Parole nuove per ritrovarci cristiani in politica

02/10/2016
GRUPPO
FUCI
AREZZO
PAROLE NUOVE PER RITROVARCI
CRISTIANI IN POLITICA
Claudio Bargellini
Indice:
Capitolo 1
Il difficile rapporto tra cristiani e politica nella storia e la Dottrina
sociale della Chiesa:
1) Papa Francesco sull’impegno in politica come martirio
2) La Dottrina sociale della Chiesa
3) Don Luigi Sturzo e la laicità del Partito Popolare Italiano
4) La Democrazia Cristiana e il Codice di Camaldoli
5) Il rapporto Eurispes 2014
Capitolo 2
Un utile contributo di Don Virginio Colmegna: Parole nuove per la
politica:
1) Mistica
2) Fraternità
3) Etica
4) Speranza
5) Paura
6) Lingua
7) Università
Il difficile rapporto tra cristiani e politica nella storia e la Dottrina
sociale della Chiesa
Papa Francesco sull’impegno in politica
Dovendo parlare di “parole nuove per ritrovarsi cristiani in politica”, può essere utile iniziare da un
intervento di Papa Francesco di fronte alla Lega Missionaria Studenti d’Italia. Parlando a braccio, il
Pontefice ha evidenziato alcuni concetti a mio modo di vedere fondamentali per comprendere il
complesso periodo in cui ci troviamo a vivere:
se in primo luogo ha espresso la sua netta contrarietà alla rinascita di un qualsivoglia partito “cattolico”
italiano, ovvero apertamente e direttamente rappresentativo della fede, dal momento che
mancherebbe di «capacità convocatorie», ha però poi chiarito come per un cattolico l’impegno
politico non sia semplicemente una possibilità, ma un vero e proprio dovere. Un dovere, tuttavia,
tutt’altro che semplice da compiere, e che comporta sofferenze e rischi considerevoli. Ascoltiamo le
sue parole:
«Eh sì: è una sorta di martirio. Ma è un martirio quotidiano: cercare il bene comune senza lasciarti corrompere.
Cercare il bene comune pensando le strade più utili per quello, i mezzi più utili. Cercare il bene comune
lavorando nelle piccole cose, piccoline, da poco … ma si fa. Fare politica è importante: la piccola politica e la
grande politica».
Vorrei far notare, innanzitutto, dal momento che siamo alla ricerca di nuove terminologie, la parola
“martirio”. Si tratta di una immagine molto forte, che evoca il massimo sacrificio che si possa fare
per Dio: quello della propria stessa vita. Potrebbe sembrare a prima vista un paragone eccessivo, ma,
come il testo chiarisce, Francesco si riferisce alla quotidiana sofferenza che ogni piccolo passo da
fare nel mondo politico comporta, un mondo senza dubbio capace di contenere grandi ideali, ma
anche di indurre a mortificanti compromessi sia di tipo morale che di tipo materiale, tali da far
desistere chi non possegga un animo, e una fede, sufficientemente sicura e forte.
L’uso di questa parola chiarisce anche un aspetto del rapporto tra cristiani e stato nel nostro Paese,
ma il discorso potrebbe valere per tanti altri: i cattolici, cioè, si sono trovati a vivere, per vari motivi
e in vari modi nei differenti periodi storici, in una dimensione segnata dalla sofferenza e dal dubbio.
Del resto la stessa natura dell’unificazione italiana, con la conquista militare di Roma, evidenzia bene
il problema. La radicale ostilità che esisteva tra i due poteri era già apparsa chiara dalla pubblicazione,
da parte di Pio IX, dell’allocuzione Maxima quidem laetitia (1862), dove il Pontefice esprimeva la
sua preoccupazione per la possibile perdita di libertà della Chiesa, se quest’ultima fosse costretta a
rinunciare al potere temporale. Non era del resto ancora chiaro a quel tempo quanta libertà di azione
il nuovo stato avrebbe concesso all’istituzione ecclesiastica, e se quest’ultima avrebbe potuto
continuare agevolmente a portare avanti la propria missione universale, se in qualche modo limitata
dal potere di un singolo stato.
