l`atomo nella st - Digilander

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L’ATOMO NELLA STORIA.
L'atomo è la più piccola porzione di materia che può caratterizzare un elemento e che ne possiede le
proprietà chimiche, deriva dal greco atomos, “indivisibile”, e veniva usata dagli antichi filosofi per
definire le entità elementari , indistruttibili, costituenti la materia. Questa idea prevalse fino a
quando la natura dell’atomo divenne uno degli argomenti principali della ricerca scientifica
sperimentale.
Nei secoli XVI e XVII i risultati ottenuti nell'ambito della chimica diedero un notevole impulso
allo sviluppo della teoria atomica. I primi esperimenti misero in evidenza che le sostanze potevano
essere suddivise nei loro componenti ultimi, o in "corpi semplici", e che questi potevano combinarsi
in modo intimo per formare nuovi composti con proprietà del tutto diverse. In altre parole cominciò
a delinearsi il concetto di elemento chimico. La natura degli elementi fu precisata dal punto di vista
scientifico e quantitativo dal chimico britannico John Dalton, nel 1803, oggi considerato il padre
della moderna teoria atomica, fondata sui seguenti punti :
1. La materia è costituita da atomi ;
2. Gli atomi di uno stesso elemento sono uguali e possiedono la stessa massa ;
3. Gli atomi di elementi diversi non sono uguali e non possiedono la stessa massa;
4. Gli atomi che partecipano ad una
reazione sono sempre interi e non frazioni
di essi.
5. La più piccola parte della materia che
ne mantiene le caratteristiche è l’atomo.
Partendo dall'osservazione che gli elementi si combinano per formare i diversi composti secondo
rapporti in peso ben definiti, egli sviluppò il concetto moderno di atomo come particella di
dimensioni e peso caratteristici per ciascun elemento. Nel 1811 il chimico italiano Amedeo
Avogadro corresse l’ultimo punto della teoria atomica di Dalton, dicendo che la più piccola parte
della materia che ne mantiene le caratteristiche è il gruppo atomico, o molecola. Egli
successivamente formulò la legge secondo cui "volumi uguali di gas diversi nelle stesse condizioni
di temperatura e pressione contengono lo stesso numero di particelle"; ciò implica che due
contenitori identici, ad esempio con capacità di un litro, riempiti rispettivamente di elio e di
ossigeno, contengono lo stesso numero di particelle: nel primo caso si tratta effettivamente di atomi,
nel secondo di molecole biatomiche di formula O2. Dalla legge di Avogadro si può dedurre che il
peso di volumi di riferimento, ossia la densità, dei diversi gas è proporzionale al peso delle singole
molecole che li costituiscono. In altre parole, se un litro di ossigeno pesa sedici volte in più rispetto
a un litro di idrogeno, è possibile concludere che il peso di una molecola, o di un atomo, di
ossigeno, è sedici volte maggiore del peso di una molecola o di un atomo di idrogeno.
L’atomo come unità ulteriormente divisibile
Verso la fine del XIX secolo una serie di importanti scoperte mostrò chiaramente che l'atomo
poteva essere ulteriormente suddiviso.
Molti scienziati si occuparono della natura dell’atomo e dello studio dei raggi, ma fu solo verso la
fine del secolo che fu possibile dimostrare l’esistenza di particelle subatomiche.
Gli studi di J.J.Thomson e l’elettrone
Nel dispositivo usato da Thomson gli
elettroni prodotti dal catodo, vengono
costretti a passare attraverso un piccolo
foro
praticato
nell'anodo.
L'apparecchio intero viene quindi
inserito fra le espansioni di una
calamita e, contemporaneamente, fra
una coppia di piastre metalliche
collegate ad un generatore di elettricità.
In assenza di campo magnetico e di
campo elettrico, il pennello di elettroni
che proviene dal catodo procede in
linea retta fino ad incontrare il vetro del tubo nel punto B della figura. Quando è in azione il
magnete (ma non le piastre elettriche), gli elettroni vengono deviati verso il basso (punto A in fig.).
