della
Periodico della Società Italiana di Farmacologia - fondata nel 1939 - ANNO IV n. 19 – Settembre 2009
Riconosciuto con D.M. del MURST del 02/01/1996 - Iscritta Prefettura di Milano n. 467 pag. 722 vol. 2°
Tra innovazione-etica e storia
Flavia Franconi
Questo numero è leggermente in
ritardo non perché sia in ritardo la
redazione, che anzi lavora moltissimo, ma perché abbiamo voluto avere il privilegio di metterlo nella cartella dei partecipanti del Congresso
Nazionale della Società Italiana di
Farmacologia. Un congresso scientificamente molto vivace e che, come
al solito, richiama l’attenzione di
tutti i farmacologi e non solo, ma
che è anche molto aperto verso il
mondo nello spirito che caratterizza
da un po’ di tempo a questa parte la
nostra società. Come voi tutti sapete
il nostro attuale Presidente, Prof.
Caputi, che proprio al congresso, lascerà la presidenza, ma non la SIF,
almeno speriamo, ha voluto dedicarci un articolo che ripercorre quanto
ha fatto. Personalmente, mi sento in
dovere di ringraziare l’amico Achille, a nome di tutti i lettori dei Quaderni per il sostegno, i suggerimenti, i consigli che sempre ci ha dato.
Parleremo e daremo spazio al prossimo Presidente, Prof. Carlo Riccardi, nel prossimo numero dopo l’insediamento ufficiale.
Questo numero affronta temi di
grande attualità, primo fra tutti l’influenza suina. L’articolo scritto da
uno dei padri della virologia italiana
(Ferdinando Dianzani) cerca, con la
ragionevolezza e la pacatezza del
grande scienziato, di riportare il problema nella sua giusta dimensione sanitaria senza concedere nulla alle
emozioni che il virus ha saputo scatenare e spesso ci domandiamo perché?
Dopo l’influenza l’innovazione farmacologica, un tema sempre affascinante soprattutto se a scriverne ne
sono gli attori di tutti i giorni. In
particolare Giuseppe Recchia svolge
una lezione magistrale su come, in
seguito ad una serie di processi trasformativi, il mercato farmaceutico
subirà profondi mutamenti da “processo di vendita di farmaci” a “processo di fornitura e gestione di risultati di salute a valore aggiunto, ottenuti attraverso la collaborazione
con nuovi e diversi attori della filiera della assistenza farmaceutica in
particolare e sanitaria in generale”.
Evidenziando fra l’altro l’importanza
dei contesti, delle nuove esigenze sanitarie per la sicurezza nell’uso dei
medicamenti che pesantemente influenzeranno le modalità di ricerca e
sviluppo e di commercializzazione
dei farmaci.
Segue poi un articolo del Prof. Caprino e della Dottoressa Civalleri che
ci illustra come valutare l’innovazione, considerando la clinical efficacy
e la clinical effectiveness, per poi
esprimerla in maniera obbiettiva
mediante un valore numerico calcolato con algoritmo decisionale che
considera i diversi elementi che concorrono all’innovatività. L’algoritmo
poi deve essere uno strumento che
consenta di considerare e riconsiderare l’utilità del medicinale per il Sistema Sanitario sulla base dei dati di
efficacia e tollerabilità nella fase di
post-marketing. Gli studi clinici
sono una parte fondamentale della
ricerca e sviluppo di un farmaco e vi
è la necessità, sostiene Vittorio Bertelé, che essi si pongono l’obiettivo
Tra innovazione-etica e storia
(F. Franconi)
1
“Lentamente muore chi evita una passione…”
Lettera del Presidente SIF
(A. P. Caputi)
2
Finalmente abbiamo una pandemia
influenzale: come affrontarla?
(F. Dianzani)
4
FORUM-INNOVAZIONE FARMACOLOGICA
(coordinato da G. Recchia)
8
Innovazione della terapia e sviluppo
dei nuovi farmaci
(G. Recchia, F. Patarnello)
8
Innovation assessment algorithm:
considerazioni e criteri di sviluppo
(L. Caprino, L. Civalleri)
13
Innovazione terapeutica e trial di
non-inferiorità
(V. Bertelé)
15
Estensione brevettuale, efficienza
economica e giustizia sociale
(A. Sassu)
17
Eutanasia e testamento biologico
(G. L. Gessa)
19
Eluana
(U. Nannucci)
21
Bovet, Erspamer e le sostanze naturali
(P. Nencini)
27
Quaderni della SIF (2009) vol. 19 - 1
di un vantaggio per il paziente, tuttavia egli sostiene che non sempre
questo avviene poichè vantaggi minori sostituiscono il vantaggio clinico. Da ciò deriva anche un’importante domanda se la non-inferiorità del
profilo di beneficio-rischio, che garantisce ai nuovi farmaci una fetta di
mercato, offra sicuri vantaggi ai pazienti, in altre parole quanto sono
etici gli studi clinici di non inferiorità.
L’etica è coniugata alla giustizia
sociale nell’articolo di Antonio Sassu, che partendo dall’estensione del
brevetto relativamente al losartan
per gli studi condotti su pazienti pediatrici, si chiede se questo va veramente nell’interesse della collettività
e se l’eticità verso un piccolo gruppo
non provochi una non eticità verso
la società. Per ovviare al dilemma
viene fatta una proposta per salvaguardare gli incentivi alla ricerca in
pediatria, l’innovazione tecnologica
e la giustizia sociale. Riaffrontiamo
ancora una volta le tematiche del
fine vita con un articolo di Ubaldo
Nannucci che esamina magistralmente la questione dal punto di vista
legale e normativo anche in confronto con quanto avviene negli altri
paesi europei. Mentre Gian Luigi
Gessa ne parla a tutto campo in maniera puntuale e precisa.
Infine, Paolo Nencini ci narra in
maniera semplice ed esaustiva la storia di due grandi: Daniel Bovet (Nobel per la medicina e la fisiologia) e
Vittorio Erspamer, lo scopritore della 5-idrossitriptamina o serotonina
che tanto hanno contribuito alla crescita e alla internazionalizzazione
della farmacologia italiana.
■
Lentamente muore chi evita una passione…
Lettera del Presidente SIF
Achille P. Caputi
Cari Soci,
ho iniziato l’8 giugno di due anni
or sono la mia Presidenza, descrivendo la nostra Società con le parole
del Prof. Imbesi come “una famiglia
con una reale uniformità di interessi
scientifici e con spirito di collegiale
amicizia”.
Continuavo parafrasando quanto
aveva detto alcuni giorni prima, proprio al Congresso di Cagliari (magnificamente organizzato dal Prof. Biggio), il Dott. Paolo Diana della FOFI:
“il verbo fare mi piace di più quando
si accompagna all’avverbio insieme”
e terminavo con una celebre affermazione di Machiavelli: “per migliorare bisogna cambiare, ma ogni
cambiamento ha tipi di sostenitori
ed acerrimi oppositori”.
Oggi, a conclusione del mio mandato, nello scrivere questa lettera
non posso fare a meno di chiedermi
se in qualche modo sono stato capace di coniugare gli “interessi scientifici” con il “fare insieme” e con la necessità di “cambiare per migliorare”.
Il primo obiettivo: la
Famiglia dei farmacologi
Una grande famiglia è quella che
rispetta gli anziani ed aiuta i giovani
2 - Quaderni della SIF (2009) vol. 19
a crescere, che li tiene uniti affinchè
i giovani apprendano e gli anziani,
dal confronto con i giovani, rivivano
antiche e nuove emozioni. Le due assemblee del mio mandato (Roma/Cattolica e Bologna) hanno dato
spazio alla voce di tutti e fatto condividere esperienze scientifiche/organizzative dei Maestri: Proff. Preziosi, Paoletti, Gessa, Pepeu (già Presidenti della SIF) e Melchiorri per la
sua lunga e affettuosa militanza con
Erspamer.
I due Seminari di Pontignano, (XII
il 22-25 Settembre 2008 e XIII il 2730 Giugno 2009), sempre eccellentemente organizzati dal Prof. Sgaragli,
hanno continuato a vedere il confronto di giovani dottorandi appassionati, esuberanti ma anche timorosi. Vi hanno partecipato 150 dottorandi nel 2008 ed altri 150 nel 2009,
per il 50% coperti nelle loro spese direttamente dalla Società. Questo
sforzo societario ha cercato di sopperire alla carenza di finanziamenti
statali per i Corsi di Dottorato. Anche in questi due Seminari hanno
trovato spazio alcune novità. Oltre a
presentare i loro poster e comunicazioni orali, i dottorandi hanno potuto conoscere storie personali (quella
di Massimo Di Rosa e di Giancarlo
Pepeu), di vite appassionatamente
dedicate alla ricerca, e approcciarsi
al mondo del lavoro, poiché sono
stati invitati Manager di industrie
farmaceutiche e Direttori di centri di
ricerca per illustrare le loro esperienze, anche in vista di potenziali
opportunità lavorative. È infine stata
creata una sessione nel sito web della Società dove i “Pontignani e le
Pontignane” possono far sentire la
loro voce. Altro è stato fatto per i nostri giovani, ma forse molto di più si
sarebbe potuto fare per la famiglia
“Farmacologia”.
Per vivere e sopravvivere una famiglia ha però bisogno anche di ampliare il proprio numero di componenti e le proprie competenze. A differenza del passato, oggi molte altre
figure professionali si occupano del
farmaco e non possono, in base al
nostro regolamento, accedere alla
Società. Mi riferisco ad esempio ai
farmacisti ospedalieri, agli economisti, agli statistici che si interessano
del farmaco, ecc.. Sarebbe, a mio avviso, opportuno aprire la SIF senza
timori anche a loro, adattando le
“caratteristiche di curriculum scientifico” necessarie fino ad oggi per essere ammessi nella Società.
Il secondo obiettivo:
“Fare insieme”
Il terzo obiettivo: “Per
migliorare bisogna cambiare”
In questi due anni, la Società ha
sviluppato una stretta e proficua collaborazione con l’AIFA, concretizzatasi in due corsi (Roma 3/6/ 2008 e
7/5/2009) di formazione/informazione per i soci componenti dei Comitati Etici e nell’incontro che precederà,
nella mattinata del 14 ottobre, l’inaugurazione del Congresso di Rimini.
La collaborazione con SSFA e SISF
ha portato alla realizzazione del 1° e
2° Forum Nazionale di Chia Laguna,
che ha inserito ancor più la Società
nel dibattito relativo al valore dell’innovatività e dell’utilità terapeutica
dei nuovi farmaci, sulla base dei dati
di ricerca pre-clinica e clinici premarketing. I due Forum hanno anche visto il patrocinio di Assobiotec,
Federchimica e Farmindustria e l’egida di AIFA, altro esempio di “fare
insieme”.
Ed ancora, sempre grazie a Farmindustria, molti soci sono stati premiati e lo saranno ancora all’inaugurazione del Congresso per la loro attività di ricerca.
Assai importante mi sembra la collaborazione con la SIFO, non solo
per quel che riguarda i compiti dei
Comitati Etici, ma soprattutto per i
numerosi corsi ECM congiunti, finalizzati a stimolare una più appropriata prescrizione dei farmaci, anche
dal punto di vista economico.
Molto altro è stato fatto insieme,
come due Simposi sulla Gender
Pharmacology organizzati dalla
Prof.ssa Franconi a Roma e a Sassari,
un Simposio sul ruolo del placebo
nella sperimentazione clinica organizzato dal Prof. Borea a Ferrara, una
pubblicazione, a cura della SIF, del libro “Reazioni avverse a farmaci: sospetto e diagnosi” (editore Cortina e
supporto della Lundbeck), per il quale va un grazie particolare al Prof. De
Ponti, ecc.. Non è necessario continuare questo elenco, perché il nostro
sito web, modificato e migliorato, è
ormai la grande vetrina delle nostre
attività, così come i Quaderni della
SIF lo stanno diventando per il dibattito in corso sull’impatto del farmaco
e della ricerca nel Paese Italia.
Scorrendo il programma del Congresso, si osserva quanta parte di comunicazioni, poster e simposi, sia
dedicata alla Farmacologia clinica.
Potremmo dire che la Farmacologia
di base e quella clinica, tenute spesso separate, si ritrovano in questo
Congresso insieme più che nei precedenti, per affrontare l’intero processo della vita di un farmaco, dalla
biologia molecolare alla sua utilizzazione nell’uomo. Questo Congresso
potrebbe (e a mio giudizio dovrebbe)
consolidare questo matrimonio ed
ancora una volta suggerirci “lavoriamo insieme”.
Oggi, più di ieri, “comunicare” è
sinonimo di “esistere”. Una Società
Scientifica che si interessa di farmaci tanto più esiste quanto più è capace di arrivare e diffondere le proprie
opinioni. È una sua missione sociale!! Il successo di “SIF-farmaci in
evidenza” (grazie Proff. Cerbai e Fantozzi) - e si spera anche della neonata “SIF-farmacogenetica e farmacogenomica” (Grazie Proff. Clementi,
Fornasari e Genazzani!!!) - è stato
forse poco notato all’interno della
Società, ma grazie ad esse la nostra
voce comincia a giungere non solo
alle Istituzioni, ahimè sempre poco
recettive, ma soprattutto ai pazienti
ed agli operatori sanitari.
La SIF ha da sempre un buon rilievo scientifico internazionale. Pharmacological Research ha oggi un IF
di 3,287 (grazie Prof. Visioli!!!). Centinaia sono i lavori scientifici che i
soci pubblicano su riviste straniere,
decine e decine le partecipazioni a
Congressi internazionali, talvolta di
grande rilievo. Eppure, abbiamo
sempre constatato quanto poco ciò
sia servito per dare alla SIF il ruolo
che meriterebbe di avere riconosciuto. Per potenziare questo ruolo, è necessario che la Società, accanto alle
attività consolidate ed alle nuove iniziative, si caratterizzi sempre più anche come “lobby”. È una parola che
fa storcere il naso a molti e che non
piace neanche a me. Ma è una necessità cui non si può derogare, pena “il
non essere considerati”.
Avviandomi alla conclusione, vorrei ancora una volta ritornare sulla
importanza di “lavorare insieme”.
Ho potuto constatare in questi due
anni che ancor molti soci hanno un
atteggiamento poco attivo, partecipativo ed interattivo con il Direttivo,
forse non realizzando ancora che il
futuro della Società dipende da tutti
i suoi membri e che nessun Consiglio Direttivo o Presidente senza il
loro supporto possono farla crescere
ancora. A tal proposito vorrei ringraziare a titolo personale, affinché sia
di esempio a tutti noi (anche per l’età
ormai raggiunta), il socio che, pur
non facendo parte del Direttivo, ha
rappresentato, in questi due anni,
per me un esempio di “fare” soprattutto per gli altri, cioè per la SIF: il
Prof. Giancarlo Pepeu.
In conclusione, non so se ho raggiunto qualcuno degli obiettivi che
mi ero proposto nel discorso dell’8
giugno 2007. Spetterà a voi stabilirlo.
Desidero ringraziare tutti coloro
che mi hanno eletto. Desidero ringraziare il Consiglio Direttivo con
particolar menzione per il Prof. Canonico e desidero ringraziare, ancora una volta, la Dott.ssa Ida Ceserani,
che è come sempre nel passato al
fianco del Presidente e che forse, più
spesso del dovuto, ha tollerato qualche mia insofferenza.
Ed infine voglio esprimere il mio
più sentito ringraziamento ai soci,
giovani non strutturati, il cui entusiasmo per la ricerca di base e clinica
in Farmacologia mi ha fatto sentire
giovane e mi è sempre servito da stimolo nel mio lavoro per la SIF. Mi
auguro che essi realizzino le loro
aspirazioni, perchè come si potrà notare al Congresso, la SIF è una società di giovani ed il più importante
compito del prossimo Presidente, a
mio avviso, dovrà essere quello di
continuare a sostenerli, perchè sono
essi il valore aggiunto di questa Società.
Al neo Presidente Prof. Riccardi, al
prossimo Consiglio Direttivo ed a
tutti i soci vorrei ricordare le parole
di una poetessa brasiliana, Martha
Medeiros, che tutti però erroneamenQuaderni della SIF (2009) vol. 19 - 3
te attribuiscono a Neruda:
“Lentamente muore chi diventa
schiavo dell’abitudine
ripetendo ogni giorno gli stessi
percorsi,
chi non cambia la marcia, chi non
rischia
e chi non cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.
Lentamente muore chi fa della
televisione il suo guru.
Muore lentamente chi evita una
passione,
Chi preferisce il nero su bianco
e i puntini sulle “i” piuttosto che un
insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli
occhi,
quelle che fanno di uno sbadiglio un
sorriso,
quelle che fanno battere il cuore
davanti all’errore e ai sentimenti.”
■
Finalmente abbiamo una pandemia
influenzale: come affrontarla?
Ferdinando Dianzani
Università di Roma “La Sapienza”
Molti si meraviglieranno per questo
“finalmente” nel titolo. Non è solo dovuto al fatto che la aspettavamo da circa vent’anni (l’ultima, da H3N2, si è
verificata circa 40 anni fa, rispetto ai 20
previsti dai “modellisti”). Però il vero
motivo è che, se un evento nocivo è
ineluttabile, e vedremo perché questo
lo è, la migliore speranza è che si verifichi in un momento favorevole, e questo sembra esserlo. Ma vediamo perché. Occorre tuttavia fare alcune premesse.
I virus, parassiti endocellulari obbligati che non possono vivere al di fuori del proprio ospite, tendono ad assumere strategie evolutive che assicurino, per la propria sopravvivenza, anche quella dell’ospite. Per i virus a
DNA, che hanno la possibilità di integrare il loro genoma in quello dell’ospite, la forma di evoluzione forse più
avanzata è quella che consente di stabilire infezioni latenti che assicurino
loro la sopravvivenza e, con ricorrenti
riattivazioni, la possibilità di infettare
nuovi individui per tutta la durata della vita dell’ospite.
I virus ad RNA, salvo i Retrovirus
che possiedono una trascrittasi inversa, non possono seguire questa strada
ed affidano quindi la conquista della
loro sfera ecologica a meccanismi che
consentano loro di stabilire nell’ospite
una interazione che non lo danneggi
sensibilmente e di evadere al tempo
stesso le sue difese immunitarie. Questo processo di adattamento, che si
basa su una elevatissima frequenza di
mutazione e su una energica attività
4 - Quaderni della SIF (2009) vol. 19
replicativa, e quindi ad una rapida selezione del mutante con le caratteristiche più vantaggiose, si esprime nella forma più esaltata nei virus influenzali degli uccelli migratori acquatici, e
in particolare nell’anatra selvatica,
animale nel quale i virus influenzali
hanno mostrato una stasi evolutiva
che non ha comportato sostanziali
cambiamenti almeno negli ultimi 60
anni. Questo adattamento ottimale è
sublimato, oltre che dalla assoluta
mancanza di patogenicità, anche dalla
assunzione della capacità di replicazione nell’apparato enterico che assicura, in questi animali acquatici, una
più facile trasmissione rispetto a quella per via respiratoria. Caratteristica
dei virus influenzali dei mammiferi è
anche una sorta di mimetismo verso il
sistema immunitario dell’ospite che
pone il virus nella possibilità di reinfettare più volte il medesimo individuo evitando così l’esaurimento degli
ospiti sensibili. Ciò è reso possibile da
un lato dal compimento del ciclo replicativo in un distretto dell’organismo in cui prevalgono anticorpi della
classe IgA, meno persistenti e con risposte secondarie più lente; dall’altro
dalla continua selezione di varianti virali in cui mutazioni puntiformi le
rendano meno aggredibili, per difetto
di affinità ed avidità, da parte degli anticorpi preesistenti.
Occorre tuttavia tenere presente
che il processo di adattamento del virus al proprio ospite, e che assicuri la
sopravvivenza di entrambi, può richiedere tempi più o meno lunghi, a
seconda della pressione di selezione
dei mutanti più attenuati, ma che non
è comunque operativo quando un virus adattato ad un ospite si trovi casualmente a infettarne un altro di una
specie differente, operando quello che
viene comunemente chiamato “salto
di specie”. In questi casi è infatti possibile che il virus, trovandosi in un
ambiente completamente nuovo, possa esternare tutto il suo vigore replicativo e provocare gravi danni all’ospite, ed è esattamente ciò che in genere
accade quando i virus influenzali passano dall’anatra al pollo. Per meglio
chiarire questo concetto occorre tenere presente che molti virus, la cui sopravvivenza è legata alla facilità con
cui vengono trasmessi da un individuo ad un altro, non possono rinunciare ad una efficiente attività replicativa, ma non possono nemmeno permettersi che questa crei troppi danni
nell’ospite perché ciò potrebbe interrompere la catena di trasmissione.
Pertanto l’attenuazione avviene in generale con la acquisizione di una
maggiore sensibilità ai meccanismi
difensivi dell’ospite, particolarmente a
quelli aspecifici, come la febbre, l’infiammazione e la produzione di interferon e di altre citochine, che svolgono nell’organismo ospite una funzione analoga a quella che le sbarre di
grafite svolgevano nella pila atomica
di Fermi: controllare la reazione a catena senza interrompere il flusso di
energia. Tuttavia a lungo termine i
rapporti del virus con le difese immunitarie specifiche, in particolare gli
anticorpi, possono diventare problematici. Abbiamo infatti visto come
nell’uomo il virus influenzale si assicuri la possibilità di reinfettare periodicamente il medesimo soggetto attraverso il progressivo accumulo di
mutazioni puntiformi che gli permettano di evadere le azioni degli anticorpi preesistenti, ma è ovvio che ciò non
può proseguire all’infinito ed arriva
fatalmente il momento in cui il virus
può incontrare serie difficoltà a trovare ospiti sensibili. A questo punto,
però con alcuni virus, e in particolare
con gli influenzali, possono intervenire altre strategie adattative, la più importante delle quali è quella di rinnovare periodicamente il corredo antigenico di superficie per ricombinazione
con virus influenzali da altre specie
animali. Ma per comprendere meglio
questi meccanismi conviene addentrarci un po’ sulle caratteristiche
strutturali, biologiche ed epidemiologiche di questi virus.
