La responsabilità penale nell’antica Grecia Come notato da Eva Cantarella nel suo saggio “ Norma e Sanzione in Omero. Contributo alla protostoria del diritto greco” , nei poemi omerici si possono riscontrare i primi elementi di diritto della civiltà greca. Il cittadino doveva ricorrere all’autodifesa , non vi era interesse pubblico a reprimere i reati e si otteneva giustizia per mezzo della vendetta. La vendetta era rivolta solo all’ autore del fatto (se l’autore era colpevole o incolpevole dipendeva dalla parte offesa e dalla sua volontà di rivalersi o meno) e non veniva coinvolta la sua famiglia. Molto scarse sono le informazioni circa la modificazione del diritto nella fase intermedia tra l’ età “eroica” (quella narrata nei poemi epici) e l’ età classica. Si ritiene che in questa fase si sia passati dal disinteresse statale al principio opposto basato sulla pena pubblica. Forse si affermò il principio della pena pubblica grazie a fattori religiosi e non a caso infatti tutti i legislatori arcaici sono ritenuti figure divine o mitologiche. Si affermò quindi un diritto basato su concetti magico-religiosi come quello di μίασμα, una macchia di sporcizia, una contaminazione (da μιαίνω “macchiare”, “sporcare”) che si attaccava su individui rei di fatti che costituivano un’ eccezione o un turbamento rispetto al quotidiano ritmo di vita. Si poteva divenire impuri o per aver violato le norme della convivenza civile (omicidio) o quelle religiose (sacrilegio) o per aver toccato un morto o una puerpera (cfr. Ifigenia in Tauride 381s.) o per aver avuto rapporti sessuali ( cfr. Erodoto, Storie II, 64). Era necessaria quindi l’esclusione temporanea dalla vita civile e religiosa fino alla purificazione mediante un rito (rito di purificazione, καθαρμός ) . D’ altronde aver contratto una tale macchia (non si usa il verbo contrarre a caso ma proprio per evocare l’ aspetto medico di questa macchia avvertita quasi come un morbo contagioso, una possibile epidemia) poteva significare l’ incorrere in malattie, turbamenti mentali e sciagure di ogni genere (cfr. Coefore v.69 e v. 279 ss.). è da segnalare comunque che l’ omicidio veniva visto come un άγος, una profanazione che non poteva essere lavata solo con rituali catartici (cfr. Coefore v.70 ss.): l’ omicida era impuro e maledetto e votato alle potenze infere richiedenti vendetta. La purificazione doveva consistere quindi in espiazione e risarcimento. Per concludere l’ esposizione del diritto greco pre-classico (che comunque avrà delle influenze su quello in vigore nell’ Età Classica) si segnala come nell’ epoca preclassica i temi della purificazione e dell’ allontanamento dalla città come pena tornassero anche in un’altra pena giuridica. Durante le Targelie (feste che si tenevano ad Atene e in altre città della Grecia Antica tra il 6 e il 7 del mese Targelione mese corrispondente grosso modo agli ultimi 15giorni di maggio e ai primi 15 giorni di giugno) un uomo e una donna (oppure solo un uomo) che avessero compiuto misfatti o fossero di brutto aspetto venivano sottoposti alla pubblica gogna, percossi, espulsi dalla città e infine uccisi. L’ uccisione del φαρμακός (che si ripeteva ogni anno) simboleggiava la purificazione della città. Tale rito è attestato dal frammento 6 West di Ipponatte in cui il giambografo augurava di patire lo stesso destino a un avversario. Nel caso del capro espiatorio non vi era quindi sempre una colpa come ragione per la scelta di una particolare persona. Il principio della Responsabilità non era quindi rispettato e d’altra parte questo principio anche in età classica non era certo riconosciuto in toto dato che autori come Eschilo e Sofocle proposero nelle loro tragedie il tema del γένος, della colpa dei padri che ricadeva sui figli, non proprio corrispondente come tema al principio espresso nel 1° Comma dell’ Articolo 27 del nostro testo Costituzionale ( si pensi alle storie di Agamennone ed Edipo). Ma nell’ Atene dell’ Età Classica avvenne un cambiamento giuridico che avvicina il mondo greco antico al concetto di responsabilità personale (prima solo sfiorato dato che le famiglie del delinquente non venivano punite): la distinzione fra “Φόνος εκούσιος” (omicidio volontario) e “Φόνος ακούσιος” (omicidio involontario). L’autore doloso veniva giudicato dal più antico e “autorevole” tribunale ateniese, l’Areopago, e veniva punito con la morte e la confisca dei beni. Egli poteva peraltro, dopo la prima udienza e ferma la confisca dei beni, rifiutare il giudizio e scegliere la via di un esilio senza ritorno. L’Areopago iniziò a giudicare i rei di atti di sangue dopo la riforma di Efialte (462) che relegò il consesso aristocratico al ruolo di tribunale (prima era un’assemblea politica). Eschilo nelle “ Eumenidi” (terza tragedia della trilogia tragica detta “Orestea”) rappresenta la nascita dell’Areopago come tribunale servendosi di un espediente mitologico: Atena lo crea per far giudicare Oreste reo di aver ucciso la madre e per questo perseguitato dalle Erinni. Il processo si concluderà con l’assoluzione di Oreste (grazie al voto determinante di Atena) e con la trasformazione delle “Erinni” in “Eumenidi” cioè “ Benevole”. L’omicidio involontario (Φόνος ακούσιος) invece era di competenza del tribunale del Palladio, che lo sanziona con l’esilio temporaneo (forse un anno), esilio a cui poteva essere posto fine dai congiunti dell’ucciso. Sotto il Φόνος ακούσιος rientrano sia casi di interruzione del nesso causale, sia ipotesi da ricondurre al concetto di colpa, dato che colpa e causalità non vengono allora distinte. Vi sono peraltro casi (citati da Demostene nella Contro Aristocrate, ma anche da Platone) in cui la responsabilità è del tutto esclusa: il caso della uccisione non voluta di un avversario durante una gara di combattimento; il caso dell’uccisione in guerra del compagno scambiato per il nemico; l’ipotesi del medico che nell’esercizio della propria attività, senza volerlo, cagiona la morte del paziente. In questi casi si è sì in presenza di situazioni involontarie, ma il contesto di base, lecito e, in particolare nel caso del medico, rilevante socialmente, in cui le azioni si svolgono, “giustifica” gli esiti indesiderati ed esclude ogni responsabilità. Non viene dunque in questione la colpevolezza e la possibile colposità dell’errore, ma si tratta piuttosto di cause di giustificazione (scriminanti). Certamente a queste ultime è infine da ricondurre l’indubbia esclusione di ogni sanzione anche nel caso di uccisione per legittima difesa. Le “regole” appena esposte non avevano certamente carattere di inderogabilità né esisteva un sistema processuale garantista in cui potessero sempre imporsi. Ciò è dimostrato da un esempio tratto da un discorso di Antifonte e relativo a un caso di errore: una donna per avvelenare il proprio coniuge si avvale di un’ancella la quale in buona fede serve un veleno mortale al coniuge della donna (presentandolo come e) credendolo un filtro d’amore. Ebbene in questo caso l’ancella viene condannata a morte (non importa – osserva Löffler – se ciò sia dovuto alla particolare disciplina del reato di avvelenamento o al fatto che la servitrice sia straniera). In questo caso non fu riconosciuto il principio della responsabilità personale (le due donne avevano responsabilità molto differenti nell’ accaduto) ma si tenne conto soltanto dell’apparenza: fu condannata la persona non colpevole de iure ma responsabile de facto (dato che aveva passato al morto- pur non conoscendone il contenuto- il calice). Celebre processo in cui fu affermato forse per la prima volta con vigore e clamore (clamore dovuto anche alla risonanza che il processo ebbe per gli imputati eccellenti) il principio della Responsabilità Penale Personale fu il Processo delle Arginuse .Sul banco degli imputati sedevano i comandanti della flotta che, dopo uno scontro navale presso le Arginuse (durante la Guerra del Peloponneso), ordinarono la ritirata senza prelevare i cadaveri dei loro uomini caduti in battaglia dal mare al fine di mettere in salvo le navi e non esporsi agli attacchi nemici. Tra i giurati sedeva il filosofo Socrate. Volontà comune della giuria era quella di condannare alla stessa pena (pena di morte) tutti i comandanti di tutte le navi. Socrate prese la parola e chiese di analizzare caso per caso, di analizzare il comportamento di ciascun comandante e quindi riscontrare le effettive responsabilità di ciascuno. Solo una volta comprese le reali responsabilità di ciascuno si sarebbe potuto procedere alla formulazione delle sanzioni, anch’esse diversificate se fossero state riscontrati differenti livelli di responsabilità. La giuria non apprezzò la posizione del filosofo e attuò i suoi propositi. Atene fu quindi privata dei suoi migliori comandanti e perse la guerra poco dopo (404). Platone in “Apologia di Socrate 32b” ci tramanda le parole di Socrate riguardo a questo processo: [Traduzione di B. Centrone] “E toccò alla nostra tribù Antiochide esercitare la pritania quando voi deliberaste di giudicare i dieci strateghi, che non avevano recuperato gli uomini dopo la battaglia navale, tutti insieme; contro la legge, come in seguito parve chiaro a tutti voi. Allora fui l’unico dei pritani a oppormi affinché voi non faceste nulla contro la legge e diedi voto contrario“ Socrate A questa breve panoramica sul riconoscimento o meno del Principio della Responsabilità Penale Personale nel Diritto dell’antica Grecia si aggiunge una breve sezione in cui si riportano le