della Periodico della Società Italiana di Farmacologia - fondata nel 1939 - ANNO IV n. 19 – Settembre 2009 Riconosciuto con D.M. del MURST del 02/01/1996 - Iscritta Prefettura di Milano n. 467 pag. 722 vol. 2° Tra innovazione-etica e storia Flavia Franconi Questo numero è leggermente in ritardo non perché sia in ritardo la redazione, che anzi lavora moltissimo, ma perché abbiamo voluto avere il privilegio di metterlo nella cartella dei partecipanti del Congresso Nazionale della Società Italiana di Farmacologia. Un congresso scientificamente molto vivace e che, come al solito, richiama l’attenzione di tutti i farmacologi e non solo, ma che è anche molto aperto verso il mondo nello spirito che caratterizza da un po’ di tempo a questa parte la nostra società. Come voi tutti sapete il nostro attuale Presidente, Prof. Caputi, che proprio al congresso, lascerà la presidenza, ma non la SIF, almeno speriamo, ha voluto dedicarci un articolo che ripercorre quanto ha fatto. Personalmente, mi sento in dovere di ringraziare l’amico Achille, a nome di tutti i lettori dei Quaderni per il sostegno, i suggerimenti, i consigli che sempre ci ha dato. Parleremo e daremo spazio al prossimo Presidente, Prof. Carlo Riccardi, nel prossimo numero dopo l’insediamento ufficiale. Questo numero affronta temi di grande attualità, primo fra tutti l’influenza suina. L’articolo scritto da uno dei padri della virologia italiana (Ferdinando Dianzani) cerca, con la ragionevolezza e la pacatezza del grande scienziato, di riportare il problema nella sua giusta dimensione sanitaria senza concedere nulla alle emozioni che il virus ha saputo scatenare e spesso ci domandiamo perché? Dopo l’influenza l’innovazione farmacologica, un tema sempre affascinante soprattutto se a scriverne ne sono gli attori di tutti i giorni. In particolare Giuseppe Recchia svolge una lezione magistrale su come, in seguito ad una serie di processi trasformativi, il mercato farmaceutico subirà profondi mutamenti da “processo di vendita di farmaci” a “processo di fornitura e gestione di risultati di salute a valore aggiunto, ottenuti attraverso la collaborazione con nuovi e diversi attori della filiera della assistenza farmaceutica in particolare e sanitaria in generale”. Evidenziando fra l’altro l’importanza dei contesti, delle nuove esigenze sanitarie per la sicurezza nell’uso dei medicamenti che pesantemente influenzeranno le modalità di ricerca e sviluppo e di commercializzazione dei farmaci. Segue poi un articolo del Prof. Caprino e della Dottoressa Civalleri che ci illustra come valutare l’innovazione, considerando la clinical efficacy e la clinical effectiveness, per poi esprimerla in maniera obbiettiva mediante un valore numerico calcolato con algoritmo decisionale che considera i diversi elementi che concorrono all’innovatività. L’algoritmo poi deve essere uno strumento che consenta di considerare e riconsiderare l’utilità del medicinale per il Sistema Sanitario sulla base dei dati di efficacia e tollerabilità nella fase di post-marketing. Gli studi clinici sono una parte fondamentale della ricerca e sviluppo di un farmaco e vi è la necessità, sostiene Vittorio Bertelé, che essi si pongono l’obiettivo Tra innovazione-etica e storia (F. Franconi) 1 “Lentamente muore chi evita una passione…” Lettera del Presidente SIF (A. P. Caputi) 2 Finalmente abbiamo una pandemia influenzale: come affrontarla? (F. Dianzani) 4 FORUM-INNOVAZIONE FARMACOLOGICA (coordinato da G. Recchia) 8 Innovazione della terapia e sviluppo dei nuovi farmaci (G. Recchia, F. Patarnello) 8 Innovation assessment algorithm: considerazioni e criteri di sviluppo (L. Caprino, L. Civalleri) 13 Innovazione terapeutica e trial di non-inferiorità (V. Bertelé) 15 Estensione brevettuale, efficienza economica e giustizia sociale (A. Sassu) 17 Eutanasia e testamento biologico (G. L. Gessa) 19 Eluana (U. Nannucci) 21 Bovet, Erspamer e le sostanze naturali (P. Nencini) 27 Quaderni della SIF (2009) vol. 19 - 1 di un vantaggio per il paziente, tuttavia egli sostiene che non sempre questo avviene poichè vantaggi minori sostituiscono il vantaggio clinico. Da ciò deriva anche un’importante domanda se la non-inferiorità del profilo di beneficio-rischio, che garantisce ai nuovi farmaci una fetta di mercato, offra sicuri vantaggi ai pazienti, in altre parole quanto sono etici gli studi clinici di non inferiorità. L’etica è coniugata alla giustizia sociale nell’articolo di Antonio Sassu, che partendo dall’estensione del brevetto relativamente al losartan per gli studi condotti su pazienti pediatrici, si chiede se questo va veramente nell’interesse della collettività e se l’eticità verso un piccolo gruppo non provochi una non eticità verso la società. Per ovviare al dilemma viene fatta una proposta per salvaguardare gli incentivi alla ricerca in pediatria, l’innovazione tecnologica e la giustizia sociale. Riaffrontiamo ancora una volta le tematiche del fine vita con un articolo di Ubaldo Nannucci che esamina magistralmente la questione dal punto di vista legale e normativo anche in confronto con quanto avviene negli altri paesi europei. Mentre Gian Luigi Gessa ne parla a tutto campo in maniera puntuale e precisa. Infine, Paolo Nencini ci narra in maniera semplice ed esaustiva la storia di due grandi: Daniel Bovet (Nobel per la medicina e la fisiologia) e Vittorio Erspamer, lo scopritore della 5-idrossitriptamina o serotonina che tanto hanno contribuito alla crescita e alla internazionalizzazione della farmacologia italiana. ■ Lentamente muore chi evita una passione… Lettera del Presidente SIF Achille P. Caputi Cari Soci, ho iniziato l’8 giugno di due anni or sono la mia Presidenza, descrivendo la nostra Società con le parole del Prof. Imbesi come “una famiglia con una reale uniformità di interessi scientifici e con spirito di collegiale amicizia”. Continuavo parafrasando quanto aveva detto alcuni giorni prima, proprio al Congresso di Cagliari (magnificamente organizzato dal Prof. Biggio), il Dott. Paolo Diana della FOFI: “il verbo fare mi piace di più quando si accompagna all’avverbio insieme” e terminavo con una celebre affermazione di Machiavelli: “per migliorare bisogna cambiare, ma ogni cambiamento ha tipi di sostenitori ed acerrimi oppositori”. Oggi, a conclusione del mio mandato, nello scrivere questa lettera non posso fare a meno di chiedermi se in qualche modo sono stato capace di coniugare gli “interessi scientifici” con il “fare insieme” e con la necessità di “cambiare per migliorare”. Il primo obiettivo: la Famiglia dei farmacologi Una grande famiglia è quella che rispetta gli anziani ed aiuta i giovani 2 - Quaderni della SIF (2009) vol. 19 a crescere, che li tiene uniti affinchè i giovani apprendano e gli anziani, dal confronto con i giovani, rivivano antiche e nuove emozioni. Le due assemblee del mio mandato (Roma/Cattolica e Bologna) hanno dato spazio alla voce di tutti e fatto condividere esperienze scientifiche/organizzative dei Maestri: Proff. Preziosi, Paoletti, Gessa, Pepeu (già Presidenti della SIF) e Melchiorri per la sua lunga e affettuosa militanza con Erspamer. I due Seminari di Pontignano, (XII il 22-25 Settembre 2008 e XIII il 2730 Giugno 2009), sempre eccellentemente organizzati dal Prof. Sgaragli, hanno continuato a vedere il confronto di giovani dottorandi appassionati, esuberanti ma anche timorosi. Vi hanno partecipato 150 dottorandi nel 2008 ed altri 150 nel 2009, per il 50% coperti nelle loro spese direttamente dalla Società. Questo sforzo societario ha cercato di sopperire alla carenza di finanziamenti statali per i Corsi di Dottorato. Anche in questi due Seminari hanno trovato spazio alcune novità. Oltre a presentare i loro poster e comunicazioni orali, i dottorandi hanno potuto conoscere storie personali (quella di Massimo Di Rosa e di Giancarlo Pepeu), di vite appassionatamente dedicate alla ricerca, e approcciarsi al mondo del lavoro, poiché sono stati invitati Manager di industrie farmaceutiche e Direttori di centri di ricerca per illustrare le loro esperienze, anche in vista di potenziali opportunità lavorative. È infine stata creata una sessione nel sito web della Società dove i “Pontignani e le Pontignane” possono far sentire la loro voce. Altro è stato fatto per i nostri giovani, ma forse molto di più si sarebbe potuto fare per la famiglia “Farmacologia”. Per vivere e sopravvivere una famiglia ha però bisogno anche di ampliare il proprio numero di componenti e le proprie competenze. A differenza del passato, oggi molte altre figure professionali si occupano del farmaco e non possono, in base al nostro regolamento, accedere alla Società. Mi riferisco ad esempio ai farmacisti ospedalieri, agli economisti, agli statistici che si interessano del farmaco, ecc.. Sarebbe, a mio avviso, opportuno aprire la SIF senza timori anche a loro, adattando le “caratteristiche di curriculum scientifico” necessarie fino ad oggi per essere ammessi nella Società. Il secondo obiettivo: “Fare insieme” Il terzo obiettivo: “Per migliorare bisogna cambiare” In questi due anni, la Società ha sviluppato una stretta e proficua collaborazione con l’AIFA, concretizzatasi in due corsi (Roma 3/6/ 2008 e 7/5/2009) di formazione/informazione per i soci componenti dei Comitati Etici e nell’incontro che precederà, nella mattinata del 14 ottobre, l’inaugurazione del Congresso di Rimini. La collaborazione con SSFA e SISF ha portato alla realizzazione del 1° e 2° Forum Nazionale di Chia Laguna, che ha inserito ancor più la Società nel dibattito relativo al valore dell’innovatività e dell’utilità terapeutica dei nuovi farmaci, sulla base dei dati di ricerca pre-clinica e clinici premarketing. I due Forum hanno anche visto il patrocinio di Assobiotec, Federchimica e Farmindustria e l’egida di AIFA, altro esempio di “fare insieme”. Ed ancora, sempre grazie a Farmindustria, molti soci sono stati premiati e lo saranno ancora all’inaugurazione del Congresso per la loro attività di ricerca. Assai importante mi sembra la collaborazione con la SIFO, non solo per quel che riguarda i compiti dei Comitati Etici, ma soprattutto per i numerosi corsi ECM congiunti, finalizzati a stimolare una più appropriata prescrizione dei farmaci, anche dal punto di vista economico. Molto altro è stato fatto insieme, come due Simposi sulla Gender Pharmacology organizzati dalla Prof.ssa Franconi a Roma e a Sassari, un Simposio sul ruolo del placebo nella sperimentazione clinica organizzato dal Prof. Borea a Ferrara, una pubblicazione, a cura della SIF, del libro “Reazioni avverse a farmaci: sospetto e diagnosi” (editore Cortina e supporto della Lundbeck), per il quale va un grazie particolare al Prof. De Ponti, ecc.. Non è necessario continuare questo elenco, perché il nostro sito web, modificato e migliorato, è ormai la grande vetrina delle nostre attività, così come i Quaderni della SIF lo stanno diventando per il dibattito in corso sull’impatto del farmaco e della ricerca nel Paese Italia. Scorrendo il programma del Congresso, si osserva quanta parte di comunicazioni, poster e simposi, sia dedicata alla Farmacologia clinica. Potremmo dire che la Farmacologia di base e quella clinica, tenute spesso separate, si ritrovano in questo Congresso insieme più che nei precedenti, per affrontare l’intero processo della vita di un farmaco, dalla biologia molecolare alla sua utilizzazione nell’uomo. Questo Congresso potrebbe (e a mio giudizio dovrebbe) consolidare questo matrimonio ed ancora una volta suggerirci “lavoriamo insieme”. Oggi, più di ieri, “comunicare” è sinonimo di “esistere”. Una Società Scientifica che si interessa di farmaci tanto più esiste quanto più è capace di arrivare e diffondere le proprie opinioni. È una sua missione sociale!! Il successo di “SIF-farmaci in evidenza” (grazie Proff. Cerbai e Fantozzi) - e si spera anche della neonata “SIF-farmacogenetica e farmacogenomica” (Grazie Proff. Clementi, Fornasari e Genazzani!!!) - è stato forse poco notato all’interno della Società, ma grazie ad esse la nostra voce comincia a giungere non solo alle Istituzioni, ahimè sempre poco recettive, ma soprattutto ai pazienti ed agli operatori sanitari. La SIF ha da sempre un buon rilievo scientifico internazionale. Pharmacological Research ha oggi un IF di 3,287 (grazie Prof. Visioli!!!). Centinaia sono i lavori scientifici che i soci pubblicano su riviste straniere, decine e decine le partecipazioni a Congressi internazionali, talvolta di grande rilievo. Eppure, abbiamo sempre constatato quanto poco ciò sia servito per dare alla SIF il ruolo che meriterebbe di avere riconosciuto. Per potenziare questo ruolo, è necessario che la Società, accanto alle attività consolidate ed alle nuove iniziative, si caratterizzi sempre più anche come “lobby”. È una parola che fa storcere il naso a molti e che non piace neanche a me. Ma è una necessità cui non si può derogare, pena “il non essere considerati”. Avviandomi alla conclusione, vorrei ancora una volta ritornare sulla importanza di “lavorare insieme”. Ho potuto constatare in questi due anni che ancor molti soci hanno un atteggiamento poco attivo, partecipativo ed interattivo con il Direttivo, forse non realizzando ancora che il futuro della Società dipende da tutti i suoi membri e che nessun Consiglio Direttivo o Presidente senza il loro supporto possono farla crescere ancora. A tal proposito vorrei ringraziare a titolo personale, affinché sia di esempio a tutti noi (anche per l’età ormai raggiunta), il socio che, pur non facendo parte del Direttivo, ha rappresentato, in questi due anni, per me un esempio di “fare” soprattutto per gli altri, cioè per la SIF: il Prof. Giancarlo Pepeu. In conclusione, non so se ho raggiunto qualcuno degli obiettivi che mi ero proposto nel discorso dell’8 giugno 2007. Spetterà a voi stabilirlo. Desidero ringraziare tutti coloro che mi hanno eletto. Desidero ringraziare il Consiglio Direttivo con particolar menzione per il Prof. Canonico e desidero ringraziare, ancora una volta, la Dott.ssa Ida Ceserani, che è come sempre nel passato al fianco del Presidente e che forse, più spesso del dovuto, ha tollerato qualche mia insofferenza. Ed infine voglio esprimere il mio più sentito ringraziamento ai soci, giovani non strutturati, il cui entusiasmo per la ricerca di base e clinica in Farmacologia mi ha fatto sentire giovane e mi è sempre servito da stimolo nel mio lavoro per la SIF. Mi auguro che essi realizzino le loro aspirazioni, perchè come si potrà notare al Congresso, la SIF è una società di giovani ed il più importante compito del prossimo Presidente, a mio avviso, dovrà essere quello di continuare a sostenerli, perchè sono essi il valore aggiunto di questa Società. Al neo Presidente Prof. Riccardi, al prossimo Consiglio Direttivo ed a tutti i soci vorrei ricordare le parole di una poetessa brasiliana, Martha Medeiros, che tutti però erroneamenQuaderni della SIF (2009) vol. 19 - 3 te attribuiscono a Neruda: “Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marcia, chi non rischia e chi non cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce. Lentamente muore chi fa della televisione il suo guru. Muore lentamente chi evita una passione, Chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle “i” piuttosto che un insieme di emozioni, proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti all’errore e ai sentimenti.” ■ Finalmente abbiamo una pandemia influenzale: come affrontarla? Ferdinando Dianzani Università di Roma “La Sapienza” Molti si meraviglieranno per questo “finalmente” nel titolo. Non è solo dovuto al fatto che la aspettavamo da circa vent’anni (l’ultima, da H3N2, si è verificata circa 40 anni fa, rispetto ai 20 previsti dai “modellisti”). Però il vero motivo è che, se un evento nocivo è ineluttabile, e vedremo perché questo lo è, la migliore speranza è che si verifichi in un momento favorevole, e questo sembra esserlo. Ma vediamo perché. Occorre tuttavia fare alcune premesse. I virus, parassiti endocellulari obbligati che non possono vivere al di fuori del proprio ospite, tendono ad assumere strategie evolutive che assicurino, per la propria sopravvivenza, anche quella dell’ospite. Per i virus a DNA, che hanno la possibilità di integrare il loro genoma in quello dell’ospite, la forma di evoluzione forse più avanzata è quella che consente di stabilire infezioni latenti che assicurino loro la sopravvivenza e, con ricorrenti riattivazioni, la possibilità di infettare nuovi individui per tutta la durata della vita dell’ospite. I virus ad RNA, salvo i Retrovirus che possiedono una trascrittasi inversa, non possono seguire questa strada ed affidano quindi la conquista della loro sfera ecologica a meccanismi che consentano loro di stabilire nell’ospite una interazione che non lo danneggi sensibilmente e di evadere al tempo stesso le sue difese immunitarie. Questo processo di adattamento, che si basa su una elevatissima frequenza di mutazione e su una energica attività 4 - Quaderni della SIF (2009) vol. 19 replicativa, e quindi ad una rapida selezione del mutante con le caratteristiche più vantaggiose, si esprime nella forma più esaltata nei virus influenzali degli uccelli migratori acquatici, e in particolare nell’anatra selvatica, animale nel quale i virus influenzali hanno mostrato una stasi evolutiva che non ha comportato sostanziali cambiamenti almeno negli ultimi 60 anni. Questo adattamento ottimale è sublimato, oltre che dalla assoluta mancanza di patogenicità, anche dalla assunzione della capacità di replicazione nell’apparato enterico che assicura, in questi animali acquatici, una più facile trasmissione rispetto a quella per via respiratoria. Caratteristica dei virus influenzali dei mammiferi è anche una sorta di mimetismo verso il sistema immunitario dell’ospite che pone il virus nella possibilità di reinfettare più volte il medesimo individuo evitando così l’esaurimento degli ospiti sensibili. Ciò è reso possibile da un lato dal compimento del ciclo replicativo in un distretto dell’organismo in cui prevalgono anticorpi della classe IgA, meno persistenti e con risposte secondarie più lente; dall’altro dalla continua selezione di varianti virali in cui mutazioni puntiformi le rendano meno aggredibili, per difetto di affinità ed avidità, da parte degli anticorpi preesistenti. Occorre tuttavia tenere presente che il processo di adattamento del virus al proprio ospite, e che assicuri la sopravvivenza di entrambi, può richiedere tempi più o meno lunghi, a seconda della pressione di selezione dei mutanti più attenuati, ma che non è comunque operativo quando un virus adattato ad un ospite si trovi casualmente a infettarne un altro di una specie differente, operando quello che viene comunemente chiamato “salto di specie”. In questi casi è infatti possibile che il virus, trovandosi in un ambiente completamente nuovo, possa esternare tutto il suo vigore replicativo e provocare gravi danni all’ospite, ed è esattamente ciò che in genere accade quando i virus influenzali passano dall’anatra al pollo. Per meglio chiarire questo concetto occorre tenere presente che molti virus, la cui sopravvivenza è legata alla facilità con cui vengono trasmessi da un individuo ad un altro, non possono rinunciare ad una efficiente attività replicativa, ma non possono nemmeno permettersi che questa crei troppi danni nell’ospite perché ciò potrebbe interrompere la catena di trasmissione. Pertanto l’attenuazione avviene in generale con la acquisizione di una maggiore sensibilità ai meccanismi difensivi dell’ospite, particolarmente a quelli aspecifici, come la febbre, l’infiammazione e la produzione di interferon e di altre citochine, che svolgono nell’organismo ospite una funzione analoga a quella che le sbarre di grafite svolgevano nella pila atomica di Fermi: controllare la reazione a catena senza interrompere il flusso di energia. Tuttavia a lungo termine i rapporti del virus con le difese immunitarie specifiche, in particolare gli anticorpi, possono diventare problematici. Abbiamo infatti visto come nell’uomo il virus influenzale si assicuri la possibilità di reinfettare periodicamente il medesimo soggetto attraverso il progressivo accumulo di mutazioni puntiformi che gli permettano di evadere le azioni degli anticorpi preesistenti, ma è ovvio che ciò non può proseguire all’infinito ed arriva fatalmente il momento in cui il virus può incontrare serie difficoltà a trovare ospiti sensibili. A questo punto, però con alcuni virus, e in particolare con gli influenzali, possono intervenire altre strategie adattative, la più importante delle quali è quella di rinnovare periodicamente il corredo antigenico di superficie per ricombinazione con virus influenzali da altre specie animali. Ma per comprendere meglio questi meccanismi conviene addentrarci un po’ sulle caratteristiche strutturali, biologiche ed epidemiologiche di questi virus. Caratteristiche biologiche ed epidemiologiche dei virus influenzali Gli ortomixovirus, cui appartengono i virus influenzali, sono dotati di un involucro pericapsidico sferoidale costituito da un mantello fosfolipidico in cui sono inserite glicoproteine virali e glico-e-lipoproteine derivate dalla membrana citoplasmatica della cellula ospite. Le glicoproteine virali sono contrassegnate con le sigle H ed N, acronimi rispettivamente di Emagglutinina e Neuraminidasi. La prima costituisce la struttura con cui il virus si ancora sull’acido sialico della membrana citoplasmatica della cellula ospite, iniziando così l’infezione, e svolge inoltre una importante funzione nella liberazione del genoma virale nel citoplasma. La seconda è un enzima capace di risolvere il legame tra emagglutinina e acido sialico ed ha una funzione importante nell’impedire che il virus rimanga intrappolato nell’acido sialico che si trova nel muco che tappezza le vie respiratorie. Svolge inoltre un ruolo essenziale nel rilasciare le particelle virali dai grumi che si possono formare durante la liberazione