IL TEMPO COME BENE DELLA VITA1 di Roberto Caponigro 1. Premessa – 2. Il tempo nell’azione amministrativa – 2.1 La durata del procedimento – 2.2 L’attività amministrativa obbligatoria – 2.3 La responsabilità pubblica da mero ritardo – 3. Il tempo nel processo amministrativo – 3.1 Il tempo come misura del danno e l’esigenza di tempestività del giudizio – 3.2 Il rilievo del tempo nell’interesse al ricorso – 3.3 Il dominus del ricorso ed i tempi del processo - 4. Conclusioni. 1. Premessa Il tempo costituisce elemento di parametrazione di qualsiasi vicenda umana, sicché rileva anche per ogni evento della vita di relazione che assuma un significato giuridico. L’arco temporale in cui le attività sono svolte misura tra l’altro la qualità, in relazione allo specifico profilo dell’efficienza, sia dell’azione amministrativa sia della funzione giurisdizionale. Il rapporto tra l’esercizio del potere amministrativo e i termini del procedimento, nel corso degli ultimi anni, è stato al centro di un crescente interesse da parte della dottrina e della giurisprudenza, reso ancora più vivo dalle recenti modifiche normative. 1 Il presente lavoro riproduce ed amplia la relazione svolta il 26 settembre 2013 al convegno organizzato presso il Consiglio di Stato sul tema “giustizia amministrativa e crisi economica”. 1 La durata della formazione e della conseguente manifestazione del potere pubblico, vale a dire il ruolo del tempo nell’azione amministrativa e nella traduzione del potere in atti aventi natura provvedimentale, assume pregnante rilievo nella disciplina del procedimento amministrativo e nella conseguente eventuale responsabilità risarcitoria o indennitaria dell’amministrazione inadempiente. Il tempo assume notevole rilievo anche nello svolgimento della funzione giurisdizionale amministrativa in quanto dalla durata del processo possono derivare effetti sostanziali incidenti sull’esercizio dei pubblici poteri e sulla tutela degli interessi pubblici e privati coinvolti nel rapporto amministrativo in contestazione. 2. Il tempo nell’azione amministrativa. 2.1 La durata del procedimento. L’analisi della durata dei procedimenti amministrativi2 deve tenere conto del fatto che - al di là dell’ipotesi scolastica in cui il rapporto intercorre tra un’unica amministrazione procedente, che agisce per il perseguimento di uno specifico interesse pubblico, ed un unico interesse privato di cui è titolare il destinatario dell’azione, vale a dire il soggetto nella cui sfera giuridica il procedimento è destinato ad incidere - le relazioni nell’ambito delle quali sono esercitate le funzioni pubbliche sono quasi sempre molto complesse, per cui l’interesse pubblico primario perseguito dall’autorità procedente convive, ora configgendo 2 Il procedimento amministrativo - secondo la celebre definizione attribuibile a Feliciano Benvenuti, di cui tra la vastissima produzione, si richiama in particolare, Semantica di funzione, in Jus, 1985 – è forma della funzione, è cioè il modo attraverso il quale il potere in astratto conferito si traduce in atti di disciplina dei singoli rapporti. 2 ora collimando, con una pluralità di altri interessi, sia privati, sovente in contrapposizione tra loro, sia pubblici, di cui sono portatrici varie amministrazioni, a volte in posizione asimmetrica e divergente. Di talché, il corretto perseguimento dell’interesse pubblico affidato alle cure dell’Autorità procedente emerge dalla complessiva valutazione e dalla relativa ponderazione dell’intera moltitudine di interessi incisi dall’esercizio del potere e coinvolti nel rapporto amministrativo che il provvedimento va a disciplinare. La legge generale sul procedimento amministrativo è finalizzata, tra l’altro, a fornire certezze sui tempi dell’azione amministrativa. Il mancato esercizio del potere nei termini stabiliti dalle norme, laddove l’esercizio dello stesso sia obbligatorio, costituisce una violazione alla quale l’ordinamento fa conseguire determinati rimedi a tutela del titolare della posizione giuridica coinvolta e determinate responsabilità per l’amministrazione inerte3. La disciplina dei termini entro i quali il procedimento deve concludersi è dettata dall’art. 2 l. n. 241 del 1990, il quale, al secondo comma, dispone che, nei casi in cui non sia diversamente disposto, i procedimenti amministrativi di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali devono concludersi entro il termine di trenta giorni. Il primo comma dello stesso art. 2 detta la norma fondamentale sull’obbligo di provvedere in quanto dispone che, ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso, specificando che, se ravvisano la manifesta 3 Il silenzio serbato dall’amministrazione, infatti, è qualificato come silenzio rifiuto o silenzio inadempimento, termine, quest’ultimo, che evoca chiaramente un obbligo non rispettato. 