Caratteristiche biologiche ed
epidemiologiche dei virus
influenzali
Gli ortomixovirus, cui appartengono
i virus influenzali, sono dotati di un
involucro pericapsidico sferoidale costituito da un mantello fosfolipidico in
cui sono inserite glicoproteine virali e
glico-e-lipoproteine derivate dalla
membrana citoplasmatica della cellula
ospite. Le glicoproteine virali sono
contrassegnate con le sigle H ed N,
acronimi rispettivamente di Emagglutinina e Neuraminidasi. La prima costituisce la struttura con cui il virus si
ancora sull’acido sialico della membrana citoplasmatica della cellula ospite, iniziando così l’infezione, e svolge
inoltre una importante funzione nella
liberazione del genoma virale nel citoplasma. La seconda è un enzima capace di risolvere il legame tra emagglutinina e acido sialico ed ha una funzione
importante nell’impedire che il virus
rimanga intrappolato nell’acido sialico
che si trova nel muco che tappezza le
vie respiratorie. Svolge inoltre un ruolo essenziale nel rilasciare le particelle
virali dai grumi che si possono formare durante la liberazione dei virioni di
progenie dalla membrana citoplasmatica della cellula infetta. La faccia interna dell’involucro è formata da due
proteine, M1 e M2, la prima delle quali funge da supporto per i fosfolipidi
dell’involucro e la seconda, che è una
pompa ionica, crea le condizioni per la
liberazione del genoma virale nella
cellula. Questo è costituito da otto segmenti separati di RNA a polarità negativa che codificano le dieci proteine virali note. Ai fini dell’infezione dell’ospite, risultano fondamentali le proteine H, N ed M2. La efficienza della replicazione è invece una funzione delle
proteine PB1, PB2, PA, che formano il
complesso della RNA trascrittasi virale, e NS1 ed NS2, che favoriscono il
trasporto dell’RNA virale dal nucleo al
citoplasma, bloccano la sintesi proteica della cellula ed inibiscono l’azione
dell’interferon.
È stato dimostrato che alcune mutazioni a carico di H, PB2 e NS1, sono
collegate da un aumento significativo
della virulenza. In particolare, nella
maggior parte dei ceppi virulenti,
compreso l’H5N1 aviario e l’N1N1 che
causò la pandemia del 1918, chiamata
spagnola e che provocò almeno 20 milioni di morti, è stato rilevato un aumento degli aminoacidi basici del terminale carbossilico che fa aumentare
il numero dei siti di taglio da parte
delle proteasi dell’ospite. Ne consegue
una maggiore efficienza nel processo
della liberazione del genoma e, forse,
anche la accessibilità da parte di proteasi presenti in distretti differenti da
quello respiratorio e quindi un ampliamento dello spettro d’organo. La
proteina PB2, riconosce il “cap” nel
nucleo della cellula ospite, operazione
essenziale per l’inizio della trascrizione del genoma virale. Dato che nei
ceppi virulenti sono state evidenziate
almeno cinque mutazioni in questa
sede, si presume che esse facciano aumentare l’efficienza replicativa del virus. La proteina NS1 ha la capacità di
inibire la sintesi delle proteine cellulari e di bloccare l’azione dell’interferon
endogeno prodotto durante l’infezione, con il risultato di favorire una
maggiore replicazione del virus ed un
aumento della citopatogenicità. Pare
che una sola mutazione possa essere
sufficiente a produrre questo effetto
ed è stato anche dimostrato che introducendo il frammento genomico ottavo, che codifica NS, di un ceppo attenuato in uno virulento si ottiene una
progenie virale attenuata.
Oltre all’uomo, i virus influenzali
infettano anche altri mammiferi,
come il cavallo, il maiale ed i mammiferi marini, ma è quasi certo che i virus che colpiscono queste specie derivino tutti da ceppi aviari. Sono stati finora identificati 16 sierotipi H e 9 sierotipi N, tutti presenti in varie combinazioni negli uccelli, mentre nel cavallo sono stati identificati 2 sierotipi
H e 2 N, nei mammiferi marini 5 H e
3 N, nell’uomo e nel maiale 3 H e 2 N.
Come abbiamo già visto, nei mammiferi le due glicoproteine subiscono
mutazioni puntiformi che vengono
progressivamente selezionate dalle difese immunitarie dell’ospite (deriva
antigenica o “antigenic drift”) per cui
ad esempio, il virus umano oggi prevalente, l’H3N2, non è quasi più riconoscibile dagli antisieri prodotti dagli
individui che vennero infettati nel
1968, anno della comparsa del virus.
Tuttavia, favoriti dalla molteplicità dei
segmenti genomici, i virus influenzali
possono andare incontro ad un evento
mutazionale molto più drastico, lo
scambio antigenico (o “antigenic
shift”). Esso consiste in una sorta di
“incrocio” tra due virus influenzali
differenti, che si scambino tratti del
proprio genoma, consentendo così la
“creazione” di un nuovo virus influenzale. Perchè ciò accada, occorre che i
due virus influenzali differenti (in genere uno umano ed uno aviario) infettino la medesima cellula, si moltiplichino entrambi, abbiano la possibilità
di scambiarsi tratti di genoma in maniera “mirata” e cioè in modo che il
nuovo virus possegga comunque tutti
e otto i segmenti canonici del genoma, ed infine che il virus ricombinante sia capace di prevalere su quelli
preesistenti ed acquisisca la capacità
di essere trasmesso facilmente da
ospite ad ospite ed iniziare quindi una
nuova epidemia. Se il nuovo virus trova la popolazione totalmente priva di
difese immunitarie acquisite nel corso
di precedenti infezioni, dilaga rapidamente causando una pandemia.
Tuttavia perché questo evento possa
verificarsi è necessario che avvenga
tutta una combinazione di eventi ciascuno dei quali è di per sé molto raro.
Infatti il fenomeno della interferenza
virale, tende ad escludere che una cellula venga infettata contemporaneamente e produttivamente da due virus
Quaderni della SIF (2009) vol. 19 - 5
differenti, come è dimostrato anche
dal fatto che, nonostante da vari anni
circolino contemporaneamente nell’uomo due differenti virus influenzali, A, H3N2 e H1N1, i ricombinanti
H3N1 e H1N2 esistono ma sono molto rari. Inoltre la trasmissione tra uccelli e uomo è resa difficile dalla differente struttura recettoriale dell’acido
sialico, con galattosio 2,3 negli uccelli e galattosio 2,6 nell’uomo.
L’operazione potrebbe essere facilitata dall’intervento di un ospite intermedio, il maiale, che possedendo entrambi i tipi di recettori, può essere infettato, ed infettare, entrambi gli ospiti. Non solo, ma essendo suscettibile
ad una contemporanea infezione da
parte di virus aviari ed umani può fungere da “omogeneizzatore” e produrre
nuovi virus con componenti suine,
aviarie ed umane ed è esattamente ciò
che sembra sia avvenuto con la comparsa del nuovo virus H1N1, che ha
iniziato l’attuale pandemia.
Evoluzione dei virus
influenzali A nell’uomo
Durante il secolo appena trascorso,
sono state documentate tre pandemie
influenzali causate rispettivamente ed
in ordine di successione, dai virus
H1N1, H2N2 e H3N2. L’H1N1, che è
stato recentemente “recuperato” dai
resti di soggetti deceduti ed interrati
in regioni artiche; comparve nel 1918
dando origine ad una pandemia disastrosa, “la spagnola”, che provocò in
circa due anni, anche per l’assenza di
trattamenti adeguati, tra i 20 ed i 40
milioni di morti, con una letalità calcolabile intorno al 5%. L’analisi del
genoma ha portato alla conclusione
che questo virus sia stato interamente
aviario, trasmesso all’uomo quasi certamente dopo un adattamento intermedio nel maiale. Non si può tuttavia
escludere che ci sia stato anche un
processo di ricombinazione tra due
subunità delle proteine H suina ed
umana. Il virus “ricostruito” ha mostrato nel topo una attività replicativa
migliaia di volte superiore a quella
che abitualmente si registra con altri
virus influenzali e questa attività è
forse attribuibile alla conformazione
della proteina polimerasica PB2 ed
alla abbondanza di siti di taglio proteolitico della proteina H. Tra il 1918
6 - Quaderni della SIF (2009) vol. 19
ed il 1919 si sono succeduti tre picchi
epidemici, il secondo dei quali nell’ottobre-dicembre 1918 è stato caratterizzato dalla più alta letalità. Negli
anni successivi le caratteristiche sia
patologiche, sia epidemiologiche, andarono progressivamente attenuandosi assumendo un andamento tipico
della influenza umana “normale”.
Il virus ha circolato nella popolazione umana, presumibilmente fino al
1956-1957, anno in cui si è verificata
una seconda pandemia chiamata
“Asiatica” e causata da un nuovo virus
influenzale A, H2N2. È stato possibile
oggi stabilire che il nuovo virus “umano” è stato frutto di una ricombinazione tra l’H1N1 e l’H2N2 dell’anatra,
dal quale il virus umano ha derivato i
segmenti genici che codificavano la
proteine H, N, e PB1.
Anche in questo caso la comparsa
del nuovo virus assunse un andamento pandemico, con un quadro clinico
piuttosto violento, caratterizzato dall’interessamento dell’apparato respiratorio profondo, ma con una letalità
fortunatamente molto più bassa dell’episodio precedente, verosimilmente
dovuta alla larga disponibilità di antibiotici capaci di controllare le superinfezioni batteriche. Anche in questo
caso la gravità dell’infezione si andò
progressivamente attenuando negli
anni successivi fino al 1968, anno di
comparsa del nuovo virus H3N2
“Hong Kong” che è ancora oggi prevalente. Anche questa volta si trattò di
una ricombinazione tra il virus umano ed un H3N aviario dal quale erano
stati assunti i segmenti H e PB1. La
circolazione del nuovo virus assunse
anche in questo caso un andamento
pandemico, ma con caratteristiche
molto più sfumate, forse perché la popolazione era parzialmente protetta
dagli anticorpi verso la proteina N2
prodotti nelle epidemie precedenti.
È abbastanza singolare o comunque
non facilmente spiegabile, il fatto che
la comparsa di un nuovo virus “pandemico” sia seguita dalla scomparsa
totale del sierotipo preesistente, fenomeno per cui in condizioni “naturali”
la popolazione umana è interessata da
un solo tipo di virus influenzale A alla
volta. Questa regola è stata interrotta
nel 1977, anno in cui è ricomparso
l’H1N1, quasi sicuramente sfuggito da
un laboratorio paramilitare sovietico.
All’inizio il mondo tremò, temendo il
ritorno della spagnola, ma divenne
ben presto evidente che si trattava di
timori eccessivi, dato che il “reduce”
del 1918 ha avuto ed ha ancora una
circolazione modesta caratterizzata
da una notevole mitezza dal punto di
vista patologico. Tuttavia, la contemporanea circolazione di due sierotipi
di virus influenzale A, nella popolazione umana ci ha insegnato quanto i fenomeni di ricombinazione siano infrequenti, o quantomeno, come la selezione dei ricombinanti sia ardua. Infatti, come abbiamo già detto, i ricombinanti H3N1 ed H2N2 sono stati isolati raramente e senza evidenza di trasmissione interumana.
Tuttavia nel 1976, appena prima
della “fuga dell’H1N1 sovietico” era
avvenuto un altro episodio che dovrebbe farci riflettere. Infatti in una
stazione militare del New Jersey, Fort
Dix, si manifestò tra le giovani reclute, una violenta epidemia di influenza
respiratoria, con un caso letale, da cui
fu isolato un nuovo virus, identificato
con H1N1 suino (swH1N1), molto simile a quello che aveva iniziato la
pandemia spagnola del 1918. In poco
tempo i casi tra i soldati risultarono
circa trecento e ciò indusse nelle autorità politiche e sanitarie degli Stati
Uniti una sorta di panico, determinato
dal fatto che la terribile spagnola potesse riaffacciarsi nel paese.
In tempo di record fu preparato un
vaccino che venne somministrato in
fretta e furia a circa 40 milioni di persone. Ci si accorse però ben presto
che: 1) a parte lo sfortunato caso letale, le forme cliniche erano piuttosto
miti; 2) che nessun caso si era verificato al di fuori di Fort Dix; 3) che tra i
vaccinati si erano verificati circa 50
casi di sindrome di Guillain Barrè che,
anche se non attribuibili con certezza
alla vaccinazione, si erano manifestati
in un “cluster” temporale con essa.
Tutto questo fece interrompere immediatamente la somministrazione
del vaccino e la paura della pandemia
venne subito seguita da inevitabili polemiche.
E veniamo ai nostri giorni…
La nuova Pandemia
Verso la seconda metà di marzo
2009, in Messico si cominciarono ad
osservare casi di infezione respiratoria
simil-influenzale che assunsero ben
presto un andamento epidemico in tre
parti del paese, tanto che dopo circa
un mese, erano stati segnalati circa
800 casi con circa 60 esiti mortali. A
proposito di questo ultimo dato occorre subito precisare che in questa
fase la diagnosi era solo di tipo clinico,
tanto che alla fine di aprile solo 18 dei
casi messicani aveva ricevuto una
conferma di laboratorio della eziologia da un nuovo virus di provenienza
suina, H1N1. La situazione cominciò
ad evolvere rapidamente con il passaggio della frontiera con gli Stati
Uniti e con la comparsa in questo paese di 7 casi di mite sindrome influenzale confermati in laboratorio come
dovuti al nuovo virus. Da questo momento l’O.M.S. iniziò a segnalare la
incidenza dei nuovi casi confermati da
H1N1 in tutto il mondo.
I dati indicano che il 1 maggio il virus era comparso in 11 paesi, prevalentemente in soggetti che lo avevano
presumibilmente contratto durante
un viaggio in Messico. Tuttavia la rapida espansione dei casi in vari paesi,
come gli Stati Uniti, il Canada, il Giappone, la Spagna e l’Inghilterra, indicava chiaramente che il virus importato
veniva facilmente trasmesso nella popolazione residente. Ai primi di giugno cominciarono ad essere interessati anche vari paesi dell’America centrale e meridionale e l’Australia. Esistevano pertanto le condizioni per dichiarare aperta la pandemia che però
venne proclamata ufficialmente l’11
giugno. Al momento in cui scrivo, 30
giugno, i casi accertati ammontano a
circa 70.000, in oltre 100 paesi, tra cui
il nostro con circa un centinaio di
casi. La letalità ammonta a 311 casi,
compresi i 60 non confermati riportati dal Messico all’inizio dell’epidemia.
Ma pur includendo questi ultimi, la letalità corrisponderebbe a circa lo
0,4%. È stato tuttavia calcolato che,
data la mitezza dei sintomi che caratterizzano al momento questa infezione, le diagnosi confermate che, ricordiamo sono quelle riportate dall’O.M.S., sarebbero solo da 1/30 ad
1/100 di quelle effettive. Ne consegue
che, sia pure arbitrariamente, possiamo supporre che la letalità sia stata al
massimo dello 0,014%, vale a dire
molto più bassa di quella che si è fino-
ra registrata nelle comuni epidemie
stagionali di influenza. È stato inoltre
calcolato, sempre sulla base di modelli matematici (che non sempre funzionano), che la trasmissibilità del virus,
sia uguale, se non superiore, a quella
dei “vecchi” virus influenzali. Se così
fosse e tutto lo farebbe pensare, pare
che il virus abbia trovato le condizioni
ideali per mantenersi in questa sfera
ecologica, e cioè una prolungata trasmissibilità interumana da parte di pazienti che in discrete condizioni di salute possono, mantenendo una normale vita di relazione, trasmettere facilmente il virus ai propri contatti.
Cosa possiamo aspettarci per
il prossimo futuro?
Nessuno possiede la sfera di cristallo, per cui si può solo speculare su
possibilità soltanto teoriche, sia pure
basate su dati scientifici. Su queste
grava una esperienza pesante, anche
se remota, come quella della epidemia
di spagnola del 1918, che iniziò con
forme miti, ma che assunsero nella seconda ondata stagionale un andamento assai più grave con una letalità di
circa il 5%, prevalentemente in soggetti di giovane età. Molti di quei casi
mortali erano presumibilmente dovuti a superinfezioni batteriche che in
assenza di antibiotici risultarono incontrollabili. Non è tuttavia da escludere che, come sembra accertato che
si sia verificato anche recentemente
nei casi di SARS e di influenza aviaria
da H5N1, vi sia stata alla base anche
una patogenesi di tipo infiammatorio
con una iperproduzione di citochine
di tipo TH1 (IFN gamma, IL2, IL12,
TNF, ecc.) e quindi di tipo immunopatologico. Perché questo sia avvenuto
non è ancora accertato, ma non si possono escludere né la possibilità che
una mutazione del virus possa avere
apportato una modifica, facendogli assumere caratteristiche di superantigene, né che un preesistente ma incompleto stato immunitario dei pazienti
verso il medesimo antigene od uno
correlato abbia generato una risposta
secondaria di insolita violenza.
È infatti poco probabile che la evoluzione del virus abbia selezionato
mutanti per una maggiore virulenza,
cosa che, come abbiamo ripetutamente affermato, porterebbe al virus stes-
so caratteristiche evolutivamente negative. Propendiamo pertanto verso la
seconda ipotesi. Ma che rischi ci sono
che ciò possa verificarsi anche stavolta? Forse lo sapremo presto perché è
presumibile che se ciò dovesse avvenire lo dovremmo vedere anticipatamente nel corso della maggiore
espansione dell’epidemia che dovrebbe verificarsi durante l’inverno che è
oramai alle porte nell’emisfero meridionale.
Nel frattempo cosa fare? Tutti pensano al vaccino, e ciò è corretto su
basi prudenziali. Occorre però tenere
presente che in tempi così ristretti è
impensabile che si possa disporre nella quantità necessaria a proteggere
l’intera popolazione mondiale. Potrebbe pertanto verificarsi il caso che
un’ampia copertura vaccinale in alcuni paesi, che come sappiamo ha una
durata di non più di due tre mesi, possa far trovare la popolazione esposta
alla reintroduzione del virus magari
mutato, proveniente in altri paesi in
cui non si è potuta effettuare la vaccinazione. Ci sembrerebbe quindi più
saggio seguire l’evolversi della situazione lasciando che si infetti il maggior numero di soggetti con il virus
che sta circolando, tenendo conto del
fatto che un’infezione mite come
quella attuale costituisce il miglior
vaccino possibile contro una eventuale accentuazione di patogenicità. Giusto quindi accumulare vaccini ed antivirali ma attendere ad usarli solo
quando ce ne fosse veramente bisogno. Nel frattempo aspettare incrociando le dita, ma con gli occhi bene
aperti anche sul piano diagnostico differenziale, dato che le forme polmonari virali e quelle autoimmuni richiedono interventi terapeutici differenti diversi, antivirali nelle prime ed
antiinfiammatorie nelle seconde.
Chi vivrà vedrà, ma se mi si chiedesse oggi una previsione, nonostante
i miei antenati etruschi maestri nell’arte divinatoria, non saprei cosa rispondere. Scendendo però su un terreno più a me congeniale, quello dei
virus, ritengo che ci sia ampio spazio
per l’ottimismo. Sperando che non
crepi l’astrologo!
■
Quaderni della SIF (2009) vol. 19 - 7
FORUM-INNOVAZIONE
FARMACOLOGICA
Coordinato da Giuseppe Recchia
Innovazione della terapia e sviluppo
dei nuovi farmaci
Giuseppe Recchia e Francesca Patarnello
Direzione Medica & Scientifica GlaxoSmithKline, Verona
Il processo di Ricerca e Sviluppo
(RS) dei farmaci destinati ad essere
immessi in commercio nel corso dei
prossimi 5 anni è influenzato da una
serie di fenomeni di natura non solo
scientifica e tecnologica, ma anche
sanitaria, economica e sociale, quali:
• la scadenza dei brevetti della
maggior parte dei farmaci per il
trattamento delle malattie comuni, che si completerà in grande
parte entro il 2012;
• l’evoluzione scientifica e tecnologica, che ha permesso di comprendere aspetti della patogenesi
di varie malattie e di sviluppare
tecnologie (in particolare le proteine terapeutiche) in grado di
modulare la attività di nuovi target biologici;
• la limitata capacità di trasferimento della conoscenze dall’ambito sperimentale all’ambito applicativo (“Gap Traslazionale”) e,
di conseguenza, la ridotta produttività della RS, soprattutto
nelle organizzazioni farmaceutiche di maggiori dimensioni;
• la limitatezza delle risorse destinate alla assistenza sanitaria rispetto ai bisogni di una popolazione progressivamente più anziana e con maggior carico di malattia, soprattutto cronica e degenerativa, e la conseguente esigenza da parte dei sistemi sanitari di
assicurare sostenibilità ai propri
interventi, in particolare per
8 - Quaderni della SIF (2009) vol. 19
quanto riguarda le tecnologie ad
alto costo, attraverso la valutazione del valore e la assicurazione
della appropriatezza di uso;
• la richiesta, da parte dei cittadini,
di maggiori informazioni sulla
salute e di maggiori garanzie sulla sicurezza e sulla tollerabilità
dei farmaci.
Come risultato di questi fenomeni
trasformativi, è destinato a modificarsi profondamente anche lo stesso
modello di business farmaceutico,
che da processo di vendita di farmaci evolverà verso la fornitura e la gestione di risultati di salute a valore
aggiunto, ottenuti attraverso la collaborazione con nuovi e diversi attori della filiera della assistenza farmaceutica in particolare e sanitaria in
generale (1-3).
Scienza e Tecnologia
Obiettivo primario della ricerca
farmaceutica è divenuta la descrizione dei percorsi molecolari che dalla
causa della malattia (nella gran parte dei casi ancora ignota) conduce ai
segni, ai sintomi ed alla progressione
della malattia, allo scopo di identificare strutture molecolari con ruolo
patogenetico rilevante che possano
divenire bersagli biologici per nuovi
composti. A seconda delle caratteristiche della attività del bersaglio da
modulare, tali composti possono essere rappresentati da proteine tera-
peutiche quali anticorpi monoclonali o vaccini terapeutici oppure da
piccole molecole chimiche (small
molecules).
La ricerca farmacogenomica e farmacogenetica, la ricerca sui processi
dell’invecchiamento e sulle basi immunologiche della autoimmunità
rappresentano alcune tra le maggiori direttrici della ricerca farmaceutica (Tabella 1).
Per innovare la terapia e produrre
efficaci soluzioni terapeutiche la
scienza, ovvero la dimensione della
conoscenza, deve essere coniugata
con la tecnologia, ovvero la dimensione del poter fare.