dei virioni di progenie dalla membrana citoplasmatica della cellula infetta. La faccia interna dell’involucro è formata da due proteine, M1 e M2, la prima delle quali funge da supporto per i fosfolipidi dell’involucro e la seconda, che è una pompa ionica, crea le condizioni per la liberazione del genoma virale nella cellula. Questo è costituito da otto segmenti separati di RNA a polarità negativa che codificano le dieci proteine virali note. Ai fini dell’infezione dell’ospite, risultano fondamentali le proteine H, N ed M2. La efficienza della replicazione è invece una funzione delle proteine PB1, PB2, PA, che formano il complesso della RNA trascrittasi virale, e NS1 ed NS2, che favoriscono il trasporto dell’RNA virale dal nucleo al citoplasma, bloccano la sintesi proteica della cellula ed inibiscono l’azione dell’interferon. È stato dimostrato che alcune mutazioni a carico di H, PB2 e NS1, sono collegate da un aumento significativo della virulenza. In particolare, nella maggior parte dei ceppi virulenti, compreso l’H5N1 aviario e l’N1N1 che causò la pandemia del 1918, chiamata spagnola e che provocò almeno 20 milioni di morti, è stato rilevato un aumento degli aminoacidi basici del terminale carbossilico che fa aumentare il numero dei siti di taglio da parte delle proteasi dell’ospite. Ne consegue una maggiore efficienza nel processo della liberazione del genoma e, forse, anche la accessibilità da parte di proteasi presenti in distretti differenti da quello respiratorio e quindi un ampliamento dello spettro d’organo. La proteina PB2, riconosce il “cap” nel nucleo della cellula ospite, operazione essenziale per l’inizio della trascrizione del genoma virale. Dato che nei ceppi virulenti sono state evidenziate almeno cinque mutazioni in questa sede, si presume che esse facciano aumentare l’efficienza replicativa del virus. La proteina NS1 ha la capacità di inibire la sintesi delle proteine cellulari e di bloccare l’azione dell’interferon endogeno prodotto durante l’infezione, con il risultato di favorire una maggiore replicazione del virus ed un aumento della citopatogenicità. Pare che una sola mutazione possa essere sufficiente a produrre questo effetto ed è stato anche dimostrato che introducendo il frammento genomico ottavo, che codifica NS, di un ceppo attenuato in uno virulento si ottiene una progenie virale attenuata. Oltre all’uomo, i virus influenzali infettano anche altri mammiferi, come il cavallo, il maiale ed i mammiferi marini, ma è quasi certo che i virus che colpiscono queste specie derivino tutti da ceppi aviari. Sono stati finora identificati 16 sierotipi H e 9 sierotipi N, tutti presenti in varie combinazioni negli uccelli, mentre nel cavallo sono stati identificati 2 sierotipi H e 2 N, nei mammiferi marini 5 H e 3 N, nell’uomo e nel maiale 3 H e 2 N. Come abbiamo già visto, nei mammiferi le due glicoproteine subiscono mutazioni puntiformi che vengono progressivamente selezionate dalle difese immunitarie dell’ospite (deriva antigenica o “antigenic drift”) per cui ad esempio, il virus umano oggi prevalente, l’H3N2, non è quasi più riconoscibile dagli antisieri prodotti dagli individui che vennero infettati nel 1968, anno della comparsa del virus. Tuttavia, favoriti dalla molteplicità dei segmenti genomici, i virus influenzali possono andare incontro ad un evento mutazionale molto più drastico, lo scambio antigenico (o “antigenic shift”). Esso consiste in una sorta di “incrocio” tra due virus influenzali differenti, che si scambino tratti del proprio genoma, consentendo così la “creazione” di un nuovo virus influenzale. Perchè ciò accada, occorre che i due virus influenzali differenti (in genere uno umano ed uno aviario) infettino la medesima cellula, si moltiplichino entrambi, abbiano la possibilità di scambiarsi tratti di genoma in maniera “mirata” e cioè in modo che il nuovo virus possegga comunque tutti e otto i segmenti canonici del genoma, ed infine che il virus ricombinante sia capace di prevalere su quelli preesistenti ed acquisisca la capacità di essere trasmesso facilmente da ospite ad ospite ed iniziare quindi una nuova epidemia. Se il nuovo virus trova la popolazione totalmente priva di difese immunitarie acquisite nel corso di precedenti infezioni, dilaga rapidamente causando una pandemia. Tuttavia perché questo evento possa verificarsi è necessario che avvenga tutta una combinazione di eventi ciascuno dei quali è di per sé molto raro. Infatti il fenomeno della interferenza virale, tende ad escludere che una cellula venga infettata contemporaneamente e produttivamente da due virus Quaderni della SIF (2009) vol. 19 - 5 differenti, come è dimostrato anche dal fatto che, nonostante da vari anni circolino contemporaneamente nell’uomo due differenti virus influenzali, A, H3N2 e H1N1, i ricombinanti H3N1 e H1N2 esistono ma sono molto rari. Inoltre la trasmissione tra uccelli e uomo è resa difficile dalla differente struttura recettoriale dell’acido sialico, con galattosio 2,3 negli uccelli e galattosio 2,6 nell’uomo. L’operazione potrebbe essere facilitata dall’intervento di un ospite intermedio, il maiale, che possedendo entrambi i tipi di recettori, può essere infettato, ed infettare, entrambi gli ospiti. Non solo, ma essendo suscettibile ad una contemporanea infezione da parte di virus aviari ed umani può fungere da “omogeneizzatore” e produrre nuovi virus con componenti suine, aviarie ed umane ed è esattamente ciò che sembra sia avvenuto con la comparsa del nuovo virus H1N1, che ha iniziato l’attuale pandemia. Evoluzione dei virus influenzali A nell’uomo Durante il secolo appena trascorso, sono state documentate tre pandemie influenzali causate rispettivamente ed in ordine di successione, dai virus H1N1, H2N2 e H3N2. L’H1N1, che è stato recentemente “recuperato” dai resti di soggetti deceduti ed interrati in regioni artiche; comparve nel 1918 dando origine ad una pandemia disastrosa, “la spagnola”, che provocò in circa due anni, anche per l’assenza di trattamenti adeguati, tra i 20 ed i 40 milioni di morti, con una letalità calcolabile intorno al 5%. L’analisi del genoma ha portato alla conclusione che questo virus sia stato interamente aviario, trasmesso all’uomo quasi certamente dopo un adattamento intermedio nel maiale. Non si può tuttavia escludere che ci sia stato anche un processo di ricombinazione tra due subunità delle proteine H suina ed umana. Il virus “ricostruito” ha mostrato nel topo una attività replicativa migliaia di volte superiore a quella che abitualmente si registra con altri virus influenzali e questa attività è forse attribuibile alla conformazione della proteina polimerasica PB2 ed alla abbondanza di siti di taglio proteolitico della proteina H. Tra il 1918 6 - Quaderni della SIF (2009) vol. 19 ed il 1919 si sono succeduti tre picchi epidemici, il secondo dei quali nell’ottobre-dicembre 1918 è stato caratterizzato dalla più alta letalità. Negli anni successivi le caratteristiche sia patologiche, sia epidemiologiche, andarono progressivamente attenuandosi assumendo un andamento tipico della influenza umana “normale”. Il virus ha circolato nella popolazione umana, presumibilmente fino al 1956-1957, anno in cui si è verificata una seconda pandemia chiamata “Asiatica” e causata da un nuovo virus influenzale A, H2N2. È stato possibile oggi stabilire che il nuovo virus “umano” è stato frutto di una ricombinazione tra l’H1N1 e l’H2N2 dell’anatra, dal quale il virus umano ha derivato i segmenti genici che codificavano la proteine H, N, e PB1. Anche in questo caso la comparsa del nuovo virus assunse un andamento pandemico, con un quadro clinico piuttosto violento, caratterizzato dall’interessamento dell’apparato respiratorio profondo, ma con una letalità fortunatamente molto più bassa dell’episodio precedente, verosimilmente dovuta alla larga disponibilità di antibiotici capaci di controllare le superinfezioni batteriche. Anche in questo caso la gravità dell’infezione si andò progressivamente attenuando negli anni successivi fino al 1968, anno di comparsa del nuovo virus H3N2 “Hong Kong” che è ancora oggi prevalente. Anche questa volta si trattò di una ricombinazione tra il virus umano ed un H3N aviario dal quale erano stati assunti i segmenti H e PB1. La circolazione del nuovo virus assunse anche in questo caso un andamento pandemico, ma con caratteristiche molto più sfumate, forse perché la popolazione era parzialmente protetta dagli anticorpi verso la proteina N2 prodotti nelle epidemie precedenti. È abbastanza singolare o comunque non facilmente spiegabile, il fatto che la comparsa di un nuovo virus “pandemico” sia seguita dalla scomparsa totale del sierotipo preesistente, fenomeno per cui in condizioni “naturali” la popolazione umana è interessata da un solo tipo di virus influenzale A alla volta. Questa regola è stata interrotta nel 1977, anno in cui è ricomparso l’H1N1, quasi sicuramente sfuggito da un laboratorio paramilitare sovietico. All’inizio il mondo tremò, temendo il ritorno della spagnola, ma divenne ben presto evidente che si trattava di timori eccessivi, dato che il “reduce” del 1918 ha avuto ed ha ancora una circolazione modesta caratterizzata da una notevole mitezza dal punto di vista patologico. Tuttavia, la contemporanea circolazione di due sierotipi di virus influenzale A, nella popolazione umana ci ha insegnato quanto i fenomeni di ricombinazione siano infrequenti, o quantomeno, come la selezione dei ricombinanti sia ardua. Infatti, come abbiamo già detto, i ricombinanti H3N1 ed H2N2 sono stati isolati raramente e senza evidenza di trasmissione interumana. Tuttavia nel 1976, appena prima della “fuga dell’H1N1 sovietico” era avvenuto un altro episodio che dovrebbe farci riflettere. Infatti in una stazione militare del New Jersey, Fort Dix, si manifestò tra le giovani reclute, una violenta epidemia di influenza respiratoria, con un caso letale, da cui fu isolato un nuovo virus, identificato con H1N1 suino (swH1N1), molto simile a quello che aveva iniziato la pandemia spagnola del 1918. In poco tempo i casi tra i soldati risultarono circa trecento e ciò indusse nelle autorità politiche e sanitarie degli Stati Uniti una sorta di panico, determinato dal fatto che la terribile spagnola potesse riaffacciarsi nel paese. In tempo di record fu preparato un vaccino che venne somministrato in fretta e furia a circa 40 milioni di persone. Ci si accorse però ben presto che: 1) a parte lo sfortunato caso letale, le forme cliniche erano piuttosto miti; 2) che nessun caso si era verificato al di fuori di Fort Dix; 3) che tra i vaccinati si erano verificati circa 50 casi di sindrome di Guillain Barrè che, anche se non attribuibili con certezza alla vaccinazione, si erano manifestati in un “cluster” temporale con essa. Tutto questo fece interrompere immediatamente la somministrazione del vaccino e la paura della pandemia venne subito seguita da inevitabili polemiche. E veniamo ai nostri giorni… La nuova Pandemia Verso la seconda metà di marzo 2009, in Messico si cominciarono ad osservare casi di infezione respiratoria simil-influenzale che assunsero ben presto un andamento epidemico in tre parti del paese, tanto che dopo circa un mese, erano stati segnalati circa 800 casi con circa 60 esiti mortali. A proposito di questo ultimo dato occorre subito precisare che in questa fase la diagnosi era solo di tipo clinico, tanto che alla fine di aprile solo 18 dei casi messicani aveva ricevuto una conferma di laboratorio della eziologia da un nuovo virus di provenienza suina, H1N1. La situazione cominciò ad evolvere rapidamente con il passaggio della frontiera con gli Stati Uniti e con la comparsa in questo paese di 7 casi di mite sindrome influenzale confermati in laboratorio come dovuti al nuovo virus. Da questo momento l’O.M.S. iniziò a segnalare la incidenza dei nuovi casi confermati da H1N1 in tutto il mondo. I dati indicano che il 1 maggio il virus era comparso in 11 paesi, prevalentemente in soggetti che lo avevano presumibilmente contratto durante un viaggio in Messico. Tuttavia la rapida espansione dei casi in vari paesi, come gli Stati Uniti, il Canada, il Giappone, la Spagna e l’Inghilterra, indicava chiaramente che il virus importato veniva facilmente trasmesso nella popolazione residente. Ai primi di giugno cominciarono ad essere interessati anche vari paesi dell’America centrale e meridionale e l’Australia. Esistevano pertanto le condizioni per dichiarare aperta la pandemia che però venne proclamata ufficialmente l’11 giugno. Al momento in cui scrivo, 30 giugno, i casi accertati ammontano a circa 70.000, in oltre 100 paesi, tra cui il nostro con circa un centinaio di casi. La letalità ammonta a 311 casi, compresi i 60 non confermati riportati dal Messico all’inizio dell’epidemia. Ma pur includendo questi ultimi, la letalità corrisponderebbe a circa lo 0,4%. È stato tuttavia calcolato che, data la mitezza dei sintomi che caratterizzano al momento questa infezione, le diagnosi confermate che, ricordiamo sono quelle riportate dall’O.M.S., sarebbero solo da 1/30 ad 1/100 di quelle effettive. Ne consegue che, sia pure arbitrariamente, possiamo supporre che la letalità sia stata al massimo dello 0,014%, vale a dire molto più bassa di quella che si è fino- ra registrata nelle comuni epidemie stagionali di influenza. È stato inoltre calcolato, sempre sulla base di modelli matematici (che non sempre funzionano), che la trasmissibilità del virus, sia uguale, se non superiore, a quella dei “vecchi” virus influenzali. Se così fosse e tutto lo farebbe pensare, pare che il virus abbia trovato le condizioni ideali per mantenersi in questa sfera ecologica, e cioè una prolungata trasmissibilità interumana da parte di pazienti che in discrete condizioni di salute possono, mantenendo una normale vita di relazione, trasmettere facilmente il virus ai propri contatti. Cosa possiamo aspettarci per il prossimo futuro? Nessuno possiede la sfera di cristallo, per cui si può solo speculare su possibilità soltanto teoriche, sia pure basate su dati scientifici. Su queste grava una esperienza pesante, anche se remota, come quella della epidemia di spagnola del 1918, che iniziò con forme miti, ma che assunsero nella seconda ondata stagionale un andamento assai più grave con una letalità di circa il 5%, prevalentemente in soggetti di giovane età. Molti di quei casi mortali erano presumibilmente dovuti a superinfezioni batteriche che in assenza di antibiotici risultarono incontrollabili. Non è tuttavia da escludere che, come sembra accertato che si sia verificato anche recentemente nei casi di SARS e di influenza aviaria da H5N1, vi sia stata alla base anche una patogenesi di tipo infiammatorio con una iperproduzione di citochine di tipo TH1 (IFN gamma, IL2, IL12, TNF, ecc.) e quindi di tipo immunopatologico. Perché questo sia avvenuto non è ancora accertato, ma non si possono escludere né la possibilità che una mutazione del virus possa avere apportato una modifica, facendogli assumere caratteristiche di superantigene, né che un preesistente ma incompleto stato immunitario dei pazienti verso il medesimo antigene od uno correlato abbia generato una risposta secondaria di insolita violenza. È infatti poco probabile che la evoluzione del virus abbia selezionato mutanti per una maggiore virulenza, cosa che, come abbiamo ripetutamente affermato, porterebbe al virus stes- so caratteristiche evolutivamente negative. Propendiamo pertanto verso la seconda ipotesi. Ma che rischi ci sono che ciò possa verificarsi anche stavolta? Forse lo sapremo presto perché è presumibile che se ciò dovesse avvenire lo dovremmo vedere anticipatamente nel corso della maggiore espansione dell’epidemia che dovrebbe verificarsi durante l’inverno che è oramai alle porte nell’emisfero meridionale. Nel frattempo cosa fare? Tutti pensano al vaccino, e ciò è corretto su basi prudenziali. Occorre però tenere presente che in tempi così ristretti è impensabile che si possa disporre nella quantità necessaria a proteggere l’intera popolazione mondiale. Potrebbe pertanto verificarsi il caso che un’ampia copertura vaccinale in alcuni paesi, che come sappiamo ha una durata di non più di due tre mesi, possa far trovare la popolazione esposta alla reintroduzione del virus magari mutato, proveniente in altri paesi in cui non si è potuta effettuare la vaccinazione. Ci sembrerebbe quindi più saggio seguire l’evolversi della situazione lasciando che si infetti il maggior numero di soggetti con il virus che sta circolando, tenendo conto del fatto che un’infezione mite come quella attuale costituisce il miglior vaccino possibile contro una eventuale accentuazione di patogenicità. Giusto quindi accumulare vaccini ed antivirali ma attendere ad usarli solo quando ce ne fosse veramente bisogno. Nel frattempo aspettare incrociando le dita, ma con gli occhi bene aperti anche sul piano diagnostico differenziale, dato che le forme polmonari virali e quelle autoimmuni richiedono interventi terapeutici differenti diversi, antivirali nelle prime ed antiinfiammatorie nelle seconde. Chi vivrà vedrà, ma se mi si chiedesse oggi una previsione, nonostante i miei antenati etruschi maestri nell’arte divinatoria, non saprei cosa rispondere. Scendendo però su un terreno più a me congeniale, quello dei virus, ritengo che ci sia ampio spazio per l’ottimismo. Sperando che non crepi l’astrologo! ■ Quaderni della SIF (2009) vol. 19 - 7 FORUM-INNOVAZIONE FARMACOLOGICA Coordinato da Giuseppe Recchia Innovazione della terapia e sviluppo dei nuovi farmaci Giuseppe Recchia e Francesca Patarnello Direzione Medica & Scientifica GlaxoSmithKline, Verona Il processo di Ricerca e Sviluppo (RS) dei farmaci destinati ad essere immessi in commercio nel corso dei prossimi 5 anni è influenzato da una serie di fenomeni di natura non solo scientifica e tecnologica, ma anche sanitaria, economica e sociale, quali: • la scadenza dei brevetti della maggior parte dei farmaci per il trattamento delle malattie comuni, che si completerà in grande parte entro il 2012; • l’evoluzione scientifica e tecnologica, che ha permesso di comprendere aspetti della patogenesi di varie malattie e di sviluppare tecnologie (in particolare le proteine terapeutiche) in grado di modulare la attività di nuovi target biologici; • la limitata capacità di trasferimento della conoscenze dall’ambito sperimentale all’ambito applicativo (“Gap Traslazionale”) e, di conseguenza, la ridotta produttività della RS, soprattutto nelle organizzazioni farmaceutiche di maggiori dimensioni; • la limitatezza delle risorse destinate alla assistenza sanitaria rispetto ai bisogni di una popolazione progressivamente più anziana e con maggior carico di malattia, soprattutto cronica e degenerativa, e la conseguente esigenza da parte dei sistemi sanitari di assicurare sostenibilità ai propri interventi, in particolare per 8 - Quaderni della SIF (2009) vol. 19 quanto riguarda le tecnologie ad alto costo, attraverso la valutazione del valore e la assicurazione della appropriatezza di uso; • la richiesta, da parte dei cittadini, di maggiori informazioni sulla salute e di maggiori garanzie sulla sicurezza e sulla tollerabilità dei farmaci. Come risultato di questi fenomeni trasformativi, è destinato a modificarsi profondamente anche lo stesso modello di business farmaceutico, che da processo di vendita di farmaci evolverà verso la fornitura e la gestione di risultati di salute a valore aggiunto, ottenuti attraverso la collaborazione con nuovi e diversi attori della filiera della assistenza farmaceutica in particolare e sanitaria in generale (1-3). Scienza e Tecnologia Obiettivo primario della ricerca farmaceutica è divenuta la descrizione dei percorsi molecolari che dalla causa della malattia (nella gran parte dei casi ancora ignota) conduce ai segni, ai sintomi ed alla progressione della malattia, allo scopo di identificare strutture molecolari con ruolo patogenetico rilevante che possano divenire bersagli biologici per nuovi composti. A seconda delle caratteristiche della attività del bersaglio da modulare, tali composti possono essere rappresentati da proteine tera- peutiche quali anticorpi monoclonali o vaccini terapeutici oppure da piccole molecole chimiche (small molecules). La ricerca farmacogenomica e farmacogenetica, la ricerca sui processi dell’invecchiamento e sulle basi immunologiche della autoimmunità rappresentano alcune tra le maggiori direttrici della ricerca farmaceutica (Tabella 1). Per innovare la terapia e produrre efficaci soluzioni terapeutiche la scienza, ovvero la dimensione della conoscenza, deve essere coniugata con la tecnologia, ovvero la dimensione del poter fare. Le tecnologie con il maggior potenziale innovativo destinate ad essere introdotte nella pratica medica nel corso dei prossimi 3-5 anni sono rappresentate da Anticorpi Monoclonali di 2a Generazione, Vaccini Terapeutici, Cellule Staminali, Test Genetici Predittivi (Tabella 2). Il Valore del Farmaco Scienza e tecnologia rappresentano condizioni abilitanti per l’innovazione della terapia, ovvero per lo sviluppo di interventi a valore aggiunto per la soluzione dei problemi di salute – ancora senza risposta – di pazienti e popolazioni. Tali problemi, definiti dalla Organizzazione Mondiale della Sanità quali “Gap Farmaceutici”, possono essere identificati Tabella 1 – Ricerca sui processi dell’invecchiamento La ricerca sull’invecchiamento e sulle possibilità di rallentamento farmacologico di tale processo, allo scopo di prevenire le patologie ad esso associate ed aumentare la sopravvivenza in buona salute, rappresenta una delle più recenti frontiere della ricerca farmacologica. Il rallentamento del processo di invecchiamento attraverso interventi di restrizione calorica, dimostrata a livello sperimentale in alcune specie di animali inferiori, è stata recentemente confermata nei primati (4). Approfondendo i meccanismi di tale effetto, sono state identificate alcune