IL TEMPO COME BENE DELLA VITA1
di Roberto Caponigro
1. Premessa – 2. Il tempo nell’azione amministrativa – 2.1 La durata del
procedimento – 2.2 L’attività amministrativa obbligatoria – 2.3 La responsabilità
pubblica da mero ritardo – 3. Il tempo nel processo amministrativo – 3.1 Il tempo
come misura del danno e l’esigenza di tempestività del giudizio – 3.2 Il rilievo del
tempo nell’interesse al ricorso – 3.3 Il dominus del ricorso ed i tempi del processo
- 4. Conclusioni.
1. Premessa
Il tempo costituisce elemento di parametrazione di qualsiasi vicenda umana,
sicché rileva anche per ogni evento della vita di relazione che assuma un
significato giuridico.
L’arco temporale in cui le attività sono svolte misura tra l’altro la qualità, in
relazione allo specifico profilo dell’efficienza, sia dell’azione amministrativa sia
della funzione giurisdizionale.
Il rapporto tra l’esercizio del potere amministrativo e i termini del
procedimento, nel corso degli ultimi anni, è stato al centro di un crescente
interesse da parte della dottrina e della giurisprudenza, reso ancora più vivo dalle
recenti modifiche normative.
1
Il presente lavoro riproduce ed amplia la relazione svolta il 26 settembre 2013 al convegno
organizzato presso il Consiglio di Stato sul tema “giustizia amministrativa e crisi economica”.
1
La durata della formazione e della conseguente manifestazione del potere
pubblico, vale a dire il ruolo del tempo nell’azione amministrativa e nella
traduzione del potere in atti aventi natura provvedimentale, assume pregnante
rilievo nella disciplina del procedimento amministrativo e nella conseguente
eventuale
responsabilità
risarcitoria
o
indennitaria
dell’amministrazione
inadempiente.
Il tempo assume notevole rilievo anche nello svolgimento della funzione
giurisdizionale amministrativa in quanto dalla durata del processo possono
derivare effetti sostanziali incidenti sull’esercizio dei pubblici poteri e sulla tutela
degli interessi pubblici e privati coinvolti nel rapporto amministrativo in
contestazione.
2. Il tempo nell’azione amministrativa.
2.1 La durata del procedimento.
L’analisi della durata dei procedimenti amministrativi2 deve tenere conto del
fatto che - al di là dell’ipotesi scolastica in cui il rapporto intercorre tra un’unica
amministrazione procedente, che agisce per il perseguimento di uno specifico
interesse pubblico, ed un unico interesse privato di cui è titolare il destinatario
dell’azione, vale a dire il soggetto nella cui sfera giuridica il procedimento è
destinato ad incidere - le relazioni nell’ambito delle quali sono esercitate le
funzioni pubbliche sono quasi sempre molto complesse, per cui l’interesse
pubblico primario perseguito dall’autorità procedente convive, ora configgendo
2
Il procedimento amministrativo - secondo la celebre definizione attribuibile a Feliciano Benvenuti,
di cui tra la vastissima produzione, si richiama in particolare, Semantica di funzione, in Jus, 1985 –
è forma della funzione, è cioè il modo attraverso il quale il potere in astratto conferito si traduce in
atti di disciplina dei singoli rapporti.
2
ora collimando, con una pluralità di altri interessi, sia privati, sovente in
contrapposizione tra loro, sia pubblici, di cui sono portatrici varie amministrazioni,
a volte in posizione asimmetrica e divergente.
Di talché, il corretto perseguimento dell’interesse pubblico affidato alle cure
dell’Autorità procedente emerge dalla complessiva valutazione e dalla relativa
ponderazione dell’intera moltitudine di interessi incisi dall’esercizio del potere e
coinvolti nel rapporto amministrativo che il provvedimento va a disciplinare.
La legge generale sul procedimento amministrativo è finalizzata, tra l’altro, a
fornire certezze sui tempi dell’azione amministrativa.
Il mancato esercizio del potere nei termini stabiliti dalle norme, laddove
l’esercizio dello stesso sia obbligatorio, costituisce una violazione alla quale
l’ordinamento fa conseguire determinati rimedi a tutela del titolare della posizione
giuridica coinvolta e determinate responsabilità per l’amministrazione inerte3.
La disciplina dei termini entro i quali il procedimento deve concludersi è
dettata dall’art. 2 l. n. 241 del 1990, il quale, al secondo comma, dispone che, nei
casi in cui non sia diversamente disposto, i procedimenti amministrativi di
competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali devono
concludersi entro il termine di trenta giorni.
Il primo comma dello stesso art. 2 detta la norma fondamentale sull’obbligo di
provvedere
in
quanto
dispone
che,
ove
il
procedimento
consegua
obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le
pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l’adozione di
un provvedimento espresso, specificando che, se ravvisano la manifesta
3
Il silenzio serbato dall’amministrazione, infatti, è qualificato come silenzio rifiuto o silenzio
inadempimento, termine, quest’ultimo, che evoca chiaramente un obbligo non rispettato.
3
irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda, le
pubbliche amministrazioni concludono il procedimento con un provvedimento
espresso redatto in forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un
sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo4.
Ne consegue che l’obbligo di concludere il procedimento nei termini stabiliti
dalla norma sussiste solo quando vi è l’obbligo di avviare il procedimento, atteso
che l’esercizio del potere amministrativo non sempre è obbligatorio5.
L’obbligo di concludere un procedimento – la cui violazione comporta la
possibilità di adire il giudice ai sensi dell’art. 2 l. n. 241 del 1990 e dell’art. 31
c.p.a. per la declaratoria di illegittimità del silenzio serbato dall’amministrazione
sull’istanza proposta – postula, in altri termini, che il procedimento debba essere
doverosamente avviato6.
Pertanto, una volta pervenuta l’istanza di parte, l’amministrazione deve in
primo luogo valutare se sia tenuta o meno ad esercitare il potere, vale a dire se la
decisione di avviare il procedimento è vincolata o discrezionale e, solo nella prima
ipotesi, deve ritenersi sussistente l’obbligo di concludere il procedimento nei
termini di legge.
Parimenti, ove sussistano circostanze che potrebbero determinare l’avvio di un
procedimento d’ufficio, l’obbligo di concludere il procedimento con un
provvedimento espresso nei termini di legge sussiste nel momento in cui
Il comma è stato così modificato dall’art. 1, comma 38, della legge 6 novembre 2012, n. 190.
Il principio secondo cui l’obbligo di provvedere sussiste solo quando vi sia l’obbligo di procedere
è confermato dalle novelle legislative del 2013 contenute nel c.d. decreto del fare. In particolare, le
previsioni indennitarie introdotte dall’art. 28 del decreto legge n. 69 del 2013, modificato dalla
legge di conversione n. 98 del 2013, come più specificamente si vedrà infra nel testo, postulano che
per il procedimento ad istanza di parte il cui termine di conclusione è stato violato sussista l’obbligo
di pronunziarsi.
6
Cfr. Cons. St., IV, 24 maggio 2013, n. 2826.
4
5
4
l’amministrazione abbia ritenuto di dover procedere comunicando il suo avvio ai
diretti interessati.
In sostanza, a seguito di un’istanza di parte o di circostanze che potrebbero
indurre l’amministrazione ad agire d’ufficio, dovrebbe essere sempre svolto un
procedimento preliminare di valutazione dell’obbligo di procedere.
2.2 L’attività amministrativa obbligatoria.
La giurisprudenza ha cercato di individuare, su un piano generale, le fattispecie
per le quali sorge in capo in capo alla pubblica amministrazione un obbligo di
pronunciarsi sulle istanze dei privati7.
L’obbligo di provvedere sussiste, anzitutto, quando una fonte normativa
espressamente attribuisce al privato la facoltà di presentare un’istanza volta a
conseguire una determinata finalità, così riconoscendogli senz’altro la titolarità di
una situazione qualificata e differenziata, attributiva della pretesa ad ottenere una
risposta dall’Autorità competente.
Peraltro, anche ove non vi sia una norma specifica che espressamente riconosca
al privato tale facoltà, l’obbligo di provvedere, in linea di massima, può ritenersi
configurato, in presenza di una situazione in altro modo differenziata e qualificata,
in base al principio generale della doverosità dell’azione amministrativa ed alle
regole, altrettanto generali, di buona amministrazione, ragionevolezza e buona
fede.
Un privato può chiedere l’adozione di diverse categorie di atti amministrativi,
sicché occorre verificare, in relazione a ciascuna di esse, se esiste, a fronte della
7
La ricostruzione sistematica seguita nel testo è in larga misura contenuta nella decisione del
Consiglio di Stato, VI, 11 maggio 2007, n. 2318.
5
sua istanza, il correlativo obbligo di provvedere in capo alla pubblica
amministrazione.
In particolare, è possibile operare una distinzione tra istanze volte ad ottenere:
1) atti di contenuto favorevole in quanto ampliativi della sfera giuridica del
richiedente; 2) atti di autotutela in quanto relativi al riesame di atti sfavorevoli
precedentemente emanati; 3) atti di estensione ultra partes del giudicato; 4) atti
diretti a produrre effetti sfavorevoli nei confronti di terzi, dall’adozione dei quali il
richiedente possa trarre indirettamente vantaggi.
Per la prima categoria, l’istanza diretta ad ottenere un provvedimento
favorevole determina un obbligo di provvedere quando chi la presenta sia titolare
di un interesse legittimo pretensivo.
Non può essere posto in dubbio, infatti, che colui il quale ha un interesse
differenziato e qualificato ad un bene della vita oggetto di potere amministrativo,
per il cui conseguimento, quindi, è necessario l’esercizio della potestà
provvedimentale, è titolare di una situazione giuridica che lo legittima, pur in
assenza di una norma specifica che gli attribuisca un autonomo diritto di iniziativa,
a presentare un’istanza dalla quale nasce in capo alla pubblica amministrazione
quantomeno un obbligo di pronunciarsi8.
Tuttavia, l’obbligo di provvedere è stato ritenuto assente in concreto quando,
ad esempio, la domanda inoltrata dal privato sia manifestamente infondata o
esorbitante dall’ambito delle pretese astrattamente riconducibili al rapporto
amministrativo.
8
Cfr. Cons. St., IV, 5 marzo 2013, n. 1349, secondo cui, in linea generale, il rito sul silenzio si
applica alle fattispecie nelle quali, a fronte di una potestà autoritativa dell’amministrazione, il
privato è titolare di una posizione giuridicamente tutelabile e quindi di un interesse legittimo, a
prescindere dal fatto che l’attività consista nell’adozione di atti discrezionali o vincolati.
6
Nell’ipotesi in cui un’istanza sia manifestamente infondata, risulterebbe del
tutto inutile ed antieconomico, considerato che il tempo di svolgimento dell’azione
amministrativa è un bene prezioso per la stessa autorità procedente, obbligare
l’amministrazione a provvedere9.
Con riferimento alla seconda categoria, secondo un indirizzo giurisprudenziale
consolidato, l’istanza del privato mirante ad ottenere il riesame da parte della
pubblica amministrazione di un atto autoritativo, non impugnato tempestivamente
dal medesimo ovvero impugnato con esito negativo o impugnato in un giudizio
pendente, non comporta, di regola, la configurazione di un obbligo di riesame, in
quanto tale obbligo pregiudicherebbe le ragioni di certezza delle situazioni
giuridiche e di efficienza gestionale che sono alla base dell’agire autoritativo della
pubblica amministrazione ed il principio della inoppugnabilità dopo il termine di
decadenza dei relativi atti10.
I provvedimenti di autotutela, d’altra parte, sono manifestazione dell’esercizio
di un potere tipicamente discrezionale che l’amministrazione non ha alcun obbligo
di attivare e, qualora intenda farlo, deve valutare la sussistenza o meno di un
interesse pubblico che giustifichi la rimozione dell’atto, valutazione della quale
essa sola è titolare e che non può ritenersi dovuta nel caso di una situazione già
definita con provvedimento inoppugnabile.
Ne consegue che, una volta che il privato, o per aver esaurito i mezzi di
impugnazione che l’ordinamento gli garantisce o per aver lasciato trascorrere
9
Cfr. Cons. St., IV, 28 maggio 2013, n. 2902; Cons. St., IV, 12 marzo 2010, n. 1468.