Nonostante l’approvazione della legge detta Delle Guarentigie (1871), che riconosceva ad esempio
l’indipendenza e la sovranità del papa nel territorio della Città del Vaticano, i rapporti tra Chiesa e
Stato rimasero tesi, tanto che Pio IX attaccò duramente la legge, e il secondo da parte sua impose la
chiusura delle Facoltà di Teologia nelle Università dello Stato, e varie forme di controllo nei confronti
dei seminari.
La fondazione dell’Opera dei Congressi, volta sia a tutelare i diritti della Chiesa che a promuovere
opere caritatevoli, si atteneva tuttavia severamente al principio del Non expedit (1874), pubblicato
nello stesso anno della fondazione della prima, ovvero il divieto a tutti i fedeli di partecipare alla vita
politica.
C’è da dire, però, che il Non expedit, soppresso formalmente solo nel 1919, venne tacitamente e non
ufficialmente ritirato precedentemente, dal momento che già nel 1904 tre cattolici vennero eletti
deputati, e nel 1914, attraverso il celeberrimo Patto Gentiloni, i cattolici appoggiarono l’omonimo
presidente del consiglio in cambio di alcune concessioni. In sostanza, la Chiesa, dimostrando grande
lungimiranza politica, comprese la necessità di consentire ai cattolici una qualche forma di contatto
con la vita politica.
La Dottrina sociale della Chiesa
Nel frattempo era stata pubblicata, nel 1891, l’enciclica Rerum Novarum, da parte del Papa Leone
XIII. Il testo fornirà la base di quella che viene definita la Dottrina sociale della Chiesa, dove per la
prima volta si affrontano direttamente tematiche di stampo sociale ed economico. È importante
chiarire immediatamente una questione. Movimenti politici di ogni forma e colore hanno sempre
cercato di manipolare la fede Cattolica, per porla al servizio di una qualche ideologia politica,
qualunque essa fosse. Così c’è chi afferma che la Dottrina sociale rappresentasse una sorta di Terza
Via tra capitalismo e comunismo, e allo stesso tempo vi è stato chi, nel corso della storia, ha cercato
di affermare una coincidenza tra i valori della Chiesa e una qualche precisa ideologia, che si tratti del
liberismo oppure del socialismo, del capitalismo o anche di regimi dittatoriali di ogni colore. Del
resto la stessa figura di Nostro Signore Gesù ha dovuto subire più volte i tentativi delle più varie
ideologie di appropriarsi del suo messaggio. Al fine di non rischiare di male interpretare la questione,
è forse il caso di leggere le parole di Papa Giovanni Paolo II, tratte dall’enciclica Sollicitudo Rei
Socialis (1987):
La Chiesa […] non propone sistemi o programmi economici e politici, né manifesta preferenze per gli uni o
per gli altri purché la dignità dell'uomo sia debitamente rispettata e promossa […].Quale strumento per
raggiungere lo scopo, la Chiesa adopera la sua dottrina sociale
Ora, appare evidente a chiunque, come una posizione di questo tipo escluda a priori il supporto a
qualsiasi tipo di regime autoritario dove la dignità dell’uomo e lo stato di diritto sono quotidianamente
violati. Nell’ambito dei sistemi di governo democratici, tuttavia, per quanto riguarda l’intervento
dello stato nell’economia e nella vita sociale e culturale, qui non è affatto possibile “collocare” la
Chiesa in una qualche determinata posizione, come Giovanni Paolo II spiega nel passo riportato.
All’interno della Chiesa, e del popolo di fedeli, le posizioni divergono. In effetti i fedeli si sono
sempre divisi in vari partiti al momento del voto, né è stato mai possibile considerare il voto cattolico
come un blocco unico. Neppure la Democrazia Cristiana, che senza dubbio riuscì a diventare un punto
di riferimento per questa fascia di elettori, poté mai arrogarsene il monopolio.
Alcuni potrebbero argomentare che un principio, in campo economico e assistenziale, a cui la Dottrina
Sociale è sempre rimasta fedele sia quello della sussidiarietà. Innanzitutto, chiariamo la terminologia.