proteine con un potenziale ruolo nel determinare il rallentamento del processo di invecchiamento, appartenenti alla famiglia delle Sirtuine. I primi attivatori di tali proteine, indicati per il trattamento delle manifestazioni cliniche metaboliche e degenerative dell’invecchiamento, sono giunti negli ultimi 12 mesi alla fase di sviluppo clinico esploratorio (5), mentre la dimostrazione del rallentamento del processo di invecchiamento anche in età avanzata è stato recentemente dimostrato nei mammiferi con la Rapamicina (6). Lo sviluppo di interventi farmacologici indicati per il rallentamento del processo di invecchiamento di provata efficacia comporta una serie di sfide di natura scientifica, regolatoria, sanitaria e sociale. Non sono ad oggi disponibili, in particolare, strumenti metodologici e tecnologici (modelli di studio, utilizzo dei biomarcatori surrogati del processo di invecchiamento) ed un sistema di regole formali che permettano lo sviluppo di trattamenti per questa finalità, che non rappresenta una malattia e pertanto non costituisce di per sé un’indicazione terapeutica. In considerazione dello stato della ricerca sull’invecchiamento e dei progressi fino ad ora raggiunti, le implicazioni di natura etica e sociale e le conseguenze sanitarie derivanti dalla applicazione di interventi per il rallentamento del processo di invecchiamento di una popolazione richiedono un primo approfondimento anche nel contesto sociale e sanitario italiano. attraverso la metodologia sviluppata dalla stessa organizzazione, che ha indicato i farmaci destinati allo loro soluzione quali “Farmaci Prioritari” (8). Come conseguenza dell’evoluzione dello scenario economico e sanitario, la discussione su utilità, innovazione, valore e terapia è oggi al centro dell’agenda sanitaria e scientifica dei sistemi sanitari europei. Se in termini generali l’utilità di un prodotto dipende dalla possibilità di soddisfare un bisogno, il valore di un prodotto è determinato dalla capacità di soddisfarlo in modo migliore – sulla base del giudizio dell’utente – rispetto ad altri aventi la medesima indicazione di uso. Pertanto, mentre l’utilità può essere intesa come un concetto assoluto, riferito al singolo prodotto considerato, il valore rappresenta un concetto relativo, riferito all’insieme degli interventi utilizzabili per soddisfare il medesimo bisogno. Per quanto riguarda il farmaco, il valore esprime la capacità di soddisfare un bisogno di salute, sanitario o sociale in modo migliore – secon- do la prospettiva della parte interessata dal bisogno – rispetto ad altri prodotti aventi medesima indicazione e caratteristiche di uso. Tale valore viene determinato da una serie di attributi, ciascuno dei quali può concorrere in modo indipendente oppure sommarsi ad altri nel definire l’entità del valore, quali il beneficio clinico incrementale, il costo ed il prezzo, la sostenibilità e la compatibilità ambientale, la stabilità e la conservazione, la modalità di distribuzione (9). Ciascuna determinante del valore di un farmaco può rappresentare un obiettivo di sviluppo per un nuovo prodotto e la disponibilità di incentivi regolatori e/o di mercato permetterebbe di orientare la ricerca e lo sviluppo di farmaci caratterizzati dalla presenza di tali attributi del valore. L’utilizzo di tecnologie innovative favorisce lo sviluppo, ma non determina necessariamente il valore del prodotto, del quale ne rappresenta una premessa o una potenzialità. Innovazione Terapeutica e Farmaco Tra i determinanti del valore di un farmaco, il beneficio clinico incrementale per il paziente, ovvero il miglioramento relativo nei confronti della terapia di riferimento delle caratteristiche di efficacia e/o tollerabilità e/o facilità di uso, rappresenta attualmente l’obiettivo primario per l’indirizzo strategico della RS di nuovi farmaci. Nella normativa italiana, il concetto di beneficio clinico incrementale secondo la prospettiva del paziente è stato definito come “innovazione terapeutica” nel documento “Criteri per l’attribuzione del grado di innovazione terapeutica dei nuovi farmaci” pubblicato dalla AIFA - Agenzia Italiana del Farmaco nel 2007 (10). La dimostrazione della innovazione terapeutica è il risultato della fase finale dello sviluppo clinico dei nuovi farmaci ed in particolare della progettazione e conduzione degli studi clinici confirmatori di Fase 3, nel corso dei quali vengono documentate condizioni che possono essere definite “determinanti” della innovazione terapeutica (Tabella 3). Tabella 2 - Ricerca farmacologia sulla cellula staminale La ricerca sulle cellule staminali rappresenta una area di nuovo interesse per la RS farmaceutica. Le terapie basate su cellule staminali coprono uno spettro molto ampio di opzioni, tra le quali possono essere incluse piccole molecole o farmaci biologici che modificano il comportamento o il destino cellulare, terapie basate su cellule staminali adulte che non si integrano a livello tessutale e terapie basate su cellule staminali embrionali che si differenziamo nelle cellule bersaglio e che possono integrarsi nei tessuti. Le maggiori sfide per lo sviluppo di applicazioni basate su cellule staminali sono rappresentate dalle modalità della loro espansione, del loro controllo in vitro prima della loro applicazione in vivo e della loro purezza, per garantire che non siano contaminate da altre cellule (7). Quaderni della SIF (2009) vol. 19 - 9 Tabella 3 - Determinanti della Innovazione Terapeutica • Indicazioni - bisogno terapeutico assoluto - non sono disponibili terapie in grado di assicurare beneficio terapeutico appropriato (paziente con malattie orfane di terapia, paziente con controindicazioni assolute alle terapie disponibili) - bisogno terapeutico residuale - il beneficio terapeutico per il paziente trattato con le terapie disponibili non è appropriato (paziente non responder) - bisogno terapeutico soddisfatto - il beneficio terapeutico per il paziente trattato con le terapie disponibili è appropriato • Popolazioni - selezionate in base a) genotipo b) fenotipo - analisi pre-specificate in sottogruppi: selezioni di popolazioni con riposta terapeutica a maggior valore aggiunto • Confronti - verso lo standard di cura - add-on sullo standard di cura • Variabili da misurare - endpoint • processo: efficacia, tollerabilità • esito: valore - endpoint • primari: efficacia, tollerabilità • secondari: correlati al valore Tali determinanti sono stati considerati per la costruzione di uno strumento di valutazione della innovatività terapeutica ai fine della determinazione del Prezzo e del Rimborso (10), nel quale i criteri di giudizio per l’attribuzione del grado di innovazione terapeutica dei farmaci sono basati sulla relazione tra il valore terapeutico preesistente all’introduzione nella terapia del nuovo medicinale o della sua nuova indicazione e la entità dell’effetto terapeutico del nuovo medicinale o della sua nuova indicazione, secondo ponderazioni pre-definite ed in relazione alla indi- Tabella 4 - Criteri di giudizio per la attribuzione del grado di innovazione terapeutica dei farmaci beneficio incrementale maggiore (A) beneficio incrementale moderato (B) beneficio incrementale minore (C) cazione di priorità della malattia per il sistema sanitario (Tabella 4). Sebbene ancora in fase iniziale di sviluppo, la disponibilità di criteri di giudizio per l’attribuzione del grado di innovazione terapeutica dei farmaci rappresenta una condizione importante sia per la valutazione appropriata del valore aggiunto dei farmaci che hanno completato lo sviluppo registrativo che per l’orientamento dello sviluppo clinico dei nuovi composti sperimentali. Allo scopo di assicurare la validità e l’affidabilità dello strumento di valutazione, oggi gravato dal rischio di scarsa riproducibilità delle valutazioni tra diversi valutatori o in diversi tempi di valutazione e di limitarne la discrezionalità nell’uso, è tuttavia necessario un ulteriore e significativo sviluppo dello strumento, allo scopo di definire in modo preciso i diversi parametri e criteri che concorrono al giudizio e le loro relazioni. Ciò richiederà ulteriore analisi e ricerca sugli assi dello strumento e sulle relazioni esistenti tra gli assi (Tabella 5). Oltre alla valutazione dei farmaci ai fini di determinazione del prezzo e rimborso, questi criteri di giudizio possono consentire la progettazione della innovazione terapeutica nello sviluppo delle nuove tecnologie sanitarie. Tale innovazione terapeutica sarà tanto maggiore quanto più lo sviluppo sarà orientato verso: - indicazioni rappresentate da bisogni assoluti o bisogni residuali; - popolazioni selezionate fenotipicamente o genotipicamente, - variabili clinicamente rilevanti; - confronti basati sull’approccio di superiorità verso la terapia di riferimento. Innovazione Terapeutica Potenziale ed Innovation Pass Una delle caratteristiche distintive del documento “Criteri per l’attribuzione del grado di innovazione terapeutica dei nuovi farmaci” è rappresentata dal concetto di innovazione potenziale, caratteristica propria di farmaci caratterizzati da azione su nuovi bersagli biologici e nuovi mec10 - Quaderni della SIF (2009) vol. 19 Tabella 5 – Aree di possibile approfondimento Asse del Valore Terapeutico Attuale Il Valore Terapeutico Attuale è definito sulla base del bisogno terapeutico che il nuovo medicinale o la sua nuova indicazione deve soddisfare ed è classificato su 3 livelli (Tabella 4). Poiché le malattie sono attualmente definite sulla base del fenotipo, mentre i farmaci agiscono su percorsi molecolari geneticamente determinati, per ogni malattia possono esservi pazienti con bisogno soddisfatto in modo diverso dalla medesima terapia e pertanto distribuiti su più livelli. Le percentuali di distribuzione non sono tuttavia sempre disponibili. Le malattie con maggior proporzione di pazienti con bisogno terapeutico non soddisfatto o assoluto rappresentano Gap Farmaceutici ed i composti necessari alla loro soluzione possono essere considerati Farmaci Prioritari secondo le indicazione WHO. Asse dell’Effetto Terapeutico del Farmaco in valutazione L’effetto terapeutico del nuovo medicinale o della sua nuova indicazione è definito sulla base del confronto con la terapia di riferimento standard ed è classificato secondo 5 livelli, dei quali 3 espliciti e 2 impliciti. Per una completa definizione di tale asse, nel proseguimento dello sviluppo dello strumento sarà utile approfondire il significato di beneficio clinico e la dimensione quantitativa di maggiore, moderato, minore, la natura delle basi di informazione utilizzabili (risultati di ricerca primaria, ricerca secondaria, altro), il ruolo degli endpoint primari e secondari, il grado della loro concordanza, il possibile utilizzo delle analisi post-hoc, la natura degli effetti terapeutici (efficacia, tollerabilità, convenienza) ed in particolare il significato delle misurazioni di qualità della vita correlata alla salute. Relazione tra i 2 assi La relazione tra valore terapeutico preesistente all’introduzione nella terapia del nuovo medicinale o della sua nuova indicazione ed effetto terapeutico del nuovo medicinale o della sua nuova indicazione, ovvero il contributo relativo di ciascun criterio di giudizio sul giudizio finale, dovrebbe essere definita sulla base di un consenso tra esperti. Si ritiene utile infine disporre di un manuale d’uso ed effettuare un formale processo di validazione secondo modalità definite nel manuale dello strumento, nell’ambito del quale valutare la sensibilità potenziale dello strumento se applicato agli studi in corso con riferimento anche ai diversi contesti e aree terapeutiche. canismi di azione, per i quali non sono ancora disponibili adeguate prove di beneficio clinico incrementale nei confronti dello standard di cura, come nel caso in cui lo sviluppo sia stato ad esempio basato su confronti di non-inferiorità od equivalenza verso terapia standard oppure verso placebo in presenza di una terapia di riferimento. L’ingresso nella pratica medica, attraverso la autorizzazione alla immissione in commercio del nuovo farmaco, rappresenta tuttavia la fase iniziale dello sviluppo del farmaco ed in molti casi al momento della valutazione ai fini della rimborsabilità del nuovo farmaco sono in corso o in fase di avvio nuovi studi, spesso con l’obiettivo di documentare la superiorità di trattamento verso alternative tera- peutiche; la decisione di consentire un periodo di esenzione dalla valutazione finale e di concedere lo status di innovazione potenziale a tali farmaci rappresenta una condizione utile, se non necessaria, per consentirne l’ingresso in terapia, lo sviluppo nel mercato ed il successivo sviluppo clinico in grado di verificare le condizioni di attualità della innovazione terapeutica. Il criterio di innovazione potenziale, inizialmente proposto in Italia, è stato successivamente valutato con attenzione ed interesse dalla agenzie regolatorie di altri paesi (11). Nel luglio 2009 l’Office of Life Sciences del Regno Unito ha pubblicato la propria proposta per “porre l’innovazione al centro del processo sanitario”. Come parte di questo mo- dello, il governo inglese prevede la introduzione di un “innovation pass”, ovvero un programma pilota biennale (2010-11) con un budget di 25 milioni di sterline per rendere disponibili al Sistema Sanitario del Regno Unito specifici e selezionati farmaci con caratteristiche di potenziale innovazione. Il piano consentirebbe ad un farmaco potenzialmente innovativo di essere utilizzato per un periodo di 3 anni in assenza di una valutazione tecnologica favorevole da parte del NICE – National Institute for Health and Clinical Excellence - oggi necessaria per il rimborso dei nuovi farmaci da parte del Sistema Sanitario. Questo periodo di esenzione della valutazione tecnologica da parte del NICE della durata di 3 anni dovrebbe essere utilizzato dalle compagnie farmaceutiche per produrre ulteriori dati clinici in grado di documentare l’innovazione attuale dei farmaci, attraverso studi da realizzare almeno in parte nel Regno Unito. I criteri di eleggibilità per l’esenzione dovranno essere sviluppati ed utilizzati dal NICE entro i prossimi mesi (12). Lo sviluppo clinico dei nuovi farmaci Il contesto sociale, demografico ed economico nel quale opera l’industria farmaceutica sta evolvendo rapidamente ed influenza i processi di RS e di commercializzazione dei nuovi farmaci da parte della industria farmaceutica. Le nuove esigenze sanitarie, proprie degli enti pagatori, di terapie caratterizzate da valore aggiunto e le richieste sociali (espresse dalle decisioni degli enti regolatori quali FDA ed EMEA) per una maggior sicurezza di uso dei nuovi farmaci stanno modificando le modalità di progettazione ed esecuzione degli studi clinici di fase 3, nei quali vengono prodotte le informazioni necessarie a documentare l’efficacia e la tollerabilità ai fini dell’ottenimento della autorizzazione alla immissione in commercio del farmaco ed il valore terapeutico ai fini dell’ottenimento del prezzo, del rimborso e delle condizioni di prescrizione ed utilizzo in Quaderni della SIF (2009) vol. 19 - 11 parte a questi criteri, è riportato in Tabella 6. rapeutico attuale (ovvero le alternative terapeutiche) sia ridotto ed il valore aggiunto del nuovo composto possa risultare rilevante; • prima della valutazione ai fini della rimborsabilità, dopo la fase 3, quando non è più possibile aumentare il valore intrinseco del farmaco, documentare il valore esistente e/o integrarlo mediante ricerca secondaria (es. revisioni sistematiche, panel di esperti, sul bisogno di cure di una determinata popolazione nel proprio contesto sanitario ed organizzativo); • dopo l’immissione in commercio, preservare il valore del prodotto e migliorarne le condizioni di accesso e di utilizzo per i pazienti attraverso attività continua di monitoraggio e ricerca che rendano più efficienti gli investimenti in salute. Conclusioni BIBLIOGRAFIA Tabella 6. – Sviluppo clinico di fase 3 di Darapladib Indicazione • Riduzione del rischio cardiovascolare (morte cardiovascolare, infarto miocardio acuto non fatale, ictus non fatale e necessità di rivascolarizzazione) in pazienti con documentata malattia cardiovascolare (SCA/CHD, stroke e arteriopatia periferica) Popolazione • Selezionata sulla base del fenotipo • Circa 30.000 pazienti • Endpoint Riduzione del numero di eventi MACE (end point composito morte cardiovascolare ed infarto del miocardio) Disegno • Event-driven • Add-on sul miglior trattamento disponibile • Confronto con placebo • Superiorità vs Standard di Cura Durata • Mediana del trattamento 2,75 anni grado di condizionare l’accesso del prodotto al mercato. Come conseguenza delle richieste regolatorie sulla documentazione della sicurezza dei nuovi trattamenti, soprattutto nel caso di interventi a lungo termine per malattie croniche, le dimensioni del campione sperimentale e la durata del follow up sono destinate ad un progressivo ampliamento e per taluni composti o classi terapeutiche potrà divenire necessaria la conduzione di specifici studi di esito. Nel caso dei farmaci antidiabetici, ad esempio, la FDA richiede oggi che le compagnie farmaceutiche conducano studi sul rischio cardiovascolare a lungo termine per tutti i farmaci antidiabetici, indipendentemente dal fatto che siano stati rilevati o meno segnali di rischio cardiaco nei precedenti studi clinici. La necessità di documentare il valore aggiunto del farmaco comporta da parte della RS farmaceutica la necessità di aggiornare sia i disegni dei nuovi studi, al fine di fornire prove della innovazione terapeutica rispetto alla terapia standard, che le variabili cliniche utilizzate, allo scopo di rispondere in modo puntuale alle richieste degli enti pagatori. Un esempio di sviluppo clinico di un nuovo prodotto, l’inibitore della LP-PLA2 Darapladib per la prevenzione degli eventi cardiovascolari maggiori nel paziente ad alto rischio cardiovascolare, ispirato almeno in 12 - Quaderni della SIF (2009) vol. 19 L’Italia sta anticipando alcuni orientamenti di valutazione delle tecnologie sanitarie destinati ad essere ampiamente diffusi a livello europeo negli anni ’10, attraverso il riferimento esplicito alla innovazione terapeutica quale “beneficio incrementale per il paziente” ai fini della definizione di prezzo e rimborso e lo sviluppo di infrastrutture di valutazione tecnologica. In tale contesto riassicurare un appropriato livello di valore aggiunto, inteso come capacità di soddisfare bisogni ed aspettative di pazienti, pagatori e prescrittori in modo incrementale rispetto all’esistente, diviene una esigenza fondamentale per lo sviluppo del farmaco. Si ritiene pertanto che per documentare in Italia in modo completo il valore dei nuovi farmaci ed in particolare l’innovazione terapeutica sia utile: • prima della fase 3, progettare il valore intervenendo sulle caratteristiche degli studi clinici in relazione ai criteri di innovazione terapeutica. Tale valore si genera nelle fasi finali di sviluppo clinico, attraverso studi in grado di documentare il beneficio incrementale rispetto agli standard terapeutici, in popolazioni selezionate nelle quali il valore te- 1. Pharma 2020: The vision - Which path will you take? PricewaterhouseCoopers 2007. 2. Pharma 2020: Virtual R&D. PricewaterhouseCoopers 2008. 3. Pharma 2020 Marketing the Future. PricewaterhouseCoopers 2009. 4. Nicholas Wade. Tests Begin on Drugs That May Slow Aging. The New York Times. August 18, 2009. 5. Ricki J. Colman, et al. Caloric Restriction Delays Disease Onset and Mortality in Rhesus Monkeys. Science 325, 201 (2009). 6. David E. Harrison et al. Rapamycin fed late in life extends lifespan in genetically heterogeneous mice. Nature 460 (7253), 392 (2009). 7. Ruth McKernan. Nature Reviews Drug Discovery 8:188, 2009. 8. Warren Kaplan e Richard Laing. Priority Medicines for Europe and the World. World Health Organization 2004. 9. Gruppo di Erice, 2009. 10. AIFA - Gruppo di Lavoro sulla Innovatività dei Farmaci. Criteri per l’attribuzione del grado di innovazione terapeutica dei nuovi farmaci ed elementi per la integrazione del dossier per l’ammissione alla rimborsabilità. 11. C. Le Jeunne. How to assess the relative added value value of drugs? France Regulatory Update Giens 2007. 