Alcuni indirizzi interpretativi, meno consolidati, sostengono che, in particolarissime circostanze
fattuali, dovrebbe riconoscersi l’obbligo di provvedere dell’amministrazione, anche a fronte di mere
richieste sollecitatorie degli interessati. Si tratterebbe di ipotesi contrassegnate dalla presenza di
note qualificanti, come la disparità palese tra situazioni analoghe, o l’ingiustizia della situazione
esposta dal ricorrente, che richiedono il doveroso intervento correttivo dell’amministrazione.
10
7
senza attivarsi il termine previsto a pena di decadenza, si trovi di fronte ad un
provvedimento inoppugnabile, può solo sollecitare l’esercizio del potere d’ufficio
da parte dell’amministrazione, che non ha alcun obbligo di rispondere all’istanza
di riesame.
Anche le istanze di estensione ultra partes del giudicato di annullamento di un
atto amministrativo non generano alcun obbligo di provvedere in quanto,
diversamente, si realizzerebbe una elusione del termine decadenziale previsto per
l’impugnazione degli atti amministrativi in sede giurisdizionale.
Per altro verso, la discrezionalità dell’amministrazione nell’ampliare l’efficacia
soggettiva del giudicato è stata negli ultimi anni esclusa dal legislatore.
L’ultima categoria di istanze si presenta maggiormente problematica.
Laddove il privato sollecita l’esercizio di poteri sfavorevoli (repressivi,
inibitori, sanzionatori) nei confronti di terzi non è sempre agevole distinguere tra
l’istanza che fa nascere l’obbligo di provvedere e il semplice esposto, che ha mero
valore di denuncia inidonea a radicare una posizione di interesse tutelata
all’apertura del procedimento ed alla conclusione dello stesso in modo conforme
alle aspettative dell’istante.
Il criterio distintivo tra istanza, idonea a radicare il dovere di provvedere, e
mero esposto, volto a sollecitare l’attivazione di un potere d’ufficio, deve essere
ravvisato nell’esistenza in capo al privato di uno specifico e rilevante interesse che
valga a differenziare la sua posizione da quella della collettività, vale a dire che il
comportamento omissivo dell’Amministrazione deve essere contestato da un
soggetto qualificato, in quanto, per l’appunto, titolare di una situazione di
specifico e rilevante interesse che lo differenzia da quello generalizzato di per sé
non immediatamente tutelabile.
8
La giurisprudenza, in definitiva, si è orientata a ritenere che, a prescindere
dall’esistenza di specifiche norme che impongano all’amministrazione pubblica di
pronunciarsi su determinate istanze dei cittadini, in un sistema caratterizzato dalla
trasparenza e dalla partecipazione ed in ossequio ai doveri di correttezza e buona
amministrazione, sussiste l’obbligo di procedere e di provvedere ogniqualvolta
esigenze di giustizia sostanziale impongano l’adozione di un provvedimento
espresso, obbligo che, invece, non sembra sussistere laddove l’istanza, pur
proposta da un soggetto titolare di posizione differenziata e qualificata, si presenti
manifestamente infondata ovvero sia proposta per il ritiro in autotutela di un atto
amministrativo precedentemente adottato o sia proposta per l’estensione ultra
partes del giudicato.
Una prima criticità derivante dall’esegesi delle norme - che, in materia di
silenzio dell’amministrazione, si sono sviluppate in maniera non sempre organica
e coerente con gli approdi interpretativi ai quali la giurisprudenza e la dottrina
sono pervenuti - concerne il richiamato secondo comma dell’art. 2 l. n. 241 del
1990, introdotto dall’art. 1, comma 38, della legge n. 190 del 2012, in ragione del
quale, se ravvisano la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o
infondatezza della domanda, le pubbliche amministrazioni concludono il
procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata, la cui
motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto
ritenuto risolutivo11.
11
La disposizione di legge è analoga a quella di cui all’art. 74 c.p.a., per il quale, nel caso in cui
ravvisi la manifesta fondatezza ovvero la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o
infondatezza del ricorso, il giudice decide con sentenza in forma semplificata; la motivazione della
sentenza può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo
ovvero, se del caso, ad un precedente conforme. Tuttavia, mentre il giudice deve necessariamente
pronunciarsi su ogni domanda, per cui la norma risponde effettivamente ad una logica di
semplificazione, nell’attività amministrativa era stata esclusa, in caso di manifesta infondatezza
9
La problematicità dell’interpretazione è data soprattutto dal fatto che i casi a
cui si riferisce la norma - a prescindere dalla difficoltà di trasportare al campo
della funzione amministrativa i concetti tipicamente processuali di irricevibilità,
inammissibilità e improcedibilità - sembrano proprio quelli per i quali la
giurisprudenza si è orientata ad escludere la presenza di un obbligo di procedere e,
quindi, di provvedere in capo all’amministrazione anche nell’ipotesi in cui
l’istanza sia stata proposta dal soggetto titolare di una posizione differenziata e
qualificata.
Ne consegue che tale norma, pur nel prevedere la redazione di un atto in forma
semplificata, sembra imporre un ulteriore obbligo all’amministrazione che, prima,
a fronte di un’istanza manifestamente infondata, secondo il prevalente indirizzo
giurisprudenziale, non aveva un obbligo di provvedere, mentre oggi ha comunque
l’obbligo di adozione di un atto, sia pure sinteticamente motivato.
Peraltro, la norma potrebbe essere soggetta ad una duplice applicazione.
In modo più rigoroso, potrebbe ritenersi che, a fronte di un’istanza di un
privato, in ogni caso l’amministrazione sia tenuta all’adozione di un atto, oppure
in modo più elastico, che l’obbligo imposto dalla norma riguarda solo il caso di
manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza di istanze
proposte dal titolare di un interesse legittimo, fermo restando che, a fronte di una
richiesta formulata da chi non è titolare di una situazione differenziata e
qualificata, non sussiste alcun obbligo di provvedere, neppure in forma sintetica.
In altri termini, una norma apparentemente di semplificazione, in costanza di
una giurisprudenza che aveva costantemente escluso l’obbligo di procedere e di
dell’istanza, la sussistenza dell’obbligo di provvedere, sicché, anziché produrre una
semplificazione, la nuova norma potrebbe sortire l’effetto opposto di ampliare l’area delle istanze
che generano l’obbligo di provvedere.
10
provvedere a fronte di istanze manifestamente infondate, ancorché proposte da
titolari di situazioni differenziate e qualificate, sembra tradursi in un ulteriore
obbligo di provvedere a carico dell’amministrazione, sia pure da adempiere con
atti sinteticamente motivati.
Per tentare di dare al testo di legge un’interpretazione sistematica coerente con
il richiamato indirizzo giurisprudenziale escludente l’obbligo di provvedere a
fronte di istanze manifestamente infondate, la previsione normativa potrebbe
essere anche intesa nel senso che l’atto riportante sinteticamente il motivo per il
quale l’amministrazione ha ritenuto non sussistere nel caso di specie l’obbligo di
procedere e di provvedere debba essere adottato in esito al procedimento
preliminare, in cui l’amministrazione valuta e decide se procedere o meno e che
costituisce di solito un atto interno.
Seguendo tale opzione esegetica, se l’amministrazione ritiene che sussista
l’obbligo di procedere, deve provvedere nei termini di legge, mentre, in
applicazione della novella del 2012, ove invece ritenga non sussistere tale obbligo,
dovrebbe ugualmente darne conto nei termini di legge attraverso un atto
sinteticamente motivato.
2.3 La responsabilità pubblica da mero ritardo.
Il rispetto del termine stabilito per la conclusione del procedimento è una delle
manifestazioni del concetto di buona amministrazione, diritto del cittadino ai sensi
11
dell’art. 41 della carta di Nizza e dell’art. 97 Cost., che afferma i principi di
imparzialità e buon andamento12.
Per buon andamento, si intende l’efficienza dell’azione amministrativa che si
rivela anche nella sua tempestività e, nell’ambito dei diritti fondamentali del
cittadino europeo, sono compresi quelli riguardanti il rapporto con la pubblica
amministrazione, tra cui il generale diritto alla buona amministrazione che
concreta il diritto di ogni individuo a che le questioni che lo riguardano vengano
trattate in modo equo, imparziale ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni
che operano nell’ambito comunitario13.
L’art. 101 del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, firmato a
Roma il 29 ottobre 2004, sancisce il diritto ad una buona amministrazione e
prevede che ogni persona ha diritto a che le questioni che la riguardano siano
trattate in modo imparziale ed equo ed entro “un termine ragionevole” dalle
istituzioni, organi e organismi dell'Unione.
L’art. 29, comma 2 bis, l. n. 241 del 199014, inoltre, dispone che attengono ai
livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m),
della Costituzione le disposizioni della legge relative alla durata massima dei
procedimenti.
12
Cfr. P. Quinto, Il tempo “bene della vita” nel procedimento amministrativo: la tutela risarcitoria,
in www.giustizia-amministrativa.it, 2011
13
A. Lazzaro, La certezza dei tempi dell’azione amministrativa nella l. n. 69/2009, in
www.giustizia-amministrativa.it, 2009. che richiama A. Serio, il principio di buona
amministrazione nella giurisprudenza comunitaria, in Riv. It. di Dir. Pubbll. Comun., 2008.
14
Il comma è stato aggiunto dall’art. 10 l. n. 69 del 2009.
12
Il tempo, peraltro, quale risorsa scarsa, costituisce un bene prezioso non solo
per i privati ma anche per la pubblica amministrazione che, nel perseguire gli
interessi pubblici affidati alle sue cure, non dovrebbe compiere o essere costretta a
svolgere attività inutili ed antieconomiche.
L’art. 2 bis della legge n. 241 del 199015, rubricato “Conseguenze per il ritardo
dell’amministrazione nella conclusione del procedimento”, stabilisce, al primo
comma, che “le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’articolo 1, comma
1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza
dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”
e, al comma 1 bis - con disposizione introdotta dall’art. 28, comma 9, del decreto
legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito in legge con modificazione dalla legge 9
agosto 2013, n. 90 - che, “fatto salvo quanto previsto dal comma 1 e ad esclusione
delle ipotesi di silenzio qualificato e dei concorsi pubblici, in caso di inosservanza
del termine di conclusione del procedimento ad istanza di parte, per il quale
sussiste l'obbligo di pronunziarsi, l'istante ha diritto di ottenere un indennizzo per
il mero ritardo alle condizioni e con le modalità stabilite dalla legge o, sulla base
della legge, da un regolamento emanato ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della
legge 23 agosto 1988, n. 400. In tal caso le somme corrisposte o da corrispondere
a titolo di indennizzo sono detratte dal risarcimento”.
L’art. 28, comma 1, del d.l. n. 69 del 2013, come modificato dalla legge di
conversione n. 98 del 2013, inoltre, ha direttamente stabilito che “la pubblica
amministrazione procedente o, in caso di procedimenti in cui intervengono più
amministrazioni, quella responsabile del ritardo e i soggetti di cui all'art. 1, comma
15
Articolo aggiunto dalla lettera c) del comma 1 dell’art. 7 l. 18 giugno 2009, n. 69.
13
1 ter, della legge 7 agosto 1990, n. 241, in caso di inosservanza del termine di
conclusione del procedimento amministrativo iniziato ad istanza di parte, per il
quale sussiste l'obbligo di pronunziarsi, con esclusione delle ipotesi di silenzio
qualificato e dei concorsi pubblici, corrispondono all'interessato, a titolo di
indennizzo per il mero ritardo, una somma pari a 30 euro per ogni giorno di ritardo
con decorrenza dalla data di scadenza del termine del procedimento, comunque
complessivamente non superiore a 2.000 euro”.
Il susseguirsi, in periodi recentissimi, di tali modifiche normative ha generato
ulteriori e complessi problemi ermeneutici di carattere sia sostanziale che
processuale.
L’art. 2 bis l. n. 241 del 1990, aggiunto dall’art. 7 l. n. 69 del 2009, come detto,
obbliga le pubbliche amministrazioni al risarcimento del danno ingiusto cagionato
in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del
procedimento, introducendo il c.d. danno da ritardo.
Nel disciplinare le azioni di condanna, il codice, all’art. 30, co. 2, prevede
analogamente che possa essere chiesta la condanna al risarcimento del danno
ingiusto derivante non solo dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa,
ma anche dal mancato esercizio di quella obbligatoria.