Disinserendo il magnete, e inserendo le piastre elettriche, si osserva che il pennello di elettroni
devia verso la piastra carica di elettricità positiva (punto C in fig.).
Ora, dalla fisica si sa che un corpo carico di elettricità, in movimento all'interno di un campo
magnetico, descrive una circonferenza la cui ampiezza dipende dalla carica elettrica, dalla massa e
dalla velocità posseduta dal corpo, oltre che dall'intensità del campo magnetico in cui si muove.
Come è facilmente intuibile massa e velocità di un corpo carico di elettricità sono direttamente
proporzionali all'ampiezza della traiettoria percorsa dal corpo stesso. Infatti, quanto più un oggetto è
pesante, e quanto più velocemente procede, tanto più difficilmente potrà essere deviato dalla sua
traiettoria ad opera di una forza esterna e pertanto più grande sarà il raggio della circonferenza da
esso percorsa.
La carica elettrica posseduta dal corpo in movimento e l'intensità del campo magnetico sono
invece inversamente proporzionali all'ampiezza della traiettoria: la curva percorsa dal corpo sarà
infatti tanto più stretta quanto maggiore sarà la sua carica elettrica e quanto più intenso il campo
magnetico che agisce su di esso.
Nel caso dell'elettrone, indicando con m la sua massa, con e la sua carica elettrica, con v la sua
velocità e con B l'intensità del campo magnetico entro il quale è costretto a muoversi, si può
dimostrare che il raggio r della traiettoria circolare percorsa da questo corpuscolo si calcola
applicando la seguente formula:
𝑚∙𝑣
𝑟=
𝑒∙𝐵
ossia, anche :
𝑒
1
𝑣
=
∙
𝑚
𝑟
𝐵
Tutte le grandezze
presenti a secondo
membro di quest'ultima
equazione
possono
essere misurate.
In
particolare,
il
valore
del
campo
magnetico
(B)
si
ottiene facendo uso di
una
elettrocalamita:
dalla conoscenza delle
sue caratteristiche di
costruzione (numero
delle spire, intensità
della corrente elettrica
che
attraversa
la
bobina,
ecc.)
è
possibile
risalire
all'intensità del campo
magnetico da essa
generato.
La velocità degli elettroni (v) viene invece determinata per via indiretta. E' possibile infatti,
calibrando la carica elettrica sulle piastre metalliche esterne, in modo tale da controbilanciare
esattamente l'effetto del campo magnetico, ottenere il risultato di far procedere gli elettroni in linea
retta, verso il punto che sta di fronte al catodo. Ora, poiché il valore della forza elettrica agente
sull'elettrone è pari a e∙E (con e=carica dell'elettrone ed E=intensità del campo elettrico), e quello
della forza magnetica è uguale a e∙v∙B (con e=carica dell'elettrone, v=velocità dell'elettrone e
B=intensità del campo magnetico), nelle condizioni di equilibrio deve risultare:
𝑒∙𝐸 =𝑒∙𝑣∙𝐵
da cui:
𝑣=
𝐸
𝐵
Quindi, misurando l'intensità del campo elettrico, e del campo magnetico che fa equilibrio ad esso,
si può conoscere la velocità degli elettroni. Alla fine non rimarrà che misurare il raggio della
traiettoria circolare seguita dagli elettroni sotto l'azione del campo magnetico, per ottenere il valore
del rapporto e/m. Tale valore risulta 1,76∙108 coulomb/g.
La conoscenza del rapporto e/m dell'elettrone permette quindi di determinare il valore di una
delle due grandezze una volta che sia nota l'altra. A quei tempi si conosceva il valore (almeno come
ordine di grandezza) della carica elettrica elementare, tuttavia la sua misura precisa e accurata
venne ottenuta, nel 1909, dal fisico americano Robert Millikan, insignito poi del premio Nobel nel
1923.