Le tecnologie con il maggior potenziale innovativo destinate ad essere introdotte nella pratica medica
nel corso dei prossimi 3-5 anni sono
rappresentate da Anticorpi Monoclonali di 2a Generazione, Vaccini Terapeutici, Cellule Staminali, Test Genetici Predittivi (Tabella 2).
Il Valore del Farmaco
Scienza e tecnologia rappresentano condizioni abilitanti per l’innovazione della terapia, ovvero per lo sviluppo di interventi a valore aggiunto
per la soluzione dei problemi di salute – ancora senza risposta – di pazienti e popolazioni. Tali problemi,
definiti dalla Organizzazione Mondiale della Sanità quali “Gap Farmaceutici”, possono essere identificati
Tabella 1 – Ricerca sui processi dell’invecchiamento
La ricerca sull’invecchiamento e sulle possibilità di rallentamento farmacologico di tale processo, allo scopo di prevenire le patologie ad esso associate ed aumentare la sopravvivenza in buona salute, rappresenta una delle più recenti frontiere della ricerca farmacologica. Il rallentamento del processo di invecchiamento attraverso interventi di restrizione calorica, dimostrata a livello sperimentale in
alcune specie di animali inferiori, è stata recentemente confermata nei primati
(4). Approfondendo i meccanismi di tale effetto, sono state identificate alcune proteine con un potenziale ruolo nel determinare il rallentamento del processo di invecchiamento, appartenenti alla famiglia delle Sirtuine.
I primi attivatori di tali proteine, indicati per il trattamento delle manifestazioni cliniche metaboliche e degenerative dell’invecchiamento, sono giunti negli ultimi 12 mesi alla fase di sviluppo clinico esploratorio (5), mentre la dimostrazione del rallentamento del processo di invecchiamento anche in età avanzata è stato recentemente dimostrato nei mammiferi con la Rapamicina (6).
Lo sviluppo di interventi farmacologici indicati per il rallentamento del processo di invecchiamento di provata efficacia comporta una serie di sfide di natura
scientifica, regolatoria, sanitaria e sociale. Non sono ad oggi disponibili, in particolare, strumenti metodologici e tecnologici (modelli di studio, utilizzo dei biomarcatori surrogati del processo di invecchiamento) ed un sistema di regole formali che permettano lo sviluppo di trattamenti per questa finalità, che non rappresenta una malattia e pertanto non costituisce di per sé un’indicazione terapeutica.
In considerazione dello stato della ricerca sull’invecchiamento e dei progressi
fino ad ora raggiunti, le implicazioni di natura etica e sociale e le conseguenze sanitarie derivanti dalla applicazione di interventi per il rallentamento del processo
di invecchiamento di una popolazione richiedono un primo approfondimento anche nel contesto sociale e sanitario italiano.
attraverso la metodologia sviluppata
dalla stessa organizzazione, che ha
indicato i farmaci destinati allo loro
soluzione quali “Farmaci Prioritari”
(8).
Come conseguenza dell’evoluzione dello scenario economico e sanitario, la discussione su utilità, innovazione, valore e terapia è oggi al
centro dell’agenda sanitaria e scientifica dei sistemi sanitari europei.
Se in termini generali l’utilità di
un prodotto dipende dalla possibilità
di soddisfare un bisogno, il valore di
un prodotto è determinato dalla capacità di soddisfarlo in modo migliore – sulla base del giudizio dell’utente – rispetto ad altri aventi la medesima indicazione di uso. Pertanto,
mentre l’utilità può essere intesa
come un concetto assoluto, riferito
al singolo prodotto considerato, il
valore rappresenta un concetto relativo, riferito all’insieme degli interventi utilizzabili per soddisfare il
medesimo bisogno.
Per quanto riguarda il farmaco, il
valore esprime la capacità di soddisfare un bisogno di salute, sanitario
o sociale in modo migliore – secon-
do la prospettiva della parte interessata dal bisogno – rispetto ad altri
prodotti aventi medesima indicazione e caratteristiche di uso. Tale valore viene determinato da una serie di
attributi, ciascuno dei quali può concorrere in modo indipendente oppure sommarsi ad altri nel definire
l’entità del valore, quali il beneficio
clinico incrementale, il costo ed il
prezzo, la sostenibilità e la compatibilità ambientale, la stabilità e la
conservazione, la modalità di distribuzione (9).
Ciascuna determinante del valore
di un farmaco può rappresentare un
obiettivo di sviluppo per un nuovo
prodotto e la disponibilità di incentivi regolatori e/o di mercato permetterebbe di orientare la ricerca e lo
sviluppo di farmaci caratterizzati
dalla presenza di tali attributi del valore.
L’utilizzo di tecnologie innovative
favorisce lo sviluppo, ma non determina necessariamente il valore del
prodotto, del quale ne rappresenta
una premessa o una potenzialità.
Innovazione Terapeutica e
Farmaco
Tra i determinanti del valore di un
farmaco, il beneficio clinico incrementale per il paziente, ovvero il miglioramento relativo nei confronti
della terapia di riferimento delle caratteristiche di efficacia e/o tollerabilità e/o facilità di uso, rappresenta attualmente l’obiettivo primario per
l’indirizzo strategico della RS di
nuovi farmaci.
Nella normativa italiana, il concetto di beneficio clinico incrementale
secondo la prospettiva del paziente è
stato definito come “innovazione terapeutica” nel documento “Criteri
per l’attribuzione del grado di innovazione terapeutica dei nuovi farmaci” pubblicato dalla AIFA - Agenzia Italiana del Farmaco nel 2007
(10).
La dimostrazione della innovazione terapeutica è il risultato della fase
finale dello sviluppo clinico dei nuovi farmaci ed in particolare della progettazione e conduzione degli studi
clinici confirmatori di Fase 3, nel
corso dei quali vengono documentate condizioni che possono essere definite “determinanti” della innovazione terapeutica (Tabella 3).
Tabella 2 - Ricerca farmacologia
sulla cellula staminale
La ricerca sulle cellule staminali
rappresenta una area di nuovo interesse per la RS farmaceutica. Le terapie
basate su cellule staminali coprono
uno spettro molto ampio di opzioni,
tra le quali possono essere incluse piccole molecole o farmaci biologici che
modificano il comportamento o il destino cellulare, terapie basate su cellule staminali adulte che non si integrano a livello tessutale e terapie basate
su cellule staminali embrionali che si
differenziamo nelle cellule bersaglio e
che possono integrarsi nei tessuti.
Le maggiori sfide per lo sviluppo di
applicazioni basate su cellule staminali sono rappresentate dalle modalità
della loro espansione, del loro controllo in vitro prima della loro applicazione in vivo e della loro purezza, per garantire che non siano contaminate da
altre cellule (7).
Quaderni della SIF (2009) vol. 19 - 9
Tabella 3 - Determinanti della Innovazione Terapeutica
• Indicazioni
- bisogno terapeutico assoluto - non
sono disponibili terapie in grado di
assicurare beneficio terapeutico appropriato (paziente con malattie orfane di terapia, paziente con controindicazioni assolute alle terapie
disponibili)
- bisogno terapeutico residuale - il
beneficio terapeutico per il paziente
trattato con le terapie disponibili
non è appropriato (paziente non responder)
- bisogno terapeutico soddisfatto - il
beneficio terapeutico per il paziente
trattato con le terapie disponibili è
appropriato
• Popolazioni
- selezionate in base
a) genotipo
b) fenotipo
- analisi pre-specificate in sottogruppi: selezioni di popolazioni con riposta terapeutica a maggior valore aggiunto
• Confronti
- verso lo standard di cura
- add-on sullo standard di cura
• Variabili da misurare
- endpoint
• processo: efficacia, tollerabilità
• esito: valore
- endpoint
• primari: efficacia, tollerabilità
• secondari: correlati al valore
Tali determinanti sono stati considerati per la costruzione di uno strumento di valutazione della innovatività terapeutica ai fine della determinazione del Prezzo e del Rimborso
(10), nel quale i criteri di giudizio
per l’attribuzione del grado di innovazione terapeutica dei farmaci sono
basati sulla relazione tra il valore terapeutico preesistente all’introduzione nella terapia del nuovo medicinale o della sua nuova indicazione e
la entità dell’effetto terapeutico del
nuovo medicinale o della sua nuova
indicazione, secondo ponderazioni
pre-definite ed in relazione alla indi-
Tabella 4 - Criteri di giudizio per la attribuzione del grado di
innovazione terapeutica dei farmaci
beneficio
incrementale
maggiore
(A)
beneficio
incrementale
moderato
(B)
beneficio
incrementale
minore
(C)
cazione di priorità della malattia per
il sistema sanitario (Tabella 4).
Sebbene ancora in fase iniziale di
sviluppo, la disponibilità di criteri di
giudizio per l’attribuzione del grado
di innovazione terapeutica dei farmaci rappresenta una condizione
importante sia per la valutazione appropriata del valore aggiunto dei farmaci che hanno completato lo sviluppo registrativo che per l’orientamento dello sviluppo clinico dei
nuovi composti sperimentali.
Allo scopo di assicurare la validità e
l’affidabilità dello strumento di valutazione, oggi gravato dal rischio di
scarsa riproducibilità delle valutazioni tra diversi valutatori o in diversi
tempi di valutazione e di limitarne la
discrezionalità nell’uso, è tuttavia
necessario un ulteriore e significativo sviluppo dello strumento, allo scopo di definire in modo preciso i diversi parametri e criteri che concorrono al giudizio e le loro relazioni.
Ciò richiederà ulteriore analisi e ricerca sugli assi dello strumento e
sulle relazioni esistenti tra gli assi
(Tabella 5).
Oltre alla valutazione dei farmaci
ai fini di determinazione del prezzo e
rimborso, questi criteri di giudizio
possono consentire la progettazione
della innovazione terapeutica nello
sviluppo delle nuove tecnologie sanitarie. Tale innovazione terapeutica
sarà tanto maggiore quanto più lo
sviluppo sarà orientato verso:
- indicazioni rappresentate da bisogni assoluti o bisogni residuali;
- popolazioni selezionate fenotipicamente o genotipicamente,
- variabili clinicamente rilevanti;
- confronti basati sull’approccio di
superiorità verso la terapia di riferimento.
Innovazione Terapeutica
Potenziale ed Innovation
Pass
Una delle caratteristiche distintive
del documento “Criteri per l’attribuzione del grado di innovazione terapeutica dei nuovi farmaci” è rappresentata dal concetto di innovazione
potenziale, caratteristica propria di
farmaci caratterizzati da azione su
nuovi bersagli biologici e nuovi mec10 - Quaderni della SIF (2009) vol. 19
Tabella 5 – Aree di possibile approfondimento
Asse del Valore Terapeutico Attuale
Il Valore Terapeutico Attuale è definito sulla base del bisogno terapeutico che
il nuovo medicinale o la sua nuova indicazione deve soddisfare ed è classificato
su 3 livelli (Tabella 4).
Poiché le malattie sono attualmente definite sulla base del fenotipo, mentre i
farmaci agiscono su percorsi molecolari geneticamente determinati, per ogni
malattia possono esservi pazienti con bisogno soddisfatto in modo diverso dalla
medesima terapia e pertanto distribuiti su più livelli. Le percentuali di distribuzione non sono tuttavia sempre disponibili. Le malattie con maggior proporzione di pazienti con bisogno terapeutico non soddisfatto o assoluto rappresentano
Gap Farmaceutici ed i composti necessari alla loro soluzione possono essere
considerati Farmaci Prioritari secondo le indicazione WHO.
Asse dell’Effetto Terapeutico del Farmaco in valutazione
L’effetto terapeutico del nuovo medicinale o della sua nuova indicazione è definito sulla base del confronto con la terapia di riferimento standard ed è classificato secondo 5 livelli, dei quali 3 espliciti e 2 impliciti.
Per una completa definizione di tale asse, nel proseguimento dello sviluppo dello strumento sarà utile approfondire il significato di beneficio clinico e la dimensione quantitativa di maggiore, moderato, minore, la natura delle basi di informazione utilizzabili (risultati di ricerca primaria, ricerca secondaria, altro), il ruolo
degli endpoint primari e secondari, il grado della loro concordanza, il possibile utilizzo delle analisi post-hoc, la natura degli effetti terapeutici (efficacia, tollerabilità,
convenienza) ed in particolare il significato delle misurazioni di qualità della vita
correlata alla salute.
Relazione tra i 2 assi
La relazione tra valore terapeutico preesistente all’introduzione nella terapia
del nuovo medicinale o della sua nuova indicazione ed effetto terapeutico del
nuovo medicinale o della sua nuova indicazione, ovvero il contributo relativo di
ciascun criterio di giudizio sul giudizio finale, dovrebbe essere definita sulla base
di un consenso tra esperti.
Si ritiene utile infine disporre di un manuale d’uso ed effettuare un formale
processo di validazione secondo modalità definite nel manuale dello strumento,
nell’ambito del quale valutare la sensibilità potenziale dello strumento se applicato agli studi in corso con riferimento anche ai diversi contesti e aree terapeutiche.
canismi di azione, per i quali non
sono ancora disponibili adeguate
prove di beneficio clinico incrementale nei confronti dello standard di
cura, come nel caso in cui lo sviluppo sia stato ad esempio basato su
confronti di non-inferiorità od equivalenza verso terapia standard oppure verso placebo in presenza di una
terapia di riferimento. L’ingresso
nella pratica medica, attraverso la
autorizzazione alla immissione in
commercio del nuovo farmaco, rappresenta tuttavia la fase iniziale dello sviluppo del farmaco ed in molti
casi al momento della valutazione ai
fini della rimborsabilità del nuovo
farmaco sono in corso o in fase di avvio nuovi studi, spesso con l’obiettivo di documentare la superiorità di
trattamento verso alternative tera-
peutiche; la decisione di consentire
un periodo di esenzione dalla valutazione finale e di concedere lo status
di innovazione potenziale a tali farmaci rappresenta una condizione
utile, se non necessaria, per consentirne l’ingresso in terapia, lo sviluppo nel mercato ed il successivo sviluppo clinico in grado di verificare le
condizioni di attualità della innovazione terapeutica.
Il criterio di innovazione potenziale, inizialmente proposto in Italia, è
stato successivamente valutato con
attenzione ed interesse dalla agenzie
regolatorie di altri paesi (11).
Nel luglio 2009 l’Office of Life
Sciences del Regno Unito ha pubblicato la propria proposta per “porre
l’innovazione al centro del processo
sanitario”. Come parte di questo mo-
dello, il governo inglese prevede la
introduzione di un “innovation
pass”, ovvero un programma pilota
biennale (2010-11) con un budget di
25 milioni di sterline per rendere disponibili al Sistema Sanitario del Regno Unito specifici e selezionati farmaci con caratteristiche di potenziale innovazione.
Il piano consentirebbe ad un farmaco potenzialmente innovativo di
essere utilizzato per un periodo di 3
anni in assenza di una valutazione
tecnologica favorevole da parte del
NICE – National Institute for Health
and Clinical Excellence - oggi necessaria per il rimborso dei nuovi farmaci da parte del Sistema Sanitario.
Questo periodo di esenzione della
valutazione tecnologica da parte del
NICE della durata di 3 anni dovrebbe
essere utilizzato dalle compagnie
farmaceutiche per produrre ulteriori
dati clinici in grado di documentare
l’innovazione attuale dei farmaci, attraverso studi da realizzare almeno
in parte nel Regno Unito. I criteri di
eleggibilità per l’esenzione dovranno
essere sviluppati ed utilizzati dal
NICE entro i prossimi mesi (12).
Lo sviluppo clinico dei nuovi
farmaci
Il contesto sociale, demografico ed
economico nel quale opera l’industria farmaceutica sta evolvendo rapidamente ed influenza i processi di
RS e di commercializzazione dei
nuovi farmaci da parte della industria farmaceutica.
Le nuove esigenze sanitarie, proprie degli enti pagatori, di terapie caratterizzate da valore aggiunto e le
richieste sociali (espresse dalle decisioni degli enti regolatori quali FDA
ed EMEA) per una maggior sicurezza di uso dei nuovi farmaci stanno
modificando le modalità di progettazione ed esecuzione degli studi clinici di fase 3, nei quali vengono prodotte le informazioni necessarie a
documentare l’efficacia e la tollerabilità ai fini dell’ottenimento della
autorizzazione alla immissione in
commercio del farmaco ed il valore
terapeutico ai fini dell’ottenimento
del prezzo, del rimborso e delle condizioni di prescrizione ed utilizzo in
Quaderni della SIF (2009) vol. 19 - 11
parte a questi criteri, è riportato in
Tabella 6.
rapeutico attuale (ovvero le alternative terapeutiche) sia ridotto ed il
valore aggiunto del nuovo composto possa risultare rilevante;
• prima della valutazione ai fini della rimborsabilità, dopo la fase 3,
quando non è più possibile aumentare il valore intrinseco del farmaco, documentare il valore esistente
e/o integrarlo mediante ricerca secondaria (es. revisioni sistematiche, panel di esperti, sul bisogno di
cure di una determinata popolazione nel proprio contesto sanitario ed organizzativo);
• dopo l’immissione in commercio,
preservare il valore del prodotto e
migliorarne le condizioni di accesso e di utilizzo per i pazienti attraverso attività continua di monitoraggio e ricerca che rendano più
efficienti gli investimenti in salute.
Conclusioni
BIBLIOGRAFIA
Tabella 6. – Sviluppo clinico di fase 3 di Darapladib
Indicazione
• Riduzione del rischio cardiovascolare (morte cardiovascolare, infarto
miocardio acuto non fatale, ictus non fatale e necessità di rivascolarizzazione) in pazienti con documentata malattia cardiovascolare
(SCA/CHD, stroke e arteriopatia periferica)
Popolazione
• Selezionata sulla base del fenotipo
• Circa 30.000 pazienti
• Endpoint Riduzione del numero di eventi MACE (end point composito morte cardiovascolare ed infarto del miocardio)
Disegno
• Event-driven
• Add-on sul miglior trattamento disponibile
• Confronto con placebo
• Superiorità vs Standard di Cura
Durata
• Mediana del trattamento 2,75 anni
grado di condizionare l’accesso del
prodotto al mercato.
Come conseguenza delle richieste
regolatorie sulla documentazione
della sicurezza dei nuovi trattamenti, soprattutto nel caso di interventi
a lungo termine per malattie croniche, le dimensioni del campione
sperimentale e la durata del follow
up sono destinate ad un progressivo
ampliamento e per taluni composti
o classi terapeutiche potrà divenire
necessaria la conduzione di specifici
studi di esito. Nel caso dei farmaci
antidiabetici, ad esempio, la FDA richiede oggi che le compagnie farmaceutiche conducano studi sul rischio cardiovascolare a lungo termine per tutti i farmaci antidiabetici,
indipendentemente dal fatto che siano stati rilevati o meno segnali di rischio cardiaco nei precedenti studi
clinici.
La necessità di documentare il valore aggiunto del farmaco comporta
da parte della RS farmaceutica la necessità di aggiornare sia i disegni dei
nuovi studi, al fine di fornire prove
della innovazione terapeutica rispetto alla terapia standard, che le variabili cliniche utilizzate, allo scopo di
rispondere in modo puntuale alle richieste degli enti pagatori.
Un esempio di sviluppo clinico di
un nuovo prodotto, l’inibitore della
LP-PLA2 Darapladib per la prevenzione degli eventi cardiovascolari
maggiori nel paziente ad alto rischio
cardiovascolare, ispirato almeno in
12 - Quaderni della SIF (2009) vol. 19
L’Italia sta anticipando alcuni
orientamenti di valutazione delle
tecnologie sanitarie destinati ad essere ampiamente diffusi a livello europeo negli anni ’10, attraverso il riferimento esplicito alla innovazione
terapeutica quale “beneficio incrementale per il paziente” ai fini della
definizione di prezzo e rimborso e lo
sviluppo di infrastrutture di valutazione tecnologica. In tale contesto
riassicurare un appropriato livello di
valore aggiunto, inteso come capacità di soddisfare bisogni ed aspettative di pazienti, pagatori e prescrittori in modo incrementale rispetto all’esistente, diviene una esigenza fondamentale per lo sviluppo del farmaco.
Si ritiene pertanto che per documentare in Italia in modo completo
il valore dei nuovi farmaci ed in particolare l’innovazione terapeutica sia
utile:
• prima della fase 3, progettare il valore intervenendo sulle caratteristiche degli studi clinici in relazione
ai criteri di innovazione terapeutica. Tale valore si genera nelle fasi finali di sviluppo clinico, attraverso
studi in grado di documentare il
beneficio incrementale rispetto agli
standard terapeutici, in popolazioni
selezionate nelle quali il valore te-
1. Pharma 2020: The vision - Which path
will you take? PricewaterhouseCoopers
2007.
2. Pharma 2020: Virtual R&D. PricewaterhouseCoopers 2008.
3. Pharma 2020 Marketing the Future.
PricewaterhouseCoopers 2009.
4. Nicholas Wade. Tests Begin on Drugs
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Times. August 18, 2009.
5. Ricki J. Colman, et al. Caloric Restriction Delays Disease Onset and Mortality
in Rhesus Monkeys. Science 325, 201
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6. David E. Harrison et al. Rapamycin fed
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8. Warren Kaplan e Richard Laing. Priority Medicines for Europe and the
World. World Health Organization
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9. Gruppo di Erice, 2009.
10. AIFA - Gruppo di Lavoro sulla Innovatività dei Farmaci. Criteri per l’attribuzione del grado di innovazione terapeutica dei nuovi farmaci ed elementi per la
integrazione del dossier per l’ammissione alla rimborsabilità.
11. C. Le Jeunne. How to assess the relative
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12. Bethan Hughes. Defining innovation.
Nature Reviews Drug Discovery 8:6834, 2009.