3 irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda, le pubbliche amministrazioni concludono il procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo4. Ne consegue che l’obbligo di concludere il procedimento nei termini stabiliti dalla norma sussiste solo quando vi è l’obbligo di avviare il procedimento, atteso che l’esercizio del potere amministrativo non sempre è obbligatorio5. L’obbligo di concludere un procedimento – la cui violazione comporta la possibilità di adire il giudice ai sensi dell’art. 2 l. n. 241 del 1990 e dell’art. 31 c.p.a. per la declaratoria di illegittimità del silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza proposta – postula, in altri termini, che il procedimento debba essere doverosamente avviato6. Pertanto, una volta pervenuta l’istanza di parte, l’amministrazione deve in primo luogo valutare se sia tenuta o meno ad esercitare il potere, vale a dire se la decisione di avviare il procedimento è vincolata o discrezionale e, solo nella prima ipotesi, deve ritenersi sussistente l’obbligo di concludere il procedimento nei termini di legge. Parimenti, ove sussistano circostanze che potrebbero determinare l’avvio di un procedimento d’ufficio, l’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso nei termini di legge sussiste nel momento in cui Il comma è stato così modificato dall’art. 1, comma 38, della legge 6 novembre 2012, n. 190. Il principio secondo cui l’obbligo di provvedere sussiste solo quando vi sia l’obbligo di procedere è confermato dalle novelle legislative del 2013 contenute nel c.d. decreto del fare. In particolare, le previsioni indennitarie introdotte dall’art. 28 del decreto legge n. 69 del 2013, modificato dalla legge di conversione n. 98 del 2013, come più specificamente si vedrà infra nel testo, postulano che per il procedimento ad istanza di parte il cui termine di conclusione è stato violato sussista l’obbligo di pronunziarsi. 6 Cfr. Cons. St., IV, 24 maggio 2013, n. 2826. 4 5 4 l’amministrazione abbia ritenuto di dover procedere comunicando il suo avvio ai diretti interessati. In sostanza, a seguito di un’istanza di parte o di circostanze che potrebbero indurre l’amministrazione ad agire d’ufficio, dovrebbe essere sempre svolto un procedimento preliminare di valutazione dell’obbligo di procedere. 2.2 L’attività amministrativa obbligatoria. La giurisprudenza ha cercato di individuare, su un piano generale, le fattispecie per le quali sorge in capo in capo alla pubblica amministrazione un obbligo di pronunciarsi sulle istanze dei privati7. L’obbligo di provvedere sussiste, anzitutto, quando una fonte normativa espressamente attribuisce al privato la facoltà di presentare un’istanza volta a conseguire una determinata finalità, così riconoscendogli senz’altro la titolarità di una situazione qualificata e differenziata, attributiva della pretesa ad ottenere una risposta dall’Autorità competente. Peraltro, anche ove non vi sia una norma specifica che espressamente riconosca al privato tale facoltà, l’obbligo di provvedere, in linea di massima, può ritenersi configurato, in presenza di una situazione in altro modo differenziata e qualificata, in base al principio generale della doverosità dell’azione amministrativa ed alle regole, altrettanto generali, di buona amministrazione, ragionevolezza e buona fede. Un privato può chiedere l’adozione di diverse categorie di atti amministrativi, sicché occorre verificare, in relazione a ciascuna di esse, se esiste, a fronte della 7 La ricostruzione sistematica seguita nel testo è in larga misura contenuta nella decisione del Consiglio di Stato, VI, 11 maggio 2007, n. 2318. 5 sua istanza, il correlativo obbligo di provvedere in capo alla pubblica amministrazione. In particolare, è possibile operare una distinzione tra istanze volte ad ottenere: 1) atti di contenuto favorevole in quanto ampliativi della sfera giuridica del richiedente; 2) atti di autotutela in quanto relativi al riesame di atti sfavorevoli precedentemente emanati; 3) atti di estensione ultra partes del giudicato; 4) atti diretti a produrre effetti sfavorevoli nei confronti di terzi, dall’adozione dei quali il richiedente possa trarre indirettamente vantaggi. Per la prima categoria, l’istanza diretta ad ottenere un provvedimento favorevole determina un obbligo di provvedere quando chi la presenta sia titolare di un interesse legittimo pretensivo. Non può essere posto in dubbio, infatti, che colui il quale ha un interesse differenziato e qualificato ad un bene della vita oggetto di potere amministrativo, per il cui conseguimento, quindi, è necessario l’esercizio della potestà provvedimentale, è titolare di una situazione giuridica che lo legittima, pur in assenza di una norma specifica che gli attribuisca un autonomo diritto di iniziativa, a presentare un’istanza dalla quale nasce in capo alla pubblica amministrazione quantomeno un obbligo di pronunciarsi8. Tuttavia, l’obbligo di provvedere è stato ritenuto assente in concreto quando, ad esempio, la domanda inoltrata dal privato sia manifestamente infondata o esorbitante dall’ambito delle pretese astrattamente riconducibili al rapporto amministrativo. 