Dopo aver individuato l'elettrone Thomson volle stabilire il suo
rapporto con l’atomo ed arrivò ad affermare che esso era come una sfera
solida di materia dotata di carica positiva sulla quale erano attaccati gli
elettroni negativi (plum pudding: una sorta di budino nel quale erano
casualmente disposte le uvette). Allo stato normale gli elettroni
avrebbero esattamente neutralizzato la carica positiva (es.: metallo allo
stato normale), l'aggiunta di elettroni supplementari avrebbe conferito
all’atomo una carica negativa, infine con la sottrazione, di alcune
cariche negative originarie, si sarebbe data all’atomo una carica positiva (effetto fotoelettrico
secondo cui una superficie metallica, investita da una radiazione luminosa, emette elettroni).
Qualora si verifichino gli ultimi due casi possiamo definire che gli atomi sono detti ioni
rispettivamente negativi, o anioni, e positivi, o cationi e la loro natura è determinata dagli elettroni
di valenza, cioè quelli appartenenti agli strati più esterni.
Rutherford e il suo modello dell'atomo
Se Thomson aveva indirizzato i suoi studi essenzialmente sugli elettroni,
Rutherford intuì e provò l’esistenza di una particella rappresentante l’unità
di carica positiva da lui stesso chiamata protone. Successivamente, fece
un esperimento nel quale voleva dimostrare che, come aveva detto
Thomson, l'atomo era costituito in ugual numero da particelle positive e
negative che condividevano lo stesso spazio e anche che esso era
costituito essenzialmente dal vuoto.
L' esperimento consisteva nel posizionare un contenitore di piombo dal
quale venivano emesse radiazioni alfa che venivano indirizzate verso una
lamina d'oro. Intorno a tutta la costruzione Rutherford pose una pellicola
fotografica. Inizialmente lo scienziato pensava che tutte le particelle delle
radiazioni trapassassero la lamina e si fermassero sulla pellicola senza
essere deviate dato che tutto lo spazio, secondo il modello di Thompson,
doveva essere occupato dagli atomi si carica neutra.
schema dell'esperimento
particelle "alfa" attraversano la lamina d'oro
In realtà il 99% delle particelle passava e si fermava sulla pellicola un po' deviavate, ma 1 su 8000
tornava indietro. Egli concluse che la struttura dell’atomo dovesse essere simile al sistema solare
col centro occupato dalla gran massa del nucleo positivo, sferico di piccole dimensioni (r~ 10-14 m)
e i piccoli elettroni che ruotano come satelliti attorno a questo “sole”, proprio come succede
nell’universo. Rutherford osservò anche che, poiché l’atomo è un sistema elettricamente neutro,
bisognava ammettere che il numero di elettroni, intorno al nucleo uguagliasse la carica positiva del
nucleo stesso: in tal modo essi presentavano la stessa struttura, differente solo per il numero di
elettroni. E’ stato studiato che questo particolare è all’origine delle diverse proprietà dei vari
elementi, infatti mettendo a confronto i suoi risultati con quelli di Mendeleev, Rutherford mostrò,
nel 1913, che la concezione della classificazione periodica degli elementi poteva essere collegata ai
suoi risultati.
Il modello atomico dell’inglese Rutherford è il primo in grado di interpretare e giustificare i
fenomeni noti, in particolare quelli radioattivi (1911).