A seguito dell’entrata in vigore del nuovo corpus normativo, come meglio si
vedrà infra, una corrente di pensiero sempre più ampia ha individuato il c.d.
danno da ritardo in ogni pregiudizio derivante dal ritardato esercizio della
funzione pubblica, vale a dire sia nel pregiudizio ricollegabile all’interesse
materiale al bene della vita richiesto con l’istanza rimasta non evasa o evasa oltre
14
i termini di legge sia in quello concernente il mero rispetto del termine di
conclusione del procedimento.
Un’altra tesi, invece, in continuità con l’indirizzo espresso dall’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato con la decisione n. 7 del 2005, ha limitato l’area
del danno risarcibile alla sola ipotesi in cui sia concretamente dimostrata la
spettanza del bene della vita richiesto, senza possibilità di ristoro per la sola
violazione del dies ad quem previsto per la conclusione del procedimento avviato
dall’istanza pretensiva del cittadino16.
Il punto focale, più complesso e più dibattuto, dell’esegesi normativa, quindi,
concerne la risarcibilità ex se dell’interesse del privato al rispetto della tempistica
procedimentale, vale a dire se la responsabilità amministrativa possa prescindere
dalla spettanza del bene della vita costituente il lato interno della posizione di
interesse legittimo dedotto nell’istanza pretensiva, ovvero se sia necessario
dimostrare l’effettiva lesione al conseguimento o al conseguimento tempestivo di
tale utilità.
In altri termini, la questione fondamentale che si pone è se sia risarcibile il
danno da ritardo indipendentemente dalla fondatezza della pretesa azionata con
l’istanza avanzata all’amministrazione17.
16
Un’ulteriore distinzione, che costituisce un’articolazione della questione principale, deve essere
compiuta tra l’ipotesi di adozione del provvedimento richiesto, favorevole all’interessato e,
pertanto, attributivo del relativo “bene della vita”, emesso oltre la scadenza del termine
procedimentale, e la completa inerzia dell’amministrazione, vale a dire la mancata adozione di
qualsivoglia provvedimento.
17
In proposito, tra gli altri, F. Caringella, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2012, pagg.
1201 e segg.
15
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con decisione 15 settembre
2005, n. 7 – nel premettere, per quanto attiene alla giurisdizione in materia di
“silenzio”, che non si è di fronte a “comportamenti” della pubblica
amministrazione invasivi dei diritti soggettivi del privato in violazione del
neminem laedere, ma in presenza della diversa ipotesi del mancato tempestivo
soddisfacimento
dell’obbligo
dell’autorità
amministrativa
di
assolvere
adempimenti pubblicistici, aventi ad oggetto lo svolgimento di funzioni
amministrative e perciò al cospetto di interessi legittimi pretensivi del privato,
che ricadono, per loro intrinseca natura, nella giurisdizione del giudice
amministrativo - ha a suo tempo escluso la risarcibilità del danno correlato alla
mera violazione dei termini in quanto il sistema di tutela degli interessi
pretensivi, nelle ipotesi in cui si fa affidamento sulle statuizioni del giudice per la
loro realizzazione, consente il passaggio a riparazioni per equivalente solo
quando l’interesse pretensivo, incapace di trovare realizzazione con l’atto, in
congiunzione con l’interesse pubblico, assuma a suo oggetto la tutela di interessi
sostanziali e, perciò, la mancata emanazione o il ritardo nella emanazione di un
provvedimento vantaggioso per l’interessato (suscettibile di appagare un “bene
della vita”).
Tale situazione, ha rappresentato la citata decisione, non sarebbe
assolutamente configurabile quando è incontroverso che i provvedimenti adottati
in ritardo risultano di carattere negativo per il richiedente e che le loro statuizioni
sono divenute intangibili per la omessa proposizione di qualunque impugnativa.
L’inerzia amministrativa, quindi, per essere fonte di responsabilità
risarcitoria, richiederebbe non solo il preventivo accertamento in sede
16
giurisdizionale della sua illegittimità, ma, ancor più, il concreto esercizio della
funzione amministrativa in senso favorevole all’interessato, ovvero il suo
esercizio virtuale, in sede di giudizio prognostico da parte del giudice investito
della richiesta risarcitoria18, per cui, nel 2005, la giurisprudenza del massimo
consesso della giustizia amministrativa ha escluso la risarcibilità per equivalente
patrimoniale del danno da mero ritardo19.
La positivizzazione dell’istituto della responsabilità per c.d. danno da ritardo,
come evidenziato, è avvenuta in un primo tempo attraverso l’introduzione
dell’art. 2 bis l. n. 241 del 1990, aggiunto dall’art. 7 della l. n. 69 del 2009.
In tal modo, il legislatore ha previsto un nuovo strumento di tutela delle
posizioni giuridiche soggettive contro l’inerzia della pubblica amministrazione,
strumento che trova la sua collocazione nell’ambito del rito ordinario,
affiancandosi in posizione autonoma a quello rappresentato dal rito speciale in
camera di consiglio contro il silenzio rifiuto. La stessa previsione dell’obbligo
del risarcimento del danno ingiusto cagionato dall’amministrazione in
conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del
procedimento è ora contenuta nell’art. 30, commi 2 e 4, c.p.a.
18
In tal senso, ex multis: Cons. St., V, n. 1162 del 2009; Cons. St., IV, n. 6242 del 2008, secondo
cui il danno risarcibile è individuabile nel ritardo al conseguimento del bene della vita.
19
La decisione dell’Adunanza Plenaria n. 7 del 2005, peraltro, ha rilevato come, su di un piano di
astratta logica, possa ammettersi che, in un ordinamento preoccupato di conseguire un’azione
amministrativa particolarmente sollecita, alla violazione dei termini di adempimento procedimentali
possano riconnettersi conseguenze negative per l’amministrazione, anche di ordine patrimoniale (ad
es. con misure di carattere punitivo a favore dell’erario; con sanzioni disciplinari, etc.) e che. in un
quadro non dissimile si muoveva, secondo talune linee interpretative, l’art. 17, comma 1, lettera f),
della legge n. 59 del 1997, delega non attuata, che ipotizzava «forme di indennizzo automatico e
forfettario», qualora l’amministrazione non avesse adottato tempestivamente il provvedimento,
anche se negativo.
17
L’espresso riferimento al “danno ingiusto”20 – contenuto nell’art. 2 bis l. n.
241 del 1990 così come nel secondo comma dell’art. 30, secondo cui può essere
chiesta la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo
esercizio dell’attività amministrativa o dal “mancato esercizio di quella
obbligatoria” – induce a ritenere che per poter riconoscere la tutela risarcitoria
anche in tali fattispecie non possa in alcun caso prescindersi dalla spettanza di un
bene della vita, atteso che è soltanto la lesione di quest’ultimo che qualifica in
termini di ingiustizia il danno derivante tanto dal provvedimento illegittimo e
colpevole dell’amministrazione21 quanto dalla sua colpevole inerzia e lo rende
risarcibile22.
20
La famosissima sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione 22 luglio 1999, n. 500 ha
nitidamente posto in rilievo che la lesione di un interesse legittimo, al pari di quella di un diritto
soggettivo o di altro interesse (non di mero fatto ma) giuridicamente rilevante, rientra nella
fattispecie della responsabilità aquiliana solo ai fini della qualificazione del danno come ingiusto.
Ciò non equivale certamente ad affermare la indiscriminata risarcibilità degli interessi legittimi
come categoria generale. Potrà infatti pervenirsi al risarcimento soltanto se l'attività illegittima della
P.A. abbia determinato la lesione dell'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo,
secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e che risulta meritevole
di protezione alla stregua dell'ordinamento. In altri termini, la lesione dell'interesse legittimo è
condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c.,
poiché occorre altresì che risulti leso, per effetto dell'attività illegittima (e colpevole) della P.A.,
l'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene
risulti meritevole di tutela alla luce dell'ordinamento positivo.
21
La richiamata sentenza delle Sezioni Unite n. 500 del 1999 ha rappresentato che nell’art. 2043
c.c. risulta netta la centralità del danno, del quale viene previsto il risarcimento qualora sia
"ingiusto", mentre la colpevolezza della condotta (in quanto contrassegnata da dolo o colpa) attiene
all'imputabilità della responsabilità. L'area della risarcibilità non è quindi definita da altre norme
recanti divieti e quindi costitutive di diritti (con conseguente tipicità dell'illecito in quanto fatto
lesivo di ben determinate situazioni ritenute dal legislatore meritevoli di tutela), bensì da una
clausola generale, espressa dalla formula "danno ingiusto", in virtù della quale è risarcibile il danno
che presenta le caratteristiche dell'ingiustizia, e cioè il danno arrecato non iure, da ravvisarsi nel
danno inferto in difetto di una causa di giustificazione (non iure), che si risolve nella lesione di un
interesse rilevante per l'ordinamento.
22
N. Durante, I rimedi contro l’inerzia dell’amministrazione: istruzioni per l’uso, con un occhio alla
giurisprudenza e l’altro al codice del processo amministrativo, approvato con decreto legislativo 2
luglio 2010, n. 104, in www.giustizia-amministrativa..it, 2010, pone l’accento sul fatto che
l’ingiustizia del danno, quale presupposto della condanna al risarcimento, è richiesta dall’art. 30, co.
18
Seguendo una tradizionale linea argomentativa, ancorata ai principi espressi
nella richiamata decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 7 del
2005, come già esposto, il giudice non potrebbe accogliere l’istanza risarcitoria a
prescindere dalla formulazione di un giudizio sulla spettanza dell’utilità finale
richiesta con l’istanza pretensiva, ma il risarcimento del danno da lesione
dell’interesse legittimo sarebbe anche in tal caso subordinato alla dimostrazione,
secondo un giudizio prognostico, che l’aspirazione al provvedimento era
destinata, certamente o probabilmente, ad un esito favorevole23.
Tale opzione ermeneutica postula evidentemente l’esistenza di un solo bene
della
vita,
costituito
dall’utilità
richiesta
con
l’istanza
rivolta
all’amministrazione, e di una sola posizione giuridica soggettiva, avente natura
di interesse legittimo pretensivo.
Diversamente, negli ultimi anni è venuto delineandosi un orientamento, che
oggi può ritenersi prevalente, in ragione del quale la ratio della norma introdotta
nel 2009 è quella di presupporre che per il richiedente, titolare dell’interesse
legittimo pretensivo, anche il tempo sia o possa essere un bene della vita.
In sostanza, non vi è dubbio che il danno per essere qualificato ingiusto e per
essere di conseguenza risarcibile deve derivare dalla lesione ad un bene della
2, del codice, sia per l’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa, sia per il ritardato o mancato
esercizio della stessa, per cui, essendo indiscusso che il danno da uso illegittimo del potere
presuppone sempre la titolarità dell’interesse sostanziale in capo all’istante, non si vede perché,
quando nello stesso contesto l’aggettivo “ingiusto” è utilizzato per il danno da mancato uso del
potere, questo debba assumere un’accezione diversa e più favorevole.
23
D’altra parte, la giurisprudenza, già nel previgente regime, aveva chiaramente evidenziato come il
solo ritardo nell’emanazione di un atto fosse elemento sufficiente per configurare un danno
ingiusto, con conseguente obbligo di risarcimento, nel caso però di procedimento lesivo di un
interesse pretensivo dell’amministrato, ove tale procedimento cioè sia da concludere con un
provvedimento favorevole per il destinatario (cfr. Cons. St., IV, 23 marzo 2010, n. 1699).
19
vita, ma tale è anche il tempo e non solo il bene cui aspira il privato con la
presentazione dell’istanza.
La giurisprudenza ha quindi riconosciuto che il ritardo nella conclusione di
un procedimento amministrativo, qualora incidente su interessi pretensivi
agganciati a programmi di investimento di cittadini o imprese, è sempre un
costo, visto che il fattore tempo costituisce una essenziale variabile nella
predisposizione e nell’attuazione di piani finanziari relativi a qualsiasi intervento
condizionandone la relativa convenienza economica24.
In questa prospettiva, ogni incertezza sui tempi di realizzazione di un
investimento si traduce nell’aumento del c.d. rischio amministrativo e, quindi, in
maggiori costi, attesa l’immanente dimensione diacronica di ogni operazione di
investimento e di finanziamento25.
Va da sé, allora, che la risarcibilità del danno derivante dal mero ritardo
dell’azione amministrativa e cioè a prescindere dalla fondatezza della pretesa
avanzata con l’istanza, postula che il tempo sia esso stesso un bene della vita,
differente rispetto a quello perseguito con la richiesta pretensiva, ed avente
parimenti natura sostanziale e non meramente procedimentale26.