12. Bethan Hughes. Defining innovation. Nature Reviews Drug Discovery 8:6834, 2009. Innovation assessment algorithm: considerazioni e criteri di sviluppo Luciano Caprino*, Liliana Civalleri** *Professore Emerito Università di Roma “La Sapienza” **SIFEIT - Società Italiana per gli Studi di Economia ed Etica sul Farmaco e sugli interventi Terapeutici Introduzione Il secolo scorso ha visto lo sviluppo del settore farmaceutico con la scoperta di numerose molecole farmacologicamente attive, che spesso hanno rivoluzionato il mondo della medicina. In una Società evoluta come la nostra, abituata ad avere a disposizione una vasta gamma di terapie, sembra ormai inverosimile che una malattia non possa essere curata o che possa essere ancora causa di morte. Fino a qualche decennio fa un nuovo farmaco, purché ben tollerato e con una certa efficacia, veniva messo in commercio senza che ci si ponesse la domanda di quanto fosse innovativo. La disponibilità di un numero crescente di medicinali, l’allungamento della vita media dell’uomo e dell’aspettativa di vita degli individui hanno comportato un aumento della spesa farmaceutica, sempre meno sostenibile in tutti i Paesi, indipendentemente dalla loro situazione economica. In Italia dal 1996 al 2007 la spesa pubblica per i farmaci è cresciuta ad un tasso medio annuo del 4,1%. Per questo motivo il concetto di innovatività è diventato di grande interesse ed attualità in quanto direttamente collegato alla rimborsabilità e al prezzo del medicinale. Ma quando si può affermare che un medicinale è innovativo? Se è relativamente facile rispondere per i medicinali che risultano efficaci in malattie rilevanti, comprese le malattie orfane, per le quali non esistono terapie, non altrettanto avviene per i medicinali per i quali sono disponibili farmaci di confronto. La Comunità Europea ha cercato di dare una definizione di medicinale innovativo nel Regolamento n. 726/2004 che istituisce la procedura di registrazione centralizzata, includendovi i medicinali pro- dotti tramite biotecnologie, le nuove sostanze non ancora autorizzate nella CE e rivolte a determinate patologie, i medicinali orfani ed i medicinali che costituiscano un’innovazione sul piano terapeutico, scientifico o tecnico. L’Algoritmo di Valutazione dell’Innovatività (INNOVATION ASSESSMENT ALGORITHM: IAA), presentato da L. Caprino e da P. Russo in occasione del semestre di Presidenza italiana dell’Unione Europea (2003) e successivamente pubblicato su Drug Discovery Today nel 2006, considera l’innovatività di un prodotto medicinale non come una proprietà univoca, ma come una combinazione di più proprietà. Il modello che lo rappresenta è un albero decisionale i cui rami corrispondono ad altrettante proprietà che caratterizzano l’innovatività. Ad ogni ramo è assegnato un determinato valore numerico e la somma dei singoli valori che si ottengono, procedendo nell’algoritmo, rappresenta il grado di innovazione di un prodotto medicinale. L’Algoritmo L’IAA si articola in due fasi: la prima valuta l’efficacia del medicinale sulla base degli studi clinici presentati a supporto della domanda di registrazione (IAA-efficacy); la seconda rivaluta il grado di innovazione sulla base dei dati di efficacia e di sicurezza che derivano dalla pratica clinica una volta che il medicinale viene immesso in commercio (IAAeffectiveness). Per quel che concerne l’IAA-efficacy, l’accesso all’algoritmo può avvenire attraverso tre differenti vie (radici), che rappresentano altrettanti gradi di innovatività, in ordine graduale decrescente: • innovazione terapeutica; • innovazione comune; • innovazione industriale. Percorrendo una qualsiasi di queste vie si arriva a nodi decisionali successivi, da cui partono più scelte alternative (rami dell’albero), ognuna associata a coefficienti numerici progressivamente decrescenti a seconda della posizione del “ramo”. Per ciascuna radice è previsto uno sviluppo di primo, secondo e terzo livello e per ogni livello sono previste più articolazioni o rami. Il primo livello permette di pesare le caratteristiche generali dell’innovazione di un farmaco. Il punteggio più alto, a questo primo livello, è conseguito da una nuova entità chimica (ottenuta anche tramite biotecnologie) farmacologicamente attiva in malattie per le quali non esistono alternative terapeutiche. I livelli successivi sono correlati alle seguenti proprietà: • meccanismo d’azione del farmaco; • impatto sociale della malattia; • tipologia del disegno di studio impiegato nella sperimentazione clinica; • tipologia degli obiettivi conseguibili nel paziente in termini di guarigione, di controllo della malattia, di miglioramento della sintomatologia, di migliore tollerabilità del farmaco o di migliore rapporto rischio-beneficio; • tipologia dei criteri per la valutazione degli esiti clinici raggiunti: end-point forti ed end-point surrogati, qualità della vita; • miglioramento della compliance. Procedendo nell’algoritmo da sinistra verso destra si completa la valutazione e si raggiunge un valore numerico, che rappresenta la somma dei coefficienti numerici attribuiti a ciascun ramo decisionale scelto, espressione del grado di innovatività Quaderni della SIF (2009) vol. 19 - 13 850 Punteggio 670 606 530 430 381 380 281 181 131 Ramo Figura 1 del medicinale in fase pre-registrativa. Ad esempio, si riporta di seguito il grafico che mostra la distribuzione del punteggio finale massimo (in grigio scuro) e minimo (in grigio chiaro) assegnato per ciascun ramo (A-F) nell’IAA-efficacy. Completata la prima fase è possibile l’accesso alla valutazione del medicinale dopo la sua immissione in commercio (IAA-effectiveness). Le proprietà prese in considerazione in questa seconda fase sono: • tipologia e scopi degli studi postregistrativi; • malattia cronica: durata degli studi; • malattia acuta - subacuta: numero dei pazienti arruolati; • tipologia dei criteri per la valutazione degli esiti clinici raggiunti (end-point forti ed end-point surrogati, qualità della vita); • tipologia degli obiettivi conseguiti nel paziente in termini di guarigione, controllo della malattia, miglioramento della sintomatologia, di migliore tollerabilità del farmaco (migliore rapporto rischio-beneficio); • criteri di selezione dei pazienti arruolati; • dimensione degli studi clinici (multicentrici nazionali o internazionali); • gravità e frequenza degli effetti avversi registrati dai sistemi di Farmacovigilanza nel contesto di studi di effectiveness. Anche in questo caso si ottiene un punteggio che dovrà essere sommato a quello ottenuto nella prima fase. 14 - Quaderni della SIF (2009) vol. 19 La misurazione del grado di innovatività tramite l’IAA può essere facilmente eseguita servendosi di uno specifico software, scaricabile dal sito della SIFEIT - Società Italiana per Studi di Economia ed Etica sul Farmaco e sugli Interventi Terapeutici (http://www.sifeit.it/IAA.html), che permette un accesso guidato alla valutazione del medicinale. Attualmente l’IAA è in fase di sperimentazione e la SIFEIT, in collaborazione con alcuni esperti dell’industria farmaceutica, sta effettuando un programma sia di appropriatezza del sistema, con medicinali già autorizzati in Italia tramite procedure di registrazione europee, sia di adeguamento all’evoluzione scientifica che ha portato allo studio e sviluppo di farmaci biotecnologici e all’introduzione di terapie basate su nuove concezioni, come per esempio la Gene Therapy. Dalle prime esperienze è emersa l’opportunità di apportare alcune modifiche, prima fra tutte la rivisitazione su basi statistico-matematiche dei pesi attribuiti ai singoli rami (proprietà), in modo da evitare un eventuale appiattimento nei punteggi totali dei rami. Punto critico dell’algoritmo è la valutazione degli studi clinici basata essenzialmente sulla tipologia del disegno, correlata ad altri parametri come la numerosità dei pazienti, la presenza di un comparatore etc. Dai dati ottenuti con alcuni medicinali registrati di recente è emersa l’esigenza di introdurre delle opzioni che tengano conto della malattia presa in considerazione, in quanto non tutte le tipologie di disegno dello studio sono sem- pre applicabili. Per esempio uno studio randomizzato in doppio cieco, generalmente considerato eccellente e come tale associato al punteggio più alto per questa proprietà, difficilmente è applicabile per una malattia rara. Inoltre in caso di molecole appartenenti a classi farmacologiche note, l’algoritmo deve esprimere un punteggio di maggiore innovatività, in presenza di studi clinici di valore su end points hard, rispetto a nuove molecole prive di adeguati studi clinici, in quanto basati su end point surrogati o su trial di non inferiorità. Conclusioni L’IAA, integrato secondo quanto sopra accennato e con altri aggiustamenti di minore importanza, appare uno strumento valido per la classificazione, ai fini della rimborsabilità e del prezzo, direttamente correlata al grado di innovazione del medicinale. Le sue caratteristiche principali consistono nel: • vincolare il valore di innovatività alla determinazione della clinical efficacy (a livello pre-registrativo) e della clinical effectiveness (nella fase di post-marketing); • esprimere, mediante un valore numerico, il contributo di innovatività di un medicinale. Tale valore è determinabile sulla base di un algoritmo decisionale capace di prendere in considerazione i diversi elementi che concorrono all’innovatività. Il criterio risulta quindi obiettivo e non discrezionale; • essere adattabile ad un utilizzo sia ai fini dell’Autorizzazione all’Immissione in Commercio, sia per una rivalutazione dell’innovatività del medicinale nel periodo di postmarketing. L’IAA non rappresenta un modello rigido per la determinazione del grado di innovatività di un medicinale, ma deve essere interpretato come uno strumento di dialogo fra Autorità Regolatoria e Azienda Farmaceutica, ai fini della rimborsabilità e prezzo di un medicinale, basato su criteri certi ed obiettivi e che consenta di riconsiderare l’utilità del medicinale per il Sistema Sanitario sulla base dei dati di efficacia e tollerabilità nella fase di post-marketing. BIBLIOGRAFIA 1. Caprino L and Russo P (2006). Developing a paradigm of drug innovation: an evaluation algorithm. Drug Discovery Today 11, 999-1006. 2. Van Luijn JCF, Gribnau FWJ, Leufkens HGM (2007). Availability of comparative trials for the assessment of new medicines in the European Union at the moment of market authorization. Br J Clin Pharmacol 63: 159-162. 3. Russo P (2007). Misurare l’innovatività di un farmaco. Care I, 27- 31. 4. Meridiano Sanità: Le coordinate della salute – Rapporto finale 2008 Ed. Ambrosetti SpA. ■ Innovazione terapeutica e trial di non-inferiorità Vittorio Bertelé Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri”, Milano Ask an important question, answer it reliably: è il paradigma semplice ed essenziale su cui si coniugano le mille voci della ricerca clinica. (1) Gli studi clinici devono innanzi tutto porsi ipotesi rilevanti per i pazienti, cioè ipotesi che riflettano la reale incertezza del clinico di fronte a un bisogno inevaso del paziente; gli studi clinici devono inoltre adottare la metodologia adatta per verificare o rigettare quelle ipotesi con un sufficiente grado di certezza. Ipotesi non indirizzata ai bisogni dei pazienti La sperimentazione clinica si pone l’obiettivo di un vantaggio per il paziente; indaga quindi la superiorità di un trattamento rispetto ad un altro. Contro questo presupposto fondante della ricerca clinica si muove la tendenza a realizzare sempre più studi di non-inferiorità. Ciò che sorprende è soprattutto il fatto che l’ipotesi alla base di questi studi in realtà includa come possibile l’inferiorità del nuovo trattamento, purché questa sia confinata entro limiti stabiliti che la renderebbero clinicamente accettabile. La non-inferiorità, insomma, è in realtà un’inferiorità tollerabile. Tutto questo in cambio di altri supposti vantaggi. In assenza di importanti connotati innovativi - quelli che in sostanza cambierebbero la storia naturale della malattia - altre caratteristiche vengono promosse come valori aggiunti di un nuovo farmaco; tra queste, ad esempio, la sua capacità di proporsi come alternativa per i pazienti che tollerano poco o non rispondono ai prodotti disponibili. In questi casi - si so- stiene - non vi è ragione per definire meglio il profilo di beneficio-rischio di un nuovo farmaco: è sufficiente documentare che sia simile ai prodotti esistenti. Non è neppure necessario sapere se un nuovo farmaco dotato di altre peculiarità innovative, ad esempio un’attività protratta nel tempo, sia davvero più efficace. Il suo valore aggiunto - si dice - consiste già nella migliore adesione al trattamento che certo deriverà dall’unica somministrazione giornaliera; non c’è bisogno di documentare nulla di più. Lo stesso vale per una formulazione più comoda: il valore aggiunto sta nella facilità d’uso. E così via. Vi è una crescente pressione a far sì che vantaggi minori, peraltro non necessariamente provati, surroghino e sostituiscano il vantaggio clinico, la cui documentazione pertanto non è più ritenuta indispensabile: si dà per scontata (2). Questo approccio risponde a una logica che esula dall’ambito clinico e coinvolge unicamente quello commerciale. Difatti: se il target di un nuovo farmaco sono i pazienti non-responder ai trattamenti disponibili, perché non si verifica la sua superiorità rispetto ai farmaci poco efficaci in questo sottogruppo di pazienti? Perché la verifica di questa ipotesi limiterebbe il mercato dei nuovi prodotti a un sottogruppo di pazienti, rendendo meno proficua per le aziende farmaceutiche la loro commercializzazione. Più remunerativo quindi stabilire la non-inferiorità di questi prodotti nella popolazione generale dei pazienti. La ventilata non-inferiorità del profilo di beneficio-rischio rispetto a prodotti già disponibili garantisce ai nuo- vi farmaci una fetta di mercato e consente loro di competere con altri già disponibili indipendentemente dal loro valore rispetto a questi, ma solo sulla base di peculiarità accessorie o piccole differenze che si presume, ma non si prova, offrianno sicuri vantaggi ai pazienti. Dal punto di vista dell’industria, inoltre, provare la non-inferiorità di nuovi prodotti risulta meno rischioso che mirare a stabilirne la superiorità. Se il test di superiorità fallisce, il prodotto può derivarne un pesante danno di immagine, anche se quel risultato in realtà può fornire utili informazioni a medici e pazienti circa la collocazione del nuovo farmaco nel contesto dei trattamenti esistenti. Questo è il motivo per cui gli studi di non-inferiorità sono programmati per non riconoscere possibili differenze (che potrebbero inibire al nuovo prodotto l’accesso al mercato) piuttosto che evidenziarle (cosa che definirebbe meglio il cosiddetto place in therapy del nuovo prodotto). Una documentazione di non-inferiorità lascia il prodotto in una sorta di limbo: la sua collocazione tra gli altri trattamenti disponibili non è definita, ma quella sul mercato è comunque assicurata. Metodologia non indirizzata ai bisogni dei pazienti Oltre al significato complessivo non indirizzato all’interesse dei pazienti, gli studi di non-inferiorità generano perplessità anche dal punto di vista metodologico. Un primo problema è rappresentato dalla scelta del limite di non-inferiorità, che come detto sopra è il grado di Quaderni della SIF (2009) vol. 19 - 15 inferiorità ritenuto clinicamente accettabile: a volte tale limite è tanto ampio da dare l’impressione che la ricerca della non-inferiorità sia il pretesto per nascondere differenze che in realtà ci sono. Lo studio Compass, ad esempio, considerava il trombolitico saruplase equivalente alla streptochinasi nel trattamento dell’infarto miocardico acuto anche se nel gruppo con saruplase si fosse verificato il 50% in più di decessi rispetto al gruppo di controllo. In termini assoluti ciò significa considerare saruplase efficace e sicuro tanto quanto la streptochinasi, anche se ad esempio ogni 1.000 pazienti trattati ci fossero 35 morti in più rispetto alle 70 attese. Il test di questa discutibile ipotesi richiese soltanto 3.000 pazienti in un’epoca in cui verificare la superiorità di attivatori tessutali del plasminogeno sulla streptochinasi coinvolse oltre 90.000 pazienti in tre grandi studi clinici randomizzati (Gissi 2, Isis 3 e Gusto). Risultati inattendibili La scelta di limiti di non-inferiorità molto ampi rende inattendibili i risultati di questi studi. Questa conclusione è corroborata dal seguente esperimento: l’ipotesi dello studio Compass è stata applicata al gruppo di controllo del Gissi-1, lo studio che dimostrò l’efficacia della trombolisi nell’infarto miocardico acuto, per verificare se, paradossalmente, fare o non fare trombolisi nell’immediato post-infarto fosse la stessa cosa. Seguendo i criteri adottati dal Compass, il non fare trombolisi sarebbe stato ritenuto equivalente al trattamento con streptochinasi se l’eccesso in mortalità non fosse stato superiore al 50%, cosa che è stata puntualmente verificata (3). Ciò dimostra ancora una volta l’inattendibilità di un test che sulla base di un risultato ottenuto su 3.000 pazienti può cancellare una delle più consolidate evidenze in medicina, basata su quasi 30.000 pazienti reclutati in trial di superiorità, quali Gissi-1 e Isis-2. Risultati incerti Oltre all’ipotesi paradossale, l’effettivo risultato di studi come il Compass destano perplessità per l’ampiezza degli intervalli di confidenza. Talvolta l’ampiezza degli intervalli è tale che 16 - Quaderni della SIF (2009) vol. 19 ciò che è considerato non inferiore da un punto di vista statistico può non esserlo da un punto di vista clinico. Così se a volte sono inattendibili, i risultati degli studi di non-inferiorità sono sempre incerti. Quanto più ampio è il limite di non-inferiorità tanto minore è il campione necessario per verificare l’ipotesi. E quanto più sottodimensionato è lo studio tanto maggiore è l’incertezza attorno al risultato puntuale del trial. Come spesso documentato dagli intervalli di confidenza, la non-inferiorità dimostrata potrebbe nascondere un grande vantaggio o un grande svantaggio clinico, che è comunque colpevole non documentare (4). Risultati inconcludenti La stessa incertezza si applica allo studio Space che mirava a verificare la non-inferiorità dell’angioplastica carotidea rispetto all’endoarterectomia. Dato che gli intervalli di confidenza superano il limite prefissato di non-inferiorità, questa non può dirsi dimostrata: quindi, formalmente l’angioplastica pare meno efficace dell’endoarterectomia; d’altra parte, paradossalmente, siccome gli intervalli di confidenza si sovrappongono anche alla linea che indica la parità dei trattamenti, questi non possono dirsi diversi, almeno dal punto di vista statistico. Situazione analoga si è registrata nello studio Profess, che mirava a riesumare un vecchio trattamento (aspirina e dipiridamolo, in versione a lento rilascio), dimostrandone la noninferiorità nella prevenzione dell’ictus rispetto al clopidogrel in scadenza di brevetto. Anche in questo caso i criteri di non-inferiorità non sono stai soddisfatti, nonostante l’incidenza di ictus ricorrenti nei due gruppi di trattamento a confronto fosse assolutamente sovrapponibile. Tutto ciò è davvero sorprendente: l’incapacità di provare la non-inferiorità di un trattamento, che peraltro si dimostra sostanzialmente efficace quanto il controllo di riferimento, sta a significare che gli studi di non-inferiorità riescono a tradire perfino lo scopo che si propongono. Studi disegnati per scotomizzare differenze esistenti finiscono per vedere quelle inesistenti. Risultati incoerenti Ma il risultato peggiore per un trial di non-inferiorità è quello rappresentato dal cosiddetto black scenario, in cui il trattamento sperimentale, pur dimostrandosi statisticamente peggiore del controllo, risulta ancora noninferiore a questo. È questo il caso dell’esercizio descritto sopra a proposito del gruppo di controllo del Gissi1 cui si è applicata l’ipotesi dello studio Compass. Quando invece di sottogruppi con le stesse caratteristiche cliniche e le stesse dimensioni del Compass si valuti la popolazione complessiva del Gissi, si nota che, come ovvio attendersi, gli intervalli di confidenza non si sovrappongono alla linea che indica la parità tra i trattamenti, a dimostrazione del fatto che il fare o non fare trombolisi nel post-infarto comporta un esito clinico diverso, a vantaggio ovviamente di chi viene trattato con streptochinasi. Ma, come accadeva nei sottogruppi delle stesse dimensioni del Compass, a maggior ragione nella popolazione generale del Gissi gli intervalli di confidenza rimangono entro i limiti di equivalenza, indicando che paradossalmente nello stesso esperimento clinico un trattamento che è provatamente peggiore può essere, ciò nonostante, considerato non-inferiore. Ciò qualifica gli studi di non-inferiorità come intrinsecamente incoerenti. Non eticità degli studi di non-inferiorità L’incapacità dei trial di non-inferiorità di offrire risposte valide e certe aggrava i dubbi sulla consistenza etica di questi studi, dubbi sollevati già dall’ipotesi che li genera. Gli studi di noninferiorità sono privi di giustificazione etica perché non offrono nessun vantaggio ai pazienti, attuali o futuri. Essi deliberatamente rinunciano a considerare l’interesse dei pazienti a favore di quelli commerciali. Questo tradisce il sostanziale accordo che si stabilisce tra pazienti e ricercatori in qualsiasi corretto consenso informato, che presenta la randomizzazione come unica soluzione etica per dare risposta ad una reale incertezza clinica. Gli studi di non-inferiorità mirano solo a millantare una qualche efficacia, senza fornire prove definitive di essa. Pochi pazienti acconsentirebbero a parteci- pare allo studio se il messaggio che ne chiede il consenso informato fosse posto chiaramente: perché un paziente dovrebbe accettare un trattamento che nella migliore delle ipotesi non è peggiore, ma in realtà potrebbe essere meno efficace o sicuro di quelli disponibili? Perché i pazienti dovrebbero partecipare a un test randomizzato che offrirà loro solo risposte dubbie dal momento che la non-inferiorità include la possibilità di un esito peggiore? (5) Conclusioni Gli studi di non-inferiorità disattendono entrambe le indicazioni che servono da guida per disegnare buoni studi clinici, ovvero “poni una domanda importante; e dà ad essa una risposta metodologicamente affidabile”. La domanda importante è quella vera per il paziente, cioè quella che affronta un problema clinico reale. Ma uno studio pianificato per verificare se un farmaco è “non peggiore” rispetto ai trattamenti standard, senza nessun interesse per alcun valore aggiunto, non pone alcuna domanda clinicamente rilevante. Tale studio riduce solo i costi di ricerca e sviluppo del prodotto e i rischi per la sua immagine commerciale, senza curarsi dell’interesse dei pazienti. La randomizzazione non dovrebbe neppure essere consentita in una tale situazione, perché non è etico affidare al caso la possibilità che un paziente riceva un trattamento che nella migliore delle ipotesi è uguale a quello che comunque avrebbe ricevuto, ma potrebbe anche ridurre gran parte dei vantaggi che in precedenza gli erano assicurati dai trattamenti correnti. Riguardo all’affidabilità dell’approccio metodologico e quindi della risposta, l’incertezza che circonda la conclusione di non-inferiorità è difficile da accettare: per quanto piccolo, l’aumento del rischio relativo comporta inevitabilmente un inaccettabile eccesso di eventi avversi nella popolazione dei pazienti. A volte il rischio può risultare significativamente più alto nel gruppo sottoposto al trattamento sperimentale, senza che tutto ciò riesca a smentire la non-inferiorità di tale trattamento. È pertanto chiaramente non etico esporre pazienti a tale rischio sia nella fase sperimentale, sia nella realtà quotidiana senza la prospettiva di alcun vantaggio in cambio. BIBLIOGRAFIA 1. Yusuf S, Collins R, Peto R. Why do we need some large, simple randomized trials? Stat Med 1984; 3: 409-22. 