Sebbene il modello di Rutherford sembrava offrire sufficienti garanzie per una corretta
interpretazione della struttura atomica, ad un esame più attento esso mostrava evidenti difficoltà. Se,
𝑄 ∙𝑄
infatti, gli elettroni, sotto l’azione della forza coloumbiana (𝐹 = 𝑘 1𝑟 2 2 ) orbitano su traiettorie, che
per semplicità consideriamo circolari, il loro moto risulta accelerato (a corpi in moto curvilineo
compete sempre un’accelerazione centripeta). Come sappiamo ad ogni carica in moto accelerato è
associata un’emissione di radiazione elettromagnetica che sottrae energia alla particella che emette
la radiazione. Immaginando quindi che gli elettroni si muovano in modo analogo ai pianeti intorno
al sole, il raggio della loro orbita, a seguito della perdita di energia, dovrebbe ridursi
progressivamente fino a farli cadere definitivamente sul nucleo in un moto a spirale.
E’ stato calcolato che in tali condizioni il tempo necessario all’elettrone per arrivare sul nucleo
dovrebbe essere dell’ordine di 2·10-11secondi; sicuramente un intervallo troppo piccolo per
giustificare una struttura atomica stabile. Altro problema a cui cercò però di rispondere lo scienziato
fu di come potesse esistere un nucleo atomico in cui erano presenti solo cariche positive. Egli
ipotizzò allora che gli elettroni avessero carica uguale a metà di quella di un protone e che così metà
di essi ruotava intorno al nucleo, mentre l’altra metà stava nel nucleo stesso stabilizzandolo.
Il modello di Rutherford interpreta dunque l’atomo in modo
inadeguato in quanto deve soddisfare a requisiti tra loro non
compatibili. Se infatti da una parte trova giustificazione l’emissione di
radiazione, sperimentalmente provata, da parte dell’atomo, dall’altra
proprio la radiazione emessa garantisce la stabilità atomica solo per un
intervallo di tempo addirittura insignificante. Inoltre con l’atomo di
Rutherford non si riusciva in alcun modo a rendere conto della struttura
dello spettro caratteristico della radiazione emessa dalla materia, infatti
sottoposta ad un’azione elettrica esterna avrebbe dovuto emettere
radiazioni di tutte le frequenze e dar luogo ad uno spettro continuo, ma Moseley , nel 1913, scoprì
l'esistenza di uno spettro caratteristico discontinuo per ogni elemento chimico legato anche alla sua
posizione nella tabella periodica.
Quindi in condizioni normali l’atomo dovrebbe presentarsi con gli elettroni fortemente “attaccati” al
nucleo sul quale sono caduti. Ma in questa ipotesi come si giustificano le dimensioni dell’atomo e i
risultati ottenuti dallo stesso Rutherford riguardo la diffusione delle particelle alfa.
IL MODELLO ATOMICO DI NIELS BOHR
Nel 1913,il fisico danese NIELS BOHR offrì una geniale interpretazione della struttura della
materia, studiando l’atomo più semplice, quello dell’idrogeno, al fine di spiegarne lo spettro di
emissione.
Egli distinse il comportamento dell’elettrone dentro l’atomo scaldato (stato eccitato) da quello
dentro l’atomo in condizioni normali (stato a energia minima), avanzando due postulati:
 1° postulato :in un atomo gli elettroni non possono assumere qualsiasi valore dell'energia
ma solo certi valori definiti (si usa dire che in un atomo l'energia è quantizzata). Ciò
significa che: solo certe orbite elettroniche possono essere occupate dagli elettroni che
ruotano intorno al nucleo e ad ogni orbita corrisponde un determinato valore dell'energia.
 2° postulato : l'elettrone orbitale non può emettere alcuna energia a meno che non cambi
orbita (cioè livello energetico); questo passaggio non può avvenire, quindi, gradualmente,
ma si ha un vero e proprio salto energetico. Quando, per un qualche motivo, un elettrone
salta da una orbita ad energia più alta (livello energetico iniziale: i) ad una energia più bassa
(livello energetico finale: f), la sua perdita di energia è emessa sotto forma di quanto di luce
Niels Bohr. Partendo dallo studio dello spettro d’emissione dell’idrogeno e dalla teoria quantistica
riuscì ad elaborare un nuovo modello di atomo avente una distribuzione quantizzata dell’energia.
