all’epidemia che ha colpito l’Africa nel 20142015 e che secondo i dati riportati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità ha provocato un totale di
11,316 morti e 28,639 persone contagiate sono emerse nuove caratteristiche cliniche e strategie terapeutiche per combattere l’infezione da virus Ebola.
Si tratta di una patologia classicamente inclusa tra le
“febbri emorragiche”. L’epidemia recente ha portato
alla luce nuovi aspetti clinici rispetto a quanto noto
precedententemente, come il fatto che la componente emorragica è presente in una piccola percentuale
di pazienti e di come l’elevata mortalità della malattia
sia correlata allo shock ipovolemico dovuto alle perdite gastrointestinali (WHO, 2014; Uyeki et al., 2016).
Inoltre dai dati epidemiologici di quest’epidemia, in
accordo con quanto osservato anche in quelle passate, è emersa una minor incidenza dell’infezione
nel paziente pediatrico rispetto all’adulto, con un au-
mento lineare fino all’età di 35-44 anni (Helleringer et
al., 2015; Glynn, 2015; Mupere, Kaducu e Yoti, 2001).
Approssimativamente, il 20% dei casi contagiati sono
pazienti con età inferiore ai 15 anni. Quest’osservazione verosimilmente può essere spiegata dal fatto
che i bambini sono meno esposti al contagio rispetto
agli adulti, essendo esonerati dalle cure dei soggetti
malati (WHO Ebola Response Team, et al, 2015).
Eziologia e patogenesi
Il virus Ebola è un membro della famiglia Filoviridae,
caratterizzato da un patrimonio genetico a RNA e
una struttura filamentosa. Ne sono state descritte cinque specie: Zaire, Sudan, Ivory Coast, Bundibugyo
e Reston, di cui le prime quattro sono patogene per
l’uomo. La specie Zaire è quella più virulenta, responsabile della recente epidemia africana, la sua prima
descrizione risale a un’epidemia verificatasi nell’allora Zaire e Sudan nel 1976. La mortalità correlata a
93
C. Zuiani et al.
questa precisa specie nell’ultima epidemia è stata del
70% (WHO, 2014).
Oltre all’uomo, sono colpite anche le scimmie, la trasmissione avviene tramite un animale che funge da
reservoir e, come per il virus del Marburg, che fa parte
della stessa famiglia, si ipotizza possa essere il pipistrello (Peterson et al., 2004). L’uomo s’infetta entrando
a contatto con un animale infetto (tramite la manipolazione di sangue, secrezioni e organi) e in seguito la
trasmissione interumana avviene per contatto diretto
con i fluidi corporei e le secrezioni. Il virus, una volta
entrato nell’organismo è in grado di infettare diversi tipi
di cellule, tra le prime cellule bersaglio si riconoscono
i macrofagi e le cellule dendritiche, dove si replica provocandone la necrosi e il rilascio di virioni nello spazio
extracellulare (Mahanty e Bray, 2004). Il virus, contenuto nelle cellule monocito-macrofagiche, dissemina nei
linfonodi e tramite la circolazione sanguigna è in grado
di colonizzare i tessuti linfoidi come il fegato, la milza
e il timo, dove è in grado di infettare cellule endoteliali,
epiteliali, epatociti, fibroblasti provocando, nei casi più
gravi, necrosi multifocali (Bray e Geisbert, 2005).
Le cellule infettate e la necrosi portano a un rilascio
massivo di citochine come TNF-alfa, IL1beta, IL6, e
di ossido nitrico, che provoca l’instaurarsi di una sindrome infiammatoria sistemica che si ipotizza favorisca la disregolazione dell’apparato gastrointestinale,
la fuoriuscita dei fluidi verso lo spazio extracellulare
e lo sviluppo di shock (Bray e Mahanty, 2003). I difetti della coagulazione sembrano correlati in modo
indiretto al virus, i macrofagi infettati e stimolati dalle
citochine in circolo esprimono sulla membrana, il Tissue Factor, che attiva massivamente la via estrinseca
della coagulazione. L’infezione da virus Ebola è caratterizzata da un’alterazione dell’attività immunitaria
con disregolazione dell’immunità naturale, le cellule
maggiormente colpite dal virus sono le cellule dendritiche che diventano incapaci di svolgere il ruolo di
presentanti l’antigene e ne consegue una mancata
attivazione dei linfociti (Mahanty e Bray, 2004).
Manifestazioni cliniche
L’incubazione in seguito all’esposizione dura in media
6-12 giorni (range 2-21). Il periodo di incubazione me-
dio è minore nei bambini più piccoli (6,9 giorni sotto
l’anno di età, 9,8 tra i 10-15 anni, vedi Tab. I) (WHO
Ebola Response Team et al., 2015). Le manifestazioni
cliniche della malattia sono aspecifiche come febbre,
brividi e malessere generale. Sintomi comuni sono
anche la stanchezza, cefalea, vomito e diarrea con
perdita dell’appetito. La sintomatologia nel bambino
e nell’adulto sono sovrapponibili, ed essendo così
aspecifica, entra in diagnosi differenziale con molte
malattie febbrili dell’infanzia (vedi Tab. II) (OlupotOlupot, 2015). Non ci sono molti studi che abbiano
raccolto dati clinici per l’età pediatrica, ma due criteri sembrano essere costantemente presenti nei casi
confermati, un’anamnesi positiva per contatto con
un paziente affetto e la presenza di febbre (OlupotOlupot, 2015). I sintomi gastrointestinali si sviluppano durante i primi giorni d’insorgenza della malattia e
portano a una severa perdita di fluidi, disidratazione,
ipotensione e shock. Alcuni pazienti possono presentare un quadro di meningoencefalite con alterazione
della coscienza, rigidità nucale e convulsioni. Anche
l’occhio può essere colpito ed è stato descritto lo sviluppo di uveite acuta. I pazienti pediatrici presentano
più frequentemente sintomi respiratori, come tosse e
dispnea, o gastrointestinali, mentre l’interessamento
del sistema nervoso centrale è più raro (Peacock,
Uyeki e Rasmussen, 2014). In quinta giornata può
svilupparsi un rash maculopapulare diffuso e non pruriginoso a livello di volto, collo, tronco e arti.
A differenza di quanto emerso dalle epidemie precedenti, le complicanze emorragiche maggiori in realtà
non sono frequenti (18% dei pazienti) e nel caso caratterizzano la fase finale della malattia o le donne
in gravidanza. In una percentuale minore di pazienti
(1-5,7%) sono stati descritti disturbi coagulativi minori
come petecchie, sangue nelle feci, ematemesi, ecchimosi e facilità al sanguinamento delle mucose (WHO,
2014).