2. Garattini S, Bertelé V. Non-inferiority trials are unethical because they disregard patients’ interests. Lancet 2007; 370: 1875–7. 3. Bertelé V, Angelici L, Barlera S, Garattini S. Thrombolysis or nothing for acute myocardial infarction? It’s all the same! Br J Clin Pharmacol 2008; 65: 955-8. 4. Bertelé V, Torri V, Garattini S. Inconclusive messages from equivalence trials in thrombolysis. Heart 1999; 81: 675-6. 5. Garattini S, Bertelé V, Li Bassi L. How can research ethics committees protect patients better? BMJ 2003; 326: 11991201. ■ Estensione brevettuale, efficienza economica e giustizia sociale Antonio Sassu Dipartimento Ricerche Economiche e Sociali - Università di Cagliari Come arrivare all’equità della cura della salute, anche attraverso il necessario controllo della spesa, se vogliamo conservare il sistema sanitario universale? Una domanda simile è sempre giustificata, ma lo è maggiormente ora che il deficit pubblico aumenta e supera di gran lunga il parametro del 3% previsto dal trattato di Maastricht e che molte regioni rischiano il commissariamento del sistema sanitario per gli oneri che sostengono e per gli sprechi che creano. Il quesito sorge spontaneo alla luce del comportamento (peraltro dovuto) delle autorità italiane che, dando seguito agli adempimenti di legge, hanno prolungato di sei mesi la scadenza del principio attivo Lo- sartan. Infatti, con provvedimento UPC/II/443 del 16 giugno 2009, pubblicato nel Supplemento della Gazzetta Ufficiale del 20.7.2009, è stato prorogato di sei mesi il brevetto che era stato concesso a suo tempo per il Losartan indicato per l’ipertensione e per l’insufficienza cardiaca. Più precisamente e per capire meglio di che si tratta, è stata autorizzata la proroga dell’immissione in commercio dei farmaci Lortaan, Losaprex e Neo Lotan (in qualche modo legati alla Merck Sharp & Dohme Italia, SpA) in confezioni in compresse: da 12,5 mg, da 50 mg, e da 100 mg, ora prescritte anche per l’ipertensione dei bambini di età compresa tra i 6 e i 16 anni. L’autorizzazione è confor- me a tutte le misure contenute nel piano di indagine pediatrica approvato P/9/2008 e tutti gli studi sono stati completati dopo l’entrata in vigore del Regolamento (CE) N.1901/2006, come previsto all’art. 45 di quest’ultimo provvedimento. La legislazione europea che è stata applicata in questo caso aveva lo scopo encomiabile di incoraggiare la ricerca farmacologica in pediatria, un’area in cui l’uso dei farmaci off label era ed è massivo, quindi giusta, a nostro parere, anche dal punto di vista etico. Si sa che l’istituto del brevetto è importante perché, nonostante i grandi limiti che esso presenta, permette una crescita della conoscenza e del progresso tecnologico. IncentiQuaderni della SIF (2009) vol. 19 - 17 va le invenzioni, specialmente nel campo della medicina e della farmaceutica, assicurando all’inventore il recupero delle spese e un premio in profitti per un periodo di tempo relativamente lungo (in questo caso venti anni). Quindi, benché ci siano molte controindicazioni, siamo in prima linea a difendere l’istituto del brevetto e ciò che ne consegue per la scienza. Riteniamo che, almeno in questi settori, in crescita nonostante la crisi, l’interesse pubblico sia maggiore dello svantaggio che ne deriverebbe dall’assenza di regolamentazione. Tuttavia, tale atto di proroga, ripetiamo, del tutto legittimo e corretto dal punto di vista giuridico, costa allo Stato italiano ben 27 milioni di euro, perché, in sua assenza, sarebbero entrati in commercio i farmaci equivalenti. Ora c’è un aspetto che è da un pezzo sotto gli occhi di tutti. L’Italia è il paese dell’Unione Europea in cui i farmaci equivalenti sono poco diffusi. Di fronte a paesi come la Francia, la Germania e l’Olanda (per non parlare di paesi nordici come la Danimarca), in cui il mercato dei farmaci equivalenti è ampio, l’Italia ha un corrispondente mercato estremamente limitato e il valore è di poco superiore al 5% del mercato dei farmaci. Ciò è a detrimento di tutti i consumatori e scarsamente efficiente per quanto riguarda l’economia che potrebbe invece godere di una maggiore concorrenza. Ci sono motivi culturali e sociali che influiscono, ma gli elementi giuridici e politici svolgono un ruolo molto importante. È per questo che ogni occasio- 18 - Quaderni della SIF (2009) vol. 19 ne che si presenta può essere buona per estendere questo mercato che ha una importanza determinante per il SSN e per la comunità dei cittadiniconsumatori. Soprattutto questo aspetto ci sembra sia rilevante per raggiungere il livello di civiltà dei paesi più avanzati. Ora ci si può chiedere: era questo il comportamento più corretto da un punto di vista etico e da un punto di vista strettamente economico, considerato anche il momento in cui ci troviamo? Era possibile salvaguardare contemporaneamente l’esigenza del progresso della scienza e, in particolare, di quella pediatrica, con gli interessi della comunità nazionale? Noi riteniamo che vi siano elementi per discutere e vi sottoponiamo qualche considerazione. Vediamo, comunque, cosa è possibile prevedere per il periodo di proroga del brevetto, in particolare, come è articolato il valore della spesa che potrà essere effettuata nei prossimi sei mesi. Intanto possiamo costruire la seguente Tabella 1 del mercato del Losartan semplice. Si può dire che i sartani (nella forma di medicinali semplici e associati) rappresentano la prima voce di spesa del SSN (fonte: Ims-Health 2009). Già di per sé, pertanto, estendere con una proroga (come è stato fatto) la copertura brevettuale a questi medicinali corrisponde automaticamente alla rinuncia al risparmio da parte del governo. Complessivamente possiamo dire che la spesa relativa al Losartan è di circa 106 milioni e, sulla base delle simulazioni, fatte tenendo conto dei trend di crescita del consumo della molecola, quella prevista per il prossimo anno mobile, il 2009 e il 2010, è di 108 milioni di euro. Ne consegue che la spesa che ne può derivare per i sei mesi di proroga, cioè per il periodo settembre 2009 e febbraio 2010, è di 54 milioni di euro. Su questo valore è possibile calcolare il risparmio mancato in seguito alla proroga brevettuale. Se il prezzo del corrispondente farmaco equivalente, in mancanza di una proroga brevettuale, fosse il 50% di quello branded attuale (come sembrerebbe, sulla base della contrattazione avvenuta), il risparmio stimabile per il SSN sarebbe di circa 27 milioni di euro da distribuire in diverse proporzioni fra le confezioni in commercio. Stando così le cose, fermo rimanendo che formalmente non si poteva fare altrimenti, solleviamo il problema e sottoponiamo al dibattito la nostra riflessione. Raggiunto il limite del periodo brevettuale, identico comunque per tutti i paesi dell’UE e dell’European Patent Office, l’atteggiamento successivo nei singoli paesi può variare a seconda delle condizioni della concorrenza. Essendo questo tema, competenza esclusiva della Commissione, essa può anche assumere provvedimenti che permettano di conseguire, almeno nel medio o lungo periodo, un obiettivo comune nel mercato dei farmaci equivalenti. Per esempio, l’estensione di questo mercato almeno fino al 30%. Da questo punto di vista, riteniamo giustificato, cioè, eticamente giusto e economicamente conveniente, l’uso brevettuale del Losartan in pediatria dopo sperimentazione clinica appropriata. Esso garantirebbe l’impresa innovatrice che sostiene le relative spese (il numero di pazienti in età pediatrica è piuttosto esiguo) per un compito che anche la comunità condividerebbe. Anzi, in generale, crediamo che un simile provvedimento possa essere prolungato nel tempo perché possa dare un certo rendimento ed esteso ad altre classi di medicinali. Non riteniamo, invece, altrettanto giustificata l’estensione brevettuale per il farmaco di largo uso e ciò, a nostro avviso, perché pone non solo un problema economico per lo Stato (e quindi per la comunità), ma anche di giustizia sociale e di democrazia. Di giustizia sociale in quanto la spesa del SSN è pagata con criteri regressivi da tutti i cittadini. Si sa che i cittadini hanno capacità di reddito differenti, benché tutti contribuiscano al bilancio pubblico da cui attinge la sanità. Oggi i poveri non pagano quel medicinale, alla stregua dei ricchi, ma contribuiscono con il prelievo fiscale a pagare il medicinale a questi ultimi. I benefici affluiscono prevalentemente agli individui con i redditi più alti. Se la spesa fosse minore anche il loro contributo diminuirebbe e l’impatto redistributivo sarebbe favorevole alle classi di reddito meno elevate. Quindi, si pagherebbe in misura minore, seppure ancora con criteri regressivi. È, inoltre, un problema di democrazia perché non ci sarebbero limiti alla produzione da parte di altre imprese che potrebbero entrare nel mercato e allargare l’ambito delle opportunità per tutti. Infine, ci sarebbero effetti anche sugli altri farmaci equivalenti già disponibili sul mercato e la collettività beneficerebbe di alternative diverse avvicinandoci alle condizioni delle società più avanzate economicamente e socialmente. I vantaggi sociali sarebbero superiori ai costi e la funzione del benessere sociale si sposterebbe verso l’alto. In sintesi si può dire, cosa peraltro già nota, che vi sono vari motivi per cui in Italia i farmaci equivalenti sono poco diffusi. Uno di questi è, come in parte è stato detto, l’atteggiamento della classe politica. Il comportamento dell’impresa branded o, messo in altre parole, la sua possibilità di sfruttare le occasioni offerte dalla legge e la sua resistenza alla introduzione di prodotti equivalenti, è abbastanza naturale e non c’è da scandalizzarsi. Diverso, invece, deve essere l’atteggiamento della classe politica che, oltre al principio del risparmio e dell’efficienza, ha un problema etico come quello dell’in- teresse della collettività. Sono in discussione i temi di giustizia sociale e di affermazione graduale del mercato dei farmaci equivalenti, a cui la classe politica dovrebbe essere sensibile dal punto di vista etico e civile. La società nel suo complesso starebbe meglio in tanti sensi. È chiaro che per lo svolgimento di questo compito il ruolo dell’UE è cruciale sia per le sue prerogative, sia per la responsabilità di una politica comune verso tutti i paesi dell’Unione. Anche le associazioni dei consumatori e, comunque, i cittadini più avvertiti, non hanno fatto nulla al riguardo di questo provvedimento, almeno ci sembra. Noi subiamo passivamente e rinunciamo a combattere i privilegi che si realizzano talvolta anche inconsapevolmente o per raggiungere obiettivi comunemente condivisi. Un movimento di opinione che si faccia sentire sarebbe di grande aiuto per tutti. ■ Eutanasia e testamento biologico Gian Luigi Gessa Professore Emerito, Università di Cagliari Nei confronti dei grandi temi della vita e della morte alcuni hanno una visione quantomeno paradossale. Si indignano e si commuovono per la morte di un embrione più che per una donna incinta che annega nel mare di Lampedusa, protestano perché qualcuno vuole interrompere “l’idratazione” di un paziente in coma da diciassette anni, ma negano l’acqua ai disperati di un barcone in mezzo al mare, godono nel vedere uccidere, ferire e torturare al cinema e alla televisione, sono favorevoli a inviare giovani a morire in guerra, ma inorridiscono all’idea che si possa offrire aiuto ad un malato terminale che implora di morire con dignità senza soffrire. Quest’atto caritatevole è proibito, si chiama eutanasia. In Olanda la legge sull’eutanasia è in vigore dal 1973, codifica in maniera severissima le eccezionali condizioni per le quali è permessa, soddisfa una media di 9.000 richieste all’anno, è ammessa esclusivamente per gli olandesi per evitare un eventuale turismo “necrologico”. In Italia l’eutanasia viene praticata in modo clandestino, con l’accordo del paziente, dei familiari, del medico anestesista. Perché l’idea di una legge sull’eutanasia fa tanta paura e qual è il rapporto tra eutanasia e il testamento biologico? Eutanasia e testamento biologico riguardano due diverse tipologie di malati terminali, l’eutanasia quei malati terminali che chiedono di essere aiutati a morire senza soffrire, il testamento biologico quelli che non sono in grado di comunicare le loro volontà sui trattamenti sanitari sulla loro persona. Ma, come vedremo, nella vita reale i due concetti non sono sempre separabili. Testamento biologico La costituzione italiana stabilisce che nessun trattamento sanitario possa essere attivato a prescindere dal consenso da parte del soggetto che lo richiede. Non ho sufficiente competenza giuridica, ma suppongo che la legge dia al soggetto anche il diritto di interrompere in qualsiasi momento un trattamento sanitario quando questo diventi insopportabile, cosicché un paziente tetraplegico come Welby abbia il diritto di chiedere ai medici di interrompere la somministrazione di farmaci, le trasfusioQuaderni della SIF (2009) vol. 19 - 19 ni di sangue, l’alimentazione, l’idratazione e la respirazione assistita. Tuttavia egli non ha il diritto di pretendere che la sua morte sia rapida e indolore. Ma il disegno di legge appena approvato al Senato sulla dichiarazione anticipata di trattamento, nota come testamento biologico, non riguarda questi pazienti che sono in grado di esprimere il loro consenso a qualsiasi trattamento sanitario sulla loro persona, ma quei pazienti non coscienti incapaci di intendere e volere. Gli esempi più noti di questi pazienti sono Terri Schiavo e Eluana Englaro, in coma irreversibile da più di 15 anni. La comunità scientifica internazionale concorda nel ritenere irreversibile un coma che duri da almeno dodici mesi e ritiene che dopo tale periodo le probabilità di risveglio siano pressoché nulle. Tuttavia la medicina moderna dispone di straordinari presidi tecnologici capaci di prolungare l’esistenza di questi soggetti per anni e decenni, contro ogni legge della natura. In verità questi straordinari mezzi mantengono in funzione il cuore, il respiro, il fegato, il rene, l’intestino, ma purtroppo non sono in grado di riattivare quelle parti del cervello distrutte da un trauma o da una malattia nelle quali si producono le sensazioni, le emozioni, i sentimenti, l’intelligenza, tutte quelle attività che caratterizzano la personalità di un uomo. I pazienti in coma irreversibile non sentono né il piacere, né il dolore e pertanto non chiedono né desiderano di essere aiutati a morire. Tuttavia può succedere che qualcuno di coloro che li assistono, dopo anni di attenzioni, cure, sacrifici e di consapevolezza che non ci sarà miglioramento in futuro, non sia più capace di tollerare quella condizione di non vita del proprio caro, né del proprio inutile sacrificio. Può succedere che la moglie, il marito, il fratello o l’amico del paziente in coma chieda ai medici di interrompere quei trattamenti sanitari che lo tengono artificialmente in vita vegetativa. Come ho detto, non sono esperto di legge, ma ritengo che chiunque venisse incontro a quella richiesta sarebbe accusato di omicidio e pertanto 20 - Quaderni della SIF (2009) vol. 19 è ragionevole che nessun medico voglia correre questo rischio. La legge sul testamento biologico avrebbe dovuto permettere al paziente di esprimere il proprio consenso o dissenso sui trattamenti sanitari, proprio come per i soggetti coscienti, attraverso un testamento redatto anticipatamente quando il soggetto è in grado di intendere e di volere. Negli Stati Uniti, il modulo per la compilazione del living will e l’incarico ad un fiduciario per la salute si possono acquistare alla Hemlock, l’associazione americana per l’eutanasia, per tre dollari più cinquanta centesimi di spese postali. Mentre il padre di Eluana Englaro non ha chiesto l’eutanasia per la figlia, ma solo di sospendere i sostegni vitali, alimentazione e idratazione; è probabile invece che la madre, il fratello o l’amico di altri pazienti in coma non siano convinti, a differenza dei medici, che morire per inanizione sia privo di sofferenze e, pertanto, è probabile che sommessamente chiedano che al loro caro venga offerta una morte rapida e indolore e venga risparmiata una agonia che può durare anche molti giorni. Ma questo atto ragionevole e caritatevole, in Italia, non è lecito e non lo sarà per molto tempo, perché la legge approvata al Senato sul testamento biologico prevede che le volontà espresse dal soggetto non siano prese in considerazione dal medico curante se le indicazioni sono orientate a cagionare la morte del paziente. Inoltre il medico italiano non è tenuto a porre in essere prestazioni contrarie alle sue convinzioni di carattere scientifico e deontologico. Eutanasia A differenza dei malati incoscienti, senza voce, ci sono dei malati terminali che implorano di ricevere una morte veloce e indolore, l’eutanasia. Una parola censurata ed esorcizzata per ipocrisia, paura o opportunismo politico. Coloro che vi si oppongono argomentano, tra l’altro, che i medici dispongono oggi di farmaci efficaci nel lenire o sopprimere tutte le sofferenze del malato terminale e giustamente obiettano che, se questi farmaci venis- sero somministrati in dosi adeguate, nessuno chiederebbe di essere aiutato a morire. Pertanto una legge che regolamentasse l’aiuto a morire al malato terminale non sarebbe giustificata perché riguarderebbe poche eccezioni, casi limite, mentre i pericoli di un suo uso inappropriato sarebbero imprevedibili. È vero, nella stragrande maggioranza dei casi, i medici riescono a sopprimere il dolore o la sofferenza nei malati terminali. Ma c’è una piccola percentuale di questi malati ai quali i farmaci non riescono a togliere il dolore, il senso di soffocamento, la nausea e il vomito incoercibile, la sete insopprimibile, il prurito urente che toglie il sonno, le piaghe da decubito, l’incontinenza che degrada la dignità della persona ecc. Quando uno o più di questi sintomi persiste e diviene intollerabile è ragionevole che quel paziente, colpito da un male incurabile, che è già depresso all’idea di dover morire, di lasciare i progetti incompiuti, difendere le sue cose materiali, ed è terrorizzato che la sua condizione peggiorerà prima della fine, è ragionevole, ripeto, che quel paziente implori di essere aiutato a morire. Le dotte disquisizioni sulla sacralità della vita riguardano la “vita” di questi infelici. I cattolici ritengono che Dio sia il padrone della nostra esistenza e non sia lecito nemmeno al padrone del proprio corpo mettere fine ad essa. Il problema è che alcuni cattolici, fisicamente in buona salute, come la senatrice Paola Binetti e il senatore Carlo Giovanardi, vogliono imporre le loro certezze a quei malati terminali che non credono in Dio. Alcuni laici (non credenti o credenti) generosamente concedono che, se qualcuno vuole proprio suicidarsi, lo faccia pure, è un atto lecito, ma non chieda l’aiuto di altri, tanto meno del medico che ha prestato il giuramento di Ippocrate e la cui missione è di aiutare a guarire, non a morire. Ma se certi riescono a togliersi la vita senza l’aiuto di nessuno, altri non possono farlo senza che qualcuno li assista Pensate a quei vecchi malati terminali completamente soli perché sopravvissuti ai propri cari, parenti e amici, o ai malati tetraplegici come Luca Coscioni, Piergiorgio Welby, Giovanni Nuvoli e Paolo Ravasin, arrivati alla fase terminale di una malattia inesorabile chiamata sclerosi laterale amiotrofica, la famigerata SLA, che non tollerano di vivere attaccati ad un respiratore e essere nutriti e idratati attraverso sonde e cateteri e di dovere dipendere da altri per tutte le funzioni fisiologiche anche le più intime. Perché il medico? Egli è la persona più indicata ad aiutare questi pazienti, perché conosce più di chiunque altro se quel paziente ha un male veramente incurabile, sa quando e come morirà, sa trovare argomenti per scoraggiare una richiesta ingiustificata di eutanasia, ad esempio quando il paziente è depresso. Il medico inoltre può disporre dei farmaci capaci di far dormire per sempre velocemente e senza dolore, ne conosce l’efficacia e le eventuali interazioni con altri farmaci. Ovviamente una legge sull’eutanasia dovrebbe rispettare la libera scelta di quei medici ad essa contrari. Se la legge come è stata approvata dal Senato sarà approvata anche dalla Camera dei Deputati, sarà la fine del diritto all’auto determinazione affermato dalla Costituzione, dalle convenzioni internazionali e dalle sentenze della Cassazione. Eluana Ubaldo Nannucci Procuratore Aggiunto Onorario della Procura Generale della Cassazione, già Procuratore della Repubblica di Firenze La vicenda Englaro non è solo tristissima per la storia umana in sé, di una giovane donna rapita alla vita e confinata in un letto senza nulla sapere, vedere o sentire, e dei suoi genitori, testimoni muti e partecipi di uno strazio quotidiano, che richiede comunque abnegazione, servizio e assistenza continua di un corpo vivo, per quanto inerte. È tristissima, anche per la minaccia cui essa sta dando luogo, nei confronti di una delle norme più alte della più sacra legge dello Stato, la Costituzione. La pietra dello scandalo è l’articolo 32: “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Questo principio