24
Cfr. Cons. St., V, 21 giugno 2013, n. 3407; Cons. St., V, 28 febbraio 2011, n. 1271; Cons. Giust.
Amm. Reg. Sicilia 4 novembre 2010, n. 1368.
25
E, Follieri, La penalità di mora nell’azione amministrativa (art. 28 D.L. n. 69/2013),
www.giustamm.it, 2014, evidenzia che tra gli elementi da considerare quando si programma
un’attività economica vi è il c.d. “rischio amministrativo” e, anzi, il tempo di conclusione del
procedimento è quello che assume maggiore rilievo poiché un operatore economico ha interesse ad
ottenere una risposta alla sua domanda in un termine ragionevole per poter eventualmente decidere
di indirizzare altrove l’iniziativa economica, per cui conoscere i tempi per la definizione di
un’istanza diretta allo svolgimento di un’attività economica è rilevante di per sé, a prescindere dal
se il provvedimento sia poi favorevole.
26
Cons. St., III, 31 gennaio 2014, n. 468, pone in rilievo che la disposizione tutela in sé il bene
della vita inerente alla certezza, quanto al fattore tempo, dei rapporti giuridici che vedono come
parte la pubblica amministrazione, stante la ricaduta che il ritardo a provvedere può avere sullo
svolgimento di attività ed iniziative economiche condizionate alla valutazione positiva della
pubblica amministrazione, ovvero alla rimozione di limiti di rilievo pubblico al loro espletamento.
20
Infatti, in presenza di un’unica situazione giuridica soggettiva costituita
dall’interesse legittimo il cui lato interno sia costituito dal rapporto con l’utilità
che si aspira a conseguire a seguito dell’agire positivo dell’amministrazione, non
potrebbe sussistere dubbio sul fatto che, come rappresentato dall’Adunanza
Plenaria n. 7 del 2005, l’ingiustizia del danno e, quindi, la sua risarcibilità per il
ritardo dell’azione amministrativa sia configurabile solo ove il provvedimento
favorevole sia stata adottato, sia pure in ritardo, dall’autorità competente, ovvero
avrebbe dovuto essere adottato, sulla base di un giudizio prognostico effettuabile
sia in caso di adozione di un provvedimento negativo sia in caso di inerzia
reiterata, in esito al procedimento27.
In altri termini, il riferimento, per la risarcibilità del danno, al concetto di
“danno ingiusto”, ove l’unica posizione considerata e tutelata sia quella avente
ad oggetto il bene della vita richiesto con l’istanza che ha dato origine al
procedimento, non potrebbe che postulare la subordinazione dell’accoglimento
della domanda risarcitoria all’accertamento della fondatezza della pretesa
avanzata, altrimenti si perverrebbe alla conclusione paradossale e contra legem
di risarcire un danno non ingiusto28.
Viceversa, la novità della novella legislativa del 2009 sembra individuabile
nel fatto che l’ingiustizia del danno risarcibile deriva dalla lesione di un bene
27
In tale ipotesi, è necessario distinguere in sede di giudizio prognostico tra attività amministrativa
vincolata e attività amministrativa discrezionale in quanto solo nel primo caso la spettanza del bene
della vita può essere accertata, mentre, nell’ipotesi di attività discrezionale, potrebbe essere valutata
ai fini della risarcibilità del danno la chance che l’istante avrebbe avuto di conseguire il bene della
vita.
28
E’ questa la premessa da cui sembra partire chi - come E. Sticchi Damiani, Danno da ritardo e
pregiudiziale amministrativa, Foro Amministratio (II), TAR, 2007 – ritiene che l’idea che il danno
da ritardo o inerzia della p.a. possa essere risarcito anche a dispetto di un’istanza del privato
manifestamente infondata non convince del tutto atteso che accordare il risarcimento in tal caso
avrebbe il significato di dargli oggi ciò che il soggetto non avrebbe potuto ottenere domani, in altre
parole di risarcirlo per ciò che non avrebbe mai potuto ottenere e che non aveva interesse a
domandare.
21
della vita differente rispetto a quello, vale a dire dalla lesione del tempo come
bene della vita.
Dimodochè, con la presentazione di un’istanza all’amministrazione, ove la
stessa sia fonte di un obbligo di provvedere, il cittadino (o l’impresa) farebbe
valere non solo una posizione di interesse legittimo pretensivo ad ottenere il bene
della vita richiesto con l’istanza, ma anche una posizione di diritto soggettivo ad
ottenere nei termini stabiliti dalla legge una risposta certa e conclusiva circa
l’attribuzione o meno di quel bene.
In definitiva, può ritenersi che la dimostrazione dell’ingiustizia del danno
derivante dalla lesione del bene della vita richiesto con l’istanza, ove
l’amministrazione abbia rilasciato in ritardo il provvedimento richiesto, è
desumibile dal fatto che la stessa amministrazione ha ritenuto spettante il bene
della vita.
L’ingiustizia del danno derivante dalla lesione del detto bene della vita, ove
l’amministrazione abbia continuato a rimanere inerte, può altresì essere desunta
dal giudizio prognostico da compiere in sede giurisdizionale.
Invece - ove l’amministrazione abbia provveduto negando l’utilità richiesta in
modo legittimo ma in ritardo, oppure ove, in caso di reiterata inerzia, il giudizio
prognostico in sede giurisdizionale si sia concluso con l’accertamento della
infondatezza della pretesa – l’ingiustizia del danno non può riguardare il bene
della vita oggetto della richiesta, ma può derivare dalla lesione al bene della vita
costituito dal tempo e cioè dalla lesione all’affidamento sui tempi di svolgimento
dell’attività amministrativa ed alla certezza della programmazione delle proprie
attività personali e dei propri investimenti finanziari.
22
Il bene della vita oggetto della posizione giuridica sostanziale, in altri termini,
è in questo caso costituito dalla tempestiva eliminazione dell’incertezza circa il
possibile svolgimento dell’attività richiesta con l’istanza che ha dato avvio al
procedimento e, quindi, si configura come diritto alla certezza dei tempi
dell’azione amministrativa al fine di autodeterminarsi ed orientare la propria
libertà economica.
Va da sé, infatti, che la ritardata conclusione del procedimento e, quindi,
l’incertezza sul legittimo svolgimento dell’attività richiesta, può incidere
negativamente sull’impegno di risorse, così come può comportare la rinuncia ad
altre opportunità o ad avvalersi di altre circostanze favorevoli che non abbiano
durata indefinita29.
La convenienza economica di determinati investimenti e di determinate scelte
di vita, in sostanza, può certamente risentire dell’inerzia amministrativa.
Così impostati i termini del problema, peraltro, la questione sarebbe riferibile
ai soli interessi legittimi pretensivi e, quindi, ai soli procedimenti ad istanza di
parte, mentre l’obbligo di concludere il procedimento nei termini di legge
riguarda anche i procedimenti d’ufficio ed i relativi interessi legittimi oppositivi.
Di talché, occorre chiedersi se, con riferimento a tale categoria di situazioni
protette, ugualmente abbia spazio ed in che termini si ponga la tematica della
responsabilità amministrativa da mero ritardo.
Nella fattispecie, ove il procedimento non sia concluso o sia tardivamente
concluso senza l’adozione del provvedimento di esproprio, non può
ontologicamente ipotizzarsi un danno da ritardo per la lesione di un bene della
29
P. Quinto, op. cit., che richiama M. Clarich, G. Fonderico, La risarcibilità del danno da mero
ritardo, in Urbanistica e Appalti, 2006.
23
vita diverso dal tempo in quanto il destinatario dell’azione aspira al non agere
dell’amministrazione ed il suo bene della vita è di conseguenza soddisfatto dalla
mancata incisione sulla utilità che preesiste all’avvio del procedimento e di cui
già dispone.
Viceversa, ad avviso di chi scrive, non è possibile escludere a priori la
configurabilità di un danno da mero ritardo, vale a dire derivante dalla lesione
del tempo come bene della vita.
Infatti, così come la violazione del diritto alla pianificazione dei propri
investimenti e, in definitiva, del diritto alla libertà economica può sussistere in
caso di ritardo nella conclusione di un procedimento ad istanza di parte, può
parimenti ipotizzarsi per la ritardata o, soprattutto, per la mancata conclusione di
un procedimento avviato d’ufficio.
In proposito, basti pensare alla comunicazione di avvio di un procedimento di
espropriazione che si protragga oltre il termine stabilito per la sua conclusione;
in tale situazione, l’incertezza sull’esito del procedimento è ben in grado di
produrre un nocumento economico nella sfera individuale dell’espropriando, il
valore del cui bene subirebbe un deprezzamento, sino a renderlo sostanzialmente
inalienabile, durante il procedimento di esproprio30.
La prova del pregiudizio sofferto, anche in tal caso, grava sul destinatario
dell’azione amministrativa, che dovrà fornire elementi idonei a dimostrare la
perdita di opportunità subite nel periodo di pendenza del procedimento concluso
tardivamente senza l’adozione del decreto di esproprio.
30
In realtà, al fine di evitare il perpetuarsi dello stato di incertezza, potrebbe ammettersi anche
l’esperimento dell’azione avverso il silenzio ai sensi degli artt. 31 e 117 c.p.a. da parte del titolare di
un interesse legittimo oppositivo.
24
Pertanto, secondo tale opzione esegetica, il tempo come bene della vita
potrebbe accompagnarsi sia al diverso bene della vita oggetto di un interesse
pretensivo sia al diverso bene della vita tutelato in via oppositiva e la
responsabilità risarcitoria della pubblica amministrazione sussisterà tutte le volte
in cui il ritardo nel concludere il procedimento avviato, rispettivamente, ad
istanza di parte o d’ufficio, possa riverberarsi con effetto negativo sulla capacità
di autodeterminazione e sulla libertà di iniziativa economica del privato.
La posizione giuridica soggettiva di cui è titolare il privato, che si affianca
all’interesse legittimo pretensivo fatto valere con la presentazione dell’istanza
ovvero all’interesse legittimo oppositivo al potere ablatorio, ad avviso di chi
scrive, può essere qualificata di diritto soggettivo.
L’interesse legittimo31 traduce una relazione dinamica tra il singolo o, meglio,
il suo interesse materiale e l’esercizio della funzione pubblica.
La giurisprudenza – premesso che la posizione di interesse legittimo si
collega all’esercizio di una potestà amministrativa rivolta, secondo il suo
modello legale, alla cura diretta ed immediata di un interesse della collettività,
mentre il diritto soggettivo nei confronti della pubblica amministrazione trova
fondamento in norme che, nella prospettiva della regolazione di interessi
sostanziali contrapposti, aventi sovente carattere patrimoniale, pongono a carico
dell’amministrazione obblighi a garanzia diretta ed immediata di un interesse
particolare – ha precisato che la distinzione tra interessi legittimi e diritti
31
L’interesse legittimo è una situazione ontologicamente collegata all’esercizio del potere
amministrativo, che si manifesta non soltanto su un piano processuale, nella legittimazione
riconosciuta al suo titolare di proporre ricorso giurisdizionale avverso il provvedimento
amministrativo conclusivo del procedimento che abbia leso la sua sfera giuridica, ma anche su un
piano sostanziale, attraverso la possibile partecipazione al procedimento in cui gli interessi pubblici
e privati sono acquisiti e valutati dall’amministrazione procedente o ancora nella stessa possibilità
di sollecitare, nei procedimenti ad istanza di parte, l’esercizio del potere.
25
soggettivi va fatta con riferimento alla finalità perseguita dalla norma alla quale
l’atto si collega32.
La distinzione tra le due posizioni giuridiche soggettive va quindi individuata
nel loro lato “esterno”, atteso che, mentre la posizione di diritto soggettivo
postula il rapporto con altri soggetti dell’ordinamento, tra cui eventualmente
un’amministrazione pubblica, collocati su un piano di parità giuridica con il
titolare della posizione (la generalità dei soggetti in caso di diritti assoluti, un
soggetto o più soggetti determinati in casi di diritti relativi), la posizione di
interesse
legittimo
postula
il
rapporto
con
uno
specifico
soggetto
dell’ordinamento, una pubblica amministrazione che agisce nell’esercizio
autoritativo del potere pubblico, collocata su un piano di supremazia, nel senso
che è in grado di incidere unilateralmente sulla sfera giuridica del soggetto
destinatario, determinando la soddisfazione o il sacrificio dell’interesse materiale
di cui lo stesso è portatore.