Bohr affermò innanzi tutto che gli e non hanno un moto casuale, così come aveva detto Rutherford,
ma si muovono secondo dei precisi percorsi circolari cui egli diede il nome di orbite. Ogni orbita è
posta all’interno di una precisa regione di spazio, la quale fa sì che l’e non venga attratto dal
nucleo, che prende il nome di livello. In condizioni stazionarie (in assenza di eccitazione) gli e non
irraggiano energia perché possono muoversi solo su orbite circolari ben determinate, dette orbite
stazionarie, a ciascuna delle quali corrisponde un ben definito livello energetico. Le orbite, così
come i livelli hanno un’energia quantizzata: un e si muove su una data orbita solo se il suo
contenuto energetico corrisponde a quello dell’orbita stessa.
Il modello atomico che ne deriva è rappresentato da orbite circolari, concentriche attorno al nucleo,
la cui esistenza, secondo Bohr, è possibile solo se si verifica per esse la seguente condizione
quantisitca:
(m = massa e ; v = velocità e ; r = raggio orbita ; h = costante di Planck; n = numero intero, è detto
numero quantico principale, va da 1 a 7 e corrisponde al livello energetico che un e può occupare.
In questa formula è particolarmente importante perché esprime la quantizzazione dell’energia
all’interno del livello e quindi la discontinuità dell’energia atomica), che ci dice che un e non
irraggia energia e non interferisce con il nucleo del suo atomo solo quando il momento angolare
della sua orbita assume valori multipli interi n della quantità h / 2π.
Basandosi sullo studio dello spettro d’emissione a righe dell’idrogeno, Bohr disse poi che quando
un elettrone viene sottoposto ad eccitamento, assorbe una ben precisa quantità d’energia che gli
permette il salto, o meglio la transizione di livello, dalla propria orbita ad un’altra più esterna a
maggior contenuto energetico. A questo punto tuttavia, dato che l’e non si trova nel suo stato
stazionario, non viene più rispettata la condizione quantistica, l’e non è più stabile e quindi decade
immediatamente sulla sua orbita stazionaria a minor contenuto energetico. In questa transizione di
ritorno, l’e restituisce l’energia assorbita sotto forma di quanti di luce di frequenza determinata,
strettamente legata all’ampiezza del salto compiuto: è proprio questa emissione di energia a dare
origine sullo spettro a una riga luminosa, di frequenza e lunghezza d’onda corrispondente.
Un e che passa da un livello energetico iniziale Ei ad un livello energetico finale Ef di energia
minore emette quindi la differenza di energia ΔE come quanto di luce secondo l’equazioni:
Ea = E6 – E2 = h v
Eb = E5 – E2 = h v
Ec = E4 – E2 = h v
Ed = E3 – E2 = h v
Stabilito ciò, Bohr si preoccupò di calcolare il raggio delle orbite e lo fece attraverso questo
procedimento:
K è la costante dielettrica e nell’aria, che è l’ambiente in cui si trovano generalmente tutti gli atomi,
è uguale a 1; q1 e q2, anche se hanno cariche di segno opposto (q1 = p+ ; q2 = e), sono
quantitativamente uguali; r è il raggio che separa il nucleo dagli e; quindi la formula diventa:
In base a questa formula l’e dovrebbe essere attratto e dovrebbe andare verso il nucleo, ma in realtà
non è così perché l’e esercita una forza centrifuga che si contrappone alla forza colombiana e che è
uguale a F = mv2 / r. Queste due forze sono uguali e quindi si scrive:
,
; ma
, quindi
,
Il termine h2 / 4π2me2 è una costante ed è uguale a 53 pm (1 pm = 10–12 m), quindi r = 53 pm  n2. Il
raggio della prima orbita è immediato, perché n = 1, ma ciò equivale a dire che il raggio dell’orbita
dove viaggia l’e dell’atomo di idrogeno è uguale a 53 pm.
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