I pazienti che sopravvivono all’infezione iniziano a
mostrare un miglioramento clinico durante la seconda
settimana di malattia, momento in cui invece i casi a
esito sfavorevole progrediscono verso la disfunzione
multiorgano fino al decesso. Si è osservato che tra i
casi pediatrici la mortalità maggiore si registra nella
fascia di età minore di 4 anni e che i bambini al di sot-
Tabella I. Dati relativi alla mortalità e alle tempistiche di evoluzione dell’infezione da Ebola virus nel paziente pediatrico
(da: WHO Ebola Response Team et al., mod.).
< 1 anno
1-5 anni
10-15 anni
Mortalità (%)
85
80
50
Incubazione (giorni)
6,9
8-9
9-10
Tempo trascorso tra l’esordio e il ricovero (giorni)
2,9
4,4-4,7
5
Tempo trascorso tra l’esordio dei sintomi e il decesso (giorni)
5,5
6
8,6
/
15
16
Degenza media (giorni)
94
Pediatria d’urgenza: novità dalla letteratura
Tabella II. Manifestazioni cliniche principali, espresse in
percentuale, dei pazienti con malattia da virus Ebola in
Guinea, Liberia, Nigeria e Sierra Leone. La popolazione
generale presa in considerazione è stata raccolta nei primi
9 mesi dell’epidemia ed è costituita da 1415 pazienti, di
cui la maggioranza adulti (< 15 anni, 13,8%). La popolazione pediatrica riguarda invece casi di età inferiore ai 16
anni per un totale di 1371 pazienti (da: WHO, 2014; WHO
Ebola Response Team et al., 2015; MacDermott, De e Herberg, 2016, mod.).
Segni/sintomi
Popolazione
generale
Pazienti
< 16 anni
Febbre
87,1%
90%
Astenia
76,4%
79%
Perdita dell’appetito
Vomito
65%
73%
67,6%
62%
Diarrea
65,6%
60%
Cefalea
53,4%
59%
Dolore addominale
44%
47%
Mialgia
39%
38%
Confusione
13,3%
10%
Dolore toracico
37%
29%
Tosse
30%
31%
Rash
5,8%
6%
Ittero
10%
11%
Coma
6%
5%
Sanguinamento
inspiegato
18%
10%
to dei 5 anni hanno un tempo di latenza minore tra l’esordio dei sintomi, l’ospedalizzazione e decesso (vedi
Tab. I) (WHO Ebola Response Team et al., 2015).
Diagnosi e trattamento
La real time PCR per l’RNA virale è il gold standard
per la diagnosi. Anche la ricerca nel siero tramite ELISA delle IgM e IgG specifiche contro il virus Ebola è
una metodica utile. L’RNA virale è generalmente riscontrabile nel siero dei pazienti affetti a partire da
72h dall’esordio dei sintomi.
Il protocollo di trattamento è differente, in base alla situazione sanitaria del paese: di base si tratta di un supporto delle funzioni vitali con idratazione endovenosa,
correzione delle alterazioni metaboliche e supporto
nutrizionale (Olupot-Olupot, 2015). I 27 pazienti adulti
trattati in Europa o USA hanno presentato un tasso di
mortalità minore rispetto a quanto osservato in Africa
(18,5% vs 37-74%), fatto dovuto principalmente alla
possibilità di cure intensivistiche (Uyeki et al., 2016).
In Sierra Leone è stato creato un protocollo specifico
adatto ai paesi via di sviluppo per l’età pediatrica, che
ha migliorato e sensibilizzato nei confronti della presa
in carico per il bambino (Trehan et al., 2016).
Non esiste una terapia antivirale specifica per il
trattamento dell’infezione da virus Ebola e nell’arco
dell’epidemia l’OMS ha permesso l’utilizzo di diverse molecole non testate e senza approvazione della
Food and Drug Administration. Alcuni dei pazienti ricoverati nei paesi occidentali hanno ricevuto queste
molecole che avevano dimostrato l’efficacia nei trial
animali. Per l’esiguità del campione e l’utilizzo spesso
in associazione non è possibile trarre delle conclusioni sull’efficacia, ma sono attualmente in corso trial
clinici sull’uomo (Uyeki et al., 2016). Particolarmente
promettente è un cocktail di tre anticorpi monoclonali
umanizzati chiamato Z Mapp, che legano e inattivano il virus. Altri composti in fase di studio sono delle
molecole RNA-interferenti e gli inibitori della RNA polimerasi (vedi Tab. III) (Kilgore et al., 2015).
Tabella III. Principali farmaci in sperimentazione per il trattamento dell’infezione da virus Ebola (da Kilgore et al.,
2015, mod.).
Farmaco
sperimentale
Azione
Efficacia
ZMapp
Miscela di 3 anticorpi monoclonali che si legano
e inattivano il virus
Dimostrata l’efficacia nei primati e sulle culture
cellulari
FAVIPIRAVIR
Antivirale ad ampio spettro che inibisce l’RNA
polimerasi
Dimostrata l’efficacia nel modello di ebola nei
topi
TKM-Ebola
Miscela di RNAs che interferiscono con 3 target
virali: l’attività della polimerasi, una proteina di
membrana detta VP24 e il complesso proteico
della polimerasi VP35
Protegge nei primati
BRINCIDOFOVIR
Profarmaco del cidofovir, molecola attiva contro i
virus a DNA doppia elica
Dimostrata l’efficacia nei trial animali per virus a
dsDNS, efficace in vitro per Ebola virus
BCX 4430
Analogo dell’adenosina che s’inserisce e
nel RNA virale, provocando il blocco della
polimerasi
Efficace nei roditori e nei primati
95
C. Zuiani et al.
Vaccino
Ci sono svariati vaccini in studio come profilassi preesposizione per il virus Ebola, ma al momento alcuno
è stato approvato per l’utilizzo sull’uomo. I principali
candidati sono due: il primo è un vaccino vivo attenuato bivalente, costruito utilizzando l’adenovirus tipo 3
di scimpanzé, nel quale sono stati inseriti i geni delle
glicoproteine dei ceppi Zaire e Sudan di Ebola virus. Il
secondo vaccino, in sperimentazione, è stato creato da
dei ricercatori in canadesi ed è costruito sul virus della
stomatite vescicolare, modificato geneticamente per
esprimere sulla sua superficie la glicoproteina del virus
Ebola ceppo Zaire (MacDermott, De e Herberg, 2016).