8 Cfr. Cons. St., IV, 5 marzo 2013, n. 1349, secondo cui, in linea generale, il rito sul silenzio si applica alle fattispecie nelle quali, a fronte di una potestà autoritativa dell’amministrazione, il privato è titolare di una posizione giuridicamente tutelabile e quindi di un interesse legittimo, a prescindere dal fatto che l’attività consista nell’adozione di atti discrezionali o vincolati. 6 Nell’ipotesi in cui un’istanza sia manifestamente infondata, risulterebbe del tutto inutile ed antieconomico, considerato che il tempo di svolgimento dell’azione amministrativa è un bene prezioso per la stessa autorità procedente, obbligare l’amministrazione a provvedere9. Con riferimento alla seconda categoria, secondo un indirizzo giurisprudenziale consolidato, l’istanza del privato mirante ad ottenere il riesame da parte della pubblica amministrazione di un atto autoritativo, non impugnato tempestivamente dal medesimo ovvero impugnato con esito negativo o impugnato in un giudizio pendente, non comporta, di regola, la configurazione di un obbligo di riesame, in quanto tale obbligo pregiudicherebbe le ragioni di certezza delle situazioni giuridiche e di efficienza gestionale che sono alla base dell’agire autoritativo della pubblica amministrazione ed il principio della inoppugnabilità dopo il termine di decadenza dei relativi atti10. I provvedimenti di autotutela, d’altra parte, sono manifestazione dell’esercizio di un potere tipicamente discrezionale che l’amministrazione non ha alcun obbligo di attivare e, qualora intenda farlo, deve valutare la sussistenza o meno di un interesse pubblico che giustifichi la rimozione dell’atto, valutazione della quale essa sola è titolare e che non può ritenersi dovuta nel caso di una situazione già definita con provvedimento inoppugnabile. Ne consegue che, una volta che il privato, o per aver esaurito i mezzi di impugnazione che l’ordinamento gli garantisce o per aver lasciato trascorrere 9 Cfr. Cons. St., IV, 28 maggio 2013, n. 2902; Cons. St., IV, 12 marzo 2010, n. 1468. Alcuni indirizzi interpretativi, meno consolidati, sostengono che, in particolarissime circostanze fattuali, dovrebbe riconoscersi l’obbligo di provvedere dell’amministrazione, anche a fronte di mere richieste sollecitatorie degli interessati. Si tratterebbe di ipotesi contrassegnate dalla presenza di note qualificanti, come la disparità palese tra situazioni analoghe, o l’ingiustizia della situazione esposta dal ricorrente, che richiedono il doveroso intervento correttivo dell’amministrazione. 10 7 senza attivarsi il termine previsto a pena di decadenza, si trovi di fronte ad un provvedimento inoppugnabile, può solo sollecitare l’esercizio del potere d’ufficio da parte dell’amministrazione, che non ha alcun obbligo di rispondere all’istanza di riesame. Anche le istanze di estensione ultra partes del giudicato di annullamento di un atto amministrativo non generano alcun obbligo di provvedere in quanto, diversamente, si realizzerebbe una elusione del termine decadenziale previsto per l’impugnazione degli atti amministrativi in sede giurisdizionale. Per altro verso, la discrezionalità dell’amministrazione nell’ampliare l’efficacia soggettiva del giudicato è stata negli ultimi anni esclusa dal legislatore. L’ultima categoria di istanze si presenta maggiormente problematica. Laddove il privato sollecita l’esercizio di poteri sfavorevoli (repressivi, inibitori, sanzionatori) nei confronti di terzi non è sempre agevole distinguere tra l’istanza che fa nascere l’obbligo di provvedere e il semplice esposto, che ha mero valore di denuncia inidonea a radicare una posizione di interesse tutelata all’apertura del procedimento ed alla conclusione dello stesso in modo conforme alle aspettative dell’istante. Il criterio distintivo tra istanza, idonea a radicare il dovere di provvedere, e mero esposto, volto a sollecitare l’attivazione di un potere d’ufficio, deve essere ravvisato nell’esistenza in capo al privato di uno specifico e rilevante interesse che valga a differenziare la sua posizione da quella della collettività, vale a dire che il comportamento omissivo dell’Amministrazione deve essere contestato da un soggetto qualificato, in quanto, per l’appunto, titolare di una situazione di specifico e rilevante interesse che lo differenzia da quello generalizzato di per sé non immediatamente tutelabile. 