Innovation assessment algorithm:
considerazioni e criteri di sviluppo
Luciano Caprino*, Liliana Civalleri**
*Professore Emerito Università di Roma “La Sapienza”
**SIFEIT - Società Italiana per gli Studi di Economia ed Etica sul Farmaco e sugli interventi Terapeutici
Introduzione
Il secolo scorso ha visto lo sviluppo del settore farmaceutico con la
scoperta di numerose molecole farmacologicamente attive, che spesso
hanno rivoluzionato il mondo della
medicina. In una Società evoluta
come la nostra, abituata ad avere a
disposizione una vasta gamma di terapie, sembra ormai inverosimile
che una malattia non possa essere
curata o che possa essere ancora
causa di morte. Fino a qualche decennio fa un nuovo farmaco, purché
ben tollerato e con una certa efficacia, veniva messo in commercio senza che ci si ponesse la domanda di
quanto fosse innovativo. La disponibilità di un numero crescente di medicinali, l’allungamento della vita
media dell’uomo e dell’aspettativa di
vita degli individui hanno comportato un aumento della spesa farmaceutica, sempre meno sostenibile in tutti i Paesi, indipendentemente dalla
loro situazione economica. In Italia
dal 1996 al 2007 la spesa pubblica
per i farmaci è cresciuta ad un tasso
medio annuo del 4,1%. Per questo
motivo il concetto di innovatività è
diventato di grande interesse ed attualità in quanto direttamente collegato alla rimborsabilità e al prezzo
del medicinale. Ma quando si può affermare che un medicinale è innovativo? Se è relativamente facile rispondere per i medicinali che risultano efficaci in malattie rilevanti,
comprese le malattie orfane, per le
quali non esistono terapie, non altrettanto avviene per i medicinali
per i quali sono disponibili farmaci
di confronto. La Comunità Europea
ha cercato di dare una definizione di
medicinale innovativo nel Regolamento n. 726/2004 che istituisce la
procedura di registrazione centralizzata, includendovi i medicinali pro-
dotti tramite biotecnologie, le nuove
sostanze non ancora autorizzate nella CE e rivolte a determinate patologie, i medicinali orfani ed i medicinali che costituiscano un’innovazione sul piano terapeutico, scientifico
o tecnico.
L’Algoritmo di Valutazione dell’Innovatività (INNOVATION ASSESSMENT ALGORITHM: IAA), presentato da L. Caprino e da P. Russo in
occasione del semestre di Presidenza
italiana dell’Unione Europea (2003)
e successivamente pubblicato su
Drug Discovery Today nel 2006, considera l’innovatività di un prodotto
medicinale non come una proprietà
univoca, ma come una combinazione di più proprietà. Il modello che lo
rappresenta è un albero decisionale i
cui rami corrispondono ad altrettante proprietà che caratterizzano l’innovatività. Ad ogni ramo è assegnato
un determinato valore numerico e la
somma dei singoli valori che si ottengono, procedendo nell’algoritmo,
rappresenta il grado di innovazione
di un prodotto medicinale.
L’Algoritmo
L’IAA si articola in due fasi: la prima valuta l’efficacia del medicinale
sulla base degli studi clinici presentati a supporto della domanda di registrazione (IAA-efficacy); la seconda rivaluta il grado di innovazione
sulla base dei dati di efficacia e di sicurezza che derivano dalla pratica
clinica una volta che il medicinale
viene immesso in commercio (IAAeffectiveness).
Per quel che concerne l’IAA-efficacy, l’accesso all’algoritmo può avvenire attraverso tre differenti vie
(radici), che rappresentano altrettanti gradi di innovatività, in ordine
graduale decrescente:
• innovazione terapeutica;
• innovazione comune;
• innovazione industriale.
Percorrendo una qualsiasi di queste vie si arriva a nodi decisionali
successivi, da cui partono più scelte
alternative (rami dell’albero), ognuna associata a coefficienti numerici
progressivamente decrescenti a seconda della posizione del “ramo”.
Per ciascuna radice è previsto uno
sviluppo di primo, secondo e terzo livello e per ogni livello sono previste
più articolazioni o rami. Il primo livello permette di pesare le caratteristiche generali dell’innovazione di
un farmaco. Il punteggio più alto, a
questo primo livello, è conseguito da
una nuova entità chimica (ottenuta
anche tramite biotecnologie) farmacologicamente attiva in malattie per
le quali non esistono alternative terapeutiche. I livelli successivi sono
correlati alle seguenti proprietà:
• meccanismo d’azione del farmaco;
• impatto sociale della malattia;
• tipologia del disegno di studio impiegato nella sperimentazione clinica;
• tipologia degli obiettivi conseguibili nel paziente in termini di guarigione, di controllo della malattia,
di miglioramento della sintomatologia, di migliore tollerabilità del
farmaco o di migliore rapporto rischio-beneficio;
• tipologia dei criteri per la valutazione degli esiti clinici raggiunti:
end-point forti ed end-point surrogati, qualità della vita;
• miglioramento della compliance.
Procedendo nell’algoritmo da sinistra verso destra si completa la valutazione e si raggiunge un valore numerico, che rappresenta la somma
dei coefficienti numerici attribuiti a
ciascun ramo decisionale scelto,
espressione del grado di innovatività
Quaderni della SIF (2009) vol. 19 - 13
850
Punteggio
670
606
530
430
381
380
281
181
131
Ramo
Figura 1
del medicinale in fase pre-registrativa.
Ad esempio, si riporta di seguito il
grafico che mostra la distribuzione
del punteggio finale massimo (in
grigio scuro) e minimo (in grigio
chiaro) assegnato per ciascun ramo
(A-F) nell’IAA-efficacy.
Completata la prima fase è possibile l’accesso alla valutazione del medicinale dopo la sua immissione in
commercio (IAA-effectiveness). Le
proprietà prese in considerazione in
questa seconda fase sono:
• tipologia e scopi degli studi postregistrativi;
• malattia cronica: durata degli studi;
• malattia acuta - subacuta: numero
dei pazienti arruolati;
• tipologia dei criteri per la valutazione degli esiti clinici raggiunti
(end-point forti ed end-point surrogati, qualità della vita);
• tipologia degli obiettivi conseguiti
nel paziente in termini di guarigione, controllo della malattia, miglioramento della sintomatologia,
di migliore tollerabilità del farmaco (migliore rapporto rischio-beneficio);
• criteri di selezione dei pazienti arruolati;
• dimensione degli studi clinici
(multicentrici nazionali o internazionali);
• gravità e frequenza degli effetti avversi registrati dai sistemi di Farmacovigilanza nel contesto di studi di effectiveness.
Anche in questo caso si ottiene un
punteggio che dovrà essere sommato a quello ottenuto nella prima fase.
14 - Quaderni della SIF (2009) vol. 19
La misurazione del grado di innovatività tramite l’IAA può essere facilmente eseguita servendosi di uno
specifico software, scaricabile dal
sito della SIFEIT - Società Italiana
per Studi di Economia ed Etica sul
Farmaco e sugli Interventi Terapeutici (http://www.sifeit.it/IAA.html),
che permette un accesso guidato alla
valutazione del medicinale.
Attualmente l’IAA è in fase di sperimentazione e la SIFEIT, in collaborazione con alcuni esperti dell’industria farmaceutica, sta effettuando
un programma sia di appropriatezza
del sistema, con medicinali già autorizzati in Italia tramite procedure di
registrazione europee, sia di adeguamento all’evoluzione scientifica che
ha portato allo studio e sviluppo di
farmaci biotecnologici e all’introduzione di terapie basate su nuove concezioni, come per esempio la Gene
Therapy. Dalle prime esperienze è
emersa l’opportunità di apportare alcune modifiche, prima fra tutte la rivisitazione su basi statistico-matematiche dei pesi attribuiti ai singoli
rami (proprietà), in modo da evitare
un eventuale appiattimento nei punteggi totali dei rami. Punto critico
dell’algoritmo è la valutazione degli
studi clinici basata essenzialmente
sulla tipologia del disegno, correlata
ad altri parametri come la numerosità dei pazienti, la presenza di un
comparatore etc. Dai dati ottenuti
con alcuni medicinali registrati di
recente è emersa l’esigenza di introdurre delle opzioni che tengano conto della malattia presa in considerazione, in quanto non tutte le tipologie di disegno dello studio sono sem-
pre applicabili. Per esempio uno studio randomizzato in doppio cieco,
generalmente considerato eccellente
e come tale associato al punteggio
più alto per questa proprietà, difficilmente è applicabile per una malattia
rara. Inoltre in caso di molecole appartenenti a classi farmacologiche
note, l’algoritmo deve esprimere un
punteggio di maggiore innovatività,
in presenza di studi clinici di valore
su end points hard, rispetto a nuove
molecole prive di adeguati studi clinici, in quanto basati su end point
surrogati o su trial di non inferiorità.
Conclusioni
L’IAA, integrato secondo quanto
sopra accennato e con altri aggiustamenti di minore importanza, appare
uno strumento valido per la classificazione, ai fini della rimborsabilità e
del prezzo, direttamente correlata al
grado di innovazione del medicinale.
Le sue caratteristiche principali consistono nel:
• vincolare il valore di innovatività
alla determinazione della clinical
efficacy (a livello pre-registrativo)
e della clinical effectiveness (nella
fase di post-marketing);
• esprimere, mediante un valore numerico, il contributo di innovatività di un medicinale. Tale valore è
determinabile sulla base di un algoritmo decisionale capace di
prendere in considerazione i diversi elementi che concorrono all’innovatività. Il criterio risulta quindi
obiettivo e non discrezionale;
• essere adattabile ad un utilizzo sia
ai fini dell’Autorizzazione all’Immissione in Commercio, sia per
una rivalutazione dell’innovatività
del medicinale nel periodo di postmarketing.
L’IAA non rappresenta un modello
rigido per la determinazione del grado di innovatività di un medicinale,
ma deve essere interpretato come
uno strumento di dialogo fra Autorità Regolatoria e Azienda Farmaceutica, ai fini della rimborsabilità e
prezzo di un medicinale, basato su
criteri certi ed obiettivi e che consenta di riconsiderare l’utilità del
medicinale per il Sistema Sanitario
sulla base dei dati di efficacia e tollerabilità nella fase di post-marketing.
BIBLIOGRAFIA
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evaluation algorithm. Drug Discovery
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2. Van Luijn JCF, Gribnau FWJ, Leufkens
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3. Russo P (2007). Misurare l’innovatività
di un farmaco. Care I, 27- 31.
4. Meridiano Sanità: Le coordinate della
salute – Rapporto finale 2008 Ed. Ambrosetti SpA.
■
Innovazione terapeutica e trial
di non-inferiorità
Vittorio Bertelé
Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri”, Milano
Ask an important question, answer
it reliably: è il paradigma semplice ed
essenziale su cui si coniugano le mille
voci della ricerca clinica. (1) Gli studi
clinici devono innanzi tutto porsi ipotesi rilevanti per i pazienti, cioè ipotesi che riflettano la reale incertezza del
clinico di fronte a un bisogno inevaso
del paziente; gli studi clinici devono
inoltre adottare la metodologia adatta
per verificare o rigettare quelle ipotesi
con un sufficiente grado di certezza.
Ipotesi non indirizzata ai
bisogni dei pazienti
La sperimentazione clinica si pone
l’obiettivo di un vantaggio per il paziente; indaga quindi la superiorità di
un trattamento rispetto ad un altro.
Contro questo presupposto fondante
della ricerca clinica si muove la tendenza a realizzare sempre più studi di
non-inferiorità. Ciò che sorprende è
soprattutto il fatto che l’ipotesi alla
base di questi studi in realtà includa
come possibile l’inferiorità del nuovo
trattamento, purché questa sia confinata entro limiti stabiliti che la renderebbero clinicamente accettabile. La
non-inferiorità, insomma, è in realtà
un’inferiorità tollerabile. Tutto questo
in cambio di altri supposti vantaggi.
In assenza di importanti connotati
innovativi - quelli che in sostanza
cambierebbero la storia naturale della
malattia - altre caratteristiche vengono promosse come valori aggiunti di
un nuovo farmaco; tra queste, ad
esempio, la sua capacità di proporsi
come alternativa per i pazienti che tollerano poco o non rispondono ai prodotti disponibili. In questi casi - si so-
stiene - non vi è ragione per definire
meglio il profilo di beneficio-rischio di
un nuovo farmaco: è sufficiente documentare che sia simile ai prodotti esistenti. Non è neppure necessario sapere se un nuovo farmaco dotato di altre
peculiarità innovative, ad esempio
un’attività protratta nel tempo, sia
davvero più efficace. Il suo valore aggiunto - si dice - consiste già nella migliore adesione al trattamento che
certo deriverà dall’unica somministrazione giornaliera; non c’è bisogno di
documentare nulla di più. Lo stesso
vale per una formulazione più comoda: il valore aggiunto sta nella facilità
d’uso. E così via. Vi è una crescente
pressione a far sì che vantaggi minori,
peraltro non necessariamente provati,
surroghino e sostituiscano il vantaggio clinico, la cui documentazione
pertanto non è più ritenuta indispensabile: si dà per scontata (2).
Questo approccio risponde a una logica che esula dall’ambito clinico e
coinvolge unicamente quello commerciale. Difatti: se il target di un
nuovo farmaco sono i pazienti non-responder ai trattamenti disponibili,
perché non si verifica la sua superiorità rispetto ai farmaci poco efficaci in
questo sottogruppo di pazienti? Perché la verifica di questa ipotesi limiterebbe il mercato dei nuovi prodotti a
un sottogruppo di pazienti, rendendo
meno proficua per le aziende farmaceutiche la loro commercializzazione.
Più remunerativo quindi stabilire la
non-inferiorità di questi prodotti nella
popolazione generale dei pazienti.
La ventilata non-inferiorità del profilo di beneficio-rischio rispetto a prodotti già disponibili garantisce ai nuo-
vi farmaci una fetta di mercato e consente loro di competere con altri già
disponibili indipendentemente dal
loro valore rispetto a questi, ma solo
sulla base di peculiarità accessorie o
piccole differenze che si presume, ma
non si prova, offrianno sicuri vantaggi
ai pazienti. Dal punto di vista dell’industria, inoltre, provare la non-inferiorità di nuovi prodotti risulta meno
rischioso che mirare a stabilirne la superiorità. Se il test di superiorità fallisce, il prodotto può derivarne un pesante danno di immagine, anche se
quel risultato in realtà può fornire utili informazioni a medici e pazienti circa la collocazione del nuovo farmaco
nel contesto dei trattamenti esistenti.
Questo è il motivo per cui gli studi di
non-inferiorità sono programmati per
non riconoscere possibili differenze
(che potrebbero inibire al nuovo prodotto l’accesso al mercato) piuttosto
che evidenziarle (cosa che definirebbe
meglio il cosiddetto place in therapy
del nuovo prodotto). Una documentazione di non-inferiorità lascia il prodotto in una sorta di limbo: la sua collocazione tra gli altri trattamenti disponibili non è definita, ma quella sul
mercato è comunque assicurata.
Metodologia non indirizzata
ai bisogni dei pazienti
Oltre al significato complessivo non
indirizzato all’interesse dei pazienti,
gli studi di non-inferiorità generano
perplessità anche dal punto di vista
metodologico.
Un primo problema è rappresentato
dalla scelta del limite di non-inferiorità, che come detto sopra è il grado di
Quaderni della SIF (2009) vol. 19 - 15
inferiorità ritenuto clinicamente accettabile: a volte tale limite è tanto
ampio da dare l’impressione che la ricerca della non-inferiorità sia il pretesto per nascondere differenze che in
realtà ci sono. Lo studio Compass, ad
esempio, considerava il trombolitico
saruplase equivalente alla streptochinasi nel trattamento dell’infarto miocardico acuto anche se nel gruppo con
saruplase si fosse verificato il 50% in
più di decessi rispetto al gruppo di
controllo. In termini assoluti ciò significa considerare saruplase efficace
e sicuro tanto quanto la streptochinasi, anche se ad esempio ogni 1.000 pazienti trattati ci fossero 35 morti in
più rispetto alle 70 attese. Il test di
questa discutibile ipotesi richiese soltanto 3.000 pazienti in un’epoca in cui
verificare la superiorità di attivatori
tessutali del plasminogeno sulla streptochinasi coinvolse oltre 90.000 pazienti in tre grandi studi clinici randomizzati (Gissi 2, Isis 3 e Gusto).
Risultati inattendibili
La scelta di limiti di non-inferiorità
molto ampi rende inattendibili i risultati di questi studi. Questa conclusione è corroborata dal seguente esperimento: l’ipotesi dello studio Compass
è stata applicata al gruppo di controllo del Gissi-1, lo studio che dimostrò
l’efficacia della trombolisi nell’infarto
miocardico acuto, per verificare se,
paradossalmente, fare o non fare
trombolisi nell’immediato post-infarto fosse la stessa cosa. Seguendo i criteri adottati dal Compass, il non fare
trombolisi sarebbe stato ritenuto
equivalente al trattamento con streptochinasi se l’eccesso in mortalità non
fosse stato superiore al 50%, cosa che
è stata puntualmente verificata (3).
Ciò dimostra ancora una volta l’inattendibilità di un test che sulla base di
un risultato ottenuto su 3.000 pazienti può cancellare una delle più consolidate evidenze in medicina, basata su
quasi 30.000 pazienti reclutati in trial
di superiorità, quali Gissi-1 e Isis-2.
Risultati incerti
Oltre all’ipotesi paradossale, l’effettivo risultato di studi come il Compass
destano perplessità per l’ampiezza degli intervalli di confidenza. Talvolta
l’ampiezza degli intervalli è tale che
16 - Quaderni della SIF (2009) vol. 19
ciò che è considerato non inferiore da
un punto di vista statistico può non
esserlo da un punto di vista clinico.
Così se a volte sono inattendibili, i risultati degli studi di non-inferiorità
sono sempre incerti. Quanto più ampio è il limite di non-inferiorità tanto
minore è il campione necessario per
verificare l’ipotesi. E quanto più sottodimensionato è lo studio tanto maggiore è l’incertezza attorno al risultato puntuale del trial. Come spesso documentato dagli intervalli di confidenza, la non-inferiorità dimostrata
potrebbe nascondere un grande vantaggio o un grande svantaggio clinico,
che è comunque colpevole non documentare (4).
Risultati inconcludenti
La stessa incertezza si applica allo
studio Space che mirava a verificare
la non-inferiorità dell’angioplastica
carotidea rispetto all’endoarterectomia. Dato che gli intervalli di confidenza superano il limite prefissato di
non-inferiorità, questa non può dirsi
dimostrata: quindi, formalmente l’angioplastica pare meno efficace dell’endoarterectomia; d’altra parte, paradossalmente, siccome gli intervalli di
confidenza si sovrappongono anche
alla linea che indica la parità dei trattamenti, questi non possono dirsi diversi, almeno dal punto di vista statistico. Situazione analoga si è registrata nello studio Profess, che mirava a
riesumare un vecchio trattamento
(aspirina e dipiridamolo, in versione a
lento rilascio), dimostrandone la noninferiorità nella prevenzione dell’ictus rispetto al clopidogrel in scadenza di brevetto. Anche in questo
caso i criteri di non-inferiorità non
sono stai soddisfatti, nonostante l’incidenza di ictus ricorrenti nei due
gruppi di trattamento a confronto
fosse assolutamente sovrapponibile.
Tutto ciò è davvero sorprendente:
l’incapacità di provare la non-inferiorità di un trattamento, che peraltro si
dimostra sostanzialmente efficace
quanto il controllo di riferimento, sta
a significare che gli studi di non-inferiorità riescono a tradire perfino lo
scopo che si propongono. Studi disegnati per scotomizzare differenze esistenti finiscono per vedere quelle inesistenti.
Risultati incoerenti
Ma il risultato peggiore per un trial
di non-inferiorità è quello rappresentato dal cosiddetto black scenario, in
cui il trattamento sperimentale, pur
dimostrandosi statisticamente peggiore del controllo, risulta ancora noninferiore a questo. È questo il caso
dell’esercizio descritto sopra a proposito del gruppo di controllo del Gissi1 cui si è applicata l’ipotesi dello studio Compass. Quando invece di sottogruppi con le stesse caratteristiche cliniche e le stesse dimensioni del Compass si valuti la popolazione complessiva del Gissi, si nota che, come ovvio
attendersi, gli intervalli di confidenza
non si sovrappongono alla linea che
indica la parità tra i trattamenti, a dimostrazione del fatto che il fare o non
fare trombolisi nel post-infarto comporta un esito clinico diverso, a vantaggio ovviamente di chi viene trattato con streptochinasi. Ma, come accadeva nei sottogruppi delle stesse dimensioni del Compass, a maggior ragione nella popolazione generale del
Gissi gli intervalli di confidenza rimangono entro i limiti di equivalenza,
indicando che paradossalmente nello
stesso esperimento clinico un trattamento che è provatamente peggiore
può essere, ciò nonostante, considerato non-inferiore. Ciò qualifica gli studi di non-inferiorità come intrinsecamente incoerenti.
Non eticità degli studi di
non-inferiorità
L’incapacità dei trial di non-inferiorità di offrire risposte valide e certe aggrava i dubbi sulla consistenza etica di
questi studi, dubbi sollevati già dall’ipotesi che li genera. Gli studi di noninferiorità sono privi di giustificazione
etica perché non offrono nessun vantaggio ai pazienti, attuali o futuri. Essi
deliberatamente rinunciano a considerare l’interesse dei pazienti a favore
di quelli commerciali. Questo tradisce
il sostanziale accordo che si stabilisce
tra pazienti e ricercatori in qualsiasi
corretto consenso informato, che presenta la randomizzazione come unica
soluzione etica per dare risposta ad
una reale incertezza clinica. Gli studi
di non-inferiorità mirano solo a millantare una qualche efficacia, senza
fornire prove definitive di essa. Pochi
pazienti acconsentirebbero a parteci-
pare allo studio se il messaggio che ne
chiede il consenso informato fosse posto chiaramente: perché un paziente
dovrebbe accettare un trattamento
che nella migliore delle ipotesi non è
peggiore, ma in realtà potrebbe essere
meno efficace o sicuro di quelli disponibili? Perché i pazienti dovrebbero
partecipare a un test randomizzato
che offrirà loro solo risposte dubbie
dal momento che la non-inferiorità
include la possibilità di un esito peggiore? (5)
Conclusioni
Gli studi di non-inferiorità disattendono entrambe le indicazioni che servono da guida per disegnare buoni
studi clinici, ovvero “poni una domanda importante; e dà ad essa una risposta metodologicamente affidabile”. La
domanda importante è quella vera per
il paziente, cioè quella che affronta un
problema clinico reale. Ma uno studio
pianificato per verificare se un farmaco è “non peggiore” rispetto ai trattamenti standard, senza nessun interesse per alcun valore aggiunto, non
pone alcuna domanda clinicamente
rilevante. Tale studio riduce solo i costi di ricerca e sviluppo del prodotto e
i rischi per la sua immagine commerciale, senza curarsi dell’interesse dei
pazienti. La randomizzazione non dovrebbe neppure essere consentita in
una tale situazione, perché non è etico affidare al caso la possibilità che un
paziente riceva un trattamento che
nella migliore delle ipotesi è uguale a
quello che comunque avrebbe ricevuto, ma potrebbe anche ridurre gran
parte dei vantaggi che in precedenza
gli erano assicurati dai trattamenti
correnti.