Box di orientamento
• Che sapevamo prima
L’infezione da Ebola virus è una patologia a elevata virulenza e mortalità, che presenta un quadro di
coagulopatia che provoca sanguinamenti maggiori spesso causa del decesso.
• Cosa sappiamo adesso
Il quadro clinico principale è l’interessamento gastrointestinale con perdita massiva di liquidi e tendenza
a evolvere verso lo shock, una percentuale minore di pazienti presenta sanguinamenti maggiori.
• Quali ricadute sulla pratica clinica
La terapia di base è il supporto della volemia, delle alterazioni metaboliche e nutrizionali. Sono in fase di
sperimentazione per la profilassi primaria diversi tipi di vaccini e per il trattamento nuovi farmaci antivirali,
che hanno dimostrato la loro efficacia nell’animale.
Bibliografia
Bray M, Geisbert TW. Ebola virus:
the role of macrophages and dendritic
cells in the pathogenesis of Ebola hemorrhagic fever. Int J Biochem Cell Biol
2005;37:1560-6.
** Review sui meccanismi cellulari
dell’infezione da virus Ebola.
Bray M, Mahanty S. Ebola hemorrhagic fever and septic shock. J Infect Dis
2003;188:1613-7.
* Review sui meccanismi molecolari
dell’infezione da Ebola virus e lo sviluppo
di shock settico.
Glynn JR. Age-specific incidence of
Ebola virus disease. Lancet 2015;386:432.
** Primi dati relativi all’incidenza dei
casi pediatrici durante l’epidemia di Ebola
del 2014-2015.
Viral haemorrhagic fever in children.
Arch Dis Child January 2016:archdischild–2014–307861.
** Review sulle caratteristiche peculiari
del paziente pediatrico nelle infezioni da virus delle febbri emorragiche.
Mahanty S, Bray M. Pathogenesis of
filoviral haemorrhagic fevers. Lancet Infect
Dis 2004;4:487-98.
***
Review
sulla
dell’infezione da virus Ebola.
patogenesi
Mupere E, Kaducu OF, Yoti Z. Ebola
haemorrhagic fever among hospitalised
children and adolescents in northern
Uganda: epidemiologic and clinical observations. Afr Health Sci 2001;1:60-5.
** Review di casi clinici pediatrici di
malattia da Ebola virus nell’epidemia precedente in Uganda.
Helleringer S, Noymer A, Clark SJ, et al.
Did Ebola relatively spare children? Lancet
2015;386:1442-3.
Olupot-Olupot P. Ebola in children:
epidemiology, clinical features, diagnosis and outcomes. Pediatr Infect Dis J
2015;34:314-6.
* Commento sui dati relativi all’incidenza
dei casi pediatrici durante l’epidemia di Ebola del 2014-2015.
** Review sulle caratteristiche pediatriche dell’infezione da Ebola virus.
Kilgore PE, Grabenstein JD, Salim AM, et
al. Treatment of Ebola virus disease. Pharmacotherapy 2015;35:43-53.
Peacock G, Uyeki TM, Rasmussen SA.
Ebola virus disease and children: what
pediatric health care professionals need to
know. JAMA Pediatr 2014;168:1087-8.
** Review sulla terapia farmacologica
in sperimentazione per il trattamento
dell’infezione da Ebola virus.
* Review sulle caratteristiche del paziente pediatrico nell’infezione da Ebola
virus.
MacDermott NE, De S, Herberg JA.
Peterson AT, Carroll DS, Mills JN, et al.
96
Potential mammalian filovirus reservoirs.
Emerging Infect Dis 2004;10:2073-81.
** Review sui potenziali reservoir
dell’infezione da Ebola virus.
Trehan I, Kelly T, Marsh RH, et al. Moving towards a more aggressive and comprehensive model of care for children with
Ebola. J Pediatr 2016;170:28-33.e7.
** Protocollo di trattamento per il paziente pediatrico ideato dall’unità di cure
per malattia da Ebola virus in Sierra Leone.
Uyeki TM, Mehta AK, Davey RT, et al.
Clinical management of Ebola virus disease
in the United States and Europe. N Engl J
Med 2016;374:636-46.
** Descrizione dell’andamento clinico
dei pazienti trattati negli Stati Uniti e in Europa per infezione da Ebola.
WHO Ebola Response Team. Ebola virus
disease in West Africa - the first 9 months
of the epidemic and forward projections. N
Engl J Med 2014;371:1481-95.
*** Prima analisi delle caratteristiche
cliniche dei pazienti colpiti dall’infezione
da Ebola virus nella recente epidemia
dell’Africa occidentale.
WHO Ebola Response Team, AguaAgum J, Ariyarajah A, et al. Ebola virus disease among children in West Africa. N Engl
J Med 2015;372:1274-7.
*** Primo resoconto sulle caratteristiche
epidemiologiche e cliniche dell’infezione
da Ebola dell’epidemia del 2014-2015 nel
bambino.
Pediatria d’urgenza: novità dalla letteratura
Bronchiolite nel bambino:
lo stato dell’arte
Introduzione
La bronchiolite, un’infezione virale delle basse vie respiratorie che interessa in maniera elettiva i bronchioli, è una causa comune di malattia e ospedalizzazione nei lattanti.
Fino a oggi sono state proposte numerose definizioni
del termine bronchiolite; allo stato attuale essa è definita come il primo episodio di wheezing diagnosticato
nell’epoca del lattante, ovvero al di sotto dei dodici
mesi di vita, caratterizzato da sintomi espressione di
interessamento delle prime vie aeree, come rinite e
ingombro nasale, che precedono l’interessamento
dell’albero bronchiale, che si estrinseca con tosse,
tachipnea, dispnea.
Nei climi temperati dell’emisfero boreale, l’epidemia
di bronchiolite esordisce generalmente a novembre,
raggiunge il picco a gennaio o febbraio, e si esaurisce
all’inizio della primavera.
Si tratta di una patologia che presenta un notevole
impatto sulla salute dei lattanti; negli USA, ad esempio, il 2-3% dei lattanti sono ospedalizzati ogni anno
con diagnosi di bronchiolite; si stima inoltre che circa
il 20% della coorte annuale di nuovi nati negli USA
richieda valutazione medica e cure extra-ospedaliere,
in relazione a patologie del tratto respiratorio causata
da virus respiratorio sinciziale (VRS).
