C'è crisi e crisi lunedì 21 febbraio 2011. Autore: Marco Leonardi Il dibattito sulla crisi economica si può utilmente arricchire con qualche riflessione sulle differenze tra Italia e USA. Alcuni economisti (tra cui chi scrive) crede che alla base della crisi economica degli Stati Uniti vi sia un fenomeno reale prima ancora che finanziario: una crescente disuguaglianza nella distribuzione del reddito. L'aumento della disuguaglianza è avvenuto in America lasciando indietro l'americano medio, in altre parole tutti i guadagni della crescita degli ultimi 30 anni sono andati ai profitti o ai salari al top della distribuzione del reddito. E' un fenomeno noto e sempre più studiato che negli ultimi trenta anni i salari reali mediani degli americani sono rimasti pressoché costanti a fronte di una forte crescita del PIL. Sono diminuiti nel tempo i salari degli americani che hanno un titolo di studio di scuola superiore o che non hanno neanche quello; e sono cresciuti pochissimo i salari di chi ha frequentato qualche anno di università: si tratta di più del 50 per cento della popolazione degli Stati Uniti. La crisi del mercato finanziario non sarebbe dunque dovuta solo all'ingordigia e all'irresponsabilità dei banchieri, ma anche a una domanda di credito fondata sul basso tasso di crescita dei salari di più del 50 per cento della popolazione. La domanda di credito si è diretta soprattutto a comprare case i cui mutui non sono poi stati pagati. Questa interpretazione della crisi è comune ad altri paesi oltre gli USA? In particolare vale anche per il caso italiano? Io credo di no per tre ragioni. La prima è che in Italia la crescita del PIL degli ultimi 10 anni è stata molto debole e quindi i salari medi sono anch'essi cresciuti poco: qualcuno sostiene che siano cresciuti troppo poco per una combinazione di diffusione di contratti flessibili e di politiche di moderazione salariale. Ma certo la situazione italiana non è anomala come quella americana che ha visto un disallineamento assai più vistoso tra salari e crescita. Altri paesi che hanno avuto una crescita sostanziale come Spagna e Irlanda, hanno anche avuto una notevole crescita dei salari. La seconda ragione è che l'Italia è un paese ad alta disuguaglianza dei redditi in contesto internazionale (per quanto siano difficili i confronti basati sui livelli di reddito). Tuttavia, almeno fino ad anni recenti, la disuguaglianza non è cresciuta in Italia. Non si crea quindi quella crescente domanda di credito della classe media che potenzialmente sfocia in una crisi finanziaria da debito privato. Infatti l'Italia è un paese dove il credito al consumo e i mutui per le case non sono altrettanto diffusi che in altri paesi. La terza ragione è la più importante. Ha a che fare con il risparmio privato delle famiglie e la distribuzione della ricchezza piuttosto che del reddito. L'Italia contrariamente agli Stati Uniti è un paese alto tasso di risparmio, il risparmio delle generazioni oggi più anziane si è accumulato principalmente nel mattone. La ricchezza immobiliare costituisce ad oggi il 70% della ricchezza totale in Italia. In Italia vive in una casa di proprietà circa l'80 per cento delle famiglie, una percentuale maggiore di quella di paesi, quali Regno Unito e Francia. Molto maggiore che negli USA o in Germania, dove la percentuale di famiglie che vive in case di proprietà è inferiore al 50 per cento. L'Italia è quindi un paese ad alta disuguaglianza del reddito ma a bassa disuguaglianza della ricchezza. Poiché la maggior parte degli italiani una casa ce l'ha già, non hanno bisogno di indebitarsi in modo insostenibile per comprarsela. Se per ora l'Italia non rischia una crisi finanziaria per eccesso di debito privato, il merito è delle generazioni che hanno accumulato in passato. Il pericolo non è tuttavia del tutto scampato: le generazioni di oggi, spesso con contratti di lavoro temporanei, hanno tassi di risparmio bassi e la disuguaglianza potrebbe tornare a crescere una volta che gli immobili sono passati di padre in figlio. Marco Leonardi. Insegna economia politica all'Università Statale di Milano. Ha ottenuto il Phd. in Economia alla London School of Economics ed ha trascorso periodi di studio al MIT di Boston e all'Università di Berkeley. Si occupa di economia del lavoro e di economia dell'istruzione.