Con sussidiarietà si intende l’idea che lo stato debba intervenire nella società, in campo economico e
morale-giuridico, in quei casi in cui la società non è in grado di supplire da sola, affidandosi ai suoi
naturali equilibri. Se si prende per buona questa idea, si potrebbe definire la politica che la Chiesa
auspicherebbe come una forma molto moderata di social - liberalismo, una linea del resto condivisa
in gran parte dalla Democrazia Cristiana. Vi sono però vari problemi al riguardo. Prima di tutto,
all’interno della stessa Democrazia Cristiana erano presenti una serie di posizioni molto differenti. In
secondo luogo, l’idea che lo stato debba intervenire laddove la società non può supplire, non chiarisce
quali siano esattamente le situazioni in cui questo intervento sarebbe necessario, anche perché queste
ultime cambiano con i tempi.
Infine, la questione più importante: analizziamo il seguente passo, tratto dal Compendio della Dottrina
Sociale della Chiesa, pubblicato nel 2004 per impulso di Giovanni Paolo II:
Ispirato al principio di sussidiarietà e creare situazioni favorevoli al libero esercizio
dell’attività economica; essa deve anche ispirarsi al principio di solidarietà e stabilire dei
limiti all’autonomia delle parti per difendere la più debole
Dunque al principio di Sussidiarietà viene affiancato quello di solidarietà, e soprattutto si parla di
“limiti all’autonomia delle parti”. In sostanza, tutto ciò serve a dimostrare come non si possa definire
quale sia la linea politica della Chiesa, dal momento che il suo scopo principale è, come si è già detto,
la promozione della dignità di ogni essere umano, oltre che del messaggio del Vangelo. Come, e
attraverso quali mezzi, si promuova al meglio la dignità dell’essere umano, è una questione sui cui è
sempre stato presente un vivace dibattito all’interno della Chiesa. Un dibattito che però, pur avendo
segnato alcune linee guida generali, non è mai arrivato a “dettare” ai fedeli una precisa linea politica
o ideologica.
In effetti, si può in un certo senso affermare che la Dottrina sociale della Chiesa sia prima di tutto una
esortazione alla “Buona Politica”, intesa come un cantiere, dove non si comincia il lavoro con una
qualche forma di ideologia preconcetta, ma dove la buona volontà, il buon senso, la misericordia e la
compassione che ogni buon cristiano dovrebbe imparare ad avere possono applicarsi alla vita pubblica,
ricercando, per quanto possibile, il bene comune.
Torniamo però adesso alla storia:
Don Luigi Sturzo e la laicità del Partito Popolare Italiano
Dopo la Prima Guerra Mondiale, nel turbolento e pericoloso clima del dopoguerra, acceso da violente
passioni politiche, la fondazione del Partito Popolare Italiano, segnerà il primo reale ingresso ufficiale
del popolo cattolico in politica, sia pure in modo molto prudente.
Don Luigi Sturzo, in effetti, fondatore del Partito, già nel 1905, con un pizzico di retorica, dichiarava:
Ora io stimo che sia giunto il momento che i cattolici si mettano al pari degli altri
nella vita nazionale, non come unici depositari della religione o come armata
permanente delle autorità religiose che scendono in guerra guerreggiata, ma come
rappresentanti di una tendenza popolare e nazionale nello sviluppo del vivere civile
Sturzo ritiene dunque necessario un partito che non sia una diretta emanazione delle alte gerarchie
ecclesiastiche, ma che sappia rivolgersi anche ai laici, a tutti coloro che hanno a cuore il destino futuro
del Paese. Un partito che si ispirava ai principi di sussidiarietà e solidarietà, e poteva dunque
comprendere al suo interno un ampia fascia di elettorato. Più che un partito moderato, un partito
“temperato”. Questo ultimo termine può servir a spiegare il raffinato equilibro di civiltà, valori
cristiani e laicità che caratterizzavano il partito di Sturzo, senza dubbio uno dei frutti politici più
interessanti del primo dopoguerra. Costretto a rifugiarsi all’estero con l’avvento del regime fascista,
Sturzo tornerà poi dopo la fine della guerra, dove accuserà più volte politici della Democrazia