In altri termini, entrambe le posizioni hanno un lato “interno” che traduce un
rapporto con un bene della vita, una utilitas, per conservare o conseguire la quale
il titolare aspira, rispettivamente, al non facere dei soggetti con cui è in relazione
(diritti soggettivi assoluti ed interessi legittimi oppositivi) ovvero ad un facere
positivo degli stessi (diritti soggettivi relativi ed interessi legittimi pretensivi) e
tale rapporto con il bene della vita, la res, determina la sostanzialità sia dell’una
sia dell’altra posizione; ciò che invece distingue e caratterizza la figura
dell’interesse legittimo è il suo lato “esterno”, vale a dire la relazione con un
soggetto specifico e particolare dell’ordinamento, la pubblica amministrazione
32
In tal senso, ex multis: Ad. Plen. Cons. Stato, 24 maggio 2007, n. 8; Ad. Plen. Cons. Stato, 5
luglio 1999 n. 18; Cons. Stato, V, 2 agosto 2007, n. 4285.
26
che agisce nell’esercizio autoritativo di un potere pubblico, laddove, nel diritto
soggettivo, anche quando il soggetto giuridico con cui si entra in rapporto è
un’amministrazione pubblica, la relazione avviene su un piano paritario33.
Di talché, così come non sussiste dubbio sulla natura di interesse legittimo
della posizione vantata dal soggetto che, titolare di una posizione qualificata e
differenziata, presenta un’istanza all’amministrazione generando un suo obbligo
di provvedere, parimenti deve pervenirsi a qualificare come di diritto soggettivo
la
posizione
sostanziale
vantata
dal
soggetto
a
fronte
dell’obbligo
dell’amministrazione, finalizzato alla tutela degli interessi privati, di concludere
il procedimento nel termine previsto dalla legge.
Di norma, trattasi di un rapporto tra il richiedente ed un solo soggetto,
l’amministrazione pubblica destinataria dell’istanza, per cui la posizione può
essere qualificata più specificamente come di diritto soggettivo relativo.
Il fluire del tempo, in tal modo, non determina il venire meno del potere/dovere
dell’amministrazione di concludere, sia pure in ritardo, il procedimento 34, ma
costituisce un inadempimento ad un obbligo di legge che può portare, in presenza
della dimostrazione di un danno effettivo, alla concretizzazione di un illecito ed
alla conseguente responsabilità aquiliana dell’amministrazione inadempiente.
D’altra parte, l’azione avverso il silenzio, ai sensi dell’art. 31 c.p.a., è
dichiaratamente volta a chiedere l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione
di provvedere, così come, ai sensi dell’art. 117, comma 2, il suo accoglimento
33
Sia consentito il richiamo a R. Caponigro, La pregiudiziale amministrativa tra l’essenza
dell’interesse legittimo e l’esigenza di tempestività del giudizio, in Giurisdizione amministrativa,
2008.
34
Ciò si desume, implicitamente ma chiaramente, dall’art. 117, comma 5, c.p.a., che postula come
durante il giudizio sul silenzio possa sopravvenire un provvedimento espresso.
27
produce gli effetti di un’azione di condanna in quanto il giudice ordina
all’amministrazione di provvedere entro un termine.
Le azioni previste a tutela della posizione giuridica soggettiva volta alla
conclusione del procedimento, quindi, sono esattamente quelle che l’ordinamento
predispone a tutela delle posizioni di diritto soggettivo, laddove la posizione
giuridica di interesse legittimo pretensivo, finalizzata all’acquisizione dell’utilità
richiesta, in caso di silenzio, è tutelata, in via strumentale, con l’azione di
accertamento dell’obbligo di provvedere e, in via finale, con l’azione di condanna
al rilascio del provvedimento richiesto (rectius: azione di adempimento)35 che, a
prescindere dalla novella introdotta dal d.lgs. n. 160 del 2012 all’art. 34, comma 3,
c.p.a., era da ritenere sostanzialmente già contenuta ab origine nel testo codicistico
attraverso la previsione, di cui all’art. 31, comma 3, c.p.a., di accertamento della
fondatezza della pretesa dedotta in giudizio in caso di attività vincolata e di
conseguente condanna dell’amministrazione ex art. 117, comma 2, c.p.a.,
all’adozione del provvedimento richiesto36.
In sostanza, ad avviso di chi scrive, il consolidato principio secondo cui
l’azione avverso il silenzio è esperibile solo a tutela di posizioni di interesse
legittimo, implicanti, quindi, l’esercizio in via autoritativa di una potestà pubblica,
e non se l’inerzia è serbata a fronte di un’istanza avanzata per il riconoscimento di
35
Sia consentito il richiamo a R. Caponigro, Una nuova stagione per la tutela degli interessi
legittimi, in www.giusrisdizione-amministrativa.it, 2012.
36
Nella vigenza dell’art. 2, co. 5, l. n. 241 del 1990, come modificato dalla l. n. 15 del 2005 e
sostituito dall’art. 3, co. 6 bis, d.l. n. 35 del 2005 – il quale aveva tra l’altro previsto il potere del
giudice amministrativo di conoscere della fondatezza della pretesa – la giurisprudenza aveva avuto
modo di affermare che la fondatezza della pretesa poteva essere valutata soltanto nei casi di attività
amministrativa interamente vincolata quando la spettanza o meno del bene della vita fosse ictu oculi
rilevabile.
28
un diritto soggettivo37, deve essere rettamente inteso nel senso che la posizione
azionata con l’istanza pretensiva a fronte della quale si è formato il silenzio deve
necessariamente essere di interesse legittimo38, con la conseguenza che la stessa
potrà essere soddisfatta in via strumentale, con la mera declaratoria dell’obbligo di
provvedere, o in via finale, attraverso l’accertamento della fondatezza della
pretesa, laddove l’azione tendente alla declaratoria dell’obbligo di provvedere
traduce altresì una tutela del diritto soggettivo alla conclusione del procedimento.
La contestuale presenza di una posizione di diritto soggettivo alla conclusione
del procedimento e di una posizione di interesse legittimo pretensivo, azionato con
la richiesta formulata all’amministrazione, o di interesse legittimo oppositivo,
sorto a seguito dell’avvio di un procedimento d’ufficio, inoltre, rende coerente
l’attribuzione al giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, commi 1 e 3, c.p.a.,
della giurisdizione esclusiva sulle controversie in materia di “risarcimento del
danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del
termine di conclusione del procedimento amministrativo” e di “silenzio di cui
all’articolo 31, commi 1, 2 e 3”.
L’affermazione dell’astratta risarcibilità del danno derivante dal mero ritardo
dell’amministrazione nella conclusione del procedimento sposta l’attenzione su
quella che si presenta come la vera questione essenziale al fine di pervenire, nel
37
Ex multis: Cons. St., VI, 7 gennaio 2008, n. 33; T.A.R. Lazio, Roma, III quater, 1° dicembre
2008, n. 12254.
38
F. Taormina, Brevi note sul silenzio della pubblica amministrazione, in www.giustiziaamministativa, 2012, del tutto condivisibilmente rileva che il ricorso avverso il silenzio della
pubblica amministrazione è inammissibile quando il privato domanda la tutela di un diritto
soggettivo per la elementare constatazione che, laddove la posizione attiva abbia consistenza di
diritto soggettivo (e sebbene sia stata devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo), il rimedio del silenzio risulta inutile, il che avviene nel caso in cui il petitum ha per
oggetto l'accertamento del diritto al riconoscimento di spettanze economiche, la cui tutela
giurisdizionale si esplica in sede esclusiva attraverso una pronuncia di accertamento.
29
merito, alla decisione sulla domanda risarcitoria e cioè la prova che un danno
risarcibile effettivamente sussista e sia in rapporto eziologico con il ritardo
dell’amministrazione.
Il tempo è un bene della vita, ma la sua lesione può produrre o meno un danno
risarcibile e di tale eventuale produzione deve essere fornita una prova idonea e
puntuale.
Insomma, al pari delle altre fattispecie di illecito aquiliano, la lesione del bene
della
vita
non
determina
una
automatica
responsabilità
risarcitoria
dell’amministrazione, che nasce solo quando un danno sia stato prodotto e sia
adeguatamente provato.
Per ogni ipotesi di responsabilità della pubblica amministrazione, la prova
dell’esistenza del danno deve essere fornita in modo rigoroso dal ricorrente, non
potendosi invocare il c.d. principio acquisitivo perché tale principio attiene allo
svolgimento dell’istruttoria e non all’allegazione dei fatti e, se anche può
ammettersi il ricorso alle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. per fornire la prova
del danno subito e della sua entità, è comunque ineludibile l’obbligo di allegare
circostanze di fatto precise.
Peraltro, quando il soggetto onerato dell’allegazione e della prova dei fatti non
vi adempie, non può darsi ingresso alla valutazione equitativa ex art. 1226 c.c.,
perché tale norma presuppone l’impossibilità di provare l’ammontare preciso del
30
pregiudizio subito, né può essere invocata una consulenza tecnica d’ufficio 39,
diretta a supplire al mancato onere probatorio da parte del privato40.
In pratica, al di là di mere enunciazioni di principio e di formulazioni di stile
circa il danno che la parte ricorrente sostenga di avere subito per il ritardo nella
conclusione del procedimento, occorre in concreto l’allegazione specifica della
prova del danno subito, in assenza della quale nessun danno può ritenersi
effettivamente sussistente.
Pertanto, ove il danno derivante dal mero ritardo nella conclusione del
procedimento non sia in concreto provato dalla parte ricorrente su cui grava il
relativo onere, l’eventuale azione di risarcimento del danno deve essere respinta
non perché il mero ritardo dell’amministrazione, producendo la lesione del tempo
come bene della vita, non possa essere astrattamente fonte di responsabilità
aquiliana, ma perché, non essendo stata data concreta prova dell’avvenuta
produzione del danno, non c’è l’oggetto del risarcimento.
Viceversa, ove il danno causato dal mero ritardo sia provato, il tempo, da
misura dell’entità dello stesso, che è la sua caratteristica propria quando si tratta di
risarcire il danno derivante da lesione dell’interesse legittimo, diviene esso stesso
bene da risarcire in quanto la sua lesione determina di per sé un danno ingiusto.
In sostanza, se il bene della vita chiesto con l’istanza pretensiva spettava
certamente o probabilmente all’interessato, il tempo funge da elemento di
parametrazione del quantum del danno in quanto tanto più lungo è il ritardo
39
La CTU non è destinata ad esonerare la parte dalla prova dei fatti dalla stessa dedotti e posti a
base delle proprie richieste, fatti che devono essere dimostrati dalla stessa parte alla stregua dei
criteri di ripartizione dell’onere della prova posti dall’art. 2697 c.c., ma ha la funzione di fornire
all’attività valutativa del giudice l’apporto di cognizioni tecniche non possedute.
40
Cfr. Cons St., V, 28 febbraio 2011, n. 1271; Cons. St.,V, 13 giugno 2008, n. 2967; TAR Sicilia,
Catania, II, 23 giugno 2011, n. 1271.
31
nell’attribuzione dell’utilità quanto più elevato è il danno prodotto, mentre, se il
bene della vita oggetto dell’istanza pretensiva certamente o probabilmente non
spettava al richiedente, il tempo viene in rilievo, ove sia in concreto provata la
formazione del danno, esso stesso come bene della vita la cui lesione determina il
risarcimento.
In tale contesto, sembra assumere notevole rilievo l’applicabilità all’azione di
risarcimento del danno derivante dal mancato esercizio dell’attività amministrativa
obbligatoria del disposto di cui all’art. 30, comma 3, c.p.a., secondo cui, nel
determinare il risarcimento, il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il
comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei
danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso
gli strumenti di tutela previsti.
Il codice, in tal modo, nel negare la sussistenza di una pregiudizialità di rito, ha
mostrato di apprezzare, sul versante sostanziale, la rilevanza eziologica
dell’omessa impugnazione come fatto valutabile al fine di escludere la risarcibilità
dei danni che, secondo un giudizio causale di tipo ipotetico, sarebbero stati
presumibilmente evitati in caso di tempestiva reazione processuale nei confronti
del provvedimento potenzialmente dannoso41.
La disposizione, pur non evocando in modo esplicito il disposto dell’art. 1227,
comma 2, del codice civile, afferma che l'omessa attivazione degli strumenti di
tutela previsti costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti,
dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà,
ai fini dell’esclusione o della mitigazione del danno evitabile con l’ordinaria
diligenza, in una logica che vede l'omessa impugnazione non più come
41
Cfr. Adunanza Plenaria Consiglio di Stato 23 marzo 2011, n. 3.