Riguardo all’affidabilità dell’approccio metodologico e quindi della risposta, l’incertezza che circonda la conclusione di non-inferiorità è difficile
da accettare: per quanto piccolo, l’aumento del rischio relativo comporta
inevitabilmente un inaccettabile eccesso di eventi avversi nella popolazione dei pazienti. A volte il rischio può
risultare significativamente più alto
nel gruppo sottoposto al trattamento
sperimentale, senza che tutto ciò riesca a smentire la non-inferiorità di
tale trattamento. È pertanto chiaramente non etico esporre pazienti a
tale rischio sia nella fase sperimentale,
sia nella realtà quotidiana senza la
prospettiva di alcun vantaggio in cambio.
BIBLIOGRAFIA
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need some large, simple randomized
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can research ethics committees protect
patients better? BMJ 2003; 326: 11991201.
■
Estensione brevettuale, efficienza
economica e giustizia sociale
Antonio Sassu
Dipartimento Ricerche Economiche e Sociali - Università di Cagliari
Come arrivare all’equità della cura
della salute, anche attraverso il necessario controllo della spesa, se vogliamo conservare il sistema sanitario universale? Una domanda simile
è sempre giustificata, ma lo è maggiormente ora che il deficit pubblico
aumenta e supera di gran lunga il parametro del 3% previsto dal trattato
di Maastricht e che molte regioni rischiano il commissariamento del sistema sanitario per gli oneri che sostengono e per gli sprechi che creano. Il quesito sorge spontaneo alla
luce del comportamento (peraltro
dovuto) delle autorità italiane che,
dando seguito agli adempimenti di
legge, hanno prolungato di sei mesi
la scadenza del principio attivo Lo-
sartan. Infatti, con provvedimento
UPC/II/443 del 16 giugno 2009, pubblicato nel Supplemento della Gazzetta Ufficiale del 20.7.2009, è stato
prorogato di sei mesi il brevetto che
era stato concesso a suo tempo per il
Losartan indicato per l’ipertensione
e per l’insufficienza cardiaca. Più
precisamente e per capire meglio di
che si tratta, è stata autorizzata la
proroga dell’immissione in commercio dei farmaci Lortaan, Losaprex e
Neo Lotan (in qualche modo legati
alla Merck Sharp & Dohme Italia,
SpA) in confezioni in compresse: da
12,5 mg, da 50 mg, e da 100 mg, ora
prescritte anche per l’ipertensione
dei bambini di età compresa tra i 6 e
i 16 anni. L’autorizzazione è confor-
me a tutte le misure contenute nel
piano di indagine pediatrica approvato P/9/2008 e tutti gli studi sono stati completati dopo l’entrata in vigore
del Regolamento (CE) N.1901/2006,
come previsto all’art. 45 di quest’ultimo provvedimento. La legislazione
europea che è stata applicata in questo caso aveva lo scopo encomiabile
di incoraggiare la ricerca farmacologica in pediatria, un’area in cui l’uso
dei farmaci off label era ed è massivo,
quindi giusta, a nostro parere, anche
dal punto di vista etico.
Si sa che l’istituto del brevetto è
importante perché, nonostante i
grandi limiti che esso presenta, permette una crescita della conoscenza
e del progresso tecnologico. IncentiQuaderni della SIF (2009) vol. 19 - 17
va le invenzioni, specialmente nel
campo della medicina e della farmaceutica, assicurando all’inventore il
recupero delle spese e un premio in
profitti per un periodo di tempo relativamente lungo (in questo caso venti anni). Quindi, benché ci siano
molte controindicazioni, siamo in
prima linea a difendere l’istituto del
brevetto e ciò che ne consegue per la
scienza. Riteniamo che, almeno in
questi settori, in crescita nonostante
la crisi, l’interesse pubblico sia maggiore dello svantaggio che ne deriverebbe dall’assenza di regolamentazione.
Tuttavia, tale atto di proroga, ripetiamo, del tutto legittimo e corretto
dal punto di vista giuridico, costa
allo Stato italiano ben 27 milioni di
euro, perché, in sua assenza, sarebbero entrati in commercio i farmaci
equivalenti. Ora c’è un aspetto che è
da un pezzo sotto gli occhi di tutti.
L’Italia è il paese dell’Unione Europea in cui i farmaci equivalenti sono
poco diffusi. Di fronte a paesi come la
Francia, la Germania e l’Olanda (per
non parlare di paesi nordici come la
Danimarca), in cui il mercato dei farmaci equivalenti è ampio, l’Italia ha
un corrispondente mercato estremamente limitato e il valore è di poco
superiore al 5% del mercato dei farmaci. Ciò è a detrimento di tutti i
consumatori e scarsamente efficiente per quanto riguarda l’economia
che potrebbe invece godere di una
maggiore concorrenza. Ci sono motivi culturali e sociali che influiscono, ma gli elementi giuridici e politici svolgono un ruolo molto importante. È per questo che ogni occasio-
18 - Quaderni della SIF (2009) vol. 19
ne che si presenta può essere buona
per estendere questo mercato che ha
una importanza determinante per il
SSN e per la comunità dei cittadiniconsumatori. Soprattutto questo
aspetto ci sembra sia rilevante per
raggiungere il livello di civiltà dei
paesi più avanzati.
Ora ci si può chiedere: era questo il
comportamento più corretto da un
punto di vista etico e da un punto di
vista strettamente economico, considerato anche il momento in cui ci
troviamo? Era possibile salvaguardare contemporaneamente l’esigenza
del progresso della scienza e, in particolare, di quella pediatrica, con gli
interessi della comunità nazionale?
Noi riteniamo che vi siano elementi
per discutere e vi sottoponiamo qualche considerazione.
Vediamo, comunque, cosa è possibile prevedere per il periodo di proroga del brevetto, in particolare,
come è articolato il valore della spesa che potrà essere effettuata nei
prossimi sei mesi. Intanto possiamo
costruire la seguente Tabella 1 del
mercato del Losartan semplice.
Si può dire che i sartani (nella forma di medicinali semplici e associati) rappresentano la prima voce di
spesa del SSN (fonte: Ims-Health
2009). Già di per sé, pertanto, estendere con una proroga (come è stato
fatto) la copertura brevettuale a questi medicinali corrisponde automaticamente alla rinuncia al risparmio
da parte del governo.
Complessivamente possiamo dire
che la spesa relativa al Losartan è di
circa 106 milioni e, sulla base delle
simulazioni, fatte tenendo conto dei
trend di crescita del consumo della
molecola, quella prevista per il prossimo anno mobile, il 2009 e il 2010,
è di 108 milioni di euro. Ne consegue
che la spesa che ne può derivare per
i sei mesi di proroga, cioè per il periodo settembre 2009 e febbraio
2010, è di 54 milioni di euro. Su questo valore è possibile calcolare il risparmio mancato in seguito alla proroga brevettuale. Se il prezzo del corrispondente farmaco equivalente, in
mancanza di una proroga brevettuale, fosse il 50% di quello branded attuale (come sembrerebbe, sulla base
della contrattazione avvenuta), il risparmio stimabile per il SSN sarebbe
di circa 27 milioni di euro da distribuire in diverse proporzioni fra le
confezioni in commercio.
Stando così le cose, fermo rimanendo che formalmente non si poteva fare altrimenti, solleviamo il problema e sottoponiamo al dibattito la
nostra riflessione. Raggiunto il limite del periodo brevettuale, identico
comunque per tutti i paesi dell’UE e
dell’European Patent Office, l’atteggiamento successivo nei singoli paesi può variare a seconda delle condizioni della concorrenza. Essendo
questo tema, competenza esclusiva
della Commissione, essa può anche
assumere provvedimenti che permettano di conseguire, almeno nel
medio o lungo periodo, un obiettivo
comune nel mercato dei farmaci
equivalenti. Per esempio, l’estensione di questo mercato almeno fino al
30%. Da questo punto di vista, riteniamo giustificato, cioè, eticamente
giusto e economicamente conveniente, l’uso brevettuale del Losartan
in pediatria dopo sperimentazione
clinica appropriata. Esso garantirebbe l’impresa innovatrice che sostiene
le relative spese (il numero di pazienti in età pediatrica è piuttosto
esiguo) per un compito che anche la
comunità condividerebbe. Anzi, in
generale, crediamo che un simile
provvedimento possa essere prolungato nel tempo perché possa dare un
certo rendimento ed esteso ad altre
classi di medicinali. Non riteniamo,
invece, altrettanto giustificata l’estensione brevettuale per il farmaco
di largo uso e ciò, a nostro avviso,
perché pone non solo un problema
economico per lo Stato (e quindi per
la comunità), ma anche di giustizia
sociale e di democrazia. Di giustizia
sociale in quanto la spesa del SSN è
pagata con criteri regressivi da tutti i
cittadini. Si sa che i cittadini hanno
capacità di reddito differenti, benché
tutti contribuiscano al bilancio pubblico da cui attinge la sanità. Oggi i
poveri non pagano quel medicinale,
alla stregua dei ricchi, ma contribuiscono con il prelievo fiscale a pagare
il medicinale a questi ultimi. I benefici affluiscono prevalentemente agli
individui con i redditi più alti. Se la
spesa fosse minore anche il loro contributo diminuirebbe e l’impatto redistributivo sarebbe favorevole alle
classi di reddito meno elevate. Quindi, si pagherebbe in misura minore,
seppure ancora con criteri regressivi.
È, inoltre, un problema di democrazia perché non ci sarebbero limiti
alla produzione da parte di altre imprese che potrebbero entrare nel
mercato e allargare l’ambito delle
opportunità per tutti.
Infine, ci sarebbero effetti anche
sugli altri farmaci equivalenti già disponibili sul mercato e la collettività
beneficerebbe di alternative diverse
avvicinandoci alle condizioni delle
società più avanzate economicamente e socialmente. I vantaggi sociali
sarebbero superiori ai costi e la funzione del benessere sociale si sposterebbe verso l’alto.
In sintesi si può dire, cosa peraltro
già nota, che vi sono vari motivi per
cui in Italia i farmaci equivalenti
sono poco diffusi. Uno di questi è,
come in parte è stato detto, l’atteggiamento della classe politica. Il
comportamento dell’impresa branded o, messo in altre parole, la sua
possibilità di sfruttare le occasioni
offerte dalla legge e la sua resistenza
alla introduzione di prodotti equivalenti, è abbastanza naturale e non c’è
da scandalizzarsi. Diverso, invece,
deve essere l’atteggiamento della
classe politica che, oltre al principio
del risparmio e dell’efficienza, ha un
problema etico come quello dell’in-
teresse della collettività. Sono in discussione i temi di giustizia sociale e
di affermazione graduale del mercato
dei farmaci equivalenti, a cui la classe politica dovrebbe essere sensibile
dal punto di vista etico e civile. La società nel suo complesso starebbe meglio in tanti sensi. È chiaro che per lo
svolgimento di questo compito il
ruolo dell’UE è cruciale sia per le sue
prerogative, sia per la responsabilità
di una politica comune verso tutti i
paesi dell’Unione.
Anche le associazioni dei consumatori e, comunque, i cittadini più avvertiti, non hanno fatto nulla al riguardo di questo provvedimento, almeno ci sembra. Noi subiamo passivamente e rinunciamo a combattere
i privilegi che si realizzano talvolta
anche inconsapevolmente o per raggiungere obiettivi comunemente
condivisi. Un movimento di opinione
che si faccia sentire sarebbe di grande aiuto per tutti.
■
Eutanasia e testamento biologico
Gian Luigi Gessa
Professore Emerito, Università di Cagliari
Nei confronti dei grandi temi della
vita e della morte alcuni hanno una visione quantomeno paradossale.
Si indignano e si commuovono per
la morte di un embrione più che per
una donna incinta che annega nel
mare di Lampedusa, protestano perché qualcuno vuole interrompere
“l’idratazione” di un paziente in
coma da diciassette anni, ma negano
l’acqua ai disperati di un barcone in
mezzo al mare, godono nel vedere
uccidere, ferire e torturare al cinema
e alla televisione, sono favorevoli a
inviare giovani a morire in guerra,
ma inorridiscono all’idea che si possa
offrire aiuto ad un malato terminale
che implora di morire con dignità
senza soffrire.
Quest’atto caritatevole è proibito, si
chiama eutanasia.
In Olanda la legge sull’eutanasia è
in vigore dal 1973, codifica in maniera severissima le eccezionali condizioni per le quali è permessa, soddisfa
una media di 9.000 richieste all’anno,
è ammessa esclusivamente per gli
olandesi per evitare un eventuale turismo “necrologico”.
In Italia l’eutanasia viene praticata
in modo clandestino, con l’accordo
del paziente, dei familiari, del medico
anestesista.
Perché l’idea di una legge sull’eutanasia fa tanta paura e qual è il rapporto tra eutanasia e il testamento
biologico?
Eutanasia e testamento biologico
riguardano due diverse tipologie di
malati terminali, l’eutanasia quei malati terminali che chiedono di essere
aiutati a morire senza soffrire, il testamento biologico quelli che non
sono in grado di comunicare le loro
volontà sui trattamenti sanitari sulla
loro persona.
Ma, come vedremo, nella vita reale
i due concetti non sono sempre separabili.
Testamento biologico
La costituzione italiana stabilisce
che nessun trattamento sanitario
possa essere attivato a prescindere
dal consenso da parte del soggetto
che lo richiede. Non ho sufficiente
competenza giuridica, ma suppongo
che la legge dia al soggetto anche il
diritto di interrompere in qualsiasi
momento un trattamento sanitario
quando questo diventi insopportabile, cosicché un paziente tetraplegico
come Welby abbia il diritto di chiedere ai medici di interrompere la somministrazione di farmaci, le trasfusioQuaderni della SIF (2009) vol. 19 - 19
ni di sangue, l’alimentazione, l’idratazione e la respirazione assistita.
Tuttavia egli non ha il diritto di pretendere che la sua morte sia rapida e
indolore.
Ma il disegno di legge appena approvato al Senato sulla dichiarazione
anticipata di trattamento, nota come
testamento biologico, non riguarda
questi pazienti che sono in grado di
esprimere il loro consenso a qualsiasi
trattamento sanitario sulla loro persona, ma quei pazienti non coscienti
incapaci di intendere e volere.
Gli esempi più noti di questi pazienti sono Terri Schiavo e Eluana
Englaro, in coma irreversibile da più
di 15 anni.
La comunità scientifica internazionale concorda nel ritenere irreversibile un coma che duri da almeno dodici mesi e ritiene che dopo tale periodo le probabilità di risveglio siano
pressoché nulle. Tuttavia la medicina
moderna dispone di straordinari presidi tecnologici capaci di prolungare
l’esistenza di questi soggetti per anni
e decenni, contro ogni legge della natura. In verità questi straordinari
mezzi mantengono in funzione il
cuore, il respiro, il fegato, il rene,
l’intestino, ma purtroppo non sono in
grado di riattivare quelle parti del
cervello distrutte da un trauma o da
una malattia nelle quali si producono
le sensazioni, le emozioni, i sentimenti, l’intelligenza, tutte quelle attività che caratterizzano la personalità di un uomo. I pazienti in coma irreversibile non sentono né il piacere,
né il dolore e pertanto non chiedono
né desiderano di essere aiutati a morire. Tuttavia può succedere che qualcuno di coloro che li assistono, dopo
anni di attenzioni, cure, sacrifici e di
consapevolezza che non ci sarà miglioramento in futuro, non sia più capace di tollerare quella condizione di
non vita del proprio caro, né del proprio inutile sacrificio. Può succedere
che la moglie, il marito, il fratello o
l’amico del paziente in coma chieda
ai medici di interrompere quei trattamenti sanitari che lo tengono artificialmente in vita vegetativa.
Come ho detto, non sono esperto di
legge, ma ritengo che chiunque venisse incontro a quella richiesta sarebbe accusato di omicidio e pertanto
20 - Quaderni della SIF (2009) vol. 19
è ragionevole che nessun medico voglia correre questo rischio.
La legge sul testamento biologico
avrebbe dovuto permettere al paziente di esprimere il proprio consenso o
dissenso sui trattamenti sanitari, proprio come per i soggetti coscienti, attraverso un testamento redatto anticipatamente quando il soggetto è in
grado di intendere e di volere.
Negli Stati Uniti, il modulo per la
compilazione del living will e l’incarico ad un fiduciario per la salute si
possono acquistare alla Hemlock,
l’associazione americana per l’eutanasia, per tre dollari più cinquanta
centesimi di spese postali.
Mentre il padre di Eluana Englaro
non ha chiesto l’eutanasia per la figlia,
ma solo di sospendere i sostegni vitali,
alimentazione e idratazione; è probabile invece che la madre, il fratello o
l’amico di altri pazienti in coma non
siano convinti, a differenza dei medici,
che morire per inanizione sia privo di
sofferenze e, pertanto, è probabile che
sommessamente chiedano che al loro
caro venga offerta una morte rapida e
indolore e venga risparmiata una agonia che può durare anche molti giorni.
Ma questo atto ragionevole e caritatevole, in Italia, non è lecito e non lo
sarà per molto tempo, perché la legge
approvata al Senato sul testamento
biologico prevede che le volontà
espresse dal soggetto non siano prese
in considerazione dal medico curante
se le indicazioni sono orientate a cagionare la morte del paziente. Inoltre
il medico italiano non è tenuto a porre in essere prestazioni contrarie alle
sue convinzioni di carattere scientifico e deontologico.
Eutanasia
A differenza dei malati incoscienti,
senza voce, ci sono dei malati terminali che implorano di ricevere una
morte veloce e indolore, l’eutanasia.
Una parola censurata ed esorcizzata
per ipocrisia, paura o opportunismo
politico.
Coloro che vi si oppongono argomentano, tra l’altro, che i medici dispongono oggi di farmaci efficaci nel
lenire o sopprimere tutte le sofferenze
del malato terminale e giustamente
obiettano che, se questi farmaci venis-
sero somministrati in dosi adeguate,
nessuno chiederebbe di essere aiutato
a morire. Pertanto una legge che regolamentasse l’aiuto a morire al malato terminale non sarebbe giustificata
perché riguarderebbe poche eccezioni, casi limite, mentre i pericoli di un
suo uso inappropriato sarebbero imprevedibili. È vero, nella stragrande
maggioranza dei casi, i medici riescono a sopprimere il dolore o la sofferenza nei malati terminali. Ma c’è una
piccola percentuale di questi malati ai
quali i farmaci non riescono a togliere
il dolore, il senso di soffocamento, la
nausea e il vomito incoercibile, la sete
insopprimibile, il prurito urente che
toglie il sonno, le piaghe da decubito,
l’incontinenza che degrada la dignità
della persona ecc.
Quando uno o più di questi sintomi
persiste e diviene intollerabile è ragionevole che quel paziente, colpito
da un male incurabile, che è già depresso all’idea di dover morire, di lasciare i progetti incompiuti, difendere le sue cose materiali, ed è terrorizzato che la sua condizione peggiorerà
prima della fine, è ragionevole, ripeto, che quel paziente implori di essere aiutato a morire.
Le dotte disquisizioni sulla sacralità della vita riguardano la “vita” di
questi infelici.
I cattolici ritengono che Dio sia il
padrone della nostra esistenza e non
sia lecito nemmeno al padrone del
proprio corpo mettere fine ad essa.
Il problema è che alcuni cattolici,
fisicamente in buona salute, come la
senatrice Paola Binetti e il senatore
Carlo Giovanardi, vogliono imporre
le loro certezze a quei malati terminali che non credono in Dio.
Alcuni laici (non credenti o credenti) generosamente concedono che, se
qualcuno vuole proprio suicidarsi, lo
faccia pure, è un atto lecito, ma non
chieda l’aiuto di altri, tanto meno del
medico che ha prestato il giuramento
di Ippocrate e la cui missione è di aiutare a guarire, non a morire. Ma se
certi riescono a togliersi la vita senza
l’aiuto di nessuno, altri non possono
farlo senza che qualcuno li assista
Pensate a quei vecchi malati terminali completamente soli perché sopravvissuti ai propri cari, parenti e
amici, o ai malati tetraplegici come
Luca Coscioni, Piergiorgio Welby,
Giovanni Nuvoli e Paolo Ravasin, arrivati alla fase terminale di una malattia
inesorabile chiamata sclerosi laterale
amiotrofica, la famigerata SLA, che
non tollerano di vivere attaccati ad un
respiratore e essere nutriti e idratati
attraverso sonde e cateteri e di dovere
dipendere da altri per tutte le funzioni fisiologiche anche le più intime.
Perché il medico? Egli è la persona
più indicata ad aiutare questi pazienti, perché conosce più di chiunque altro se quel paziente ha un male veramente incurabile, sa quando e come
morirà, sa trovare argomenti per scoraggiare una richiesta ingiustificata
di eutanasia, ad esempio quando il
paziente è depresso. Il medico inoltre
può disporre dei farmaci capaci di far
dormire per sempre velocemente e
senza dolore, ne conosce l’efficacia e
le eventuali interazioni con altri farmaci. Ovviamente una legge sull’eutanasia dovrebbe rispettare la libera
scelta di quei medici ad essa contrari.
Se la legge come è stata approvata
dal Senato sarà approvata anche dalla
Camera dei Deputati, sarà la fine del
diritto all’auto determinazione affermato dalla Costituzione, dalle convenzioni internazionali e dalle sentenze della Cassazione.
Eluana
Ubaldo Nannucci
Procuratore Aggiunto Onorario della Procura Generale della Cassazione,
già Procuratore della Repubblica di Firenze
La vicenda Englaro non è solo tristissima per la storia umana in sé, di
una giovane donna rapita alla vita e
confinata in un letto senza nulla sapere, vedere o sentire, e dei suoi genitori, testimoni muti e partecipi di
uno strazio quotidiano, che richiede
comunque abnegazione, servizio e
assistenza continua di un corpo vivo,
per quanto inerte. È tristissima, anche per la minaccia cui essa sta dando luogo, nei confronti di una delle
norme più alte della più sacra legge
dello Stato, la Costituzione.