Cristiana di eccessivo statalismo e assistenzialismo. Celeberrima è la sua polemica con Giorgio la
Pira sul salvataggio pubblico di una fabbrica. Questo a ulteriore conferma di come all’interno dei
movimenti politici cattolici le posizioni possano variare considerevolmente. Una delle molte lezioni
che senza dubbio possiamo apprendere dall’esperienza di Sturzo è la sua scelta di non fondare un
partito dichiaratamente cattolico, sia pure se imbevuto di valori cristiani, ma di lasciarlo aperto a tutti
i “liberi e i forti” che desiderano un futuro oggettivamente migliore per il Paese. In sostanza, l’idea
di partito che Sturzo ha in mente è cristiano nelle “radici” ma laico nelle “foglie”. Si tratta senza
dubbio di una prima teorizzazione di un partito laico che possa tuttavia portare avanti valori cristiani,
ma condivisibili da tutti i “liberi e i forti”, come la dignità e il valore dell’uomo, il progresso morale
e civile, il bene comune. Importante anche, indipendentemente da come la si pensi al riguardo, il forte
peso che Sturzo attribuiva al federalismo e alle autonomie locali, considerate sia come un limite a una
possibile eccessiva centralizzazione dello Stato, sia come un mezzo per consentire una piena
realizzazione morale del cittadino nel rispetto delle varie culture locali e tradizioni.
La Democrazia Cristiana e il Codice di Camaldoli
l’avvento della dittatura fascista pose fine, come è facile immaginare, all’esperimento di Don Luigi
Sturzo. La firma dei Patti Lateranensi, nel 1929, con il primo riconoscimento ufficiale dello stato
italiano da parte della Chiesa, daranno inizio al difficile rapporto della stessa con la dittatura fascista.
In materia esistono varie teorie, che non sono pertinenti a questa relazione, ma si può dire in generale
che gli spazi di autonomia che la Chiesa, e le sue associazioni, tra cui anche la Fuci, su cui torneremo
per ovvie ragioni, sapranno ritagliarsi all’interno delle oppressive maglie del regime, aiuteranno a
salvaguardare degli spazi di libertà e libero dibattito nonostante la diffusione in Italia dell’ideologia
fascista. Di fatto la sopravvivenza di due importanti istituzione, Chiesa e Monarchia, riusciranno in
un certo qual modo, e fino a un certo punto, a limitare la trasformazione dell’Italia in un totalitarismo
completo e assoluto come sarà ad esempio quello nazista.
Nel secondo dopoguerra l’eredità di Luigi Sturzo sarà raccolta dalla Democrazia Cristiana, che del
Partito Popolare assumerà anche il simbolo, il celebre scudo crociato rosso che diverrà il simbolo
della politica italiana per decenni, e lascerà una eredità ancora oggi estremamente importante.
Tuttavia la DC si caratterizza per una serie di differenze rispetto al Partito Popolare. Innanzitutto l’uso
del termine “cristiano” nel nome chiaramente sancisce una più esplicita volontà di caratterizzarsi
come partito espressione del popolo cattolico, anche se non direttamente della chiesa.
Inoltre, se il partito di Sturzo aveva una impronta maggiormente liberale, all’interno della DC
emergeranno, in vari periodi storici, differenti tendenze interne. Già la pubblicazione del celeberrimo
Codice di Camaldoli, nel 1943, la cui influenza sulla futura Costituzione della Repubbblica Italiana
è ampiamente riconosciuta, se riconosce in pieno i principi fondamentali della Dottrina sociale della
Chiesa, dà una particolare importanza anche al principio di solidarietà sociale. Gli otto punti
fondamentali del Codice di Camaldoli intorno ai quali si dovrebbe organizzare la vita economica sono
i seguenti:
1. La dignità della persona umana, la quale esige una bene ordinata libertà del singolo anche in
campo economico;
2. L'eguaglianza dei diritti di carattere personale, nonostante le profonde differenze individuali,
provenienti dal diverso grado di intelligenza, di abilità, di forze fisiche, ecc.;
3. La solidarietà, cioè il dovere della collaborazione anche nel campo economico per il
raggiungimento del fine comune della società;