è stato fino ad oggi universalmente inteso nel senso che è diritto del malato rifiutare le cure anche se ne consegua la morte. Per neutralizzarlo lo si aggira, con abile sofisma: “l’alimentazione forzata non è trattamento sanitario”. Perciò essa può essere imposta anche a chi non consente. E non importa se sia cosciente o no (v. caso Welby e Nuvoli). Ma può decentemente sostenersi che alimentazione e idratazione forzata non sono trattamento sanitario? L’alimentazione forzata non è un trattamento terapeutico A meno che non si abbia l’audacia di sostenere che somministrare sostanze per mantenere in vita un am- malato grave non abbia carattere terapeutico, perché privo di qualsiasi possibilità di favorire la guarigione o il miglioramento dello stato del malato, come pure di alleviarne le sofferenze, è impossibile negare che tali pratiche hanno carattere terapeutico, posto che sono dirette a mantenere in vita un ammalato mediante conoscenze e tecniche specialistiche che richiedono il possesso di specifiche nozioni e tecniche mediche. Per negare codesto carattere si dovrebbe affermare che alimentazione ed idratazione artificiali sono operazioni in tutto equivalenti al cucchiaio col quale si cerca di far assumere dal malato qualche goccia d’acqua o di omogeneizzati – queste sì operazioni che rientrano nella normale possibilità di assistenza di persone – e che vengono introdotte nell’organismo per via naturale. Ma l’alimentazione forzata non si attua con codeste modalità di pura assistenza manuale, e non percorre vie naturali. Ne fa una incisiva descrizione Chiara Saraceno1, in margine ad un intervento su La Stampa, 19 settembre 2007: “non considerare l’alimentazione che avviene nei pazienti in stato vegetativo persistente come atto “invasivo” è segno evidente di non conoscere molto bene cosa si fa in un malato in questo stato per alimentarlo. Riassumo brevemente: nei primi giorni si introduce un cosiddetto sondino naso-gastrico in materia di silicone. Tale sondino viene introdotto attraverso il naso e ha una lunghezza di circa un metro. Richiede numerose accortezze nell’inserimento (è una manovra infermieristica) e nella manutenzione (lavaggi frequenti, continuo controllo del corretto posizionamento e pervietà). Può essere tenuto in sito solo per un periodo limitato di tempo per non dare problematiche di decubito all’esofago o allo stomaco. Passato questo periodo di tempo è meglio provvedere alla nutrizione del paziente con una cosiddetta PEG (gastronomia endoscopica percutanea) tecnica che risale al 1979, che è una metodica chirurgica quindi invasiva…”. Come possa affermarsi in buona fede che tali atti non siano trattamenti terapeutici è davvero difficile da credere. Molto lucidamente la Suprema Corte nella sentenza n. 21748 del 416 ottobre 2007 ha affermato: “non v’è dubbio che l’idratazione e l’alimentazione artificiali con sondino naso gastrico costituiscono un trattamento sanitario. Esse, infatti, integrano un trattamento che sottende un sapere scientifico, che è posto in essere da medici, anche se poi proseguito da non medici e consiste nella somministrazione di preparati come composto chimico implicanti procedure tecnologiche. Siffatta qualificazione è, del resto, convalidata dalla Quaderni della SIF (2009) vol. 19 - 21 comunità scientifica internazionale e trova il sostegno della giurisprudenza nel caso Cruzan e nel caso Bland…”. A sua volta la Commissione Oleari istituita da Umberto Veronesi con dm 20 ottobre 2000i così testualmente si espresse: “quando l’alimentazione e l’idratazione avvengono somministrando un nutrimento come composto chimico (una soluzione di sostanze necessarie alla sopravvivenza) che solo medici possono prescrivere e che solo medici sono in grado di introdurre nel corpo attraverso una sonda naso gastrica o altra modalità… esse perdono i connotati di atto di sostentamento doveroso e acquistano quello di trattamento medico in senso ampio”. Se non si vuol negare l’evidenza si deve ammettere che codesti interventi rientrano di pieno diritto nell’ambito del dettato costituzionale di cui all’articolo 32 secondo comma, per cui essi richiedono per la loro liceità l’espresso assenso del paziente. *** Ma una ragione di ancor più viva sorpresa è il silenzio sul fatto che l’alimentazione forzata urta contro un altro principio costituzionale, altrettanto ineludibile quale l’articolo 32: l’articolo 13 II comma Cost. L’alimentazione forzata come violazione dell’articolo 13, 2° comma Cost. È universalmente noto e pacificamente affermato che ogni atto che con la forza violi la libertà della persona rientra nell’ambito di tutela dell’articolo 13 II comma Cost: “Non è ammessa forma alcuna di detenzione… né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”. Alimentare o costringere ad ingerire liquidi a forza costituisce palese restrizione della libertà individuale. Fondamentale in materia la pronuncia della sentenza n. 238 della Corte Costituzionale del 9 luglio 1996, che ha affermato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 224 comma 2 codice di procedura penale nel22 - Quaderni della SIF (2009) vol. 19 la parte in cui consentiva al giudice, nell’ambito di operazioni peritali, di disporre misure comunque incidenti sul valore della inviolabilità personale - nel caso specifico, il prelievo coattivo di un campione ematico2. Neppure ragioni di giustizia penale possono legittimare una penetrazione corporale contro la volontà dell’interessato, per quanto di modesta entità o di abituale impiego, come il prelievo di un campione ematico. Si ignora dunque in modo stupefacente, che un comportamento di alimentazione forzata non infrange soltanto, in modo irrimediabile e diretto, l’articolo 32 Cost., ma anche un altrettanto univoco e tassativo principio costituzionale: quello della libertà individuale (articoli 2 e 13). Nessun atto invasivo della sfera fisica può avvenire senza o contro il consenso della persona interessata, in quanto l’”inviolabilità fisica” costituisce il “nucleo essenziale” della stessa libertà personaleii. Una esplicita applicazione di tale principio si è avuta con la recente legge modificatrice del codice della strada – D.L.vo 30 aprile 1992 n. 285 mod. dall’articolo 4 l. 24 luglio 2008 n. 125. La nuova legge ha elevato sensibilmente le sanzioni per il caso di guida in stato di ebbrezza. A tale effetto la polizia ha facoltà di sottoporre la persona a prove non invasive attraverso apparecchi portatili e di condurre il conducente al comando per effettuare accertamenti con strumenti regolamentari. Non ha però il potere di imporre alla persona di sottoporsi a tali accertamenti. In caso di rifiuto, il conducente risponde di un separato reato, ma non è soggetto ad alcuna costrizione materiale. Questa disciplina – che incide sulla stessa capacità intimidatoria della sanzione, perché l’omesso accertamento preclude la prova dell’ebbrezza – costituisce diretta attuazione del principio di libertà garantito costituzionalmente. È assolutamente inspiegabile che si sia ignorato questo basilare principio di garanzia costituzionale da sempre conosciuto e mai discusso. L’alimentazione forzata, in quanto implica impiego di strumenti artificiali che penetrano nel fisico del paziente, è direttamente vietata dal comando costituzionale in difetto di esplicito consenso, anche per questo tassativo comando costituzionale. L’alimentazione forzata come pratica illegale universalmente riconosciuta Al di là degli ostacoli di ordine costituzionale, esistono comunque casi in cui è ammissibile costringere a forza persone ad alimentarsi? Storicamente il problema si è posto in varie epoche e situazioni, in relazione soprattutto a sciopero della fame attuato da detenuti. Ha un posto di rilievo in argomento, nell’epoca moderna, la lotta delle “suffragette” nell’Inghilterra dei primi del ‘900 per ottenere il diritto al voto. La ribellione delle donne incarcerate per disordini attuata mediante sciopero della fame indusse le autorità ad imporre l’alimentazione forzata. La pratica venne abbandonata dopo alcuni anni dal suo inizio per la sua crudeltà. Nell’ordinamento interno, indipendentemente dalle ragioni di ordine costituzionale che ovviamente trovano applicazione anche nei confronti di persone ristrette, l’ordinamento penitenziario non consente alimentazione coattiva del detenuto neanche se vi è pericolo di vita. La dottrina è unanime in questo sensoiii. Il codice deontologico medico del 2006, dal suo canto, stabilisce – articolo 51 – che “quando una persona, sana di mente, rifiuta volontariamente e consapevolmente di nutrirsi, il medico ha il dovere di informarla delle conseguenze che tale decisione può comportare sulle sue condizioni di salute. Se la persona è consapevole delle possibili conseguenze della propria decisione, il medico non deve assumere iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale, ma deve continuare ad assisterla”. In sede internazionale in diverse occasioni i prigionieri sono stati sottoposti ad alimentazione forzata per mezzo di un tubo di alimentazione durante scioperi della fame. Ciò è stato proibito fin dal 1975 dalla dichiarazione di Tokyo sulla tortura della Associazione Medica Mondiale, a condizione che il prigioniero sia capace di formare una responsabile e razionale decisione. L’alimentazione forzata è considerata una forma di tortura: 6. quando un prigioniero rifiuta il nutrimento ed è ritenuto dal medico capace di rendersi conto delle conseguenze di questo volontario rifiuto di alimentarsi egli non dovrà essere alimentato artificialmente. La decisione sulla capacità del prigioniero di simile giudizio dovrà essere confermata da un altro medico indipendente. Le conseguenze del rifiuto dovranno essere spiegate dal medico al prigioniero. La pratica di alimentare coattivamente i prigionieri che facevano sciopero della fame è stata largamente usata a Guantanamo. Più di 250 medici nel 2006 firmarono una lettera con la quale condannavano l’esercito degli Sati Uniti per l’alimentazione forzata dei prigionieri; la lettera era firmata da esperti di sette nazioni, e fu pubblicata sul giornale “The Lancet”. Si sosteneva che i medici che praticavano tale prassi a Guantanamo avrebbero dovuto essere puniti dai rispettivi ordini professionali. È quindi principio incontroverso che l’ordinamento interno, come quello internazionale, non ammettono forma alcuna di alimentazione forzata, la quale anzi è per lo più considerata una forma di tortura. La situazione del paziente sottoposto ad alimentazione forzata in stato d’incoscienza Cosa differenzia la condizione del malato incosciente rispetto a quella dei casi sopra accennati, in cui si è fatto ricorso al “force feeding”? La risposta è semplice: la diversità essenziale è data dal fatto che, nel primo caso, il soggetto si trova in stato d’incoscienza, e non solo non può materialmente opporsi, con le proprie forze, a quanto si vuol praticare su di lui, ma neppure manifestare la sua opposizione; nell’uno e nell’altro caso si vuol costringere a vivere persone che, per scelta o per eventi naturali, rischiano la morte per assenza di nutrimento. Le motivazioni dell’agire di chi usa violenza non incidono né modificano l’oggettività del fatto. La questione si pone in particolare nei casi in cui l’alimentazione forzata è stata iniziata nei confronti di soggetto che, al momento dell’attivazione di questa terapia, non era in grado di esprimere alcuna volontà. Per giustificare come sia possibile attuare interventi terapeutici, o co- munque, se si preferisce, invasivi su una persona priva di coscienza, e pertanto in difetto di consenso espresso, la dottrina penalistica ha elaborato due teorie: La teoria del consenso presunto La teoria dello stato di necessità Secondo la prima opinione, il medico è legittimato ad agire dovendosi ritenere presumibile il consenso dell’infermo, qualora avesse la possibilità di esprimersi, sulla base della normale ricorrenza dell’istinto di conservazione, che in ogni persona deve ritenersi presente. La seconda opinione sostiene invece che l’unica ragione che legittima l’intervento medico è l’urgenza di provvedere nella attualità di un pericolo di danno grave alla persona, “non altrimenti evitabile”. La teoria della presunzione di consenso è parsa rimettere totalmente al giudizio del medico ogni decisione sulla vita del paziente; qualunque intervento è giustificato e lecito, sulla base di ciò che il medico stesso ha giudicato fosse la presumibile volontà del malato incosciente. Per quanto riguarda lo stato di necessità, si sottolinea che l’intervento comunque deve essere “non altrimenti evitabile”, e pertanto esposto al giudizio oltremodo incerto di cosa debba intendersi e quando ritenersi evitabile o meno la manovra effettuata. Sul piano logico, quanto al primo criterio, si può osservare che il medico può legittimamente ritenere che il paziente avrebbe consentito l’intervento, quando è, se non assolutamente certo, quanto meno estremamente probabile che esso avrebbe consentito la guarigione o la riparazione del danno in misura da assicurare condizioni di vita quanto meno prossime a quelle preesistenti. Se tali condizioni non ricorrono, presumere il consenso è del tutto arbitrario. Nessuno può sostituirsi all’interessato, nelle decisioni che riguardano la sua integrità fisica come pure le condizioni e la qualità della sua vita futura. Se dunque l’intervento medico non si limiti ad attività di riparazione del danno provocato dal trauma o dall’evento naturale che ha colpito l’infermo, ma comporti effetti gravemente e permanentemente invalidanti, regola di corretta metodologia medica dovrebbe essere quella di stabilizzare per quanto possibile le condizioni del paziente, per poi porlo in condizione di scegliere se e quale tipo di intervento subire, ovvero, puramente e semplicemente, rifiutare interventi demolitori accettandone le conseguenze; questo è quanto impongono i principi che sanciscono il diritto di rifiutare le cure, fino al limite della vita. Se procedere in tal senso è impossibile, perché non si può aspettare il risveglio per operare, pena la vita, allora sarà sufficiente a giustificare l’intervento la situazione di urgente ed assoluta necessità, che trova la sua disciplina nell’articolo 54 codice penale. Nella quale assume rilievo primario, quando dall’azione del sanitario derivino conseguenze gravi e permanenti, il requisito della inevitabilità, ossia della mancanza di alternative. È di notevole interesse ricordare quanto, in materia di cause di giustificazione, fu proposto dalla Commissione Pagliaro – (dal nome del presidente della Commissione ministeriale costituita con D.M. 8.2.1988) nello schema di legge delega in materia di cause di giustificazione in relazione all’attività terapeutica e gli interventi medico-chirurgici: Nell’articolo 16 n. 5 fu stabilito che occorreva prevedere come causa di giustificazione l’attività terapeutica, sempre che: «a) vi sia il consenso dell’avente diritto, o, in caso di impossibilità di consentire, il suo consenso presumibile e la urgente necessità del trattamento; b) il vantaggio alla salute sia verosimilmente superiore al rischio; c) siano osservate le regole della migliore scienza ed esperienza»; l’articolato supponeva che il consenso presumibile dovesse accompagnarsi all’urgenza dell’intervento; e che, in ogni caso, il vantaggio fosse “verosimilmente”, ossia sulla base delle cognizioni e dell’esperienza medica del settore, superiore al rischio. In tal modo si unificavano in un insieme ragionevole i due principi intorno ai quali si è impegnata per decenni la dottrina penalistica. Codeste conclusioni trovano autorevole avallo nella c.d. Convenzione di Oviedo3, dove, all’articolo 6, “tutela delle persone incapaci di prestare Quaderni della SIF (2009) vol. 19 - 23 consenso” si dispone: 1. “con riserva degli articoli 17 e 20, un trattamento può essere praticato su una persona incapace di prestare consenso solo se gliene derivi un beneficio diretto”. Espressione che fissa in un miglioramento delle condizioni di vita preesistenti la condizione di legittimità dell’azione medica. È cioè impossibile considerare beneficio – diretto o indiretto che sia – il semplice mantenimento dello stato preesistente. Le condizioni di legittimità dell’intervento di alimentazione e idratazione artificiale Alla luce dei criteri sopra enunciati, l’indicazione terapeutica dell’alimentazione e idratazione forzata di una persona in stato d’incoscienza è ammissibile, seguendo il criterio del consenso presunto, allorché si ritenga che tale misura sia indispensabile in funzione delle ulteriori terapie che si prevede abbiano la possibilità di restituire la persona alla propria normalità fisica, ossia alla guarigione dallo stato di malattia che l’ha colpita, o quanto meno ad una restituzione della persona a condizioni simili, ovverosia confrontabili con quelle di cui ella godeva prima dell’incidente. Ciò perché in sé e per sé l’alimentazione non assicura un miglioramento rispetto alla condizione di salute preesistente. Rende solo stabile e permanente quello stato. Se manca del tutto una ragionevole fiducia che questi risultati potranno essere ottenuti, non ha alcun titolo il medico per ipotizzare un consenso ad iniziare una pratica che di per sé o nel contesto della situazione clinica non autorizza alcuna previsione di questo tipo. In altre parole la misura dell’alimentazione forzata in tanto sarà lecita in quanto funzionale alla speranza di risolvere la causa dell’infermità che ha colpito la persona. Vale a dire lo stato di necessità che giustifica questo intervento è quello inteso a risolvere il pericolo attuale di un danno grave, preesistente all’inizio dell’alimentazione forzata, e che questa misura è intesa a favorire. L’attualità per pericolo è quella della causa patologica che ha indotto il sanitario ad 24 - Quaderni della SIF (2009) vol. 19 iniziare questo trattamento. Non può lo stato di necessità giustificare il pericolo della morte per l’interruzione dell’alimentazione, perché l’alimentazione è stata volontariamente iniziata dal medico, e non è quindi scriminata dall’articolo 54, che giustifica solo gli eventi che non siano volontariamente causati. Insomma l’idratazione e l’alimentazione costituiscono presidio sanitario legittimo, in quanto tendenti a consentire la risoluzione della crisi patologica del paziente; ma se i rimedi terapeutici non lasciano più spazi di speranza di un esito positivo della terapia, a questo punto la legittimità di quella misura viene meno; il pericolo che lo stato di necessità consente di coprire, è quello dell’evento che non venne “volontariamente causato” dal sanitario. ma se costui, constatata l’inutilità delle cure, persevera nel trattamento coatto, tale comportamento non è scriminabile in base all’articolo 54, perché alimentazione e idratazione sono state da lui volontariamente attuate. A questo punto l’azione del medico, legittima al suo inizio, fin quando sussiste stato di necessità in funzione delle terapie che consentano il recupero delle facoltà dell’individuo, perde ogni giustificazione quando quelle speranze non sono più ragionevolmente fondate, e la causa di giustificazione originaria viene meno. Tanto più che in molti casi lo stato vegetativo è “l’effetto collaterale della messa in atto, nel contesto della medicina d’urgenza e della terapia intensiva, di trattamenti rianimatori di sostegno vitale finalizzati al pieno recupero di funzioni compromesse”, ossia direttamente dipendente dall’azione medica4. Qual è la conseguenza? Che le pratiche di mantenimento vitale, sia in quanto trattamento sanitario sia in quanto lesive di un diritto di libertà e di intangibilità corporea, divengono soggette al principio generale del consenso. Che, se non può essere personalmente espresso dal malato, dovrà esser dato da chi lo rappresenta. Tutore, o amministratore di sostegno che sia, sulla base della volontà espressa o ricostruita della persona quando era capace. È ben singolare che da molte parti del mondo politico, oltre che confessionale, non si voglia accettare che possa esservi una persona che, in coscienza e secondo buona fede, rappresenti il malato anche in situazioni che investono la sua stessa vita. È pacifico che un rappresentante ha facoltà di compiere ogni atto per conto e in nome dell’interdetto, quando vi siano le autorizzazioni richieste dalla legge civile. E che l’amministratore abbia tra i suoi compiti, anche quello di prendersi cura dell’amministrato. Ma quando si discute se abbia anche il potere principe di ogni uomo, di fronte alla malattia, di rifiutare le cure, o gli atti invasivi della sua libertà, allora del tutore non ci si può più fidare5. Rifiutare la possibilità di consentire al tutore di rappresentare l’infermo nell’esercizio di un suo diritto costituzionale, sulla base di una pregiudiziale di inattendibilità o di malafede assoluta significa costringere un essere umano che senza consenso è stato posto in stato vegetativo o in questa condizione è venuto a trovarsi a rimanere in tale stato a tempo indeterminato per mesi e anni, senza che nessuno possa interromperlo perché sarebbe omicidio. Insomma un medico ha ritenuto di adottare senza consenso una forma di mantenimento artificiale in vita. Da quel momento nessuno più è in grado di interrompere questa più o meno arbitraria iniziativa; così inventando un consenso presunto senza tempo, o uno stato di necessità permanente di una situazione che il medico stesso ha costruito. Certo se vi fossero volontà direttamente manifestate in anticipo per l’eventualità di una perdita di coscienza, tutti saremmo meno turbati. Ma se queste non furono mai espresse, si deve concludere che, quindi, nessun’autorità terrena ha il potere di por fine a quella che, di fatto e di diritto, è solo un’agonia? E per quanti anni, o decenni, questa sedicente vita artificialmente indotta in un corpo che, naturalmente, sarebbe in tempi assai brevi