La pietra dello scandalo è l’articolo
32: “nessuno può essere obbligato a
un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
Questo principio è stato fino ad oggi
universalmente inteso nel senso che è
diritto del malato rifiutare le cure anche se ne consegua la morte. Per neutralizzarlo lo si aggira, con abile sofisma: “l’alimentazione forzata non è
trattamento sanitario”. Perciò essa
può essere imposta anche a chi non
consente. E non importa se sia cosciente o no (v. caso Welby e Nuvoli).
Ma può decentemente sostenersi
che alimentazione e idratazione forzata non sono trattamento sanitario?
L’alimentazione forzata non è
un trattamento terapeutico
A meno che non si abbia l’audacia
di sostenere che somministrare sostanze per mantenere in vita un am-
malato grave non abbia carattere terapeutico, perché privo di qualsiasi
possibilità di favorire la guarigione o
il miglioramento dello stato del malato, come pure di alleviarne le sofferenze, è impossibile negare che tali
pratiche hanno carattere terapeutico,
posto che sono dirette a mantenere in
vita un ammalato mediante conoscenze e tecniche specialistiche che
richiedono il possesso di specifiche
nozioni e tecniche mediche.
Per negare codesto carattere si dovrebbe affermare che alimentazione
ed idratazione artificiali sono operazioni in tutto equivalenti al cucchiaio
col quale si cerca di far assumere dal
malato qualche goccia d’acqua o di
omogeneizzati – queste sì operazioni
che rientrano nella normale possibilità di assistenza di persone – e che
vengono introdotte nell’organismo
per via naturale.
Ma l’alimentazione forzata non si
attua con codeste modalità di pura
assistenza manuale, e non percorre
vie naturali. Ne fa una incisiva descrizione Chiara Saraceno1, in margine
ad un intervento su La Stampa, 19
settembre 2007:
“non considerare l’alimentazione
che avviene nei pazienti in stato vegetativo persistente come atto “invasivo” è segno evidente di non conoscere molto bene cosa si fa in un malato in questo stato per alimentarlo.
Riassumo brevemente: nei primi
giorni si introduce un cosiddetto
sondino naso-gastrico in materia di
silicone. Tale sondino viene introdotto attraverso il naso e ha una lunghezza di circa un metro. Richiede
numerose accortezze nell’inserimento (è una manovra infermieristica) e
nella manutenzione (lavaggi frequenti, continuo controllo del corretto posizionamento e pervietà). Può
essere tenuto in sito solo per un periodo limitato di tempo per non dare
problematiche di decubito all’esofago o allo stomaco. Passato questo periodo di tempo è meglio provvedere
alla nutrizione del paziente con una
cosiddetta PEG (gastronomia endoscopica percutanea) tecnica che risale al 1979, che è una metodica chirurgica quindi invasiva…”.
Come possa affermarsi in buona
fede che tali atti non siano trattamenti terapeutici è davvero difficile
da credere.
Molto lucidamente la Suprema
Corte nella sentenza n. 21748 del 416 ottobre 2007 ha affermato: “non
v’è dubbio che l’idratazione e l’alimentazione artificiali con sondino
naso gastrico costituiscono un trattamento sanitario. Esse, infatti, integrano un trattamento che sottende
un sapere scientifico, che è posto in
essere da medici, anche se poi proseguito da non medici e consiste nella
somministrazione di preparati come
composto chimico implicanti procedure tecnologiche. Siffatta qualificazione è, del resto, convalidata dalla
Quaderni della SIF (2009) vol. 19 - 21
comunità scientifica internazionale
e trova il sostegno della giurisprudenza nel caso Cruzan e nel caso
Bland…”.
A sua volta la Commissione Oleari
istituita da Umberto Veronesi con dm
20 ottobre 2000i così testualmente si
espresse: “quando l’alimentazione e
l’idratazione avvengono somministrando un nutrimento come composto chimico (una soluzione di sostanze necessarie alla sopravvivenza) che
solo medici possono prescrivere e che
solo medici sono in grado di introdurre nel corpo attraverso una sonda
naso gastrica o altra modalità… esse
perdono i connotati di atto di sostentamento doveroso e acquistano quello di trattamento medico in senso
ampio”.
Se non si vuol negare l’evidenza si
deve ammettere che codesti interventi rientrano di pieno diritto nell’ambito del dettato costituzionale di cui
all’articolo 32 secondo comma, per
cui essi richiedono per la loro liceità
l’espresso assenso del paziente.
***
Ma una ragione di ancor più viva
sorpresa è il silenzio sul fatto che l’alimentazione forzata urta contro un
altro principio costituzionale, altrettanto ineludibile quale l’articolo 32:
l’articolo 13 II comma Cost.
L’alimentazione forzata come
violazione dell’articolo 13, 2°
comma Cost.
È universalmente noto e pacificamente affermato che ogni atto che
con la forza violi la libertà della persona rientra nell’ambito di tutela dell’articolo 13 II comma Cost: “Non è
ammessa forma alcuna di detenzione… né qualsiasi altra restrizione
della libertà personale, se non per
atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”. Alimentare o costringere ad
ingerire liquidi a forza costituisce palese restrizione della libertà individuale.
Fondamentale in materia la pronuncia della sentenza n. 238 della
Corte Costituzionale del 9 luglio
1996, che ha affermato l’illegittimità
costituzionale dell’articolo 224 comma 2 codice di procedura penale nel22 - Quaderni della SIF (2009) vol. 19
la parte in cui consentiva al giudice,
nell’ambito di operazioni peritali, di
disporre misure comunque incidenti
sul valore della inviolabilità personale
- nel caso specifico, il prelievo coattivo di un campione ematico2. Neppure
ragioni di giustizia penale possono legittimare una penetrazione corporale
contro la volontà dell’interessato, per
quanto di modesta entità o di abituale
impiego, come il prelievo di un campione ematico. Si ignora dunque in
modo stupefacente, che un comportamento di alimentazione forzata non
infrange soltanto, in modo irrimediabile e diretto, l’articolo 32 Cost., ma
anche un altrettanto univoco e tassativo principio costituzionale: quello
della libertà individuale (articoli 2 e
13). Nessun atto invasivo della sfera
fisica può avvenire senza o contro il
consenso della persona interessata, in
quanto l’”inviolabilità fisica” costituisce il “nucleo essenziale” della stessa
libertà personaleii.
Una esplicita applicazione di tale
principio si è avuta con la recente legge modificatrice del codice della strada – D.L.vo 30 aprile 1992 n. 285
mod. dall’articolo 4 l. 24 luglio 2008
n. 125. La nuova legge ha elevato sensibilmente le sanzioni per il caso di
guida in stato di ebbrezza. A tale effetto la polizia ha facoltà di sottoporre la
persona a prove non invasive attraverso apparecchi portatili e di condurre il
conducente al comando per effettuare
accertamenti con strumenti regolamentari. Non ha però il potere di imporre alla persona di sottoporsi a tali
accertamenti. In caso di rifiuto, il
conducente risponde di un separato
reato, ma non è soggetto ad alcuna
costrizione materiale. Questa disciplina – che incide sulla stessa capacità
intimidatoria della sanzione, perché
l’omesso accertamento preclude la
prova dell’ebbrezza – costituisce diretta attuazione del principio di libertà garantito costituzionalmente.
È assolutamente inspiegabile che si
sia ignorato questo basilare principio
di garanzia costituzionale da sempre
conosciuto e mai discusso.
L’alimentazione forzata, in quanto
implica impiego di strumenti artificiali che penetrano nel fisico del paziente, è direttamente vietata dal comando costituzionale in difetto di
esplicito consenso, anche per questo
tassativo comando costituzionale.
L’alimentazione forzata come
pratica illegale
universalmente riconosciuta
Al di là degli ostacoli di ordine costituzionale, esistono comunque casi
in cui è ammissibile costringere a
forza persone ad alimentarsi?
Storicamente il problema si è posto
in varie epoche e situazioni, in relazione soprattutto a sciopero della
fame attuato da detenuti. Ha un posto di rilievo in argomento, nell’epoca moderna, la lotta delle “suffragette” nell’Inghilterra dei primi del ‘900
per ottenere il diritto al voto. La ribellione delle donne incarcerate per
disordini attuata mediante sciopero
della fame indusse le autorità ad imporre l’alimentazione forzata. La pratica venne abbandonata dopo alcuni
anni dal suo inizio per la sua crudeltà.
Nell’ordinamento interno, indipendentemente dalle ragioni di ordine
costituzionale che ovviamente trovano applicazione anche nei confronti
di persone ristrette, l’ordinamento
penitenziario non consente alimentazione coattiva del detenuto neanche
se vi è pericolo di vita. La dottrina è
unanime in questo sensoiii.
Il codice deontologico medico del
2006, dal suo canto, stabilisce – articolo 51 – che “quando una persona,
sana di mente, rifiuta volontariamente e consapevolmente di nutrirsi,
il medico ha il dovere di informarla
delle conseguenze che tale decisione
può comportare sulle sue condizioni
di salute. Se la persona è consapevole delle possibili conseguenze della
propria decisione, il medico non deve
assumere iniziative costrittive né
collaborare a manovre coattive di
nutrizione artificiale, ma deve continuare ad assisterla”.
In sede internazionale in diverse
occasioni i prigionieri sono stati sottoposti ad alimentazione forzata per
mezzo di un tubo di alimentazione
durante scioperi della fame. Ciò è stato proibito fin dal 1975 dalla dichiarazione di Tokyo sulla tortura della
Associazione Medica Mondiale, a condizione che il prigioniero sia capace
di formare una responsabile e razionale decisione. L’alimentazione forzata è considerata una forma di tortura:
6. quando un prigioniero rifiuta il
nutrimento ed è ritenuto dal medico
capace di rendersi conto delle conseguenze di questo volontario rifiuto di
alimentarsi egli non dovrà essere alimentato artificialmente. La decisione sulla capacità del prigioniero di
simile giudizio dovrà essere confermata da un altro medico indipendente. Le conseguenze del rifiuto dovranno essere spiegate dal medico al
prigioniero.
La pratica di alimentare coattivamente i prigionieri che facevano sciopero della fame è stata largamente
usata a Guantanamo. Più di 250 medici nel 2006 firmarono una lettera
con la quale condannavano l’esercito
degli Sati Uniti per l’alimentazione
forzata dei prigionieri; la lettera era
firmata da esperti di sette nazioni, e
fu pubblicata sul giornale “The Lancet”. Si sosteneva che i medici che
praticavano tale prassi a Guantanamo
avrebbero dovuto essere puniti dai rispettivi ordini professionali.
È quindi principio incontroverso
che l’ordinamento interno, come
quello internazionale, non ammettono forma alcuna di alimentazione
forzata, la quale anzi è per lo più considerata una forma di tortura.
La situazione del paziente
sottoposto ad alimentazione
forzata in stato d’incoscienza
Cosa differenzia la condizione del
malato incosciente rispetto a quella
dei casi sopra accennati, in cui si è
fatto ricorso al “force feeding”? La risposta è semplice: la diversità essenziale è data dal fatto che, nel primo
caso, il soggetto si trova in stato d’incoscienza, e non solo non può materialmente opporsi, con le proprie forze, a quanto si vuol praticare su di
lui, ma neppure manifestare la sua
opposizione; nell’uno e nell’altro
caso si vuol costringere a vivere persone che, per scelta o per eventi naturali, rischiano la morte per assenza
di nutrimento. Le motivazioni dell’agire di chi usa violenza non incidono
né modificano l’oggettività del fatto.
La questione si pone in particolare
nei casi in cui l’alimentazione forzata
è stata iniziata nei confronti di soggetto che, al momento dell’attivazione di questa terapia, non era in grado
di esprimere alcuna volontà.
Per giustificare come sia possibile
attuare interventi terapeutici, o co-
munque, se si preferisce, invasivi su
una persona priva di coscienza, e pertanto in difetto di consenso espresso,
la dottrina penalistica ha elaborato
due teorie:
La teoria del consenso presunto
La teoria dello stato di necessità
Secondo la prima opinione, il medico è legittimato ad agire dovendosi
ritenere presumibile il consenso dell’infermo, qualora avesse la possibilità di esprimersi, sulla base della
normale ricorrenza dell’istinto di
conservazione, che in ogni persona
deve ritenersi presente.
La seconda opinione sostiene invece che l’unica ragione che legittima
l’intervento medico è l’urgenza di
provvedere nella attualità di un pericolo di danno grave alla persona,
“non altrimenti evitabile”.
La teoria della presunzione di consenso è parsa rimettere totalmente al
giudizio del medico ogni decisione
sulla vita del paziente; qualunque intervento è giustificato e lecito, sulla
base di ciò che il medico stesso ha
giudicato fosse la presumibile volontà del malato incosciente. Per
quanto riguarda lo stato di necessità,
si sottolinea che l’intervento comunque deve essere “non altrimenti evitabile”, e pertanto esposto al giudizio
oltremodo incerto di cosa debba intendersi e quando ritenersi evitabile
o meno la manovra effettuata.
Sul piano logico, quanto al primo
criterio, si può osservare che il medico può legittimamente ritenere che il
paziente avrebbe consentito l’intervento, quando è, se non assolutamente certo, quanto meno estremamente
probabile che esso avrebbe consentito la guarigione o la riparazione del
danno in misura da assicurare condizioni di vita quanto meno prossime a
quelle preesistenti.
Se tali condizioni non ricorrono,
presumere il consenso è del tutto arbitrario. Nessuno può sostituirsi all’interessato, nelle decisioni che riguardano la sua integrità fisica come
pure le condizioni e la qualità della
sua vita futura. Se dunque l’intervento medico non si limiti ad attività di
riparazione del danno provocato dal
trauma o dall’evento naturale che ha
colpito l’infermo, ma comporti effetti
gravemente e permanentemente invalidanti, regola di corretta metodologia medica dovrebbe essere quella
di stabilizzare per quanto possibile le
condizioni del paziente, per poi porlo
in condizione di scegliere se e quale
tipo di intervento subire, ovvero, puramente e semplicemente, rifiutare
interventi demolitori accettandone le
conseguenze; questo è quanto impongono i principi che sanciscono il
diritto di rifiutare le cure, fino al limite della vita.
Se procedere in tal senso è impossibile, perché non si può aspettare il risveglio per operare, pena la vita, allora sarà sufficiente a giustificare l’intervento la situazione di urgente ed
assoluta necessità, che trova la sua
disciplina nell’articolo 54 codice penale. Nella quale assume rilievo primario, quando dall’azione del sanitario derivino conseguenze gravi e permanenti, il requisito della inevitabilità, ossia della mancanza di alternative.
È di notevole interesse ricordare
quanto, in materia di cause di giustificazione, fu proposto dalla Commissione Pagliaro – (dal nome del presidente della Commissione ministeriale costituita con D.M. 8.2.1988) nello
schema di legge delega in materia di
cause di giustificazione in relazione
all’attività terapeutica e gli interventi
medico-chirurgici:
Nell’articolo 16 n. 5 fu stabilito che
occorreva prevedere come causa di
giustificazione l’attività terapeutica,
sempre che:
«a) vi sia il consenso dell’avente diritto, o, in caso di impossibilità di
consentire, il suo consenso presumibile e la urgente necessità del trattamento;
b) il vantaggio alla salute sia verosimilmente superiore al rischio;
c) siano osservate le regole della
migliore scienza ed esperienza»;
l’articolato supponeva che il consenso presumibile dovesse accompagnarsi all’urgenza dell’intervento; e
che, in ogni caso, il vantaggio fosse
“verosimilmente”, ossia sulla base
delle cognizioni e dell’esperienza medica del settore, superiore al rischio.
In tal modo si unificavano in un insieme ragionevole i due principi intorno ai quali si è impegnata per decenni la dottrina penalistica.
Codeste conclusioni trovano autorevole avallo nella c.d. Convenzione
di Oviedo3, dove, all’articolo 6, “tutela delle persone incapaci di prestare
Quaderni della SIF (2009) vol. 19 - 23
consenso” si dispone:
1. “con riserva degli articoli 17 e
20, un trattamento può essere praticato su una persona incapace di prestare consenso solo se gliene derivi
un beneficio diretto”. Espressione
che fissa in un miglioramento delle
condizioni di vita preesistenti la condizione di legittimità dell’azione medica. È cioè impossibile considerare
beneficio – diretto o indiretto che sia
– il semplice mantenimento dello
stato preesistente.
Le condizioni di legittimità
dell’intervento di
alimentazione e idratazione
artificiale
Alla luce dei criteri sopra enunciati, l’indicazione terapeutica dell’alimentazione e idratazione forzata di
una persona in stato d’incoscienza è
ammissibile, seguendo il criterio del
consenso presunto, allorché si ritenga che tale misura sia indispensabile
in funzione delle ulteriori terapie che
si prevede abbiano la possibilità di restituire la persona alla propria normalità fisica, ossia alla guarigione
dallo stato di malattia che l’ha colpita, o quanto meno ad una restituzione della persona a condizioni simili,
ovverosia confrontabili con quelle di
cui ella godeva prima dell’incidente.
Ciò perché in sé e per sé l’alimentazione non assicura un miglioramento
rispetto alla condizione di salute
preesistente. Rende solo stabile e permanente quello stato.
Se manca del tutto una ragionevole
fiducia che questi risultati potranno
essere ottenuti, non ha alcun titolo il
medico per ipotizzare un consenso ad
iniziare una pratica che di per sé o
nel contesto della situazione clinica
non autorizza alcuna previsione di
questo tipo.
In altre parole la misura dell’alimentazione forzata in tanto sarà lecita in quanto funzionale alla speranza
di risolvere la causa dell’infermità
che ha colpito la persona. Vale a dire
lo stato di necessità che giustifica
questo intervento è quello inteso a risolvere il pericolo attuale di un danno grave, preesistente all’inizio dell’alimentazione forzata, e che questa
misura è intesa a favorire. L’attualità
per pericolo è quella della causa patologica che ha indotto il sanitario ad
24 - Quaderni della SIF (2009) vol. 19
iniziare questo trattamento. Non può
lo stato di necessità giustificare il pericolo della morte per l’interruzione
dell’alimentazione, perché l’alimentazione è stata volontariamente iniziata dal medico, e non è quindi scriminata dall’articolo 54, che giustifica
solo gli eventi che non siano volontariamente causati.
Insomma l’idratazione e l’alimentazione costituiscono presidio sanitario legittimo, in quanto tendenti a
consentire la risoluzione della crisi
patologica del paziente; ma se i rimedi terapeutici non lasciano più spazi
di speranza di un esito positivo della
terapia, a questo punto la legittimità
di quella misura viene meno; il pericolo che lo stato di necessità consente di coprire, è quello dell’evento che
non venne “volontariamente causato” dal sanitario. ma se costui, constatata l’inutilità delle cure, persevera
nel trattamento coatto, tale comportamento non è scriminabile in base
all’articolo 54, perché alimentazione
e idratazione sono state da lui volontariamente attuate.
A questo punto l’azione del medico,
legittima al suo inizio, fin quando sussiste stato di necessità in funzione delle terapie che consentano il recupero
delle facoltà dell’individuo, perde ogni
giustificazione quando quelle speranze non sono più ragionevolmente fondate, e la causa di giustificazione originaria viene meno. Tanto più che in
molti casi lo stato vegetativo è “l’effetto collaterale della messa in atto, nel
contesto della medicina d’urgenza e
della terapia intensiva, di trattamenti
rianimatori di sostegno vitale finalizzati al pieno recupero di funzioni
compromesse”, ossia direttamente dipendente dall’azione medica4.
Qual è la conseguenza? Che le pratiche di mantenimento vitale, sia in
quanto trattamento sanitario sia in
quanto lesive di un diritto di libertà e
di intangibilità corporea, divengono
soggette al principio generale del
consenso. Che, se non può essere
personalmente espresso dal malato,
dovrà esser dato da chi lo rappresenta. Tutore, o amministratore di sostegno che sia, sulla base della volontà
espressa o ricostruita della persona
quando era capace.
È ben singolare che da molte parti
del mondo politico, oltre che confessionale, non si voglia accettare che
possa esservi una persona che, in coscienza e secondo buona fede, rappresenti il malato anche in situazioni
che investono la sua stessa vita. È pacifico che un rappresentante ha facoltà di compiere ogni atto per conto
e in nome dell’interdetto, quando vi
siano le autorizzazioni richieste dalla
legge civile. E che l’amministratore
abbia tra i suoi compiti, anche quello
di prendersi cura dell’amministrato.
Ma quando si discute se abbia anche
il potere principe di ogni uomo, di
fronte alla malattia, di rifiutare le
cure, o gli atti invasivi della sua libertà, allora del tutore non ci si può
più fidare5. Rifiutare la possibilità di
consentire al tutore di rappresentare
l’infermo nell’esercizio di un suo diritto costituzionale, sulla base di una
pregiudiziale di inattendibilità o di
malafede assoluta significa costringere un essere umano che senza consenso è stato posto in stato vegetativo
o in questa condizione è venuto a trovarsi a rimanere in tale stato a tempo
indeterminato per mesi e anni, senza
che nessuno possa interromperlo
perché sarebbe omicidio. Insomma
un medico ha ritenuto di adottare
senza consenso una forma di mantenimento artificiale in vita. Da quel
momento nessuno più è in grado di
interrompere questa più o meno arbitraria iniziativa; così inventando un
consenso presunto senza tempo, o
uno stato di necessità permanente di
una situazione che il medico stesso
ha costruito.
Certo se vi fossero volontà direttamente manifestate in anticipo per l’eventualità di una perdita di coscienza, tutti saremmo meno turbati.
Ma se queste non furono mai
espresse, si deve concludere che,
quindi, nessun’autorità terrena ha il
potere di por fine a quella che, di fatto e di diritto, è solo un’agonia?
E per quanti anni, o decenni, questa sedicente vita artificialmente indotta in un corpo che, naturalmente,
sarebbe in tempi assai brevi inesorabilmente morto, dovrà continuare? E
chi dovrà averne cura, non economicamente, ma materialmente: chi dovrà provvedere al cambio della biancheria, delle lenzuola, dei cateteri,
alla pulizia delle piaghe, delle emissioni? Su chi dovrà gravare, per legge, quest’opera di carità che il parlamento impone, senza però sporcarsi
una mano, né scomodarsi gli occhi
alla contemplazione di creature in
queste condizioni? E quanti saranno,
oggi mille, ma domani migliaia o decine di migliaia, le persone che non
riescono a morire perché una falsa
pietà gli impone di essere mantenuti
in stato vegetativo, finché un evento
fisico abnorme, cui l’arte medica, ma
io direi la tecnica sperimentale del
medico, non sappia ancora ovviare,
non li sollevi dalla loro condizione?