posizioni dei due massimi filosofi della Grecia Classica, Platone a Aristotele, circa la Giustizia e la Responsabilità. PLATONE Un’azione è giusta o ingiusta a seconda che uno operi o meno in modo onesto e con rette intenzioni nell’arrecare ad altri qualche beneficio o danno (Leggi, IX, 6, 861-862) . Platone individua tre cause che muovono all’ingiustizia: la collera, il piacere e l’ignoranza (Leggi, IX, 7, 863-864). Da queste, che rappresentano la spinta all’azione, si distinguono altre cause, le quali invece rendono esente da responsabilità l’autore: come diremmo oggi, vi sono “cause che escludono l’imputabilità”, quali la pazzia, l’influenza di malattie o la tarda vecchiaia, e altre che invece “escludono l’antigiuridicità”, come la legittima difesa (“se uno sorprende di notte un ladro, che si introduce nella sua casa, e lo uccide, sia immune da colpa”) o il procurare involontariamente la morte durante l’esercizio dell’attività medica (Leggi, IX, 8, 864-865 e IX, 12, 873-875). Platone afferma che in tutti gli Stati e da tutti i legislatori vengono considerate due specie di ingiustizie, quella volontaria e quella involontaria (Leggi, IX, 6, 861). Particolarmente dettagliata è la disciplina dell’omicidio (e analogamente delle lesioni), basata soprattutto sui motivi dell’azione (segnatamente con riferimento alla collera). Il giudizio negativo sul movente contribuisce ad attribuire la qualifica di volontaria all’azione e la rende pertanto illecita. La volontarietà dell’omicidio trova movente o nella cupidigia (il primo e il più grave tra i moventi), o nell’ambizione o infine nella necessità di nascondere il compimento di certe azioni (Leggi, IX, 10, 869/870). Le sanzioni sono le più varie, dalla condanna a morte all’esilio, fino al semplice risarcimento del danno nei casi di omicidio involontario. Quanto afferma Platone rispecchia le concezioni giuridiche del tempo (le Leggi sono databili intorno al 350 a.C) e trova conferme oltre che nella legislazione di Draconte anche nelle orazioni di Antifonte (480 circa a.C.- 411 a.C.) che nelle sue tetralogie distingueva tra omicidio volontario, colposo e dovuto al caso . Platone ARISTOTELE Aristotele studia il come e si chiede il perché delle azioni umane: dalla sua etica derivano gli strumenti non solo per osservare ma anche per comprendere il fenomeno criminoso. Con il concetto di έκούσιον, Aristotele indica quei fatti che hanno un agente razionale come principio, padrone o causa; l’agire è έκούσιον quando l’autore del fatto avrebbe potuto, altrettanto bene, astenersi dal realizzarlo, quando cioè non è stato costretto a comportarsi in quel modo da influenze esterne o interne. Il concetto di έκούσιον rappresenta la base dell’agire ingiusto e designa solo la mancanza di coercizione, non la consapevolezza di un’azione, tanto che si ritiene che questa espressione richiami il concetto di spontaneità invece di quello di volontarietà. Secondo Abbagnano l’aggettivo spontaneus non è che la traduzione latina di έκούσιος, e significa «libero» . Leibniz, che introdusse il termine nel linguaggio filosofico moderno, ne indica così l’origine e il significato: «Aristotele ha ben definito la spontaneità dicendo che un’azione è spontanea quando il suo principio è in colui che agisce. Spontaneum est cuius principium est in agente. Ed è così che le nostre azioni e le nostre volontà dipendono interamente da noi» (Théod., III, § 301). Il concetto di έκούσιον sembra avvicinarsi alla “coscienza e volontà dell’azione od omissione” che rappresenta la base minima per l’imputazione soggettiva (penale) secondo il nostro art. 42 comma 1 c.p. Nell’ Etica Nicomachea Aristotele affronta la nozione di scelta che rappresenta l’appartenenza piena dell’atto al soggetto e presuppone i concetti di volontario (τό έκούσιον) e involontario (τό άκούσιον), essendo la scelta un atto volontario, rientrante quindi nell’ambito di questa nozione, pur avendo un’estensione minore. La nozione di scelta come essenza della colpevolezza sembra trasparire anche oggi nella importantissima sentenza della Corte costituzionale (24 marzo 1988, n. 364), che ha affermato definitivamente la costituzionalizzazione del principio di colpevolezza (vedi documento precedente). In tale sentenza si legge tra l’altro che «il legislatore costituzionale intende garantire ai cittadini, attraverso la possibilità di conoscenza delle norme penali, la sicurezza giuridica delle consentite, libere scelte di azione». La possibilità di conoscenza intende dunque garantire la possibilità di scelta. La ”libera scelta d’azione”, che costituisce – secondo questa sentenza – il primo presupposto della responsabilità (penale), è dunque un principio enunciato per la prima volta da Aristotele. Aristotele