La bronchiolite si manifesta quando uno o più virus
infettano le cellule epiteliali dei bronchioli terminali,
causando un effetto citopatico diretto e uno stato flogistico, con edema, accumulo di secrezioni mucose e
di detriti cellulari, che provocano l’ostruzione dell’albero bronchiale e conseguentemente la formazione
di aree distelettasiche o atelettasiche.
Sebbene l’eziologia della bronchiolite dipenda dalla
stagione e dall’area geografica, il virus respiratorio
sinciziale è la causa più comune, seguito dal rinovirus; agenti infettivi meno comuni sono il virus influenzale, parainfluenzale, metapneumovirus, adenovirus,
coronavirus, bocavirus.
L’infezione viene acquisita attraverso l’inoculo nella
mucosa nasale o congiuntivale di secrezioni contaminate, o mediante inalazione di goccioline di Flügge
contenenti virus, emesse da soggetti infetti, che si trovano a distanza inferiore a 2 metri. Dopo un periodo
di incubazione variabile tra 4 e 6 giorni, l’attiva replicazione del virus nel rino-faringe provoca nel lattante
congestione nasale, rinorrea, irritabilità e difficoltà di
alimentazione. La febbre viene rilevata nel 50% dei
lattanti con bronchiolite.
Non appena raggiunge l’albero bronco-alveolare, il virus infetta le cellule epiteliali ciliate della mucosa dei
bronchioli e degli pneumociti alveolari. Due glicoproteine di membrana del virus respiratorio sinciziale, F
e G, mediano l’adesione del virus alle cellule target,
il suo ingresso nelle cellule; segue la fase di replicazione virale, che attiva i granulociti, le cellule NK e i T
linfociti. L’infiltrazione leucocitaria dei tessuti peribronchiali, con conseguente formazione di edema, ipersecrezione mucosa bronchiale, alterazione della motilità
ciliare, esitano in ostruzione dei bronchioli, che a sua
volta genera wheezing.
Le due branche, innata e adattativa, del sistema immunitario sono entrambe implicate nel processo di clearance
virale. La rigenerazione dell’epitelio bronchiale ha inizio
generalmente 3-4 giorni dopo la risoluzione dei sintomi,
e si completa nell’arco di qualche settimana.
La maggior parte dei lattanti ospedalizzati per bronchiolite sono nati a termine e non presentano fattori predisponenti. L’età anagrafica è il più importante
predittore della probabilità di sviluppare una bronchiolite severa; infatti circa due terzi dei lattanti ospedalizzati per bronchiolite hanno meno di sei mesi d’età
(Stockman et al., 2012). I tassi di ospedalizzazione
riconducibili a bronchiolite da RSV sono maggiori tra
30 e 90 giorni di vita, epoca corrispondente al declino delle immunoglobuline materne acquisite per via
transplacentare in epoca prenatale. Tale fenomeno
accade perlopiù durante il terzo trimestre di gestazione; ciò spiega in parte il maggior rischio di sviluppare
bronchiolite tra i lattanti prematuri.
Alcuni lavori, tra cui uno studio di coorte multicentrico
italiano, hanno dimostrato che il sesso maschile è associato a un aumentato rischio di ospedalizzazione in
corso di bronchiolite (Lanari et al., 2015).
I lattanti nati prematuri (< 29 settimane di gestazione), broncodisplasici, affetti da cardiopatia congenita,
sono a maggior rischio di sviluppare bronchiolite severa RSV positiva.
La presenza di comorbilità, quali patologie genetiche,
neurologiche, sindromiche, immunologiche, o pneumopatia cronica, può favorire un’espressione clinica
severa di bronchiolite, e spesso condiziona una maggior durata della degenza ospedaliera.
Fattori ambientali quali la frequenza del Nido, l’esposizione al fumo di tabacco passivo, un ambiente domestico affollato, ridotte risorse socio-economiche,
hanno un ruolo secondario come fattori di rischio, e
concorrono in un lieve aumento della probabilità di
ospedalizzazione per bronchiolite.
97
C. Zuiani et al.
Novità in tema di diagnosi
e trattamento
La diagnosi di bronchiolite è clinica; radiografia del torace, esami ematochimici e indagini microbiologiche
non sono indicati di routine. Allo stato attuale mediante metodiche di biologia molecolare è possibile ricercare tali virus su aspirato naso-faringeo o su tampone
nasale; in un terzo dei lattanti ospedalizzati per bronchiolite vengono identificati due o più virus. Le co-infezioni spesso causano un decorso prolungato della
malattia, con maggior probabilità di ospedalizzazione
e maggior durata della fase di ossigeno-dipendenza.
Relativamente alla terapia, pensiamo si possa affermare che essa rappresenta uno dei capitoli più controversi della letteratura pediatrica degli ultimi 50 anni,
con una mole di lavori che alternativamente hanno
dimostrato o negato i benefici dei diversi trattamenti,
farmacologici e di solo supporto. Ciò rende ragione
del continuo aggiornamento delle raccomandazioni
sulla gestione di tale malattia da parte delle più importanti società/riviste scientifiche, con ben quattro
importanti prese di posizione su tale tema negli ultimi
due anni da parte di AAP, NICE, SIP e NEJM (Ralston et al., 2014; NICE 2015; Baraldi et al., 2014; Cody
Meissner, 2016).
Nei quattro documenti prodotti si legge un consenso nel ribadire che a oggi il trattamento del lattante
con bronchiolite si fonda sulla terapia di supporto,
mancando evidenze forti che giustifichino l’impiego
di farmaci quali beta-2 agonisti, steroidi inalatori o
sistemici, adrenalina, antibiotici (Tab. I). Una quota
considerevole della letteratura recente si è soffermata
sull’utilizzo del supporto ventilatorio con modalità alti
flussi in naso-cannula, tema questo che verrà trattato
nel dettaglio in un capitolo dedicata.
Altri argomenti molto dibattuti negli ultimi anni in merito alla gestione del lattante con bronchiolite riguardano la definizione di un valore target di saturazione
di ossigeno, l’effettiva necessità di sottoporre lattanti
il buone condizioni generali a un monitoraggio pulsoossimetrico continuo, e il reale effetto che desaturazioni modeste comportano sulla salute globale del
lattante con bronchiolite.
Quale valore target di saturazione
di ossigeno?