32
preclusione di rito ma come fatto da considerare in sede di merito ai fini del
giudizio sulla sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile42
Al tradizionale indirizzo che esclude, per definizione, la sindacabilità delle
condotte processuali ai sensi del capoverso dell’art. 1227 c.c., è allora preferibile
un più duttile criterio interpretativo che, in coerenza con le clausole generali in
materia di correttezza, buona fede e solidarietà di cui la norma è espressione,
consenta la valutazione della condotta complessiva, anche processuale, del
creditore, con riguardo alle specificità del caso concreto.
In base a detto criterio interpretativo, può ritenersi che la mancata
impugnazione di un provvedimento amministrativo possa essere ritenuto un
comportamento contrario a buona fede nell’ipotesi in cui si appuri che una
tempestiva reazione avrebbe evitato o mitigato il danno43.
Orbene, ad avviso di chi scrive, non vi è alcun motivo per escludere che, in
sede di quantificazione del danno da ritardo o da mero ritardo, possa assumere
rilievo l’omesso esperimento dell’azione avverso il silenzio, atteso che il danno, se
non evitato, avrebbe potuto essere almeno mitigato con l’attribuzione del bene
della vita oggetto dell’istanza pretensiva, in caso di provvedimento favorevole,
ovvero con l’eliminazione dell’incertezza sul possibile svolgimento dell’attività
La richiamata sentenza dell’Adunanza Plenaria ha evidenziato come l’obbligo di cooperazione di
cui al comma 2 dell’art. 1227 c.c. abbia fondamento proprio nel canone di buona fede ex art. 1175
c.c. e, quindi, nel principio costituzionale di solidarietà, per cui si deve concludere che anche le
scelte processuali di tipo omissivo possono costituire in astratto comportamenti apprezzabili ai fini
della esclusione o della mitigazione del danno laddove si appuri, alla stregua del giudizio di
causalità ipotetica, che le condotte attive trascurate non avrebbero implicato un sacrificio
significativo ed avrebbero verosimilmente inciso, in senso preclusivo o limitativo, sul perimetro del
danno.
43
L’Adunanza Plenaria n. 3 del 2011 richiama in proposito una cospicua giurisprudenza e cioè:
Cons. Stato, sez. VI, 24 settembre 2010, n. 7124; sez. VI, 22 ottobre 2008 , n. 5183; sez. V, 31
dicembre 2007, n. 6908; sez. IV 3 maggio 2005, n. 2136.
42
33
richiesta, in caso di provvedimento sfavorevole, adottati in esecuzione della
pronuncia di accoglimento del ricorso giurisdizionale44.
Peraltro, va ritenuto che, così come per l’ipotesi di esercizio illegittimo
dell’azione amministrativa, anche nel caso di mancato esercizio dell’attività
amministrativa obbligatoria, una condotta complessivamente diligente può
ritenersi assolta, pur in assenza della proposizione della specifica azione
giurisdizionale avverso il silenzio, quando il privato abbia sollecitato
l’amministrazione a provvedere, il che costituisce un comportamento per molti
versi analogo all’invito all’autotutela in ordine ad un provvedimento poi rivelatosi
illegittimo.
Il danno da mero ritardo, a differenza dell’ipotesi di danno derivante dal
ritardato conseguimento del bene della vita richiesto con l’istanza pretensiva,
dovrà essere evidentemente limitato al c.d. interesse negativo, potendo essere
risarcito solo il pregiudizio derivante dalla situazione di incertezza protratta oltre il
termine di legge e non anche il danno discendente dalla mancata emanazione del
provvedimento che il richiedente non avrebbe avuto titolo ad avere.
La responsabilità della pubblica amministrazione, in ragione del disposto
dell’art. 2 bis l. n. 241 del 1990, che fa riferimento al danno “ingiusto” cagionato
in conseguenza dell’inosservanza “dolosa o colposa” del termine di conclusione
del procedimento, non ha funzione meramente sanzionatoria ma soprattutto natura
riparatoria del pregiudizio sofferto dal richiedente, per cui la responsabilità
risarcitoria si configura secondo lo schema di un illecito aquiliano ai sensi dell’art.
2043 c.c., il che implica sempre la dimostrazione sia del danno subito a causa del
44
In tal senso, va attestandosi la recente giurisprudenza (cfr. Cons. St., V, 13 gennaio 2014, n. 63;
Cons. St., V, 9 ottobre 2013, n. 4968).
34
ritardo nella conclusione del procedimento sia dell’elemento psicologico del dolo
e della colpa del soggetto inadempiente.
La riconducibilità della fattispecie all’illecito aquiliano, pertanto, dovrebbe
comportare l’onere probatorio in capo al richiedente anche per quanto concerne
l’elemento soggettivo, ma occorre ritenere, in linea con gli approdi cui si è giunti
per la responsabilità risarcitoria da illegittimo esercizio del potere, che lo stesso
silenzio serbato dall’amministrazione costituisca un indice presuntivo della sua
colpa, mentre spetta a quest’ultima eventualmente dimostrare che si è trattato di un
errore scusabile, il quale può configurarsi in caso di rilevante complessità del fatto
o di particolare complessità giuridica della fattispecie45
Diversamente, una responsabilità con funzione meramente sanzionatoria
sembra essere stata recentemente introdotta con il già citato decreto legge n. 69 del
2013, come modificato dalla legge di conversione n. 98 del 2013 (c.d. decreto del
fare), che ha innovato l’art. 2 bis della l. n. 241 del 1990 aggiungendovi il comma
1 bis, secondo cui, in caso di inosservanza del termine di conclusione del
procedimento ad istanza di parte, per il quale sussiste l’obbligo di pronunziarsi,
l’istante ha diritto di ottenere un indennizzo per il mero ritardo alle condizioni e
con le modalità stabilite dalla legge46 o, sulla base della legge, da un regolamento
emanato ai sensi dell’art. 17, comma 2, l. n. 400 del 1988; in tal caso, le somme
45
Cfr. Paola Maria Zerman, Il risarcimento del danno da ritardo: l’art. 2 bis della legge 241/1990
introdotto dalla legge 8/2000, in www.giustizia-amministrativa.it, 2009.
46
L’art. 28, comma 1, d.l. n. 69 del 2013, come già evidenziato nel testo, stabilisce esso stesso che
la pubblica amministrazione procedente, in caso di inosservanza del termine di conclusione del
procedimento amministrativo iniziato ad istanza di parte, per il quale sussiste l’obbligo di
pronunziarsi, corrisponde all’interessato, a titolo di indennizzo per il mero ritardo, una somma pari
a 30 euro per ogni giorno di ritardo con decorrenza dalla data di scadenza del termine del
procedimento, comunque complessivamente non superiore a 2.000 euro.
35
corrisposte o da corrispondere a titolo di indennizzo sono detratte dal
risarcimento47.
Le disposizioni, ai sensi del decimo comma, sono applicate in via
sperimentale48 dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto
legge (21 agosto 2013) ai procedimenti amministrativi relativi all’avvio e
all’esercizio dell’attività di impresa iniziati successivamente alla medesima data di
entrata in vigore.
Il legislatore del 2013, quindi, per il caso di mero ritardo nella conclusione del
procedimento, ha aggiunto alla previsione risarcitoria con finalità riparatoria del
pregiudizio sofferto dal richiedente, una previsione indennitaria con specifica
finalità sanzionatoria della pubblica amministrazione inadempiente.
In tal modo, la disposizione ha reiterato la fattispecie già contenuta nel disegno
di legge c.d. Nicolais che, a suo tempo approvato dalla Camera dei Deputati e poi
decaduto, aveva ipotizzato l’autonoma indennizzabilità della violazione dei
termini procedimentali con pene pecuniarie anche di carattere progressivo di cui
era prevista la devoluzione al privato indipendentemente dalla dimostrazione di
ogni danno.
In sostanza, imponendo all’amministrazione l’obbligo del pagamento di
un’indennità a prescindere dall’effettiva produzione di un danno, la misura
prevista
ha
finalità
esclusivamente
sanzionatoria
dell’agere
illecito
dell’amministrazione e non riparatoria del danno sofferto dal cittadino.
47
Le norme di legge escludono dalla previsione indennitaria le ipotesi di silenzio qualificato e
quelle dei pubblici concorsi.
48
Il comma 12 stabilisce altresì le modalità con le quali, decorsi diciotto mesi dall’entrata in vigore
della legge di conversione, sono stabiliti la conferma, la rimodulazione o la cessazione delle
disposizioni.
36
La previsione, di conseguenza, fa discendere dalla lesione del tempo come
bene della vita automaticamente un diritto all’indennità perché non postula la
presenza di alcun danno ingiusto da riparare.
La nuova norma ribadisce ancora una volta che l’obbligo dell’amministrazione
sussiste laddove vi sia l’obbligo di provvedere, limitando l’area della
indennizzabilità ai procedimenti relativi all’avvio ed all’esercizio dell’attività di
impresa.
Il diritto a percepire l’indennità, ad avviso di chi scrive, ha evidentemente
natura di diritto soggettivo, atteso anche il suo contenuto a carattere prettamente
patrimoniale.
La giurisdizione, peraltro, è attribuita anche in tal caso al giudice
amministrativo in virtù dell’art. 28, comma 3, d.l. n. 69 del 2013, come modificato
dalla legge di conversione n. 98 del 201349.
In definitiva, nel caso di mero ritardo dell’amministrazione, vale a dire nel
caso in cui sia stato adottato in ritardo un provvedimento negativo legittimo
ovvero non sia stato adottato alcun provvedimento ma lo stesso sarebbe stato
certamente o verosimilmente negativo, l’amministrazione è tenuta risarcire il
danno costituito dal c.d. interesse negativo ed ora, anche qualora l’interessato non
sia riuscito a dimostrare l’esistenza di un danno patrimoniale e sempre che si tratti
49
La norma prevede che “nel caso in cui anche il titolare del potere sostitutivo non emani il
provvedimento nel termine di cui all’articolo 2, comma 9 ter, della legge 7 agosto 1990, n. 241, o
non liquidi l’indennizzo maturato fino alla data della medesima liquidazione, l’istante può proporre
ricorso ai sensi dell’articolo 117 del codice del processo amministrativo di cui all’allegato 1 al
decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, e successive modificazioni, oppure, ricorrendone i
presupposti, dell’articolo 118 dello stesso codice”.
37
di procedimenti relativi all’esercizio dell’attività di impresa, è tenuta a versare
l’indennità di cui al comma 1 bis dell’art. 2 bis l. n. 241 del 199050.
3. Il tempo nel processo amministrativo.
Il tempo assume molta importanza anche nello svolgimento del processo in
quanto dalla sua durata possono derivare effetti sostanziali incidenti sull’esercizio
dei pubblici poteri e sulle situazioni giuridiche soggettive nello stesso coinvolte.
Ritengo possa essere interessante concentrare l’attenzione su tre questioni in
cui viene in rilievo, sotto diversi profili, il rapporto tra il tempo e lo svolgimento
della funzione giurisdizionale amministrativa.
3.1 Il tempo come misura del danno e l’esigenza di tempestività del giudizio.
In precedenza, è stato sottolineato come, con la astratta risarcibilità anche del
danno da mero ritardo, il tempo, da elemento di parametrazione della entità del
danno derivante dalla lesione del bene della vita oggetto dell’istanza pretensiva,
viene considerato e tutelato come un autonomo bene della vita, la cui lesione, che
naturalmente più si protrae più è ampia, ove il danno sia rigorosamente provato,
determina una responsabilità amministrativa di natura aquiliana.
Il tempo, però, svolge un ruolo essenziale nel processo anche nell’ipotesi di
azione di annullamento di un provvedimento lesivo di un interesse legittimo
oppositivo
o
pretensivo,
atteso
che
l’irreversibile
esecuzione
dell’atto
amministrativo, impedendo la tutela dell’interesse legittimo secondo la ordinaria
50
E. Follieri, La penalità di mora nell’azione amministrativa, cit., sostiene che con l’art. 28 .d.l. n.
69 del 2013 si assegna al ritardo un rilievo svincolato anche dall’interesse al bene della vita e ritiene
che l’indennizzo da mero ritardo sia una sanzione che assiste e tutela l’interesse meramente
procedimentale.