4. La destinazione primaria dei beni materiali a vantaggio di tutti gli uomini;
5. La possibilità di appropriazione nei diversi modi legittimi fra i quali è preminente il lavoro;
6. Il libero commercio dei beni nel rispetto della giustizia commutativa:
7. Il rispetto delle esigenze della giustizia commutativa nella remunerazione del lavoro;
8. Il rispetto dell'esigenza della giustizia distributiva e legale nell'intervento dello Stato.
Sul dovere di solidarietà, il Codice prescrive che "Finché nella società ci siano dei membri che
mancano del necessario, è dovere fondamentale della società provvedere, sia con la carità privata, sia
con le istituzioni di carità private, sia con altri mezzi, compresa la limitazione della proprietà dei beni
non necessari, nella misura occorrente a provvedere al bisogno degli indigenti".
E sul punto della distribuzione patrimoniale sancisce che "Un buon sistema economico deve evitare
l'arricchimento eccessivo che rechi danno a un'equa distribuzione; e in ogni caso deve impedire che
attraverso il controllo di pochi su concentramenti di ricchezza, si verifichi lo strapotere di piccoli
gruppi sull'economia".
Ora, si capisce subito come, all’interno di una ideologia complessivamente moderata e liberale, questi
testi lascino però un ampio margine di “interpretazione”, che consentiranno una grande flessibilità
alla Democrazia Cristiana in campo economico, cosa che le permetterà di mediare tra le varie forze
politiche, e persino di progettare alleanze trasversali. Si può anche dire come questa flessibilità dia
origine alla divisione, che vediamo ancora oggi nel mondo cattolico, tra cristiano-liberali e cristianosociali, con varie ramificazioni interne troppo lunghe da enumerare.
A questa capacità di rispondere in modo sempre nuovo alle nuove sfide, va anche iscritto il
celeberrimo tentativo di Aldo Moro, nel clima di scontro sociale caratteristico degli anni 70, di cercare
una intesa aperta a tutte le forze politiche, incluso il Partito Comunista, e sappiamo quanto questa
idea potesse essere rivoluzionaria al tempo. Non sempre tuttavia il rapporto tra i cristiani e la politica
nel dopoguerra è stato idillico. Basti pensare alla questione dei diritti civili, e soprattutto al durissimo
colpo subito proprio dalla Democrazia cristiana con la sconfitta nel referendum sul divorzio del 1974.
Del resto, già durante gli anni 60, e in particolare la contestazione studentesca, segneranno l’inizio di
un lungo processo di secolarizzazione della società che tutt’oggi non ha trovato dei freni adeguati,
soprattutto tra le nuove generazioni, anche se in Italia la situazione generale risulta complessivamente
migliore rispetto a quella di molti altri paesi europei.
La Chiesa, tuttavia, consapevole delle sfide che si trovava ad affrontare, aveva già introdotto, in
particolare con il Concilio Vaticano II, apertosi nel 1962 e terminato nel 1965, una serie di proposte
e innovazioni riguardanti sia la liturgia che più in generale il rapporto con la società e il mondo che
contribuiranno a ridarle prestigio e autorevolezza. Sempre più forte e vivace è stata in particolare la
voce dell’associazionismo cattolico di base: la Fuci, che ho già nominato, ma anche l’Azione
Cattolica, nonché Comunione e Liberazione, la cui influenza nella società e nella politica italiana è
tuttora notevole. Parlando sempre del rapporto tra cristiani e politica, non si può non notare quanto
la fede cristiana, in questo caso sotto la diretta azione del papato, abbia accresciuto la propria
importanza in politica estera, paradossalmente proprio nel momento in cui il potere temporale della
Chiesa era già da tempo ridotto al limitato territorio del Vaticano.
Basti ricordare il ruolo di Giovanni Paolo II durante la guerra fredda e al momento delle prime
elezioni democratiche in Polonia. Ma i pontefici successivi non sono stati da meno. Occorre far
riferimento al recentissimo intervento di Papa Francesco che ha consentito il ristabilimento dei
rapporti diplomatici tra Cuba e Stati Uniti, per non parlare degli ottimi rapporti con la Chiesa
Ortodossa, di centrale importanza in un momento in cui entrambe le confessioni si trovano di fronte
a enormi sfide, incluse persecuzioni in Medio Oriente, in Africa e in altre regioni.