Analizzando la letteratura degli ultimi anni si legge
una progressiva tendenza verso l’ipossiemia permissiva. Se infatti nel 2006 esisteva una discrepanza tra
quanto stabilito dalle linee-guida britanniche (SIGN),
che proponevano un valore target di SpO2 di almeno
94%, e le linee-guida americane (AAP), che definivano un valore target di SpO2 di almeno 90%, negli
ultimi 2 anni le indicazioni a tal proposito si stanno
progressivamente uniformando ; infatti, nel 2014 le
linee-guida AAP hanno ribadito il medesimo valore
target di SpO2 (Ralston et al., 2014), mentre nel 2015
le linee-guida NICE hanno definito un valore target di
SpO2 più cautelativo, pari al 92%.
Tabella I. Linee guida AAP sul trattamento della bronchiolite (da Cody Meissner, 2016, mod.).
Trattamento
Indicazioni
Commento
Broncodilatatori
Non raccomandati
RCT non ne hanno dimostrato una reale efficacia
Adrenalina
Non raccomandata
RCT multicentrici con grande numerosità non
hanno dimostrato un miglioramento dell’outcome
Steroidi
Non raccomandati
RCT multicentrici forniscono chiara evidenza
dell’assenza di beneficio
Soluzione ipertonica in aerosol
Può essere impiegata
Può migliorare i sintomi dei lattanti con bronchiolite
moderata-severa, nel caso in cui la degenza superi
72 ore
Fisioterapia respiratoria
Non raccomandata
Aspirazione profonda non indicata; aspirazione del
nasofaringe può dare transitorio sollievo al paziente
Terapia antibiotica
Non raccomandata di routine
Basso rischio di infezione batterica severa; terapia
antibiotica di routine non indicata, soprattutto nei
lattanti con età > 90 giorni
Alimentazione e idratazione
Attento monitoraggio nei lattanti
con distress respiratorio
Possono essere impiegate idratazione endovenosa
o enterale
Pulso-ossimetria
Non indicata nei pazienti con
sat.O2 > 90%
Sat.O2 è uno scarso predittore di distress
respiratorio; l’impiego di routine prolunga
l’ospedalizzazione
Ossigeno-terapia
Non raccomandato l’impiego
di routine se sat.O2 > 90% in
assenza di acidosi
Episodi transitori di desaturazione non sono
associati a complicazioni, e avvengono
frequentemente nei lattanti sani
98
Pediatria d’urgenza: novità dalla letteratura
Le linee-guida AAP sono coerenti con le indicazioni
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO),
che raccomanda di mantenere un valore target di
SpO2 pari a 90% nel trattamento dei lattanti con infezioni delle basse vie respiratorie. Tuttavia, nella pratica clinica è ancora frequente il ricorso a ossigenoterapia nel trattare lattanti con bronchiolite e SpO2 in
aria ambiente compresa tra 90% e 94%.
A settembre 2015 è stato pubblicato su Lancet il primo
trial randomizzato controllato sui target di saturazione
di ossigeno nei lattanti con diagnosi di bronchiolite o
altra infezione delle basse vie respiratorie; tale studio
ha confermato che la somministrazione di ossigenoterapia per ottenere un valore target di SpO2 pari a
90% era sicura ed efficace da un punto di vista clinico
(Cunningham et al., 2015).
Monitoraggio pulso-ossimetrico continuo
o intermittente?
Un trial clinico randomizzato ha recentemente dimostrato che la pulso-ossimetria intermittente versus
continua nel monitoraggio dei lattanti non ipossiemici
con bronchiolite sono sostanzialmente sovrapponibili
in termini di efficacia e durata dell’ospedalizzazione.
Pertanto, gli autori concludono proponendo un monitoraggio pulso-ossimetrico estemporaneo nei pazienti che mostrano un progressivo miglioramento clinico
(McCulloh et al., 2015).
Effetto di desaturazioni transitorie sulla
gestione del lattante con bronchiolite
Interessante a tal proposito è il recente lavoro pubblicato su JAMA da Principi. Si tratta di uno studio prospettico condotto a Toronto, in un Pronto Soccorso di terzo
livello; sono stati arruolati 118 lattanti con età compresa tra 6 settimane e 12 mesi, altrimenti sani, dimessi
con diagnosi di bronchiolite, sottoposti a monitoraggio
pulso-ossimetrico domiciliare in cieco rispetto ai genitori. L’outcome primario era valutare la frequenza di
richiesta di ulteriore valutazione medica da parte dei
genitori, riconducibile a sintomi respiratori nelle prime
72 ore dopo la dimissione; gli outcomes secondari includevano la valutazione dell’entità e della durata delle
desaturazioni e la frequenza di ospedalizzazione entro
72 ore dalla dimissione.
Il 64% dei soggetti ha presentato almeno una desaturazione (mediana della sua durata pari a 3 minuti e 22
secondi), nel 77% dei casi rilevata in sonno o durante il
pasto, con cadute fino ad 80%. Dei lattanti che hanno presentato desaturazioni, il 24% è stato condotto per un’ulteriore valutazione medica nelle 72 ore successive alla
dimissione, rispetto al 26% dei lattanti non ipossiemici
(differenza -1,6%; 95% IC, p = 0,66). 1% dei soggetti con
desaturazioni versus 5% dei soggetti senza desaturazioni sono stati ospedalizzati entro le 72 ore successive alla
dimissione (differenza, -3,3%; 95% IC; p = 0,27).
Gli autori concludono evidenziando che la maggior
parte dei lattanti con bronchiolite lieve presenta episodi di desaturazione transitoria o persistente dopo
la dimissione; lo studio non ha rilevato una differente
incidenza di ri-ospedalizzazione o di ulteriore valutazione clinica nelle due coorti. Lattanti con bronchiolite che vengono giudicati dimissibili sulla base della
dinamica respiratoria e dello stato di idratazione non
dovrebbero pertanto essere sottoposti a ulteriore monitoraggio pulso-ossimetrico; la medesima opinione
è stata espressa in un recente editoriale redatto da
Cunningham (Cunningham, 2015).
Tali recenti acquisizioni fanno vacillare l’assunto secondo il quale i lattanti con desaturazioni sono più
compromessi, e suggeriscono che il monitoraggio
pulso-ossimetrico non debba in realtà essere considerato un predittore di distress respiratorio, poiché
non vi è nessuna evidenza che desaturazioni transitorie durante una patologia acuta qual è la bronchiolite abbiano valenza negativa o siano associate a un
outcome sfavorevole.
Box di orientamento
• Bronchiolite nel bambino: lo stato dell’arte
La bronchiolite, nell’ambito delle infezioni delle basse vie respiratorie, è una delle più frequenti cause di
malattia e ospedalizzazione nell’epoca del lattante.