inesorabilmente morto, dovrà continuare? E chi dovrà averne cura, non economicamente, ma materialmente: chi dovrà provvedere al cambio della biancheria, delle lenzuola, dei cateteri, alla pulizia delle piaghe, delle emissioni? Su chi dovrà gravare, per legge, quest’opera di carità che il parlamento impone, senza però sporcarsi una mano, né scomodarsi gli occhi alla contemplazione di creature in queste condizioni? E quanti saranno, oggi mille, ma domani migliaia o decine di migliaia, le persone che non riescono a morire perché una falsa pietà gli impone di essere mantenuti in stato vegetativo, finché un evento fisico abnorme, cui l’arte medica, ma io direi la tecnica sperimentale del medico, non sappia ancora ovviare, non li sollevi dalla loro condizione? Questa condizione paraumana non è prevista né imposta da alcun norma di legge interna – fino ad oggi – né, tanto meno, internazionale. È però voluta, anzi imposta, dal mondo cattolico. Tanto sufficit, perché essa sia legge dello Stato. Fino ad oggi queste, ben lo sappiamo, terribili scelte spettavano al rappresentante legale: non il diritto di uccidere, ma di rifiutare il mantenimento artificiale di una vita artificiale. Lo dice il codice deontologico – articolo 37: “allorché si tratti di minore o di interdetto il consenso agli interventi diagnostici o terapeutici… deve essere espresso dal rappresentante legale. … in caso di opposizione da parte del rappresentante legale a trattamento necessario e indifferibile a favore di minori o incapaci, il medico è tenuto a informare l’autorità giudiziaria; se vi è pericolo per la vita o grave rischio per la salute del minore o dell’incapace, il medico deve comunque procedere senza ritardo e secondo le necessità alle cure indispensabili”. In verità l’autorità giudiziaria ha titolo per intervenire quando si tratti di minori; nel caso di maggiori, per promuovere l’interdizione o l’amministrazione di sostegno. Nel caso di incapaci in stato di interdizione, sarebbe assai dubbio che il giudice potesse, per questo solo motivo, revocare la nomina del tutore. La Convenzione di Oviedo all’articolo 6, comma 3, stabilisce che “quando un maggiorenne è per legge, a causa di un handicap mentale, di una malattia o per un motivo analogo, incapace di acconsentire ad un trattamento, quest’ultimo non può essere praticato senza l’autorizzazione del suo rappresentante, di un autorità o di una persona o di un organismo designati dalla legge”. Il disegno di legge Calabrò 26 gennaio 2009 L’impianto generale dei principi consolidati, secondo dottrina e giurisprudenza, dall’avvento della Costituzione ad oggi, è totalmente travolto dal disegno di legge Calabrò. “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento” Nelle sue linee essenziali, il disegno di legge Calabrò fissa i seguenti principi: Articolo 1 – Tutela della vita e della salute 1. la Repubblica tutela la vita umana fino alla morte, accertata ai sensi della legge 29 dicembre 1993 n. 578 Si vuole così intendere che fin quando non è certificata la morte la Repubblica impone di vivere. Principio strettamente correlato al secondo comma, nel quale è detto: 2- la Repubblica… tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività… Si presenta così la questione: il diritto dell’individuo a non curarsi è collegato ossia subordinato all’interesse della collettività. Poiché l’interesse della collettività è, secondo la legge, ch’egli viva comunque, questo interesse prevale su quello dell’individuo. Si cancella in tal modo il diritto di non curarsi fino a morire. Questa lettura è pienamente confermata dal comma 4: 4 .la repubblica riconosce il diritto alla vita inviolabile e indisponibile garantito anche nella fase terminale dell’esistenza e nell’ipotesi in cui il titolare non sia più in grado di intendere e di volere. Appunto; scompare il diritto di non curarsi. La Repubblica, nel riconoscere la tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività garantisce la partecipazione del paziente all’identificazione delle cure mediche più appropriate, riconoscendo come prioritaria l’alleanza terapeutica tra il medico e il paziente, che acquista peculiare valore proprio nella fase di fine vita. Si ripete l’assioma della posizione paritaria del diritto dell’individuo e dell’interesse della collettività; ma quale nel conflitto tra i due interessi prevalga è spiegato bene dopo: il paziente partecipa alla scelta delle cure, non le decide lui né le può escludere; si stabilisce un connubio tra paziente e medico, definito con formula astuta alleanza terapeutica non a caso definita prioritaria. Il che vuole dire prevalente. Per significare che il rapporto tra medico e paziente non è più regolato dal consenso, ossia su base contrattuale, che in materia di attività professionale è sempre ad libitum revocabile dal committente, bensì da un sodalizio nel quale il consenso è elemento accessorio e non essenziale; una volta istituito il patto, chi decide è, sentito il paziente, il medico. Ogni principio costituzionale è travolto. La doppiezza della disciplina è ampiamente ribadita dalle norme seguenti: Sarà sufficiente agli effetti della confutazione del suo impianto argomentativo riprodurre gli articoli 3, 5 commi 5 e 6. Articolo 3 – Divieto di accanimento terapeutico Soprattutto in condizioni di morte prevista come imminente, il medico deve astenersi da trattamenti sanitari straordinari, non proporzionati, non efficaci o non tecnicamente adeguati rispetto alle condizioni cliniche del paziente o agli obiettivi di cura e/o di sostegno vitale del medesimo Il divieto di accanimento terapeutico non può legittimare attività che direttamente o indirettamente, per loro natura o nelle intenzioni di chi li richiede o li pone in essere, configurino pratiche di carattere eutanasico o di abbandono terapeutico Il comma 2 smentisce il principio del primo comma. Quali sono le pratiche di “carattere eutanasico” o di “abbandono terapeutico” che non possono essere consentite, nonostante il divieto di accanimento? Se la cessazione dell’accanimento che ha per oggetto trattamenti inefficaci provoca la morte, ha carattere eutanasico, e quindi deve continuare l’accanimento? Se si vuole dir le cose secondo buona fede occorre precisare che il diQuaderni della SIF (2006) vol. 19 - 25 vieto di abbandono vuol dire solo mantenere le terapie antidolorifiche. Articolo 4 – Consenso informato Di rilievo è solo il comma 6: 6. in caso di interdizione ai sensi dell’articolo 414 del codice civile, il consenso è prestato dal tutore che appone la firma in calce al documento. In caso di inabilitazione, ai sensi dell’articolo 415 codice civile, si applicano le disposizioni di cui all’articolo 349, comma 3 del codice civile relative agli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione. Qualora vi sia un amministratore di sostegno ai sensi dell’articolo 404 del codice civile e il decreto di nomina preveda l’assistenza in ordine alle situazioni di carattere sanitario, il consenso è prestato dall’amministratore di sostegno. La decisione di tali soggetti è adottata avendo come scopo esclusivo la salvaguardia della salute dell’incapace e non può pertanto riguardare trattamenti sanitari in pregiudizio della vita dell’incapace stesso. In altre parole, nessuno ha l’autorità di chiedere la cessazione del trattamento. Articolo 5 - Contenuti e limiti delle dichiarazioni anticipate di trattamento 5. nelle dichiarazioni anticipate di trattamento il soggetto non può inserire indicazioni finalizzate all’eutanasia attiva o omissiva. L’eutanasia omissiva è in realtà definita dalla dottrina eutanasia passiva, e sta a significare il rifiuto di trattamento terapeutico. Essa, quando è consensuale, ossia voluta dal malato, è tassativa attuazione dell’articolo 32. Il divieto del primo comma semplicemente dice che il malato non può rifiutare le cure che hanno l’unica funzione di tenerlo in vita anche se inutili ai fini della guarigione o del miglioramento. È diretto insulto all’articolo 32. 6. alimentazione ed idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze e non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento. 26 - Quaderni della SIF (2006) vol. 19 Alimentazione e idratazione possono considerarsi forme di sostegno vitale, ma comunque costituiscono trattamento sanitario e sono pertanto soggette al consenso del paziente. In quanto pure forme di sostegno vitale, e pertanto prive di diretta utilità terapeutica in quanto incapaci sia di guarire dall’infermità sia di conseguire miglioramenti effettivi, esse sono concepibili, in assenza di consenso, solo nelle situazioni di necessità, allorquando siano funzionali a terapie direttamente rivolte alla risoluzione della malattia, e per il tempo strettamente condizionato dalla necessità e urgenza di tali terapie. Altrimenti realizzano puramente e semplicemente quell’accanimento terapeutico che si dice di vietare. Si tratta di autentiche e dichiarate violazioni agli articoli 13 e 32. 7. La dichiarazione anticipata di trattamento assume rilievo nel momento in cui è accertato che il soggetto in stato vegetativo non è più in grado di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario e le sue conseguenze e per questo motivo non può assumere decisioni che lo riguardano. La valutazione dello stato clinico va formulata da un collegio medico formato da cinque medici (neurologo, neurofisiologo, neuro radiologo, medico curante e medico specialista della patologia) designati dalla direzione sanitaria della struttura di ricovero. Viene da domandarsi a carico di quale soggetto saranno poste le spese per questo consulto di specialisti. Dell’interessato? Non pare, posto che non lui lo ha disposto; della struttura, ossia del servizio sanitario statale? E da ritenere così. Tutto ciò non per escludere alimentazione e idratazione, ma per scegliere o escludere terapie specifiche (es: non voglio cortisonici…). Articolo 6 – Forma e durata della dichiarazione anticipata di trattamento 1. Le dichiarazioni anticipate di trattamento non sono obbligatorie né vincolanti, sono redatte in forma scritta con atto avente data certa e firma del soggetto interessato maggiorenne, in piena capacità d’intendere e di volere dopo una compiuta e puntuale informazione medico clinica, e sono raccolte esclusivamente da un notaio a titolo gratuito. Alla redazione della dichiarazione interviene un medico abilitato all’esercizio della professione che sottoscrive la dichiarazione anticipata di trattamento… 4. salvo che il soggetto sia divenuto incapace, la dichiarazione ha validità di tre anni… Questa disposizione non merita alcun commento. Le volontà della persona, comunque espresse, non sono vincolanti per nessuno, pur dovendo essere redatte per iscritto, da soggetto pienamente capace (immaginarsi le contestazioni!) dinanzi ad un notaio (a titolo gratuito! Con quale autorità?). Ultima beffa, valgono tre anni… Se non fosse grottesco sarebbe assurdo fino all’inverosimile… Conclusione La conclusione di questa disamina conduce ad un solo esito: l’insieme di queste disposizioni costituisce un macroscopico ed immorale annientamento della Costituzione, in uno dei suoi principi cardine e dei suoi criteri ispiratori, il carattere personalistico dell’intero impianto costituzionale. La Costituzione viene annullata, mediante l’inserimento nell’ordinamento dello Stato di un criterio statalistico che prevale sulle scelte individuali per obbedire al un teorema ideologico, di ispirazione confessionale, secondo cui la persona non è padrona della propria vita e della propria esistenza, ma è soggetta ad una padronanza dello Stato che nell’interesse dei propri dogmi ideologici stabilisce se e quando e come curarsi, fino ad imporre il divieto di morire. Viene da chiedersi, per l’ideologia che ispira questo insieme di sconcertanti conseguenze, in quale parte del Vangelo siano contenuti questi precetti. Quando essi risultano addirittura smentiti dallo stesso Catechismo della chiesa cattolica, evidentemente ignorato e travolto dalla deriva oscurantista del papato e dei suoi cardinali: recita ancora il canone 2278: “l’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’”accani- mento terapeutico”. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente” NOTE 1 Ordinario di Sociologia della Famiglia, Università degli Studi di Torino. 2 Si tratta dell’episodio delle lacrime di sangue versate dalla madonnina di Civitavecchia. Il pretore intendeva verificare se quel sangue anziché essere di origine celeste, non appartenesse al proprietario della statuetta. 3 Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano rispetto alla utilizzazione della biologia e della medicina approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa nella seduta del 19 novembre 1996. 4 V. l’accuratissimo lavoro di Patrizia Borsellino, “Bioetica tra morali e diritto”, Cortina Ed. Milano 2009; nonché Gilda Ferrando “Stato vegetativo permanente e trattamenti medici: un problema irrisolto”, Familia, 2004, 6 “Quando il medico interviene con trattamenti di rianimazione sulle persone che hanno subito una lesione cerebrale in conseguenza di evento traumatico o atossico, lo fa nella speranza di recuperare in tutto o in parte alcuni dei pazienti che hanno subito il trauma. La rianimazione è praticata per preservare la vita in vista della possibilità di recupero. Quando il tentativo non ha successo e il paziente entra in stato vegetativo permanente, lo stesso trattamento di rianimazione di alimentazione e idratazione forzata perde la sua giustificazione; se il recupero non ha successo, resta la condanna al prolungamento della vita biologica fine a se stesso, la condanna ad un trattamento che all’origine non era sostenuto dal consenso del paziente”. 5 Qualcuno si azzarda a dire che il tutore potrebbe avere interesse a far morire il malato. Solo uomini che non sanno cosa sia la paternità possono supporre che un genitore voglia la morte del figlio per liberarsi da un’assistenza fastidiosa. i Bioetica 2001, n. 2 Cass. civ. sez. III, 29 luglio 2004, n. 14488 – voce aborto (tratta del nascituro a nascere, ma non del diritto a non nascere o a nascere sano). ii Così Gilda Ferrando, “Stato vegetativo permanente e trattamenti medici: un problema irrisolto” in Familia 2004, 6, 1173 X 1092140. In giurisprudenza, Corte Cost. 22 ottobre 1990, n.471, Foro It. 1991, I, c. 14; Corte Cost. 2 giugno 1994 n. 218, in Foro it. 1995, I, col 46; Corte Cost. 18 aprile 1996 n. 118 , Foro It. 1996, I, 2326; Corte Cost. 26 febbraio 1998 n. 27, Corte Cost. 9 luglio 1996 n. 238, in Fam. Dir. 1996 n. 419; citata da Ferrando; v.a. Corte Cost. 23 giugno 1994, n. 258, in Foro it. 1995, I, c. 1451; cass. 24 febbraio 1997 n. 1661. iii L’ordinamento penitenziario non prevede che possa procedersi ad alimentazione coatta del detenuto, pratica pertanto non consentita. Vedasi: Fassone, Sciopero della fame, Questione giustizia 1982, 335; Ferraioli, carcere e diritti fondamentali, ivi, 351; Onida, dignità della persona e diritti, ivi, 361, Pulitanò, sullo sciopero della fame, ivi, 369, Fiandaca, Foro It. 1983, II, 235; Palazzo, sciopero della fame e omissione di soccorso, Riv. Pen. 1995 420. Bovet, Erspamer e le sostanze naturali * Paolo Nencini Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia, Università di Roma “La Sapienza” * Testo basato sulla lettura tenuta il 29 giugno 2009 nel corso del XIII Seminario Nazionale per Dottorandi in Farmacologia e Scienze Affini a Pontignano (SI) In un pregevole articolo dedicato alla farmacologia italiana del decennio che ha preceduto la seconda guerra mondiale, Giancarlo Pepeu ha osservato come la nostra disciplina fosse allora affetta da un certo provincialismo che fatalmente ne minava la robustezza metodologica e l’originalità delle tematiche affrontate. Il dopoguerra coincide con un radicale mutamento che porta la farmacologia italiana al livello di quel prestigio internazionale di cui la ricerca italiana già godeva in altre discipline scientifiche. Un ruolo certamente importante nell’accresciuto prestigio è stato svolto dall’opera di due grandi scienziati attivi a Roma in quel periodo, Daniel Bovet e Vittorio Erspamer. Bovet, in particolare, fornisce la testimonianza più diretta della sprovincializzazione della farmacologia italiana, definendosi esso stesso svizzero per nascita, francese per formazione e italiano per scelta. Erspamer è invece italiano per nascita, nativo delle valli trentine, e, per formazione, allievo del prestigioso Collegio Ghisleri di Pavia: il suo contributo alla sprovincializzazione della nostra disciplina deriva interamente dalla sua produzione scientifica e dagli intensi contatti che manterrà con i colleghi stranieri attraverso la sua lunga vita scientifica. Sotto molti aspetti possiamo considerare quelle di Bovet e di Erspamer vite scientifiche parallele con punti di contatto e differenze che bene esemplificano l’ampiezza di opzioni scientifiche che la farmacologia fornisce ai suoi cultori. Bovet ed Erspamer sono pressoché coetanei, il primo essendo nato nel 1907 e il secondo nel 1909. Bovet si laurea in Scienze Naturali e ottiene il dottorato di ricerca studiando la metamorfosi del tritone; Erspamer intraprende gli studi di medicina, ma presto entra nel laboratorio di Maffo Vialli, professore di anatomia comparata, dal quale trae quella vena naturalista che ne informerà l’intera opera scientifica. Entrambi, molto presto, si orienteranno verso la farmacologia. Bovet entra infatti nel laboratorio di chimica terapeutica diretto da uno dei più grandi cacciatori di farmaci del periodo tra le due guerre, Ernest Fourneau, all’Istituto Pasteur di Parigi; nel dopoguerra approderà all’Istituto Superiore di Sanità dove rimarrà fino alla metà degli anni sessanta, quando si volgerà alla carriera universitaria, spinto anche dalla autolesionista congiura di palazzo che aveva decapitato la direzione dell’Istituto (Per una dettagliata analisi della carriera scientifica di Bovet, vedi: G. Bignami, 1993). Per parte sua Erspamer diviene assistente di Pietro Di Mattei, professore di farmacologia a Pavia; nel 1938 lo segue a Roma, dove, con intervalli connessi con la sua carriera scientifica, continuerà la sua attività scientifica fino alla sua scomparsa avvenuta nel 1999. Entrambi sono molto precoci nel contribuire a scoperte di grande importanza. Nel 1935 il laboratorio di Fourneau è impegnato nella corsa a Quaderni della SIF (2006) vol. 19 - 27 ottenere derivati del prontosil rosso a maggiore attività antibatterica rispetto al prodotto primitivo. Il problema è noto: si riteneva che l’attività antibatterica del prontosil rosso risiedesse nella funzione azoica della molecola e quindi la ricerca di nuove molecole attive era circoscritta all’ambito dei coloranti. Bovet, come lui stesso racconta nel suo bel libro “Vittoria sui microbi” (Bovet, 1991, pp. 40-48), si trova per le mani un flacone del composto precursore sulfanilamide (prontosil bianco) e un gruppo di topi da inoculare con streptococco emolitico in più rispetto alle molecole da testare: il prontosil bianco si dimostra più attivo del prontosil rosso. La giusta via nella ricerca dei sulfamidici è intrapresa e poco più di un anno dopo Paulette e Henry, due bambini destinati a soccombere alla meningite streptococcica, sono salvati dalla sulfanilamide (Bovet, 1991, pp. 60-64). La scoperta di Erspamer è di altrettanto rilievo, sebbene, per la sua stessa natura, non poteva avere così immediate conseguenze pratiche. In questi termini egli stesso la riassume nel 1939: “Non posso qui omettere di ricordare la serie di ricerche iniziata da Vialli e da me già nel 1936, dirette all’estrazione della sostanza specifica delle cellule enterocromaffini... Le indagini, promettentissime, ci hanno portato a dimostrare nei nostri estratti tale sostanza specifica, che risulta essere una fenilalcolamina per la quale noi abbiamo proposto il nome di enteramina” (Erspamer, 1939). L’enteramina alla fine risulterà essere una indolamina, la 5-idrossitriptamina, ma la completa definizione della struttura richiederà anni di lavoro in differenti laboratori a testimonianza della limitatezza delle metodiche analitiche del tempo. Vi è infine un ulteriore elemento in comune nelle attività scientifiche di Bovet ed Erspamer: il loro interesse per le sostanze naturali. Ciò può apparire come un ovvio punto in comune in quanto la farmacologia ha avuto e continua ad avere un interesse particolare per queste sostanze, tenuto conto che l’80% dei farmaci in uso terapeutico è costituito da sostanze di origine naturale o da loro derivati (Li & Vederas, 2009). Se ci poniamo in una prospettiva applicativa, ci sembrerà che Bovet, più che Erspamer, 28 - Quaderni della SIF (2006) vol. 19 appartenga alla categoria di farmacologi che hanno tratto dalle sostanze naturali ispirazione per i loro studi farmacodinamici. Bovet, infatti, a partire dai curari naturali scovati nella foresta amazzonica e con l’aiuto del chimico Marini-Bettolo, disegna e introduce quelli che egli stesso definisce lepto-curari, di cui la succinilcolina (o suxametonio) rimarrà a lungo esponente di grande utilità clinica (per una bibliografia essenziale degli studi di Bovet, vedi Bignami, 1993). La sostanza naturale, la d-tubocurarina, è in qualche modo un pretesto per dare inizio ad una ricerca di relazione struttura-attività al termine della quale vi è lo sviluppo di un farmaco appositamente disegnato a svolgere una ben precisa attività terapeutica. In quest’opera Bovet dimostra uno straordinario acume scientifico e infatti potremmo dire che re-inventa la succinilcolina, che era stata già sintetizzata all’inizio del secolo. Uno storico della medicina si è chiesto infatti come mai nel caso del meccanismo d’azione della succinilcolina Bovet abbia avuto successo laddove almeno altri tre gruppi di ricerca avevano fallito. La risposta è che “Bovet was the first to succeed because, unlike his predecessors, he knew what