Anche per quanto riguarda l’influenza nella società e nella politica, le frequenti predizioni di sventura
che si odono sul declino della religione, sono da ritenersi premature e allarmistiche.
Il rapporto Eurispes 2014
Dal rapporto appena nominato, emergono infatti una serie di dati recenti che dimostrano una
situazione più positiva del previsto. La fiducia nella Chiesa è aumentata tra gli italiani del 12,4%,
portandosi a quota 49% a livello nazionale, ed è aumentata anche tra le fasce più giovani, sia pure di
poco. Il 75% della popolazione si dichiara cattolica, e il 28% si reca a messa abitualmente. Se questa
cifra sembra bassa, vorrei dire che si tratta comunque di svariati milioni di persone, cifre che grandi
paesi come Francia e Gran Bretagna hanno cessato di avere da decenni.
Si tratta senza dubbio di numeri molto più bassi di quanto non fossero decenni fa, ma ciò che mi
preme dimostrare è che oggi è assai rilevante affrontare la questione dell’essere “cristiani in politica”,
stante il fatto che la percentuale di abitanti che si identifica nella fede è alta paragonata al totale della
popolazione.
Il passo di papa Francesco citato all’inizio chiariva come il pontefice non ritenga necessaria la
rinascita di un partito cattolico. Questo di fatto rispecchia la situazione attuale, dove, dopo la
dissoluzione della democrazia cristiana nel corso degli anni 90, gli elettori cattolici si sono “dispersi”
in più partiti. Inoltre, come ho già avuto modo di spiegare, anche la DC stessa non aveva il monopolio
assoluto del voto cattolico. La forma di azione dei cattolici in politica deve perciò essere, di necessità,
apartitica.
Un utile contributo di Don Virginio Colmegna: Parole nuove per la
politica
Terminata la breve panoramica storica, che ha evidenziato la complessità dell’essere “cattolici”, e al
contempo “cittadini”, è giunto forse il momento di chiedersi quali possano effettivamente essere
queste parole “nuove” per la politica. Per farlo, ci appoggiamo ad una raccolta di saggi, di diversi
autori, a Cura di Don Vincenzo Colmegna, intitolata Parole nuove per la politica. I contributi, tutti
autorevoli, spiccano per la varietà e il differente background professionale dei protagonisti. Si spazia
da politici a sacerdoti, da insegnanti ad assistenti sociali. Tra questi emerge certamente per fama la
figura di Romano Prodi, ex Presidente del Consiglio italiano.
A quest’ultimo spetta nel suo intervento il compito di fornire un quadro storico il più vasto e completo
possibile. Prodi delinea una chiarissima immagine dello stato della geopolitica e della società
internazionale, dall’ascesa dei paesi emergenti alla percezione di declino e crisi dei paesi sviluppati.
Tratta inoltre i diversi sistemi sociali presenti in Europa, Usa e Cina, così come il dramma delle
migrazioni, e i fenomeni demografici ed economici cui quest’ultimo è connesso. Accenna poi alla
delegittimazione delle autorità politiche, specie in Occidente, e alle conseguenze dei continui
interventi militari occidentali che hanno caratterizzato negli ultimi anni il Medio Oriente e l’Africa.
I successivi relatori, ognuno con la sua diversa angolazione ed esperienza, analizzano molti dei
problemi che affliggono oggi la politica e la società, e soprattutto la relazione tra i cittadini e la politica
stessa.
Un concetto che particolarmente mi ha colpito, espresso da Colmegna nella sua introduzione, è ad
esempio la concezione della politica come “mistica”, ovvero l’esistenza all’interno di ogni processo
politico di fortissime esigenze spirituali e morali, e di una fortissima aspirazione utopica verso la
realizzazione di una società ideale. Colmegna, dopo aver evidenziato la necessità di calare le
aspirazioni ideali nel “possibile” della realtà fattuale, al fine di evitare pericolosi estremismi di
qualsiasi tipo, ritiene però positiva questa forte dimensione utopica della politica la quale, se è stata
spesso causa di conflitti e problemi, è anche tuttavia alla base di qualunque progresso.