La revisione delle più recenti linee guida internazionali conferma che il trattamento di tale patologia si
fonda a oggi sulla sola terapia di supporto, in attesa dello sviluppo di farmaci antivirali e di interventi
di prevenzione sicuri ed efficaci. In ragione delle sempre maggiori evidenze scientifiche a tal riguardo,
l’American Academy of Pediatrics sottolinea l’efficacia e sicurezza di un’ipossiemia permissiva nel trattamento dei lattanti con bronchiolite, raccomandando di mantenere un valore target di SpO2 pari a 90%,
sicuro ed efficace, quanto valori target di SpO2 superiori.
99
C. Zuiani et al.
Bibliografia
Baraldi E, Lanari M, Manzoni P, et al.
Inter-society consensus document on
treatment and prevention of bronchiolitis
in newborns and infants. It J Pediatrics
2014;40:65.
** Update multidisciplinare sulle più
recenti raccomandazioni relative al trattamento e alla prevenzione della malattia con
individuazione di ambiti critici per la futura
ricerca.
Byington CL, Wilkes J, Korgenski K, et
al. Respiratory syncytial virus-associated
mortality in hospitalized infants and young
children. Pediatrics 2015;135:e24-e31.
Christiaansen AF, Knudson CJ, Weiss
KA, et al. The CD4 T cell response to respiratory syncytial virus infection. Immunol
Res 2014;59:109-17.
Cody Meissner H. Viral bronchiolitis in
children. N Engl J Med 2016;374:62-72.
** Revisione esaustiva sulle attuali
conoscenze sulla bronchiolite; cita i più
rilevanti e recenti lavori pubblicati su tale
argomento; contiene inoltre un riassunto
delle linee guida AAP sulla diagnosi, il trattamento e la prevenzione della bronchiolite.
Cunningham S, Rodriguez A, Adams T,
et al. Oxygen saturation targets in infants
with bronchiolitis (BIDS): a double-blind,
randomised, equivalence trial. Lancet
2015;386:1041-48.
* Trial clinico randomizzato in doppio
cieco che dimostra che mantenere un target di SpO2 > 90% nei lattanti ricoverati
per bronchiolite è altrettanto sicuro ed efficace dal punto di vista clinico rispetto al
mantenere un target ≥ 94%.
Cunningham S. Intermittent monitoring
of oxygen saturation in infants and children
with acute bronchiolitis: peekaboo pediatrics or good clinical care? JAMA Pediatr
2015;169:891-2.
100
Hasegawa K, Jartti T, Mansbach JIM,
et al. Respiratory syncytial virus genomic
load and disease severity among children
hospitalized with bronchiolitis: multicenter
cohort studies in the United States and Finland. J Infect Dis 2015;211:1550-9.
Jain S, Williams DJ, Arnold SR, et al.
Community-acquired pneumonia requiring hospitalization among U.S. children. N
Engl J Med 2015;372:835-45.
Lanari M, Prinelli F, Adorni F, et al. Risk
factors for bronchiolitis hospitalization
during the first year of life in a multicenter Italian borth cohort. It J Pediatrics
2015;41:1-10.
* Studio italiano di coorte multicentrico
volto a identificare fattori di rischio per ospedalizzazione in corso di bronchiolite nel
primo anno di vita in lattanti nati a differenti
epoche gestazionali.
Mansbach JM, Piedra PA, Teach SJ, et
al. Prospective multicenter study of viral
etiology and hospital length of stay in children with severe bronchiolitis. Arch Pediatr
Adolesc Med 2012;166:700-6.
Meissner HC, Hall CB. Respiratory syncytial virus. In: Cherry JD, Harrison GJ,
Kaplan SL, et al. (Eds.). Feigin and Cherry’s
textbook of pediatric infectious diseases.
7th ed. Philadelphia: Elsevier Saunders
2014, pp. 2407-34.
McCulloh R, Koster M, Ralston S, et al.
Use of intermittent vs continuous pulse
oximetry for nonhypoxemic infants and
young children hospitalized for bronchiolitis. JAMA Pediatr 2015;169:898-904.
* Trial clinico randomizzato che ha
recentemente dimostrato che la pulsoossimetria intermittente nei lattanti non
ipossiemici con bronchiolite non accorcia
la durata dell’ospedalizzazione rispetto
all’impiego di monitoraggio pulso-ossimetrico continuo.
Nair H, Nokes DJ, Gessner BD, et al.
Global burden of acute lower respiratory
infections due to respiratory syncytial virus
in young children: a systematic review and
meta-analysis. Lancet 2010;375:1545-55.
NICE (National Institute for Health and
Care Excellence). Bronchiolitis in children.
June 1, 2015. nice.org.uk/guidance/ng9
** Linee guida inglesi messe a punto
con l’obiettivo di offrire le miglior raccomandazioni nella cura al lattante con
bronchiolite.
Principi T, Coates AL, Parkin PC, et al.
Effect of oxygen desaturations on subsequent medical visits in infants discharged
from the emergency department with bronchiolitis. JAMA Pediatr 2016; [Epub ahead
of print].
Ralston SL, Lieberthal AS, Meissner
HC, et al. Clinical practice guideline: the
diagnosis, management, and prevention of
bronchiolitis. Pediatrics 2014;134:e1474e502.
** Linee guida AAP sulla diagnosi, il
trattamento e la prevenzione della bronchiolite.
Ricci V, Delgado Nunes V, Murphy MS,
et al. Bronchiolitis in children: summary of
NICE guidance. BMJ 2015;350:h2305.
** Linee guida NICE sulla diagnosi, il
trattamento, la prevenzione della bronchiolite.
Schroeder AR, Mansbach JM, Stevenson
M, et al. Apnea in children hospitalized with
bronchiolitis. Pediatrics 2013;132:e1194e201.
Stockman LJ, Curns AT, Anderson LJ, et
al. Respiratory syncytial virus-associated
hospitalizations among infants and young
children in the United States, 1997-2006.
Pediatr Infect Dis J 2012;31:5-9.
Pediatria d’urgenza: novità dalla letteratura
L’idratazione endovenosa
nei bambini ricoverati per patologia
acuta: quale soluzione?
Un aspetto fondamentale nel trattamento dei bambini
ricoverati per patologia acuta è l’idratazione endovenosa, il cui obiettivo è preservare il volume extracellulare mantenendo un normale bilancio elettrolitico e
garantendo un’adeguata perfusione tissutale.
Tradizionalmente, il fabbisogno giornaliero di sodio
è stato stimato pari a 2-4 mmol/kg, come definito da
Holliday e Segar in un famoso paper pubblicato nel
1957, basato su uno studio condotto su bambini sani,
definendo il fabbisogno quotidiano di sodio in relazione al contenuto di sodio nel latte materno e vaccino.