Questa condizione paraumana non
è prevista né imposta da alcun norma
di legge interna – fino ad oggi – né,
tanto meno, internazionale. È però
voluta, anzi imposta, dal mondo cattolico. Tanto sufficit, perché essa sia
legge dello Stato.
Fino ad oggi queste, ben lo sappiamo, terribili scelte spettavano al rappresentante legale: non il diritto di
uccidere, ma di rifiutare il mantenimento artificiale di una vita artificiale. Lo dice il codice deontologico –
articolo 37: “allorché si tratti di minore o di interdetto il consenso agli
interventi diagnostici o terapeutici…
deve essere espresso dal rappresentante legale. … in caso di opposizione da parte del rappresentante legale
a trattamento necessario e indifferibile a favore di minori o incapaci, il
medico è tenuto a informare l’autorità giudiziaria; se vi è pericolo per la
vita o grave rischio per la salute del
minore o dell’incapace, il medico
deve comunque procedere senza ritardo e secondo le necessità alle cure
indispensabili”.
In verità l’autorità giudiziaria ha titolo per intervenire quando si tratti
di minori; nel caso di maggiori, per
promuovere l’interdizione o l’amministrazione di sostegno. Nel caso di
incapaci in stato di interdizione, sarebbe assai dubbio che il giudice potesse, per questo solo motivo, revocare la nomina del tutore.
La Convenzione di Oviedo all’articolo 6, comma 3, stabilisce che
“quando un maggiorenne è per legge, a causa di un handicap mentale,
di una malattia o per un motivo analogo, incapace di acconsentire ad un
trattamento, quest’ultimo non può
essere praticato senza l’autorizzazione del suo rappresentante, di un autorità o di una persona o di un organismo designati dalla legge”.
Il disegno di legge Calabrò 26
gennaio 2009
L’impianto generale dei principi
consolidati, secondo dottrina e giurisprudenza, dall’avvento della Costituzione ad oggi, è totalmente travolto
dal disegno di legge Calabrò.
“Disposizioni in materia di alleanza
terapeutica, di consenso informato e
di dichiarazioni anticipate di trattamento”
Nelle sue linee essenziali, il disegno
di legge Calabrò fissa i seguenti principi:
Articolo 1 – Tutela della vita e della
salute
1. la Repubblica tutela la vita umana fino alla morte, accertata ai sensi
della legge 29 dicembre 1993 n. 578
Si vuole così intendere che fin
quando non è certificata la morte la
Repubblica impone di vivere.
Principio strettamente correlato al
secondo comma, nel quale è detto:
2- la Repubblica… tutela la salute
come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività…
Si presenta così la questione: il diritto dell’individuo a non curarsi è
collegato ossia subordinato all’interesse della collettività. Poiché l’interesse della collettività è, secondo la
legge, ch’egli viva comunque, questo
interesse prevale su quello dell’individuo. Si cancella in tal modo il diritto di non curarsi fino a morire. Questa lettura è pienamente confermata
dal comma 4:
4 .la repubblica riconosce il diritto
alla vita inviolabile e indisponibile
garantito anche nella fase terminale
dell’esistenza e nell’ipotesi in cui il
titolare non sia più in grado di intendere e di volere.
Appunto; scompare il diritto di non
curarsi.
La Repubblica, nel riconoscere la
tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse
della collettività garantisce la partecipazione del paziente all’identificazione delle cure mediche più appropriate, riconoscendo come prioritaria l’alleanza terapeutica tra il medico e il paziente, che acquista peculiare valore proprio nella fase di fine
vita.
Si ripete l’assioma della posizione
paritaria del diritto dell’individuo e
dell’interesse della collettività; ma
quale nel conflitto tra i due interessi
prevalga è spiegato bene dopo: il paziente partecipa alla scelta delle cure,
non le decide lui né le può escludere;
si stabilisce un connubio tra paziente
e medico, definito con formula astuta
alleanza terapeutica non a caso definita prioritaria. Il che vuole dire prevalente. Per significare che il rapporto tra medico e paziente non è più regolato dal consenso, ossia su base
contrattuale, che in materia di attività professionale è sempre ad libitum revocabile dal committente,
bensì da un sodalizio nel quale il consenso è elemento accessorio e non essenziale; una volta istituito il patto,
chi decide è, sentito il paziente, il medico.
Ogni principio costituzionale è travolto.
La doppiezza della disciplina è ampiamente ribadita dalle norme seguenti:
Sarà sufficiente agli effetti della
confutazione del suo impianto argomentativo riprodurre gli articoli 3, 5
commi 5 e 6.
Articolo 3 – Divieto di
accanimento terapeutico
Soprattutto in condizioni di morte
prevista come imminente, il medico
deve astenersi da trattamenti sanitari straordinari, non proporzionati,
non efficaci o non tecnicamente adeguati rispetto alle condizioni cliniche
del paziente o agli obiettivi di cura
e/o di sostegno vitale del medesimo
Il divieto di accanimento terapeutico non può legittimare attività che
direttamente o indirettamente, per
loro natura o nelle intenzioni di chi li
richiede o li pone in essere, configurino pratiche di carattere eutanasico
o di abbandono terapeutico
Il comma 2 smentisce il principio
del primo comma. Quali sono le pratiche di “carattere eutanasico” o di
“abbandono terapeutico” che non
possono essere consentite, nonostante il divieto di accanimento? Se la cessazione dell’accanimento che ha per
oggetto trattamenti inefficaci provoca
la morte, ha carattere eutanasico, e
quindi deve continuare l’accanimento? Se si vuole dir le cose secondo
buona fede occorre precisare che il diQuaderni della SIF (2006) vol. 19 - 25
vieto di abbandono vuol dire solo
mantenere le terapie antidolorifiche.
Articolo 4 – Consenso informato
Di rilievo è solo il comma 6:
6. in caso di interdizione ai sensi
dell’articolo 414 del codice civile, il
consenso è prestato dal tutore che
appone la firma in calce al documento. In caso di inabilitazione, ai sensi
dell’articolo 415 codice civile, si applicano le disposizioni di cui all’articolo 349, comma 3 del codice civile
relative agli atti eccedenti l’ordinaria
amministrazione. Qualora vi sia un
amministratore di sostegno ai sensi
dell’articolo 404 del codice civile e il
decreto di nomina preveda l’assistenza in ordine alle situazioni di carattere sanitario, il consenso è prestato
dall’amministratore di sostegno. La
decisione di tali soggetti è adottata
avendo come scopo esclusivo la salvaguardia della salute dell’incapace
e non può pertanto riguardare trattamenti sanitari in pregiudizio della
vita dell’incapace stesso.
In altre parole, nessuno ha l’autorità di chiedere la cessazione del trattamento.
Articolo 5 - Contenuti e limiti delle
dichiarazioni anticipate di
trattamento
5. nelle dichiarazioni anticipate di
trattamento il soggetto non può inserire indicazioni finalizzate all’eutanasia attiva o omissiva.
L’eutanasia omissiva è in realtà definita dalla dottrina eutanasia passiva,
e sta a significare il rifiuto di trattamento terapeutico. Essa, quando è
consensuale, ossia voluta dal malato,
è tassativa attuazione dell’articolo 32.
Il divieto del primo comma semplicemente dice che il malato non può
rifiutare le cure che hanno l’unica
funzione di tenerlo in vita anche se
inutili ai fini della guarigione o del
miglioramento. È diretto insulto all’articolo 32.
6. alimentazione ed idratazione,
nelle diverse forme in cui la scienza e
la tecnica possono fornirle al paziente, sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze e non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento.
26 - Quaderni della SIF (2006) vol. 19
Alimentazione e idratazione possono considerarsi forme di sostegno vitale, ma comunque costituiscono
trattamento sanitario e sono pertanto
soggette al consenso del paziente. In
quanto pure forme di sostegno vitale,
e pertanto prive di diretta utilità terapeutica in quanto incapaci sia di guarire dall’infermità sia di conseguire
miglioramenti effettivi, esse sono
concepibili, in assenza di consenso,
solo nelle situazioni di necessità, allorquando siano funzionali a terapie
direttamente rivolte alla risoluzione
della malattia, e per il tempo strettamente condizionato dalla necessità e
urgenza di tali terapie. Altrimenti
realizzano puramente e semplicemente quell’accanimento terapeutico
che si dice di vietare. Si tratta di autentiche e dichiarate violazioni agli
articoli 13 e 32.
7. La dichiarazione anticipata di
trattamento assume rilievo nel momento in cui è accertato che il soggetto in stato vegetativo non è più in
grado di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario e le
sue conseguenze e per questo motivo
non può assumere decisioni che lo riguardano. La valutazione dello stato
clinico va formulata da un collegio
medico formato da cinque medici
(neurologo, neurofisiologo, neuro radiologo, medico curante e medico
specialista della patologia) designati
dalla direzione sanitaria della struttura di ricovero.
Viene da domandarsi a carico di
quale soggetto saranno poste le spese
per questo consulto di specialisti.
Dell’interessato? Non pare, posto che
non lui lo ha disposto; della struttura, ossia del servizio sanitario statale?
E da ritenere così. Tutto ciò non per
escludere alimentazione e idratazione, ma per scegliere o escludere terapie specifiche (es: non voglio cortisonici…).
Articolo 6 – Forma e durata della
dichiarazione anticipata di
trattamento
1. Le dichiarazioni anticipate di
trattamento non sono obbligatorie né
vincolanti, sono redatte in forma
scritta con atto avente data certa e
firma del soggetto interessato maggiorenne, in piena capacità d’intendere e di volere dopo una compiuta e
puntuale informazione medico clinica, e sono raccolte esclusivamente da
un notaio a titolo gratuito. Alla redazione della dichiarazione interviene
un medico abilitato all’esercizio della
professione che sottoscrive la dichiarazione anticipata di trattamento…
4. salvo che il soggetto sia divenuto incapace, la dichiarazione ha validità di tre anni…
Questa disposizione non merita alcun commento. Le volontà della persona, comunque espresse, non sono
vincolanti per nessuno, pur dovendo
essere redatte per iscritto, da soggetto pienamente capace (immaginarsi
le contestazioni!) dinanzi ad un notaio (a titolo gratuito! Con quale autorità?). Ultima beffa, valgono tre
anni…
Se non fosse grottesco sarebbe assurdo fino all’inverosimile…
Conclusione
La conclusione di questa disamina
conduce ad un solo esito: l’insieme di
queste disposizioni costituisce un
macroscopico ed immorale annientamento della Costituzione, in uno dei
suoi principi cardine e dei suoi criteri ispiratori, il carattere personalistico dell’intero impianto costituzionale. La Costituzione viene annullata,
mediante l’inserimento nell’ordinamento dello Stato di un criterio statalistico che prevale sulle scelte individuali per obbedire al un teorema
ideologico, di ispirazione confessionale, secondo cui la persona non è
padrona della propria vita e della propria esistenza, ma è soggetta ad una
padronanza dello Stato che nell’interesse dei propri dogmi ideologici stabilisce se e quando e come curarsi,
fino ad imporre il divieto di morire.
Viene da chiedersi, per l’ideologia
che ispira questo insieme di sconcertanti conseguenze, in quale parte del
Vangelo siano contenuti questi precetti. Quando essi risultano addirittura smentiti dallo stesso Catechismo
della chiesa cattolica, evidentemente
ignorato e travolto dalla deriva oscurantista del papato e dei suoi cardinali: recita ancora il canone 2278: “l’interruzione di procedure mediche
onerose, pericolose, straordinarie o
sproporzionate rispetto ai risultati
attesi può essere legittima. In tal
caso si ha la rinuncia all’”accani-
mento terapeutico”. Non si vuole così
procurare la morte: si accetta di non
poterla impedire. Le decisioni devono
essere prese dal paziente, se ne ha la
competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente diritto, rispettando sempre la
ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente”
NOTE
1
Ordinario di Sociologia della Famiglia,
Università degli Studi di Torino.
2
Si tratta dell’episodio delle lacrime di
sangue versate dalla madonnina di Civitavecchia. Il pretore intendeva verificare se quel
sangue anziché essere di origine celeste, non
appartenesse al proprietario della statuetta.
3
Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano
rispetto alla utilizzazione della biologia e della medicina approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa nella seduta del 19
novembre 1996.
4 V. l’accuratissimo lavoro di Patrizia
Borsellino, “Bioetica tra morali e diritto”, Cortina Ed. Milano 2009; nonché Gilda Ferrando
“Stato vegetativo permanente e trattamenti
medici: un problema irrisolto”, Familia, 2004,
6 “Quando il medico interviene con trattamenti di rianimazione sulle persone che hanno subito una lesione cerebrale in conseguenza di evento traumatico o atossico, lo fa nella
speranza di recuperare in tutto o in parte alcuni dei pazienti che hanno subito il trauma.
La rianimazione è praticata per preservare la
vita in vista della possibilità di recupero.
Quando il tentativo non ha successo e il paziente entra in stato vegetativo permanente,
lo stesso trattamento di rianimazione di alimentazione e idratazione forzata perde la sua
giustificazione; se il recupero non ha successo, resta la condanna al prolungamento della
vita biologica fine a se stesso, la condanna ad
un trattamento che all’origine non era sostenuto dal consenso del paziente”.
5 Qualcuno si azzarda a dire che il tutore
potrebbe avere interesse a far morire il malato. Solo uomini che non sanno cosa sia la paternità possono supporre che un genitore voglia la morte del figlio per liberarsi da un’assistenza fastidiosa.
i
Bioetica 2001, n. 2
Cass. civ. sez. III, 29 luglio 2004, n. 14488
– voce aborto (tratta del nascituro a nascere,
ma non del diritto a non nascere o a nascere
sano).
ii
Così Gilda Ferrando, “Stato vegetativo
permanente e trattamenti medici: un problema irrisolto” in Familia 2004, 6, 1173 X
1092140. In giurisprudenza, Corte Cost. 22 ottobre 1990, n.471, Foro It. 1991, I, c. 14; Corte Cost. 2 giugno 1994 n. 218, in Foro it. 1995,
I, col 46; Corte Cost. 18 aprile 1996 n. 118 ,
Foro It. 1996, I, 2326; Corte Cost. 26 febbraio
1998 n. 27, Corte Cost. 9 luglio 1996 n. 238, in
Fam. Dir. 1996 n. 419; citata da Ferrando; v.a.
Corte Cost. 23 giugno 1994, n. 258, in Foro it.
1995, I, c. 1451; cass. 24 febbraio 1997 n.
1661.
iii
L’ordinamento penitenziario non prevede che possa procedersi ad alimentazione coatta del detenuto, pratica pertanto non consentita. Vedasi: Fassone, Sciopero della fame, Questione giustizia 1982, 335; Ferraioli, carcere e
diritti fondamentali, ivi, 351; Onida, dignità
della persona e diritti, ivi, 361, Pulitanò, sullo
sciopero della fame, ivi, 369, Fiandaca, Foro It.
1983, II, 235; Palazzo, sciopero della fame e
omissione di soccorso, Riv. Pen. 1995 420.
Bovet, Erspamer e le sostanze naturali
*
Paolo Nencini
Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia, Università di Roma “La Sapienza”
* Testo basato sulla lettura tenuta il 29
giugno 2009 nel corso del XIII Seminario
Nazionale per Dottorandi in Farmacologia e
Scienze Affini a Pontignano (SI)
In un pregevole articolo dedicato
alla farmacologia italiana del decennio che ha preceduto la seconda guerra mondiale, Giancarlo Pepeu ha osservato come la nostra disciplina fosse allora affetta da un certo provincialismo che fatalmente ne minava la robustezza metodologica e l’originalità
delle tematiche affrontate. Il dopoguerra coincide con un radicale mutamento che porta la farmacologia
italiana al livello di quel prestigio internazionale di cui la ricerca italiana
già godeva in altre discipline scientifiche. Un ruolo certamente importante
nell’accresciuto prestigio è stato svolto dall’opera di due grandi scienziati
attivi a Roma in quel periodo, Daniel
Bovet e Vittorio Erspamer. Bovet, in
particolare, fornisce la testimonianza
più diretta della sprovincializzazione
della farmacologia italiana, definendosi esso stesso svizzero per nascita,
francese per formazione e italiano per
scelta. Erspamer è invece italiano per
nascita, nativo delle valli trentine, e,
per formazione, allievo del prestigioso
Collegio Ghisleri di Pavia: il suo contributo alla sprovincializzazione della
nostra disciplina deriva interamente
dalla sua produzione scientifica e dagli intensi contatti che manterrà con i
colleghi stranieri attraverso la sua
lunga vita scientifica.
Sotto molti aspetti possiamo considerare quelle di Bovet e di Erspamer
vite scientifiche parallele con punti di
contatto e differenze che bene esemplificano l’ampiezza di opzioni scientifiche che la farmacologia fornisce ai
suoi cultori. Bovet ed Erspamer sono
pressoché coetanei, il primo essendo
nato nel 1907 e il secondo nel 1909.
Bovet si laurea in Scienze Naturali e
ottiene il dottorato di ricerca studiando la metamorfosi del tritone; Erspamer intraprende gli studi di medicina,
ma presto entra nel laboratorio di
Maffo Vialli, professore di anatomia
comparata, dal quale trae quella vena
naturalista che ne informerà l’intera
opera scientifica. Entrambi, molto
presto, si orienteranno verso la farmacologia. Bovet entra infatti nel laboratorio di chimica terapeutica diretto da uno dei più grandi cacciatori
di farmaci del periodo tra le due guerre, Ernest Fourneau, all’Istituto Pasteur di Parigi; nel dopoguerra approderà all’Istituto Superiore di Sanità
dove rimarrà fino alla metà degli anni
sessanta, quando si volgerà alla carriera universitaria, spinto anche dalla
autolesionista congiura di palazzo
che aveva decapitato la direzione dell’Istituto (Per una dettagliata analisi
della carriera scientifica di Bovet,
vedi: G. Bignami, 1993). Per parte sua
Erspamer diviene assistente di Pietro
Di Mattei, professore di farmacologia
a Pavia; nel 1938 lo segue a Roma,
dove, con intervalli connessi con la
sua carriera scientifica, continuerà la
sua attività scientifica fino alla sua
scomparsa avvenuta nel 1999.
Entrambi sono molto precoci nel
contribuire a scoperte di grande importanza. Nel 1935 il laboratorio di
Fourneau è impegnato nella corsa a
Quaderni della SIF (2006) vol. 19 - 27
ottenere derivati del prontosil rosso a
maggiore attività antibatterica rispetto al prodotto primitivo. Il problema è
noto: si riteneva che l’attività antibatterica del prontosil rosso risiedesse
nella funzione azoica della molecola e
quindi la ricerca di nuove molecole
attive era circoscritta all’ambito dei
coloranti. Bovet, come lui stesso racconta nel suo bel libro “Vittoria sui
microbi” (Bovet, 1991, pp. 40-48), si
trova per le mani un flacone del composto precursore sulfanilamide (prontosil bianco) e un gruppo di topi da
inoculare con streptococco emolitico
in più rispetto alle molecole da
testare: il prontosil bianco si dimostra
più attivo del prontosil rosso. La giusta via nella ricerca dei sulfamidici è
intrapresa e poco più di un anno dopo
Paulette e Henry, due bambini destinati a soccombere alla meningite
streptococcica, sono salvati dalla sulfanilamide (Bovet, 1991, pp. 60-64).
La scoperta di Erspamer è di altrettanto rilievo, sebbene, per la sua stessa natura, non poteva avere così immediate conseguenze pratiche. In
questi termini egli stesso la riassume
nel 1939: “Non posso qui omettere di
ricordare la serie di ricerche iniziata
da Vialli e da me già nel 1936, dirette
all’estrazione della sostanza specifica
delle cellule enterocromaffini... Le
indagini, promettentissime, ci hanno
portato a dimostrare nei nostri estratti tale sostanza specifica, che risulta
essere una fenilalcolamina per la
quale noi abbiamo proposto il nome
di enteramina” (Erspamer, 1939).
L’enteramina alla fine risulterà essere
una indolamina, la 5-idrossitriptamina, ma la completa definizione della
struttura richiederà anni di lavoro in
differenti laboratori a testimonianza
della limitatezza delle metodiche
analitiche del tempo.
Vi è infine un ulteriore elemento in
comune nelle attività scientifiche di
Bovet ed Erspamer: il loro interesse
per le sostanze naturali. Ciò può apparire come un ovvio punto in comune in quanto la farmacologia ha avuto
e continua ad avere un interesse particolare per queste sostanze, tenuto
conto che l’80% dei farmaci in uso terapeutico è costituito da sostanze di
origine naturale o da loro derivati (Li
& Vederas, 2009). Se ci poniamo in
una prospettiva applicativa, ci sembrerà che Bovet, più che Erspamer,
28 - Quaderni della SIF (2006) vol. 19
appartenga alla categoria di farmacologi che hanno tratto dalle sostanze
naturali ispirazione per i loro studi
farmacodinamici. Bovet, infatti, a partire dai curari naturali scovati nella
foresta amazzonica e con l’aiuto del
chimico Marini-Bettolo, disegna e introduce quelli che egli stesso definisce lepto-curari, di cui la succinilcolina (o suxametonio) rimarrà a lungo
esponente di grande utilità clinica
(per una bibliografia essenziale degli
studi di Bovet, vedi Bignami, 1993).
La sostanza naturale, la d-tubocurarina, è in qualche modo un pretesto per
dare inizio ad una ricerca di relazione
struttura-attività al termine della
quale vi è lo sviluppo di un farmaco
appositamente disegnato a svolgere
una ben precisa attività terapeutica.
In quest’opera Bovet dimostra uno
straordinario acume scientifico e infatti potremmo dire che re-inventa la
succinilcolina, che era stata già sintetizzata all’inizio del secolo. Uno storico della medicina si è chiesto infatti
come mai nel caso del meccanismo
d’azione della succinilcolina Bovet
abbia avuto successo laddove almeno
altri tre gruppi di ricerca avevano fallito. La risposta è che “Bovet was the
first to succeed because, unlike his
predecessors, he knew what he was
looking for” e che pertanto “he was
the first to produce experimental conditions conducive to the appearance
of neuromuscular blocking action”
(Dorkins,1982).