Interessantissimi anche i saggi di Massimo Toschi e Giovanni Bianchi sulle parole “fraternità”, e
“etica”.
Toschi fa largo uso di citazioni dalla Bibbia, così come delle sue esperienze personali, per dimostrare
come l’imperativo fondamentale per ricostruire una qualsiasi forma di società civile, che possa essere
in grado di sviluppare costruttive e solidali relazioni sociali tra i suoi membri, sia quello del concetto
di fraternità cristiana. L’idea, cioè, che il concetto di dignità e valore dell’essere umano non debba
essere ritenuto giusto dai singoli individui solo per loro stessi, ma anche più in generale per il resto
della società. Interessante soprattutto l’esempio (negativo ovviamente) di Caino e Abele, dove al tema
dell’assenza di fratellanza si sommano anche quelli dell’invidia, della competizione e dell’ansia di
ottenere la benevolenza altrui.
Bianchi, parlando dell’etica, in mezzo a molte altre riflessioni, fa l’esempio di un candidato alle
presidenziali americane, il quale perse le elezioni per aver espresso la sua convinzione che la pena di
morte fosse sbagliata. (Purtroppo sappiamo come negli Stati Uniti buona parte della popolazione sia
invece favorevole). L’autore vuole ricordare come esprimere le proprie convinzioni morali può a volte
essere rischioso per chi vorrebbe essere amato da tutti. Ma qui sta il cuore dell’argomento: curare le
relazioni sociali non deve significare compiacere tutti ad ogni costo. Un insegnamento che facilmente
si ricava dalle vite dei santi è che si deve amare tutti, anche i propri nemici, ma non si può pretendere
di essere anche amati da tutti, a meno di non sacrificare i propri principi e le verità della fede. In
parole povere: a volte chi si occupa della politica, così come i privati cittadini, devono accettare il
rischio di non piacere a tutti, all’atto di esprimere importanti principi morali.
Tra le parole, non si può fare a meno ovviamente di nominare “speranza” e “paura”. Speranza,
perché è una delle tre virtù teologali cristiane, fondamento della fede nella vita eterna, nonché motore
del continuo miglioramento e perfezionamento cui la specie umana aspira, o dovrebbe aspirare. Paura,
poiché, come il saggio di Prodi evidenzia bene, viviamo in un periodo storico caratterizzato da
rilevanti instabilità politiche, da una società in trasformazione, da complessi fenomeni migratori, e da
un lento e continuo peggioramento delle condizioni economiche della maggior parte della
popolazione. Tutto questo può far perdere a molti la speranza che una società migliore sia, in effetti,
possibile. Non vi sono formule magiche al riguardo, capaci di portare di nuovo i cittadini a credere
nel proprio futuro. Ci si può affidare, nel frattempo, alla Fede.
Il libro è stimolante, e contiene molti altri spunti che non possiamo in questa sede enumerare.
Si può adesso passare ad un’altra parola, che potrebbe sembrare fuori luogo: la parola “lingua”. Il
linguaggio, come sappiamo, non è semplicemente un mezzo di comunicazione, ma esprime il modo
di pensare di una persona e, più in generale, di una intera cultura. In che stato è oggi il linguaggio
della politica?
Ci giunge in soccorso il Prof. Vittorio Coletti, dell’Accademia della Crusca. Quest’ultimo rileva
innanzitutto come, mentre in passato i politici cercavano di evitare espressioni volgari o anche il
linguaggio popolare, oggi ci si vanti di parlare come parla “la gente comune”, con uso abbondante di
voci basse e popolari.
In certi casi si può arrivare anche alla battuta oscena, ad alzare o abbassare improvvisamente il tono
di voce per sottolineare una (spesso finta) passione per un qualche argomento.