Ne è conseguito il diffuso impiego di soluzioni endovenose ipotoniche, con apporto di sodio cloruro pari
a 0,8% (circa 30 mmol/L) e di glucosio pari al 4-5%
(circa 40-50 gr/L), per decenni.
Negli ultimi anni, in ragione di crescenti evidenze di un
significativo rischio di iponatremia iatrogena, nei bambini trattati con fluidi ipotonici, si è acceso un dibattito
internazionale su quale sia la soluzione endovenosa
più indicata nell’idratazione di mantenimento dei bambini ricoverati per patologia acuta. Infatti, i bambini ricoverati per patologia acuta, degenti nelle unità di terapia
intensiva pediatrica, o sottoposti a intervento chirurgico
sono a rischio di iponatremia, in ragione di due principali processi fisiologici. In primo luogo, si osserva una
diluizione del volume dei fluidi extracellulari, secondaria a un’aumentata secrezione di ormone anti-diuretico
(ADH), a un’aumentata sensibilità dei tubuli distali ad
ADH, che promuove il riassorbimento attivo di acqua
libera. In secondo luogo, vi è un incremento della sodiuria, che contribuisce alla riduzione della natremia,
secondaria all’espansione del volume dei fluidi extracellulari, all’incremento di attività del peptide natriuretico e dell’ormone anti-diuretico.
Numerosi case-reports, case-series e studi hanno
dimostrato che l’impiego di soluzioni ipotoniche nell’idratazione endovenosa è associato all’insorgenza di
iponatremia iatrogena, con manifestazioni cliniche
severe quali encefalopatia, crisi epilettiche, morte.
Numerose autorità internazionali preposte alla tutela
della salute hanno raccomandato di non impiegare
soluzioni ipotoniche con contenuto di sodio cloruro
pari a 0,18%, tuttavia a oggi non è ancora stato raggiunto un consensus mondiale su tale tema, e nella
pratica clinica è frequente il ricorso a fluidi marcatamente ipotonici.
Il recente studio PIMS (Paediatric Intravenous Maintenance Solution) pubblicato su Lancet nel 2015
rappresenta un importante contributo alle crescenti
evidenze su tale dibattito. Sarah MCNab ha condotto
un trial randomizzato controllato in doppio cieco su
bambini ricoverati presso il Royal Children’s Hospital
di Melbourne che necessitavano di idratazione endovenosa di mantenimento per almeno 6 ore; 690 soggetti sono stati randomizzati a ricevere una soluzione
isotonica contenente 140 mmol/L di sodio cloruro e
5% di glucosio (Plasma-lyte 148) o una soluzione ipotonica contenente 77 mmol/L di sodio cloruro e 5% di
glucosio. L’outcome primario era il riscontro durante il
periodo di trattamento di iponatremia, definita come
sodiemia inferiore a 135 mmol/L o come riduzione
della sodiemia di almeno 3 mmol/L rispetto al valore
iniziale. È stata effettuata un’analisi intention-to-treat
dei risultati, che ha dimostrato che i soggetti idratati
con soluzione Plasma-lyte hanno manifestato iponatremia meno frequentemente rispetto ai soggetti idratati con soluzione ipotonica (12 pazienti [4%] vs 35
[11%]; OR 0,31, 95% IC 0,16-0,61; p = 0,001); inoltre,
non è stato osservato un significativo incremento del
rischio di effetti avversi nel primo gruppo. L’insorgenza
di ipernatremia nei due gruppi è risultata simile (4%
vs 6%; OR 0,8, 95% IC 0,4-1,7, p = 0,55).
Si tratta del più consistente RCT pubblicato a oggi
su tale argomento, con numerosi punti di forza, tra
i quali i seguenti: sono stati arruolati soggetti con il
più ampio range possibile di diagnosi; gli stessi sono
stati seguiti fino a 72 ore dopo l’avvio dell’idratazione
parenterale. Gli autori concludono raccomandando
l’impiego di fluidi isotonici nell’idratazione endovenosa di mantenimento in età pediatrica, poiché questi
ultimi riducono il rischio di iponatremia rispetto ai fluidi
ipotonici (McNab et al., 2015).
La Cochrane meta-analisi condotta da McNab su 9
studi, la meta-analisi condotta da Foster e numerosi
altri lavori suggeriscono che i fluidi isotonici sono i più
indicati per la maggior parte dei pazienti ospedalizzati per patologia acuta, non solo in età pediatrica ma
anche in età adulta.
Lo studio pubblicato da Friedman nel 2015 è il primo
a includere lattanti con età superiore a un mese, e
compara, analogamente allo studio PIMS, un fluido
isotonico (0,9% di sodio cloruro, 5% di destrosio) con
un fluido ipotonico (0,45% di sodio cloruro, 5% di destrosio) nell’idratazione endovenosa di mantenimento
in una popolazione ospedalizzata in una pediatria generale. L’outcome primario dello studio è la sodiemia
101
C. Zuiani et al.
media dopo 48 ore di idratazione, risultata non significativamente differente nei due gruppi. L’occorrenza di
iponatremia è stata identificata in due soggetti idratati
con fluido ipotonico, come outcome secondario, tuttavia non è stata effettuata elaborazione statistica di
tale risultato.
In merito al rischio di ipernatremia iatrogena, segnalato da alcuni autori, non vi sono a oggi sufficienti
evidenze per dirimere il dubbio se l’impiego di fluidi
isotonici aumenti il rischio di ipernatremia (definita
come sodiemia superiore a 145 mmol/L). Si tratta di
un evento così infrequente che nessuno degli studi finora pubblicati ha raggiunto la numerosità necessaria
per chiarire tale aspetto.
Nella Cochrane meta-analisi di McNab, hanno manifestato ipernatremia 16 dei 437 soggetti idratati con
soluzioni isotoniche e 17 dei 500 soggetti idratati con
fluidi ipotonici (4% vs 3%; RR 1,2; 95% IC 0,7-2,4);
l’ampio intervallo di confidenza rende difficile valutare
se vi sia un effettivo aumento del rischio di ipernatremia nei soggetti idratati con fluidi isotonici.
Nello studio PIMS, nel lavoro di Friedman e nella meta-analisi pubblicata da Wang l’incidenza di ipernatremia nei due gruppi è risultata simile; in nessun lavoro,
tuttavia, viene raggiunta la significatività statistica.