38
scansione dell’annullamento dell’atto e della conformazione dell’attività
amministrativa successiva, se, da un lato, rende possibile l’azione risarcitoria per
la tutela dell’interesse legittimo che altrimenti ne rimarrebbe privo, dall’altro, si
concreta oggettivamente in un vulnus per l’interesse pubblico, che sarebbe stato
meglio e senza incombenze risarcitorie perseguito con la riedizione dell’azione
amministrativa come conformata dalle statuizioni contenute nella pronuncia
giurisdizionale di annullamento dell’atto.
Ne consegue che l’elemento temporale non è per nulla irrilevante ai fini in
discorso, nel senso che molto spesso è proprio il decorrere del tempo a rendere
irreversibile l’esecuzione dell’atto impugnato ovvero, nei provvedimenti di durata,
a rendere più ampio lo spazio temporale in relazione al quale l’atto lesivo produce
i suoi effetti pregiudizievoli, con conseguente necessità di tutelare la situazione
lesa attraverso il rimedio risarcitorio.
Da tali considerazioni - rilevato che il termine decadenziale per l’impugnazione
dei provvedimenti è finalizzato ad attribuire certezza ai rapporti giuridici in cui è
parte un’amministrazione nell’esercizio del potere pubblico - emerge con forza
anche l’esigenza che il giudizio amministrativo abbia uno svolgimento tempestivo,
ed a tale logica sembrano infatti rispondere le norme processuali introdotte all’art.
23 bis l. n. 1034 del 1971 ed oggi contenute negli artt. 119 e 120 c.p.a., in quanto
da una sua eccessiva diluizione nel tempo non solo possono essere sacrificate le
aspettative delle parti ad una celere definizione della vicenda giudiziaria, ma può
anche derivare che l’eventuale decisione di annullamento non sia più idonea, per
l’esecuzione del provvedimento medio tempore avvenuta e non più reversibile, a
rendere piena tutela al ricorrente vittorioso, cui residua perciò la sola strada del
39
risarcimento dei danni con conseguente vulnus, oltre che per l’interesse privato,
per l’interesse pubblico51.
L’impossibilità di conseguire un’effettiva utilità dalla statuizione di
annullamento per il verificarsi di circostanze sopravvenute che siano
oggettivamente apprezzabili e la conseguente necessità di avvalersi dello
strumento risarcitorio per tutelare la posizione, costituisce anch’essa un’ipotesi
tanto più frequente quanto più ampio è l’arco temporale durante il quale il giudizio
impugnatorio trova la sua definizione52.
La giurisprudenza sia del Consiglio di Stato sia dei Tribunali Amministrativi
Regionali, anche nel regime precedente all’entrata in vigore del codice, nel caso in
cui, in materia di appalti, all’annullamento dell’aggiudicazione non sarebbe potuto
seguire per un fatto oggettivo un ulteriore atto di aggiudicazione in favore
dell’impresa ricorrente, ha ritenuto possibile la dichiarazione di improcedibilità
della domanda di annullamento e la valutazione nel merito, con conseguente
accertamento incidenter tantum dell’illegittimità o meno dell’atto, della domanda
volta a conseguire la condanna al risarcimento del danno53.
La consapevolezza che l’ampiezza del raggio d’azione del rimedio risarcitorio,
con conseguente vulnus anche per l’interesse pubblico, dipende anche e
prevalentemente dall’intervallo di tempo compreso tra l’adozione dell’atto
illegittimo e lesivo ed il suo annullamento in sede giurisdizionale, in definitiva,
accresce l’esigenza di un tempestivo svolgimento del giudizio amministrativo.
51
Sia consentito il richiamo a R. Caponigro, La pregiudiziale amministrativa tra l’essenza
dell’interesse legittimo e l’esigenza di tempestività del giudizio, cit.;
52
L’art. 34, comma 3, c.p.a. prevede proprio che, quando nel corso del giudizio, l’annullamento del
provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità
dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori.
53
Cfr. Cons. St., VI, 14 marzo 2005, n. 1547; T.A.R. Lazio, Roma, I, 19 novembre 2007, n. 11330.
40
3.2 Il rilievo del tempo nell’interesse al ricorso.
Il valore del tempo nell’azione amministrativa può intersecarsi con i principi
generali del processo amministrativo.
Il tema della particolare onerosità dei procedimenti amministrativi54 è stato
trattato dalla giurisprudenza in materia antitrust con riferimento al problema
dell’ammissibilità di un ricorso proposto avverso l’atto di comunicazione di avvio
di un procedimento di abuso di posizione dominante nonché avverso l’esercizio
del relativo potere ispettivo55.
Il ricorso è stato ritenuto ammissibile56 laddove gli atti impugnati, sebbene a
carattere endoprocedimentale, abbiano evidenziato una valenza di per sé lesiva
dell’interesse legittimo dedotto in giudizio, nel senso che il loro eventuale
annullamento avrebbe potuto produrre un’utilità non più conseguibile attraverso
l’annullamento del provvedimento conclusivo del procedimento, e tale valenza
immediatamente ed autonomamente lesiva è stata riconnessa sia al momento in cui
l’Autorità ha ritenuto sussistere la propria competenza per l’esercizio del potere,
54
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con le sentenze da n. 11 a n. 16 dell’11 maggio 2012,
ha affrontato il tema della actio finium regundorum tra l’Autorità Garante della Concorrenza e del
Mercato ed altre Autorità indipendenti in relazione a procedimenti aventi come finalità la tutela dei
consumatori ed ha posto in rilievo in via preliminare che la questione del conflitto positivo di
competenza tra due Autorità indipendenti, che ritengano entrambe di avere competenza nella
materia operando in tal senso, solleva il problema della coerenza di un sistema del genere con il
principio del buon andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost., atteso che i procedimenti
in discorso sono estremamente onerosi sia per l’amministrazione sia per i privati e che gli operatori
potrebbero essere sottoposti a duplici procedimenti per gli stessi fatti, con possibili conclusioni
anche differenti tra le due Autorità ed evidente violazione del principio di proporzionalità che si
verrebbe a configurare nel caso di cumulo materiale delle sanzioni da parte di entrambe le Autorità,
55
TAR Lazio, Roma, I, 26 gennaio 2012, n. 865.
56
Gli atti endoprocedimentali sono considerati, in linea di massima, privi di autonoma ed
immediata lesività in quanto la stessa è destinata ad attualizzarsi soltanto con l’adozione del
provvedimento finale afflittivo, per cui gli ipotizzati vizi di legittimità dell’atto possono essere fatti
valere, in via derivata, in sede di impugnazione del provvedimento conclusivo del procedimento sul
quale possono riverberarsi con effetto viziante.
41
imponendo in tal modo ai destinatari dell’azione l’assolvimento degli obblighi di
collaborazione di cui all’art. 14, co. 5, l. n. 287 del 1990, sia al momento in cui
l’Autorità ha deciso di autorizzare l’ispezione, acquisendo documentazione
accessibile, sia pure nei limiti di legge, ai soggetti denuncianti, tra cui una Società
concorrente57.
L’ammissibilità dell’impugnativa relativa all’atto di avvio del procedimento è
stata circoscritta all’an dell’esercizio del potere amministrativo ed è stato
evidenziato che, in una valutazione complessiva degli interessi pubblici e privati
in gioco, l’eventuale accertamento in questa sede di una carenza di potere in
concreto consentirebbe alla stessa Autorità di non proseguire, evitando così un
antieconomico dispendio di mezzi amministrativi, un’attività alla stessa non
consentita.
La caratteristica della estrema onerosità, sia per l’amministrazione che per i
privati, dei procedimenti avviati dalle Autorità indipendenti - posta tra l’altro in
rilievo dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato in via preliminare nelle
sentenze del 2012 sull’actio finium regundorum tra Autorità antitrust e AGCom al
fine di evidenziare il problema della coerenza di un sistema in cui due Autorità
avrebbero competenze sovrapposte con il principio costituzionale di buon
andamento dell’amministrazione - ha assunto pertanto rilievo non solo sul piano
57
Nei confronti dell’eventuale provvedimento conclusivo del procedimento che accerti l’esistenza
di una fattispecie di abuso di posizione dominante irrogando la relativa sanzione pecuniaria, il bene
della vita che l’impresa interessata tende a conseguire è costituito dal venire meno
dell’accertamento dell’illiceità della condotta e della conseguente sanzione, mentre, nei confronti
dell’atto di avvio del procedimento, l’utilità sperata è costituita in primo luogo dall’arresto
procedimentale, vale a dire dal non essere investito da quegli obblighi di collaborazione che nei
procedimenti in materia antitrust sono particolarmente intensi e sanzionati, ai sensi dell’art. 14, co.
5, l. 287 del 1990, in caso di rifiuto od omissione senza giustificato motivo, in modo rilevante, così
come nei confronti dell’atto autorizzativo dell’ispezione, il bene della vita è costituito dal venire
meno dell’accessibilità, sia pure nei limiti di cui all’art. 13 d.P.R. n. 217 del 1998, ai denuncianti dei
documenti acquisiti.
42
sostanziale, ma anche sul piano processuale, determinando, nel caso in cui sia
contestata
la
competenza
dell’Autorità
ad
avviare
il
procedimento,
un’anticipazione della tutela giurisdizionale dal provvedimento conclusivo del
procedimento, momento in cui gli interessi di cui è chiesta tutela risulterebbero già
irrimediabilmente compromessi, alla comunicazione di avvio del procedimento da
parte dell’Autorità di cui il destinatario eccepisca l’incompetenza e, quindi, la
carenza di potere in concreto, momento in cui la tutela potrebbe ancora preservare
gli interessi dedotti in giudizio ed il buon andamento dell’amministrazione.
Va da sé, pertanto, che il tempo dell’azione amministrativa, nel caso di
procedimenti complessi, è stato ritenuto essere un valore così elevato, sia per
l’amministrazione procedente sia per il destinatario su cui gravano gli obblighi di
collaborazione, da poter essere configurato esso stesso come bene della vita da
tutelare in via autonoma in sede giurisdizionale.
3.3 Il dominus del ricorso ed i tempi del processo.
Per lunghi anni ed ancora oggi, coerentemente con la connotazione soggettiva
della giurisdizione amministrativa, si è soliti affermare che il ricorrente è il
dominus del ricorso.
Tale principio - in linea con l’evoluzione del giudizio amministrativo da mero
giudizio sulla legittimità dell’atto a giudizio sulla correttezza sostanziale della
disciplina dell’intero rapporto controverso – deve essere attentamente interpretato.
Nella complessità dei rapporti connaturata ad un mondo sociale ed economico
sempre più evoluto, la ragionevole durata del processo, come indicato dall’art. 11
della Costituzione, espressamente richiamato dall’art. 2 c.p.a., costituisce un
valore irrinunciabile.
43
Il tempo, come detto, è un valore anche economico e, sovente, la durata del
processo incide di per sé, a prescindere dal suo esito finale, sulla disciplina
interinale del rapporto e sui connessi interessi patrimoniali.
Va da sé che ciò possa accadere, come indicato nel paragrafo 3.1, nel caso di
rapporti disciplinati da atti rivelatisi illegittimi ed annullati in sede giurisdizionale,
fattispecie in cui tutti gli effetti irreversibilmente prodotti medio tempore non
possono che essere tutelati attraverso il risarcimento per equivalente patrimoniale
del danno ingiusto, ma può accadere anche, sia pure meno frequentemente,
nell’ipotesi in cui sia la stessa parte ricorrente ad avere interesse ad una più lunga
definizione del giudizio al fine di lasciare medio tempore immutato lo status quo
ante.
Un’ipotesi paradigmatica può configurarsi in una materia delicata quale quella
degli appalti, ove il gestore in carica di un servizio o di una fornitura, che non è
risultato aggiudicatario della gara per il successivo periodo, nell’impugnare gli atti
della procedura concorsuale, abbia un interesse concreto alla prorogatio del
rapporto in essere più che alla sollecita definizione del giudizio.
In generale, un interesse della parte ricorrente a che il giudizio non si concluda
celermente può sussistere in ipotesi di accoglimento dell’istanza cautelare58
ovvero quando, in una controversia in materia di appalti, nelle more del giudizio
cautelare o di merito, la stazione appaltante non dia comunque corso al rapporto
con l’aggiudicatario sub judice lasciando inalterato lo status quo ante.