Inoltre, il linguaggio più familiare porta ad esempio a rivolgersi ai leader con il nome proprio, a urlare
durante i comizi, così come a dare al linguaggio un forte carattere sentimentale: ad esempio, l’uso
sempre più frequente in politica dei termini “amore” e “invidia”, usati per attaccare i rivali. Termini
sentimentali che poco c’entrano con un dibattito serio. Allo stesso modo , paradossalmente,
proliferano i tecnicismi economici e finanziari, spesso espressi in inglese. D’altra parte, una riforma
fortemente impopolare, se espressa con un termine straniero, per qualche causa misteriosa suona
meno degradante per coloro che la devono subire, e allo stesso tempo sembra moderna e alla moda.
Entrambe queste forme di linguaggio (sentimentalismo e tecnicismo) servono o a nascondere
l’assenza di reali argomenti o a voler nascondere le proprie reali intenzioni. Qualunque delle due sia
in ogni caso è una tendenza deprecabile.
Gli slogan, poi, chiave del successo politico dai tempi del dopoguerra, diventano ogni anno che passa
più banali e più omologati ai valori di una società sostanzialmente consumistica. Si cerca di rendere
la lingua più accattivante anche riferendosi allo sport e ai messaggi della pubblicità.
C’è qualcosa di positivo? Ebbene si. L’Italia, se si caratterizza per una accentuazione di questi
fenomeni negativi che ho elencato, rispetto ad altri paesi europei, dimostra però anche una
straordinaria, e simpatica, creatività linguistica quando si tratta di politica.
Termini come “ribaltone”, “inciucio””, “larghe intese”, “agibilità politica”, “esodati”, “pentastellati”,
dimostrano una grande creatività (sia pure non molto raffinata), così come un sentimento ironico nei
confronti dei problemi che ci colpiscono.
Abbiamo voluto dedicare una parte alla lingua perché, se non è necessario esprimersi con un
linguaggio troppo aulico per fare politica, è però importante mantenere un minimo di autorevolezza,
evitando quello troppo popolare. Questo per salvaguardare il prestigio e l’autorità dello stato, e per
ispirare fiducia ai cittadini.
Un’altra parola, importante per noi, è la parola “università”. Sappiamo quanto l’università può essere
un luogo di formazione di una cittadinanza attiva e consapevole. Del resto, la federazione di cui
facciamo parte rappresentò, durante la dittatura fascista, di fatto l’unica alternativa ai Gruppi
Universitari Fascisti, permettendo a molti giovani che dissentivano di poter mostrare apertamente la
loro non appartenenza al regime. Oggi, tuttavia, rispetto ad allora, c’è da dire che l’università ha
assunto una dimensione “di massa”. Mentre in una classe delle scuole medie degli anni 50 quelli che
una volta cresciuti intraprendevano gli studi universitari si contavano sulle dita di una mano, e non
sempre ce ne erano, oggi in molti casi anche metà della classe può poi intraprendere gli studi superiori.
Questo ha comportato da una parte un maggiore livello di cultura da parte della maggioranza degli
studenti, ma dall’altra ha portato anche in certi casi ad un livellamento e ad una standardizzazione
della formazione, al fine di poterla adattare a tutti gli utenti in gioco. I grandi numeri di studenti, in
particolare, possono pregiudicare un approfondito rapporto tra studenti e docenti, fondamentale
soprattutto nelle materie umanistiche e giuridico – sociali, affinché gli studenti possano comprendere
bene i principi di fondo di queste discipline fondamentali per la compressione del nostro essere
cittadini parte di una comunità politica. Formarsi troppo sui libri e stare troppo poco in contatto con
persone esperte che hanno una visione d’insieme e complessa dell’argomento, può portare molti a
formarsi una cultura “media”, e non successivamente approfondita, e dunque tendente a raggiungere
conclusioni affrettate o parziali, se messa alla prova. Certamente, non vi sono risorse sufficienti per
avere un numero di docenti adeguato a ridurre il numero di studenti per classe, ma resta il fatto che
l’Italia è uno degli ultimi paesi europei nella spesa per l’istruzione. Un confronto con la Francia, ad
esempio, rivela una impietosa voragine di differenza.
Si potrebbero analizzare molte altre parole significative per descrivere quello che potrebbe essere il
ruolo dei cristiani in politica, ma per lo scopo di questa breve relazione, ossia 15 minuti di esposizione,
direi che è possibile fermarsi qui.