Alcuni esperti hanno espresso dubbi in merito al rischio di indurre acidosi ipercloremica nei pazienti
idratati con soluzioni saline isotoniche, soprattutto
nell’epoca del lattante.
Tale evenienza appare non significativa negli studi in
cui sono state utilizzate soluzioni isotoniche con apporto di cloro ridotto rispetto alla soluzione fisiologica (che contiene 154 mmol/L di sodio cloruro), come
ad esempio la soluzione Plasma-lyte 148, impiegata nello studio di McNab, costituita da glucosata al
5% addizionata di 140 mmol/L di sodio, 98 mmol/L
di cloro, 5 mmol/L di potassio, 1,5 mmol/L di magnesio, 27 mmol/L di acetato, 23 mmol/L di gluconato.
Nel gruppo idratato con Plasma-lyte 148, 12,3% dei
soggetti ha sviluppato ipercloremia versus 16% dei
soggetti idratati con soluzione salina ipotonica 0,45%,
in assenza di acidosi.
È dunque necessario porre attenzione nell’impiego
di soluzioni saline contenenti 0,9% di sodio cloruro
come idratazione di mantenimento in particolare nei
lattanti, che peraltro necessitano di un maggior apporto glucidico rispetto ai bambini più grandi.
Conclusione
A oggi la letteratura fornisce sufficienti evidenze per
raccomandare l’impiego di soluzioni isotoniche contenenti 0,9% di sodio cloruro e 5% di glucosio nell’idratazione endovenosa di mantenimento di bambini
ricoverati per patologia acuta.
Le soluzioni ipotoniche sono infatti associate a un
significativo aumento del rischio di iponatremia e di
complicanze a quest’ultima riconducibili.
Soluzioni con contenuto gluco-elettrolitico più bilanciato, come Plasma-lyte o la soluzione di Hartmann
potrebbero essere indicate come idratazione endovenosa standard di mantenimento.
In specifiche situazioni cliniche e nei lattanti con età
inferiore a 3 mesi è opportuno valutare con attenzione
quale sia il fluido endovenoso più indicato; in questa
fascia d’età soluzioni ipotoniche con aumentato contenuto glucidico sono verosimilmente le più indicate.
Per confermare tale ipotesi sono necessari ulteriori
studi, che dovrebbero focalizzarsi su questa fascia
d’età.
Si ribadisce l’importanza di un attento monitoraggio
del paziente dal punto di vista clinico e laboratoristico,
dosando regolarmente gli elettroliti, soprattutto sodio
e potassio e si suggerisce che ogni unità operativa di
pediatria rivaluti periodicamente la prescrizione delle
idratazioni endovenose, al fine di aggiornare la propria pratica clinica, ottimizzando il monitoraggio idroelettrolitico e prevenendo potenziali effetti avversi.
Box di orientamento
• L’idratazione endovenosa nei bambini ricoverati per patologia acuta: quale soluzione?
I fluidi isotonici sono a oggi raccomandati nell’idratazione endovenosa di mantenimento di bambini ricoverati in reparti di pediatria generale per patologie acute, poiché riducono il rischio di iponatremia rispetto
alle soluzioni ipotoniche.
Gli studi pubblicati non consentono al momento di definire con significatività statistica se l’impiego di
soluzioni ipotoniche aumenti il rischio di ipernatremia, data la rarità di tale evento.
Fondamentale è un attento monitoraggio clinico e bioumorale dei pazienti in idratazione endovenosa, al
fine di prevenire diselettrolitemie e conseguenti complicazioni.
Nel primo trimestre di vita sembra più opportuno impiegare soluzioni ipotoniche con apporto glucidico
superiore al 5%, per prevenire il rischio di ipernatremia e ipoglicemia, a cui questa fascia d’età appare
più prona.
102
Pediatria d’urgenza: novità dalla letteratura
Bibliografia
Foster BA, Tom D, Hill V. Hypotonic versus isotonic fluids in hospitalized children:
a systematic review and meta-analysis. J
Pediatr 2014;165:163-9.
** Meta-analisi di 10 studi, dimostra
che i fluidi ipotonici presentano un rischio
relativo di causare lieve iponatremia pari a
2,37, e un rischio relativo di provocare iponatremia moderata pari a 6,2.
Friedman JN, Beck CE, DeGroot J, et
al. Comparison of isotonic and hypotonic intravenous maintenance fluids: a
randomized clinical trial. JAMA Pediatr
2015;165:445-51.
* RCT; i soggetti arruolati hanno età variabile tra 1 mese e 18 anni; uno tra i pochi
lavori che studiano i lattanti nel primo trimestre di vita.
McNab S, Duke T, South M, et al. 140
mmol/L of sodium versus 77 mmol/L sodium in maintenance intravenous fluid
therapy for children in hospital (PIMS): a
randomised controlled double-blind trial.
Lancet 2015;385:1190-7.
** Trial randomizzato controllato in doppio cieco su bambini ricoverati presso il
Royal Children’s Hospital di Melbourne;
si tratta del più corposo RCT finora pubblicato sull’argomento.
McNab S, Ware RS, Neville KA, et al. Isotonic versus hypotonic solutions for maintenance intravenous fluid administration
in children. Cochrane Database Syst Rev
2014;12:CD009457.
** Cochrane meta-analisi, ribadisce
che i fluidi isotonici sono i più indicati
nell’idratazione della maggior parte dei
bambini ospedalizzati per patologia acuta.
Morgan JA. Question 2: should 0.9%
saline be used for maintenance fluids
in hospitalized children? Arch Dis Child
2015;100:715-17.
Moritz ML, Ayus JC. Maintenance intravenous fluids in acutely ill patients. N Engl
J Med 2015;373:1350-60.
** Esaustivo articolo di revisione
sull’idratazione endovenosa di mantenimento in pazienti con patologia acuta.
Pemde HK, Dutta AK, Sodani R, et al.
Isotonic intravenous maintenance fluid
reduces hospital acquired hyponatremia in
young children with central nervous system
infections. Indian J Pediatr 2015;82:13-8.
Powell CVE. Not enough salt in
maintenance fluids! Arch Dis Child
2015;100:1013-15.
Wang J, Xu E, Xiao Y. Isotonic versus
hypotonic maintenance IV fluids in hospitalised children: a meta-analysis. Pediatrics
2014;133:105-13.
Corrispondenza
Chiara Zuiani
Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università degli Studi di Trieste, piazzale Europa 1, 34128 Trieste - E-mail:
[email protected]
Liviana Da Dalt
Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino, via Giustiniani 3, 35128 Padova - E-mail: [email protected]
103