he was looking for” e che pertanto “he was the first to produce experimental conditions conducive to the appearance of neuromuscular blocking action” (Dorkins,1982). Da questo esempio è tuttavia evidente che al centro degli interessi scientifici di Bovet non sono le sostanze naturali, ma piuttosto la relazione struttura-attività all’interno di una serie di molecole al fine di ottenerne prototipi di eventuale impiego terapeutico. Lo dimostra il fatto che, accanto le ricerche sui curari, ne conduce altre, parimenti fruttuose, atte ad individuare agenti in grado di bloccare l’azione dell’istamina, che ora definiamo mediata dai recettori H1. In questo caso, il punto di partenza è la struttura dell’istamina stessa e il contributo più importante fornito da Bovet è la pirilamina, un antistaminico che godrà di una certa fortuna sotto il nome di Neo-Antergan (Bovet, 1959). Una simile procedura viene applicata alla adrenalina sulla cui struttura si modellano molecole appartenenti alla serie della fenossietilamina e della fe- niletilendiamina, dimostrandone l’attività simpaticolitica. Infine, la serie di derivati della fenilglicinamide, che della ergotamina conservava l’attività ossitocica, mentre dallo scheletro 2dietilaminotetralinico di quest’ultimo composto si sviluppavano ulteriori composti simpaticolitici (Bovet, 1959). Come egli stesso dichiara fin dal titolo della sua lettura in occasione del conferimento del premio Nobel (Bovet, 1959), sono i concetti di isosteria e di competizione a guidare Bovet nel dedalo di composti che sottopone a investigazione farmacologica. D’altro canto, l’indifferenza di Bovet riguardo la provenienza del modello primario di molecola è ben espressa quando nella stessa lettura afferma che “Making use of the considerable means offered by organic synthesis, many investigators have directed their efforts to the field of therapeutics and have sought to lay the groundwork for a pharmaceutical chemistry or, better, for a chemical pharmacology.” (Bovet, 1959). Il fine ultimo della sua ricerca si identifica con quella che è l’esigenza primaria dell’epoca: colonizzare farmacologicamente gli immensi domini patologici che affliggono l’uomo. Per la prima volta nella storia, infatti, i convergenti progressi in differenti aree scientifiche, patologia generale, farmacologia e chimica farmaceutica, forniscono l’opportunità per intraprendere tale opera civilizzatrice. Sono infatti numerosi in quegl’anni i “cacciatori di farmaci” all’opera. Alcuni si esercitano sulle sostanze naturali, come Cushman e Ondetti che, a partire dal veleno di una vipera brasiliana, la Botrops jararaca, disegnano e introducono il captopril, primo esponente della fortunatissima famiglia degli ACE-inibitori (Ondetti et al, 1977; Cushman & Ondetti, 1991). Altri partono direttamente dalla chimica sintetica, come Sir James Blake, che, aperta con il propranololo la fertilissima via ai beta-bloccanti (Quirke, 2006), si pone alla ricerca di un fantomatico recettore H2 istaminergico da bloccare per “curare” farmacologicamente l’ulcera peptica e, dopo ben 700 molecole sintetizzate e testate, raggiunge il sicuro approdo della cimetidina (Hirschowitz, 1979). Tra i molti cacciatori di farmaci, Bovet appartiene tuttavia alla ristrettissima schiera di coloro che hanno meritato il premio Nobel. Lo ottiene nel 1957 “per le scoperte relative ai prodotti di sintesi che bloccano gli effetti di alcune sostanze che si formano e agiscono nell’organismo, e in particolare sui vasi sanguigni e sulla muscolatura dello scheletro”, come recita la motivazione del conferimento (questa traduzione in italiano compare nel curriculum che Bovet presenta per il concorso a professore ordinario di farmacologia nel 1963. Bignami, 1993, p. 69). Della esigenza immediatamente applicativa impersonata da Bovet non v’è che minima traccia nell’opera di Vittorio Erspamer. Piuttosto, nella sua opera la prospettiva appare completamente rovesciata fin quasi a perdere ogni specifica connotazione farmacologica. L’individuazione della sostanza naturale è infatti il fine della ricerca e la metodologia farmacologica d’indagine non ne è altro che lo strumento per l’identificazione dell’eventuale funzione. Con termine un po’ obsoleto, potremmo dire che Vittorio Erspamer è un naturalista, un grande naturalista che negli oltre sessant’anni di attività scientifica si propone di riempire quanto più possibile gli spazi bianchi nel capitolo che il gran libro della Natura dedica a certe particolari sostanze che, contenute nei tessuti animali, vi svolgono una attività biologica talmente intensa da apparire più di natura farmacologica che fisiologica: le cosiddette “sostanze naturali attive” come egli stesso le chiama, oppure sostanze autacoidi come altri le indicano. Ad Erspamer ben si addice la definizione che il Conte di Buffon diede dei naturalisti: gente che fruga negli archivi del mondo. Un moderno storico così ha commentato questa definizione: “It is an arresting image: the idea that the birds, soils, rocks, all the objects in the gaze of the eighteenth-century natural historian were lined up on so many shelves, ready to be retrieved and studied.” (Smail, 2008, p. 47). Erspamer vive nel XX secolo e quindi non più di minerali e di uccelli si occupa, ma di “sostanze tessutali attive”, appunto. Di queste sostanze Erspamer non è certo stato il solo esploratore indifferente ad un loro utilizzo immediatamente applicativo – basti pensare a Von Euler e a Gaddum con le loro prostaglandine e la sostanza P – ma è certo stato quel- lo che, tra i suoi contemporanei, con più tenace sistematicità ne ha perseguito lo svelamento, avendo cura di non limitarsi all’ambito dei mammiferi, ma posando lo sguardo su gradini più primitivi della scala zoologica, gli anfibi, innanzi tutto. È proprio questo suo sguardo comparativista, intrinseco alla sua formazione scientifica avvenuta alla scuola pavese di Maffeo Vialli, che permette ad Erspamer di costruire quel triangolo di ridondanze autacoidi tra derma di anfibio, intestino e sistema nervoso centrale di mammifero (Erspamer et al., 1981), che è stato il suo maggiore contributo al progresso delle scienze biomediche. E nel 1991 proprio alla scoperta del “… role of biogenic amines as neurotransmitters and of more than 50 bioactive peptides showing the existence of the brain-intestine-skin triangle” fa riferimento Rita Levi-Montalcini nella sua proposta di attribuzione del premio Nobel a Vittorio Erspamer. Anche se il premio Nobel non gli sarà conferito, il triangolo brain-intestine-skin rimarrà una idea fertile di conseguenze. In particolare, sarà premessa e stimolo a procedere su due differenti linee di ricerche. L’una orientata ad identificare negli altri due lati del triangolo una sostanza già isolata in uno solo di esso. Qui il razionale investigativo si intreccia con quello consistente nel ricercare il composto endogeno che si unisce ad un recettore a sua volta identificato sulla base del legame che specificamente intrattiene con uno xenobiotico. Ne è un esempio il sistema oppioide: la scoperta di recettori specifici per la morfina porta all’isolamento dei peptidi oppioidi nel cervello di mammifero, inducendo a sua volta Erspamer a cercare con successo peptidi analoghi nella pelle di anfibio. Nel 1981 isola infatti dalla pelle di rane sudamericane della sotto-famiglia delle Phyllomedusinae un gruppo di peptidi ad attività oppioide, che denomina dermorfine (Broccardo et al., 1981). Successivamente, dalla specie Phillomedusa bicolor isola altri peptidi che presentano una selettiva affinità per i recettori delta oppioidi e a cui affida il nome di deltorfine (Negri et al., 2000). La seconda linea di ricerca utilizza il triangolo di ridondanze autacoidi quale strumento per ricostruire tratti certo non brevi di percorsi evolutivi. Prendiamo una sostanza a caso tra le tante svelate da Erspamer: la sauvagina, un peptide isolato dalla pelle della rana Phyllomedusa sauvageii, e che le successive ricerche hanno apparentato all’urotensina e all’urocortina, all’interno della più vasta famiglia del CRF (corticotropin-releasing factor). Questa famiglia consiste in quattro linee genetiche che si ritengono generate da un processo di duplicazione paraloga avvenuto probabilmente nel corso di due differenti espansioni genomiche. Come è noto, il CRF è presente nel cervello di mammifero, dove si lega ai recettori CRF1, ma anche l’urocortina-1 è stata isolata nel cervello di ratto, dove è in grado di attivare sia i recettori CRF1 e CRF2. L’urocortina-1 appartiene tuttavia ad una seconda linea genica caratterizzata dalla sintesi della urotensina-1, originariamente isolata dalla urofisi di pesce. La sauvagina appartiene alla stessa linea evolutiva della urotensina, ma è una urocortina-1 altamente divergente e specifica per la P. sauvageii (Boorse & Denver, 2006). Queste differenziazioni evolutive hanno naturalmente sollecitato indagini di endocrinologia comparata miranti a chiarire quanto si è conservato e quanto è andato mutando nelle funzioni di questi peptidi. L’alta conservazione della famiglia dei peptidi CRF ci indica infatti lo svolgimento di funzioni essenziali per la sopravvivenza, consistenti probabilmente nell’alimentazione e nel mantenimento del bilancio idro-salino, ma la divergenza della sauvagina suggerisce l’acquisizione di una sua differente funzione. Essendo collocata nella pelle della rana, l’ipotesi più parsimoniosa è che agisca come una tossina antipredatoria (Lovejoy & Jahan, 2006). Non solo, negli anfibi i peptidi CRF svolgono funzioni citoprotettive che, nel corso della metamorfosi, sono fortemente antagonizzate dalla CRF binding protein permettendo il riassorbimento della coda dell’anfibio (Boose & Denver, 2006). Ebbene, in condizioni sperimentali, questo effetto è indotto anche dalla sauvagina (Denver, 1993). È importante sottolineare che l’intera opera di Erspamer costituisce nel suo complesso un giacimento prezioso di sostanze da utilizzare per ricostruire linee di evoluzione biochimiQuaderni della SIF (2006) vol. 19 - 29 ca. In una rassegna dedicata alla conservazione evolutiva della filogeneticamente antica famiglia delle tachichinine, gli autori rendono direttamente omaggio al contributo fornito dall’opera di Erspamer: “Many important early advances were made by studying non-mammal systems including octopus and amphibia, and the great contribution to this field by Erspamer and colleagues are aknowledged...” (Liu & Burcher, 2005). Se, come già ricordato, si deve all’opera di von Euler e Gaddum l’individuazione della sostanza P nel cervello e nell’intestino di cavallo, è infatti Erspamer che ne allarga la prospettiva filogenetica individuando prima nel polipo mediterraneo Eledone moschata la eledoisina e poi nella rana sudamericana Physalaemus biligonigerus la fisalemina. Alla fine sono ben sette le tachichinine individuate dal nostro studioso, mentre altri autori contribuiranno ad articolare ulteriormente questa larga e complessa famiglia di peptidi, contenente una quarantina di esponenti (Severini et al., 2002). Anche nel caso delle tachichinine è stato quindi possibile sostenere l’ipotesi di una duplicazione genica che ha indotto un accelerato tasso di evoluzione molecolare con la sintesi di nuove sostanze dotate di differenti funzioni. Di nuovo, resta tuttavia aperto il problema della loro presenza nella pelle degli anfibi, soprattutto della loro coesistenza con un ampio ventaglio di altri peptidi e di amine biogene, a formare un cocktail di veri e propri aggressivi chimici. La loro liberazione in condizioni di stress o in presenza di un predatore lascia ipotizzare un possibile ruolo difensivo di tali sostanze, ma certamente vi è necessità di spiegazioni più circostanziate circa il ruolo fisiologico di questa presenza così varia e quantitativamente rilevante. Nella misura in cui hanno documentato la coesistenza di differenti autacoidi nello stesso tessuto, le ricerche di Erspamer hanno permesso il fiorire di intuizioni fondamentali in altri studiosi. Un esempio rilevante è costituito dalle ricerche di Betty Mack Twarog miranti a identificare i neurotrasmettitori responsabili della regolazione dell’adesione della cozza (Mytilus edulis) allo scoglio: se l’acetilcolina è responsabile della contrazione muscolare che tale adesione rende 30 - Quaderni della SIF (2009) vol. 19 possibile, quale è la sostanza che invece rilassa il muscolo? Il suggerimento le venne dalla lettura dei lavori di Erspamer che documentavano la presenza della enteramina, accanto a quella della eleidosina, nelle ghiandole salivari del polipo e dal fatto che questa sostanza era in grado di eccitare il cuore del mollusco. Una intuizione che risulterà fondamentale per il riconoscimento della natura di neurotrasmettitore centrale della enteramina-serotonina-5-idrossitriptamina (Mack Whitaker-Azmitia, 1999). Se il lascito di Vittorio Erspamer tanto sta ancora contribuendo alla ricostruzione dell’evoluzione di un vasto ventaglio di famiglie di sostanze tessutali e alla loro differenziazione funzionale, che dire del suo contributo al progresso diagnostico-terapeutico in medicina? Abbiamo già detto che a parte rare eccezioni (si potrebbe citare uno studio farmacologico di confronto tra 13 peptidi bombesinici naturali e 14 analoghi sintetici [Falconieri Erspamer et al., 1988] e un altro, similare, dedicato ad alcuni analoghi della dermorfina [Negri et al., 1992]), Erspamer non è in genere interessato a sviluppare farmaci dalle sostanze che mano a mano isola e caratterizza. Egli è tuttavia interessato a riconoscere una funzione fisiopatologica ai composti analoghi presenti nell’uomo o ad individuare un impiego terapeutico diretto ai composti da lui isolati. Nella sua vasta produzione scientifica, sono infatti presenti studi dedicati all’efficacia dell’applicazione locale di eleidosina nella cheratocongiuntivite che caratterizza la sindrome di Sjögren (Bietti et al., 1975), alla ipergastrinemia e all’azione procinetica della bombesina nell’uomo (Basso et al., 1975; Delle Fave et al., 1985). La bombesina in effetti è tra i peptidi isolati da Erspamer quello che ha suscitato il più duraturo interesse clinico. Gli studi appena citati si pongono infatti all’inizio di un itinerario di indagine che, lungi dall’essersi esaurito, sta alimentando aspettative affatto nuove. Oltre a fungere da ormone e neurotrasmettitore gastrointestinale in grado di stimolare la contrazione della muscolatura liscia, la secrezione esocrina gastrica e pancreatica, la liberazione di gastrina, somatostatina e altri ormoni, la bombesina sembra agire come fattore di crescita e modu- latore dell’insorgere di tumori a carico di prostata, stomaco, colon e pancreas (Schally et al., 2004). Di qui la progettazione di derivati della bombesina coniugati con antiblastici o radioisotopi al fine di veicolare direttamente e selettivamente sul bersaglio tumorale tali agenti citotossici (Gonzales et al., 2009). All’altro secretagogo colecistochininico isolato da Erspamer, la ceruleina, la ricerca ha invece riservato un ruolo quale strumento sperimentale di riferimento per lo studio della fisiopatologia della pancreatite acuta, che essa infatti induce per sovradosaggio attraverso la stimolazione di specifici recettori disposti sulla superficie delle cellule acinali pancreatiche e la conseguente secrezione di enzimi proteolitici attivati (Willemer et al., 1992). Potrebbe apparire infine superfluo trattare dell’attualità della enteramina/serotonina/5-idossitriptamina, di quella sostanza, cioè, che Erspamer stesso ebbe modo di definire, nel cinquantenario della scoperta, la sua “first-born daughter” (Renda, 1999). La dimostrazione di tale attualità sta infatti nell’annuale accumularsi di migliaia, forse decine di migliaia, di articoli scientifici ad essa dedicata. Non credo tuttavia che sia banale sottolineare gli aspetti di questa sterminata ricerca che rendono giustizia alla denominazione che Vialli ed Erspamer assegnarono alla sostanza, al termine enteramina che rimanda alla sua collocazione nell’apparato digerente. Come è ben noto, queste funzioni furono rapidamente oscurate dalle ricerche iniziate già alla fine degli anni quaranta e che condussero all’isolamento dal siero di una sostanza dalle potenti proprietà vaso-costrittive, la serotonina appunto. Le ulteriori indagini portarono alla conclusione che la struttura chimica di enteramina e serotonina era identica. Come è stato scritto: “Why did the substance become known as serotonin rather than its first name, enteramine? The most likely explanation is that it was first synthesized and made available for research by the American drug company, Upjohn Pharmaceutical, who chose the term ‘serotonin’” (Mack Whitaker-Azmitia, 1999). Ben presto, tuttavia, il futuro della serotonina sembrò essere definitivamente segnato dall’ipotesi che fosse coinvolta nel- la patogenesi della depressione, in quanto si era osservato che il suo contenuto cerebrale variava in funzione della somministrazione di farmaci in grado di modificare lo stato dell’umore nell’uomo. In effetti, da allora, la 5HT, se vogliamo utilizzare il sinonimo tipograficamente più sbrigativo, non ha più abbandonato la sua veste di attore di alto profilo nelle neuroscienze. Il ruolo enterico della 5-HT non tarderà tuttavia a riproporsi e con insospettata energia. Del resto, il fatto che per il 95% la 5-HT sia localizzata nell’intestino, e più precisamente nel sistema enterocromaffine e nei neuroni serotoninergici dei plessi mienterici (Gershon & Tack, 2007), non poteva essere privo di implicazioni farmacoterapeutiche. Infatti, a metà degli anni ottanta, due gruppi di ricerca sintetizzano i setroni, composti in grado di bloccare selettivamente recettori della serotonina che vengono identificati come 5-HT3 (Fozard, 1984; Richardson et al., 1985). Poiché il vomito da chemioterapia è il risultato della massiva liberazione di serotonina, sarebbe giusto dire enteramina, dalle cellule enterocromaffini dell’intestino e della conseguente attivazione dei recettori 5-HT3 posti su afferenze vagali che proiettano ai centri del vomito, i setroni sono diventati il principale ausilio delle terapie antitumorali emetizzanti (Hesketh, 2008). La stessa sorte non è stata riservata all’effetto su cui il termine serotonina è stato coniato: l’effetto vascolare. Il robusto filone di ricerca che negli anni settanta e ottanta ha investigato il ruolo dell’azione vasocostrittiva e pro-aggregante piastrinica della serotonina nelle patologie cardiovascolari (Hillis & Lange, 1991) non ha generato sostanziali progressi farmacoterapeutici, nel senso che i farmaci attivi sui recettori serotoninergici, in particolare quelli inibitori dei recettori 5HT2, come la ketanserina, non sono stati in grado di soddisfare le aspettative terapeutiche di cui erano stati caricati. La possibilità che la regolazione centrale serotoninergica della pressione sanguigna possa essere oggetto di controllo farmacologico è attualmente studiata, ma applicazioni terapeutiche non sembrano essere in vista (Ramage & Villalon, 2008). Queste brevi note evidenziano come, al di là dei punti di contatto che all’inizio abbiamo rilevato nelle loro vite scientifiche, Bovet ed Erspamer divergano profondamente negli obiettivi che essi perseguono: la relazione struttura-attività l’uno, la storia naturale dei composti tessutali biologicamente attivi l’altro. In un periodo storico in cui si misura il valore scientifico di uno studioso sulla base di indici numerici frutto di sempre più complicati algoritmi, sembrerebbe non esserci dubbio circa il valore relativo delle rispettive opere scientifiche: Bovet ottiene il premio Nobel ed Erspamer no. Per fortuna, non è così semplice giudicare l’opera scientifica di un autore e il trascorrere del tempo permette di introdurre la valutazione di una ulteriore variabile, certo di grande importanza nell’esprimere un giudizio complessivo: l’attualità dell’opera scientifica. Come abbiamo ripetuto più volte, Bovet può essere definito un grande cacciatore di farmaci. Purtroppo, sovente, il valore della preda non si estende troppo in là rispetto al momento della cattura e prima o poi si trasforma in una fiera impagliata, piena di tarli e non più in grado di suscitare meraviglia. Fondamentali per imboccare strade affatto nuove, i sulfamidici, i curari e gli antistaminici di Bovet hanno cominciato a perdere pregevolezza nel momento stesso in cui quelle strade sono state imboccate, permettendo l’acquisizione di nuove molecole e l’apertura di nuove vie, cosicché, a poco più di cinquant’anni dal conferimento del premio Nobel, i farmaci studiati da Bovet trovano ormai scarso interesse e non solo terapeutico. Lo stesso destino non è stato riservato alle molecole studiate da Erspamer: ben allineate sugli scaffali della storia naturale, molte di esse sono oggetto del sempre vivo interesse scientifico di studiosi attivi in differenti campi delle scienze biomediche. Ne abbiamo brevemente illustrato alcuni esempi. Non si vuole certo qui affermare che il tempo ha reso giustizia ad Erspamer a scapito di Bovet; si vuole piuttosto sottolineare il fatto che le loro opere sono storicamente incommensurabili. Quella di Bovet è legata al suo tempo, segnando un passaggio cruciale nello sviluppo di molecole terapeuticamente utilizzabili in differenti campi: è qualcosa che doveva essere fatto in quel momento ed è stato lui a farlo. L’opera di Erspamer è quel- la del naturalista che affida alle generazioni future gli strumenti per condurre studi di cui al momento neppure se ne immagina i contenuti. È forse inappropriato definirlo un Humboldt del nostro tempo? BIBLIOGRAFIA 1 Basso N, Giri S, Improta G, Lezoche E, Melchiorri P, Percoco M, Speranza V. External pancreatic secretion after bombesin infusion in man. Gut. 1975; 16: 9948. 2 Bietti GB, Capra P, de Caro G. 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