Da questo esempio è tuttavia evidente che al centro degli interessi
scientifici di Bovet non sono le sostanze naturali, ma piuttosto la relazione
struttura-attività all’interno di una serie di molecole al fine di ottenerne
prototipi di eventuale impiego terapeutico. Lo dimostra il fatto che, accanto le ricerche sui curari, ne conduce altre, parimenti fruttuose, atte ad
individuare agenti in grado di bloccare l’azione dell’istamina, che ora definiamo mediata dai recettori H1. In
questo caso, il punto di partenza è la
struttura dell’istamina stessa e il contributo più importante fornito da Bovet è la pirilamina, un antistaminico
che godrà di una certa fortuna sotto il
nome di Neo-Antergan (Bovet, 1959).
Una simile procedura viene applicata
alla adrenalina sulla cui struttura si
modellano molecole appartenenti alla
serie della fenossietilamina e della fe-
niletilendiamina, dimostrandone l’attività simpaticolitica. Infine, la serie di
derivati della fenilglicinamide, che
della ergotamina conservava l’attività
ossitocica, mentre dallo scheletro 2dietilaminotetralinico di quest’ultimo
composto si sviluppavano ulteriori
composti simpaticolitici (Bovet,
1959). Come egli stesso dichiara fin
dal titolo della sua lettura in occasione
del conferimento del premio Nobel
(Bovet, 1959), sono i concetti di isosteria e di competizione a guidare Bovet nel dedalo di composti che sottopone a investigazione farmacologica.
D’altro canto, l’indifferenza di Bovet
riguardo la provenienza del modello
primario di molecola è ben espressa
quando nella stessa lettura afferma
che “Making use of the considerable
means offered by organic synthesis,
many investigators have directed their
efforts to the field of therapeutics and
have sought to lay the groundwork for
a pharmaceutical chemistry or, better,
for a chemical pharmacology.” (Bovet,
1959). Il fine ultimo della sua ricerca
si identifica con quella che è l’esigenza primaria dell’epoca: colonizzare
farmacologicamente gli immensi domini patologici che affliggono l’uomo.
Per la prima volta nella storia, infatti,
i convergenti progressi in differenti
aree scientifiche, patologia generale,
farmacologia e chimica farmaceutica,
forniscono l’opportunità per intraprendere tale opera civilizzatrice.
Sono infatti numerosi in quegl’anni i
“cacciatori di farmaci” all’opera. Alcuni si esercitano sulle sostanze naturali, come Cushman e Ondetti che, a
partire dal veleno di una vipera brasiliana, la Botrops jararaca, disegnano e
introducono il captopril, primo esponente della fortunatissima famiglia
degli ACE-inibitori (Ondetti et al,
1977; Cushman & Ondetti, 1991). Altri partono direttamente dalla chimica
sintetica, come Sir James Blake, che,
aperta con il propranololo la fertilissima via ai beta-bloccanti (Quirke,
2006), si pone alla ricerca di un fantomatico recettore H2 istaminergico da
bloccare per “curare” farmacologicamente l’ulcera peptica e, dopo ben 700
molecole sintetizzate e testate, raggiunge il sicuro approdo della cimetidina (Hirschowitz, 1979). Tra i molti
cacciatori di farmaci, Bovet appartiene
tuttavia alla ristrettissima schiera di
coloro che hanno meritato il premio
Nobel. Lo ottiene nel 1957 “per le scoperte relative ai prodotti di sintesi che
bloccano gli effetti di alcune sostanze
che si formano e agiscono nell’organismo, e in particolare sui vasi sanguigni e sulla muscolatura dello scheletro”, come recita la motivazione del
conferimento (questa traduzione in
italiano compare nel curriculum che
Bovet presenta per il concorso a professore ordinario di farmacologia nel
1963. Bignami, 1993, p. 69).
Della esigenza immediatamente applicativa impersonata da Bovet non
v’è che minima traccia nell’opera di
Vittorio Erspamer. Piuttosto, nella sua
opera la prospettiva appare completamente rovesciata fin quasi a perdere
ogni specifica connotazione farmacologica. L’individuazione della sostanza
naturale è infatti il fine della ricerca e
la metodologia farmacologica d’indagine non ne è altro che lo strumento
per l’identificazione dell’eventuale
funzione. Con termine un po’ obsoleto, potremmo dire che Vittorio Erspamer è un naturalista, un grande naturalista che negli oltre sessant’anni di
attività scientifica si propone di riempire quanto più possibile gli spazi
bianchi nel capitolo che il gran libro
della Natura dedica a certe particolari
sostanze che, contenute nei tessuti
animali, vi svolgono una attività biologica talmente intensa da apparire
più di natura farmacologica che fisiologica: le cosiddette “sostanze naturali attive” come egli stesso le chiama,
oppure sostanze autacoidi come altri
le indicano. Ad Erspamer ben si addice la definizione che il Conte di
Buffon diede dei naturalisti: gente che
fruga negli archivi del mondo. Un moderno storico così ha commentato
questa definizione: “It is an arresting
image: the idea that the birds, soils,
rocks, all the objects in the gaze of the
eighteenth-century natural historian
were lined up on so many shelves,
ready to be retrieved and studied.”
(Smail, 2008, p. 47). Erspamer vive
nel XX secolo e quindi non più di minerali e di uccelli si occupa, ma di “sostanze tessutali attive”, appunto. Di
queste sostanze Erspamer non è certo
stato il solo esploratore indifferente ad
un loro utilizzo immediatamente applicativo – basti pensare a Von Euler e
a Gaddum con le loro prostaglandine
e la sostanza P – ma è certo stato quel-
lo che, tra i suoi contemporanei, con
più tenace sistematicità ne ha perseguito lo svelamento, avendo cura di
non limitarsi all’ambito dei mammiferi, ma posando lo sguardo su gradini
più primitivi della scala zoologica, gli
anfibi, innanzi tutto.
È proprio questo suo sguardo comparativista, intrinseco alla sua formazione scientifica avvenuta alla scuola
pavese di Maffeo Vialli, che permette
ad Erspamer di costruire quel triangolo di ridondanze autacoidi tra derma di anfibio, intestino e sistema nervoso centrale di mammifero (Erspamer et al., 1981), che è stato il suo
maggiore contributo al progresso delle scienze biomediche. E nel 1991
proprio alla scoperta del “… role of
biogenic amines as neurotransmitters
and of more than 50 bioactive peptides showing the existence of the
brain-intestine-skin triangle” fa riferimento Rita Levi-Montalcini nella sua
proposta di attribuzione del premio
Nobel a Vittorio Erspamer. Anche se il
premio Nobel non gli sarà conferito, il
triangolo brain-intestine-skin rimarrà una idea fertile di conseguenze. In particolare, sarà premessa e stimolo a procedere su due differenti linee di ricerche. L’una orientata ad
identificare negli altri due lati del
triangolo una sostanza già isolata in
uno solo di esso. Qui il razionale investigativo si intreccia con quello consistente nel ricercare il composto endogeno che si unisce ad un recettore a
sua volta identificato sulla base del legame che specificamente intrattiene
con uno xenobiotico. Ne è un esempio
il sistema oppioide: la scoperta di recettori specifici per la morfina porta
all’isolamento dei peptidi oppioidi nel
cervello di mammifero, inducendo a
sua volta Erspamer a cercare con successo peptidi analoghi nella pelle di
anfibio. Nel 1981 isola infatti dalla
pelle di rane sudamericane della sotto-famiglia delle Phyllomedusinae un
gruppo di peptidi ad attività oppioide,
che denomina dermorfine (Broccardo
et al., 1981). Successivamente, dalla
specie Phillomedusa bicolor isola altri
peptidi che presentano una selettiva
affinità per i recettori delta oppioidi e
a cui affida il nome di deltorfine (Negri et al., 2000).
La seconda linea di ricerca utilizza
il triangolo di ridondanze autacoidi
quale strumento per ricostruire tratti
certo non brevi di percorsi evolutivi.
Prendiamo una sostanza a caso tra le
tante svelate da Erspamer: la sauvagina, un peptide isolato dalla pelle della
rana Phyllomedusa sauvageii, e che
le successive ricerche hanno apparentato all’urotensina e all’urocortina, all’interno della più vasta famiglia del
CRF (corticotropin-releasing factor).
Questa famiglia consiste in quattro linee genetiche che si ritengono generate da un processo di duplicazione
paraloga avvenuto probabilmente nel
corso di due differenti espansioni genomiche. Come è noto, il CRF è presente nel cervello di mammifero, dove
si lega ai recettori CRF1, ma anche
l’urocortina-1 è stata isolata nel cervello di ratto, dove è in grado di attivare sia i recettori CRF1 e CRF2. L’urocortina-1 appartiene tuttavia ad una
seconda linea genica caratterizzata
dalla sintesi della urotensina-1, originariamente isolata dalla urofisi di pesce. La sauvagina appartiene alla stessa linea evolutiva della urotensina,
ma è una urocortina-1 altamente divergente e specifica per la P. sauvageii
(Boorse & Denver, 2006). Queste differenziazioni evolutive hanno naturalmente sollecitato indagini di endocrinologia comparata miranti a chiarire quanto si è conservato e quanto è
andato mutando nelle funzioni di
questi peptidi. L’alta conservazione
della famiglia dei peptidi CRF ci indica infatti lo svolgimento di funzioni
essenziali per la sopravvivenza, consistenti probabilmente nell’alimentazione e nel mantenimento del bilancio idro-salino, ma la divergenza della
sauvagina suggerisce l’acquisizione di
una sua differente funzione. Essendo
collocata nella pelle della rana, l’ipotesi più parsimoniosa è che agisca
come una tossina antipredatoria (Lovejoy & Jahan, 2006). Non solo, negli
anfibi i peptidi CRF svolgono funzioni
citoprotettive che, nel corso della metamorfosi, sono fortemente antagonizzate dalla CRF binding protein
permettendo il riassorbimento della
coda dell’anfibio (Boose & Denver,
2006). Ebbene, in condizioni sperimentali, questo effetto è indotto anche dalla sauvagina (Denver, 1993).
È importante sottolineare che l’intera opera di Erspamer costituisce nel
suo complesso un giacimento prezioso di sostanze da utilizzare per ricostruire linee di evoluzione biochimiQuaderni della SIF (2006) vol. 19 - 29
ca. In una rassegna dedicata alla conservazione evolutiva della filogeneticamente antica famiglia delle tachichinine, gli autori rendono direttamente omaggio al contributo fornito
dall’opera di Erspamer: “Many important early advances were made by
studying non-mammal systems including octopus and amphibia, and
the great contribution to this field by
Erspamer and colleagues are aknowledged...” (Liu & Burcher, 2005). Se,
come già ricordato, si deve all’opera
di von Euler e Gaddum l’individuazione della sostanza P nel cervello e nell’intestino di cavallo, è infatti Erspamer che ne allarga la prospettiva filogenetica individuando prima nel polipo mediterraneo Eledone moschata
la eledoisina e poi nella rana sudamericana Physalaemus biligonigerus la
fisalemina. Alla fine sono ben sette le
tachichinine individuate dal nostro
studioso, mentre altri autori contribuiranno ad articolare ulteriormente
questa larga e complessa famiglia di
peptidi, contenente una quarantina di
esponenti (Severini et al., 2002). Anche nel caso delle tachichinine è stato
quindi possibile sostenere l’ipotesi di
una duplicazione genica che ha indotto un accelerato tasso di evoluzione
molecolare con la sintesi di nuove sostanze dotate di differenti funzioni. Di
nuovo, resta tuttavia aperto il problema della loro presenza nella pelle degli anfibi, soprattutto della loro coesistenza con un ampio ventaglio di altri
peptidi e di amine biogene, a formare
un cocktail di veri e propri aggressivi
chimici. La loro liberazione in condizioni di stress o in presenza di un predatore lascia ipotizzare un possibile
ruolo difensivo di tali sostanze, ma
certamente vi è necessità di spiegazioni più circostanziate circa il ruolo fisiologico di questa presenza così varia
e quantitativamente rilevante.
Nella misura in cui hanno documentato la coesistenza di differenti
autacoidi nello stesso tessuto, le ricerche di Erspamer hanno permesso
il fiorire di intuizioni fondamentali in
altri studiosi. Un esempio rilevante è
costituito dalle ricerche di Betty Mack
Twarog miranti a identificare i neurotrasmettitori responsabili della regolazione dell’adesione della cozza (Mytilus edulis) allo scoglio: se l’acetilcolina è responsabile della contrazione
muscolare che tale adesione rende
30 - Quaderni della SIF (2009) vol. 19
possibile, quale è la sostanza che invece rilassa il muscolo? Il suggerimento
le venne dalla lettura dei lavori di Erspamer che documentavano la presenza della enteramina, accanto a
quella della eleidosina, nelle ghiandole salivari del polipo e dal fatto che
questa sostanza era in grado di eccitare il cuore del mollusco. Una intuizione che risulterà fondamentale per il
riconoscimento della natura di neurotrasmettitore centrale della enteramina-serotonina-5-idrossitriptamina
(Mack Whitaker-Azmitia, 1999).
Se il lascito di Vittorio Erspamer
tanto sta ancora contribuendo alla ricostruzione dell’evoluzione di un vasto ventaglio di famiglie di sostanze
tessutali e alla loro differenziazione
funzionale, che dire del suo contributo al progresso diagnostico-terapeutico in medicina? Abbiamo già detto
che a parte rare eccezioni (si potrebbe
citare uno studio farmacologico di
confronto tra 13 peptidi bombesinici
naturali e 14 analoghi sintetici [Falconieri Erspamer et al., 1988] e un altro, similare, dedicato ad alcuni analoghi della dermorfina [Negri et al.,
1992]), Erspamer non è in genere interessato a sviluppare farmaci dalle
sostanze che mano a mano isola e caratterizza. Egli è tuttavia interessato a
riconoscere una funzione fisiopatologica ai composti analoghi presenti
nell’uomo o ad individuare un impiego terapeutico diretto ai composti da
lui isolati. Nella sua vasta produzione
scientifica, sono infatti presenti studi
dedicati all’efficacia dell’applicazione
locale di eleidosina nella cheratocongiuntivite che caratterizza la sindrome di Sjögren (Bietti et al., 1975), alla
ipergastrinemia e all’azione procinetica della bombesina nell’uomo (Basso et al., 1975; Delle Fave et al., 1985).
La bombesina in effetti è tra i peptidi
isolati da Erspamer quello che ha suscitato il più duraturo interesse clinico. Gli studi appena citati si pongono
infatti all’inizio di un itinerario di indagine che, lungi dall’essersi esaurito,
sta alimentando aspettative affatto
nuove. Oltre a fungere da ormone e
neurotrasmettitore gastrointestinale
in grado di stimolare la contrazione
della muscolatura liscia, la secrezione
esocrina gastrica e pancreatica, la liberazione di gastrina, somatostatina e
altri ormoni, la bombesina sembra
agire come fattore di crescita e modu-
latore dell’insorgere di tumori a carico di prostata, stomaco, colon e pancreas (Schally et al., 2004). Di qui la
progettazione di derivati della bombesina coniugati con antiblastici o radioisotopi al fine di veicolare direttamente e selettivamente sul bersaglio
tumorale tali agenti citotossici (Gonzales et al., 2009). All’altro secretagogo colecistochininico isolato da Erspamer, la ceruleina, la ricerca ha invece riservato un ruolo quale strumento sperimentale di riferimento
per lo studio della fisiopatologia della
pancreatite acuta, che essa infatti induce per sovradosaggio attraverso la
stimolazione di specifici recettori disposti sulla superficie delle cellule
acinali pancreatiche e la conseguente
secrezione di enzimi proteolitici attivati (Willemer et al., 1992).
Potrebbe apparire infine superfluo
trattare dell’attualità della enteramina/serotonina/5-idossitriptamina, di
quella sostanza, cioè, che Erspamer
stesso ebbe modo di definire, nel cinquantenario della scoperta, la sua “first-born daughter” (Renda, 1999). La
dimostrazione di tale attualità sta infatti nell’annuale accumularsi di migliaia, forse decine di migliaia, di articoli scientifici ad essa dedicata. Non
credo tuttavia che sia banale sottolineare gli aspetti di questa sterminata
ricerca che rendono giustizia alla denominazione che Vialli ed Erspamer
assegnarono alla sostanza, al termine
enteramina che rimanda alla sua collocazione nell’apparato digerente.
Come è ben noto, queste funzioni furono rapidamente oscurate dalle ricerche iniziate già alla fine degli anni
quaranta e che condussero all’isolamento dal siero di una sostanza dalle
potenti proprietà vaso-costrittive, la
serotonina appunto. Le ulteriori indagini portarono alla conclusione che la
struttura chimica di enteramina e serotonina era identica. Come è stato
scritto: “Why did the substance become known as serotonin rather than
its first name, enteramine? The most
likely explanation is that it was first
synthesized and made available for research by the American drug company, Upjohn Pharmaceutical, who
chose the term ‘serotonin’” (Mack
Whitaker-Azmitia, 1999). Ben presto,
tuttavia, il futuro della serotonina
sembrò essere definitivamente segnato dall’ipotesi che fosse coinvolta nel-
la patogenesi della depressione, in
quanto si era osservato che il suo contenuto cerebrale variava in funzione
della somministrazione di farmaci in
grado di modificare lo stato dell’umore nell’uomo. In effetti, da allora, la 5HT, se vogliamo utilizzare il sinonimo
tipograficamente più sbrigativo, non
ha più abbandonato la sua veste di attore di alto profilo nelle neuroscienze.
Il ruolo enterico della 5-HT non tarderà tuttavia a riproporsi e con insospettata energia. Del resto, il fatto che
per il 95% la 5-HT sia localizzata nell’intestino, e più precisamente nel sistema enterocromaffine e nei neuroni
serotoninergici dei plessi mienterici
(Gershon & Tack, 2007), non poteva
essere privo di implicazioni farmacoterapeutiche. Infatti, a metà degli
anni ottanta, due gruppi di ricerca
sintetizzano i setroni, composti in
grado di bloccare selettivamente recettori della serotonina che vengono
identificati come 5-HT3 (Fozard,
1984; Richardson et al., 1985). Poiché
il vomito da chemioterapia è il risultato della massiva liberazione di serotonina, sarebbe giusto dire enteramina, dalle cellule enterocromaffini dell’intestino e della conseguente attivazione dei recettori 5-HT3 posti su afferenze vagali che proiettano ai centri
del vomito, i setroni sono diventati il
principale ausilio delle terapie antitumorali emetizzanti (Hesketh, 2008).
La stessa sorte non è stata riservata
all’effetto su cui il termine serotonina
è stato coniato: l’effetto vascolare. Il
robusto filone di ricerca che negli
anni settanta e ottanta ha investigato
il ruolo dell’azione vasocostrittiva e
pro-aggregante piastrinica della serotonina nelle patologie cardiovascolari
(Hillis & Lange, 1991) non ha generato sostanziali progressi farmacoterapeutici, nel senso che i farmaci attivi
sui recettori serotoninergici, in particolare quelli inibitori dei recettori 5HT2, come la ketanserina, non sono
stati in grado di soddisfare le aspettative terapeutiche di cui erano stati caricati. La possibilità che la regolazione centrale serotoninergica della
pressione sanguigna possa essere oggetto di controllo farmacologico è attualmente studiata, ma applicazioni
terapeutiche non sembrano essere in
vista (Ramage & Villalon, 2008).
Queste brevi note evidenziano
come, al di là dei punti di contatto che
all’inizio abbiamo rilevato nelle loro
vite scientifiche, Bovet ed Erspamer
divergano profondamente negli obiettivi che essi perseguono: la relazione
struttura-attività l’uno, la storia naturale dei composti tessutali biologicamente attivi l’altro. In un periodo storico in cui si misura il valore scientifico di uno studioso sulla base di indici
numerici frutto di sempre più complicati algoritmi, sembrerebbe non esserci dubbio circa il valore relativo
delle rispettive opere scientifiche: Bovet ottiene il premio Nobel ed Erspamer no. Per fortuna, non è così semplice giudicare l’opera scientifica di un
autore e il trascorrere del tempo permette di introdurre la valutazione di
una ulteriore variabile, certo di grande
importanza nell’esprimere un giudizio complessivo: l’attualità dell’opera
scientifica. Come abbiamo ripetuto
più volte, Bovet può essere definito un
grande cacciatore di farmaci. Purtroppo, sovente, il valore della preda non si
estende troppo in là rispetto al momento della cattura e prima o poi si
trasforma in una fiera impagliata, piena di tarli e non più in grado di suscitare meraviglia. Fondamentali per imboccare strade affatto nuove, i sulfamidici, i curari e gli antistaminici di
Bovet hanno cominciato a perdere
pregevolezza nel momento stesso in
cui quelle strade sono state imboccate,
permettendo l’acquisizione di nuove
molecole e l’apertura di nuove vie, cosicché, a poco più di cinquant’anni dal
conferimento del premio Nobel, i farmaci studiati da Bovet trovano ormai
scarso interesse e non solo terapeutico. Lo stesso destino non è stato riservato alle molecole studiate da Erspamer: ben allineate sugli scaffali della
storia naturale, molte di esse sono oggetto del sempre vivo interesse scientifico di studiosi attivi in differenti
campi delle scienze biomediche. Ne
abbiamo brevemente illustrato alcuni
esempi. Non si vuole certo qui affermare che il tempo ha reso giustizia ad
Erspamer a scapito di Bovet; si vuole
piuttosto sottolineare il fatto che le
loro opere sono storicamente incommensurabili. Quella di Bovet è legata
al suo tempo, segnando un passaggio
cruciale nello sviluppo di molecole terapeuticamente utilizzabili in differenti campi: è qualcosa che doveva essere fatto in quel momento ed è stato
lui a farlo. L’opera di Erspamer è quel-
la del naturalista che affida alle generazioni future gli strumenti per condurre studi di cui al momento neppure se ne immagina i contenuti. È forse
inappropriato definirlo un Humboldt
del nostro tempo?
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data 11 marzo 2005 - N° 528
Quaderni della SIF
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Direttore Responsabile: Flavia
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32 - Quaderni della SIF (2009) vol. 19