Ne consegue che, interpretando il principio secondo cui il ricorrente è dominus
del rapporto nel senso di ritenere che lo stesso abbia anche la disponibilità della
58
La previsione di cui all’art. 55, comma 11, c.p.a., secondo cui l’ordinanza con cui è disposta una
misura cautelare fissa la discussione del ricorso nel merito, in tale prospettiva, va salutata come una
norma di grande civiltà giuridica e sociale.
44
gestione dei ritmi del processo, potrebbe determinarsi una lesione al valore tempo
ed un ingiustificato vulnus agli interessi pubblici e privati delle controparti
coinvolti nel rapporto amministrativo.
Non a caso, la giurisprudenza ha già avuto modo di chiarire che un’istanza di
rinvio, quand’anche sorretta dall’allegazione di un problema di salute dell’unico
difensore costituito, in assenza di determinate condizioni, non può essere accolta
perché, altrimenti, risulterebbero gravemente vulnerati il principio di ragionevole
durata del processo e il pari ordinato diritto delle controparti alla difesa, il quale
implica l’interesse sia ad una decisione celere sia alla previa e tempestiva
informazione preventiva di qualunque eventuale causa di rinvio59.
In definitiva, ad avviso di chi scrive, può continuare ad affermarsi che il
ricorrente è il dominus del ricorso nel senso che è l’unico soggetto, in quanto
titolare delle condizioni soggettive dell’azione, che può introdurre il giudizio e
decidere di rinunciare allo stesso, mentre non è affatto il dominus del processo, i
cui tempi e le cui modalità devono essere dettate dal giudice nel rispetto di tutti gli
interessi coinvolti nel rapporto amministrativo sottoposto al suo giudizio60.
59
Cfr. CGARS, sentenza 5 gennaio 2011, n. 11, la quale – specificando che, nell’ipotesi di una
parte costituita con più difensori, l’impedimento di un solo avvocato non potrà mai condurre a un
differimento della trattazione, a meno che non consti in tal senso l’accordo di tutte le parti costituite
e sempre che il collegio giudicante ritenga detta concorde istanza meritevole di positivo vaglio in
relazione alla natura ed allo stato della controversia – ha rappresentato che il dovere di
cooperazione obbliga il difensore, il quale sia nelle obiettive condizioni di non potere comparire, di
rispettare le altrui aspettative di celebrazione del giudizio e comporta anche l’onere di porre in
essere ogni attività, materiale o giuridica, necessaria e sufficiente a rendere ugualmente possibile
tale celebrazione o, in alternativa, di giustificare le ragioni dell’indispensabilità del rinvio,
indispensabilità che non si esaurisce nella mera allegazione di un ostacolo alla presenza in udienza.
60
Cfr. TAR Lazio, Roma, II Ter, 28 gennaio 2014, n. 1086, secondo cui le disposizioni in materia
non impongono al decidente di differire la discussione di un ricorso ogniqualvolta un avvocato si
trovi nell’impossibilità di presentarsi personalmente in udienza per assolvere al proprio mandato.
Un tale obbligo, che procede dal generale principio del contraddittorio e dalla tutela del diritto
inviolabile alla difesa, si configura soltanto nei casi in cui la richiesta di rinvio non sia in contrasto
con il dovere di ogni parte di cooperare alla ragionevole durata del processo, tanto più nelle ipotesi
in cui sia stata accolta l’istanza cautelare e sussista l’esigenza, alla quale è ispirata anche la norma
di cui all’art. 55, comma 11, c.p.a. , di definire con sollecitudine il merito della controversia.
45
In altri termini, solo la parte ricorrente, in una giurisdizione ancora a carattere
soggettivo, può determinare la nascita del giudizio, con la proposizione del
ricorso, e la sua estinzione, ma non può unilateralmente orientare i tempi e le
modalità del giudizio, che restano nella disponibilità del giudice ed affidati al suo
prudente apprezzamento in ragione delle complessive esigenze del rapporto.
4. Conclusioni.
La consapevolezza che il tempo è un essenziale valore sociale, economico e
giuridico di cui occorre tenere conto nella disciplina di ogni rapporto è oramai
acquisita.
La sua caratteristica di bene della vita, particolarmente prezioso in quanto
risorsa scarsa, viene in rilievo, per ragioni diverse, tanto per il cittadino quanto per
la pubblica amministrazione, e la stessa assume rilievo sia nello svolgimento
dell’attività amministrativa sia nello svolgimento della relativa funzione
giurisdizionale.
Il tempo è stato per la prima volta considerato a livello normativo un bene della
vita, la cui lesione può determinare il risarcimento del conseguente danno
patrimoniale, con l’introduzione, attraverso la legge n. 69 del 2009, della
risarcibilità del danno da ritardo nella conclusione del procedimento.
In particolare, accanto al risarcimento del danno per la ritardata o omessa
attribuzione dell’utilità richiesta con l’istanza pretensiva, la novella legislativa,
secondo l’interpretazione preferibile, ha considerato, ed in questo riposa la sua
vera originalità, che per il caso di mero ritardo, e cioè per l’ipotesi in cui non ci
siano i presupposti per l’attribuzione del bene della vita richiesto, il tempo sia esso
stesso un bene della vita la cui lesione può essere risarcita.
46
Pertanto, sulla base del nuovo corpus normativo, sembra ora possibile
ipotizzare che, con la presentazione di un’istanza all’amministrazione che generi
un obbligo di procedere e provvedere, il richiedente divenga al tempo stesso
titolare di una posizione giuridica di interesse legittimo pretensivo, avente ad
oggetto la specifica utilità richiesta, e di una posizione giuridica di diritto
soggettivo alla tempestiva conclusione del procedimento, in cui il bene della vita è
costituito dal tempo.
Peraltro, ritengo che il tempo come bene della vita di per sé tutelato possa
accompagnarsi anche all’interesse legittimo oppositivo alla conservazione di una
specifica utilità nei procedimenti d’ufficio.
La constatazione che il tempo è tutelato come bene della vita solo laddove vi
sia un inadempimento dell’amministrazione e cioè un’inerzia in relazione a
procedimenti che obbligatoriamente devono essere avviati e conclusi offre lo
spunto per ritenere che, accanto a questa condivisibile impostazione, il legislatore
ha ultimamente introdotto delle modifiche che sembrano poter trasformare il
silenzio dell’amministrazione da fenomeno rispetto al quale vi era prima una
scarsa attenzione per il privato a fenomeno rispetto al quale vi è forse oggi un
eccesso di tutela del privato.
Infatti, la legge n. 69 del 2012 ha previsto la conclusione del procedimento con
un provvedimento redatto in forma semplificata per le ipotesi di manifesta
irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza dell’istanza, il che, a
prescindere dal plausibile intento di semplificazione della norma, finisce in
concreto con l’ampliare l’area delle fattispecie in cui sussiste l’obbligo di
procedere e provvedere in quanto la giurisprudenza consolidata aveva escluso,
almeno per la manifesta infondatezza, tale obbligo.
47
Parimenti, il d.l. n. 69 del 2013, convertito con modifiche con l. n. 98 del 2013,
nel prevedere un indennizzo per il mero ritardo nella conclusione del
procedimento con funzione sanzionatoria e, quindi, svincolato dalla prova del
danno, appare idoneo a generare un obbligo di carattere patrimoniale anche a
fronte di istanze pretestuose, atteso che, come evidenziato, l’obbligo di concludere
il procedimento è stato sostanzialmente esteso dalla legge n. 69 del 2012 anche
alle istanze manifestamente irricevibili, inammissibili, improcedibili e infondate.
Il tempo assume rilievo come bene della vita, sia pure in un'accezione diversa
rispetto a quella tradizionale, anche nello svolgimento del processo amministrativo
Basti pensare ad un giudizio di impugnazione di un provvedimento lesivo di un
interesse legittimo, oppositivo o pretensivo, ipotesi in cui più il giudizio si protrae
nel tempo più l’atto eventualmente illegittimo è in grado di produrre effetti
irreversibili; in tal caso, per il segmento temporale in cui l’atto ha prodotto effetti
irreversibili, residua all’interessato la sola tutela risarcitoria del danno per
equivalente patrimoniale con conseguente vulnus non solo per l’interesse privato
ma anche per l’interesse pubblico, in quanto il rapporto si trova ad essere medio
tempore disciplinato in modo illegittimo e le finanze pubbliche sono tenute a
corrispondere somme di denaro a titolo risarcitorio quando una più celere
definizione del giudizio avrebbe consentito la soddisfazione in forma specifica
dell’interesse materiale dedotto in giudizio ed evitato o limitato la responsabilità
risarcitoria.
L’antieconomicità e l’inutilità dello svolgimento di procedimenti complessi,
che sottraggono tempo prezioso alle amministrazioni procedenti ed impongono
adempimenti illegittimi ed onerosi ai destinatari, dovrebbero consentire di
anticipare la tutela giurisdizionale, in determinate circostanze e quando sia
48
contestata la competenza a procedere, dal provvedimento conclusivo alla
comunicazione di avvio del procedimento d’ufficio.
L’osservazione che il tempo è un bene prezioso e che, quindi, la celerità della
definizione del giudizio costituisce un elemento importante per rendere un
migliore servizio giustizia alla collettività consente inoltre di interpretare il
principio secondo cui il ricorrente è il dominus del ricorso nel senso che, in quanto
titolare delle condizioni soggettive dell’azione, egli ha il potere di far nascere o
morire il processo, ma non ha anche la disponibilità dei tempi e delle modalità
dello stesso che restano affidati al prudente apprezzamento del giudice in
considerazione dei molteplici interessi pubblici e privati coinvolti nel rapporto
controverso.
°°°°°°
Sono ormai lontani gli anni in cui contro i comportamenti omissivi delle
pubbliche amministrazioni l’ordinamento non prevedeva espressamente alcuna
tutela e la giurisprudenza si affannava nella ricerca di interpretazioni che potessero
colmare tale lacuna.
Gli strumenti di tutela dell’interesse legittimo, infatti, postulavano che la sua
lesione fosse avvenuta per mezzo dell’adozione del provvedimento, ma non
contemplavano l’ipotesi in cui si fosse consumata attraverso l’inerzia
dell’amministrazione, tanto da rendere necessaria la costruzione pretoria di
un’azione atipica quale quella c.d. di impugnazione del silenzio rifiuto.
Il legislatore dell’ultima stagione, dapprima, ha stabilito termini per la
conclusione dei procedimenti amministrativi da avviare obbligatoriamente, poi ha
introdotto l’apposito rimedio giurisdizionale dell’azione avverso il silenzio
individuando anche le ipotesi in cui il giudice possa conoscere della fondatezza
49
della pretesa, quindi ha previsto una responsabilità risarcitoria per il mancato
esercizio dell’attività amministrativa obbligatoria introducendo il danno da mero
ritardo e, infine, sembra avere esteso l’area dell’obbligo di provvedere rispetto a
quella individuata dalla giurisprudenza ed ha stabilito, in relazione all’attività di
impresa, l’indennizzabilità per il mero ritardo nell’adozione del provvedimento.
Ritengo che l’evoluzione normativa di questi ultimissimi anni possa portare ad
una tutela addirittura sovrabbondante del privato, cittadino o impresa, che abbia
rivolto all’amministrazione un’istanza senza ottenere una tempestiva risposta.
Ciò in quanto, ampliandosi l’area dell’obbligo di provvedere, si costringe
l’amministrazione ad attività che potrebbero rivelarsi anche inutili ed
antieconomiche e, prevedendosi un obbligo di indennizzo svincolato dalla prova
del danno, può sorgere un obbligo indennitario anche a fronte di istanze
pretestuose.
Il concetto di tempo nei rapporti pubblicistici è stato trascurato per molto
tempo, mentre ora viene esaltato e la norma introduttiva del’obbligo indennitario
da mero ritardo, optando per una presunzione assoluta, vale a dire svincolata dalla
prova del danno, che il tempo sia un bene della vita la cui lesione va comunque
ristorata, sembra essere in grado di generare effetti controproducenti, potendo
esporre le amministrazioni ad una pluralità di istanze poco significative.
Il grande scrittore e pensatore russo Fedor Dostoevskij era solito tratteggiare i
personaggi dei suoi romanzi come figure costantemente “al limite”, al fine di
esplorare e indagare il confine finale delle dinamiche umane di azione e reazione.
Non vorrei che il concetto di tempo nell’azione amministrativa fosse
disciplinato sempre “al limite”, con un’oscillazione tra il poco ed il troppo, mentre
a servire meglio gli interessi pubblici e privati servirebbe il giusto.
50
Roberto Caponigro
Consigliere TAR Lazio
51