8 La giurisprudenza, in definitiva, si è orientata a ritenere che, a prescindere dall’esistenza di specifiche norme che impongano all’amministrazione pubblica di pronunciarsi su determinate istanze dei cittadini, in un sistema caratterizzato dalla trasparenza e dalla partecipazione ed in ossequio ai doveri di correttezza e buona amministrazione, sussiste l’obbligo di procedere e di provvedere ogniqualvolta esigenze di giustizia sostanziale impongano l’adozione di un provvedimento espresso, obbligo che, invece, non sembra sussistere laddove l’istanza, pur proposta da un soggetto titolare di posizione differenziata e qualificata, si presenti manifestamente infondata ovvero sia proposta per il ritiro in autotutela di un atto amministrativo precedentemente adottato o sia proposta per l’estensione ultra partes del giudicato. Una prima criticità derivante dall’esegesi delle norme - che, in materia di silenzio dell’amministrazione, si sono sviluppate in maniera non sempre organica e coerente con gli approdi interpretativi ai quali la giurisprudenza e la dottrina sono pervenuti - concerne il richiamato secondo comma dell’art. 2 l. n. 241 del 1990, introdotto dall’art. 1, comma 38, della legge n. 190 del 2012, in ragione del quale, se ravvisano la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda, le pubbliche amministrazioni concludono il procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo11. 11 La disposizione di legge è analoga a quella di cui all’art. 74 c.p.a., per il quale, nel caso in cui ravvisi la manifesta fondatezza ovvero la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso, il giudice decide con sentenza in forma semplificata; la motivazione della sentenza può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, ad un precedente conforme. Tuttavia, mentre il giudice deve necessariamente pronunciarsi su ogni domanda, per cui la norma risponde effettivamente ad una logica di semplificazione, nell’attività amministrativa era stata esclusa, in caso di manifesta infondatezza 9 La problematicità dell’interpretazione è data soprattutto dal fatto che i casi a cui si riferisce la norma - a prescindere dalla difficoltà di trasportare al campo della funzione amministrativa i concetti tipicamente processuali di irricevibilità, inammissibilità e improcedibilità - sembrano proprio quelli per i quali la giurisprudenza si è orientata ad escludere la presenza di un obbligo di procedere e, quindi, di provvedere in capo all’amministrazione anche nell’ipotesi in cui l’istanza sia stata proposta dal soggetto titolare di una posizione differenziata e qualificata. Ne consegue che tale norma, pur nel prevedere la redazione di un atto in forma semplificata, sembra imporre un ulteriore obbligo all’amministrazione che, prima, a fronte di un’istanza manifestamente infondata, secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale, non aveva un obbligo di provvedere, mentre oggi ha comunque l’obbligo di adozione di un atto, sia pure sinteticamente motivato. Peraltro, la norma potrebbe essere soggetta ad una duplice applicazione. In modo più rigoroso, potrebbe ritenersi che, a fronte di un’istanza di un privato, in ogni caso l’amministrazione sia tenuta all’adozione di un atto, oppure in modo più elastico, che l’obbligo imposto dalla norma riguarda solo il caso di manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza di istanze proposte dal titolare di un interesse legittimo, fermo restando che, a fronte di una richiesta formulata da chi non è titolare di una situazione differenziata e qualificata, non sussiste alcun obbligo di provvedere, neppure in forma sintetica. In altri termini, una norma apparentemente di semplificazione, in costanza di una giurisprudenza che aveva costantemente escluso l’obbligo di procedere e di dell’istanza, la sussistenza dell’obbligo di provvedere, sicché, anziché produrre una semplificazione, la nuova norma potrebbe sortire l’effetto opposto di ampliare l’area delle istanze che generano l’obbligo di provvedere. 10 provvedere a fronte di istanze manifestamente infondate, ancorché proposte da titolari di situazioni differenziate e qualificate, sembra tradursi in un ulteriore obbligo di provvedere a carico dell’amministrazione, sia pure da adempiere con atti sinteticamente motivati. Per tentare di dare al testo di legge un’interpretazione sistematica coerente con il richiamato indirizzo giurisprudenziale escludente l’obbligo di provvedere a fronte di istanze manifestamente infondate, la previsione normativa potrebbe essere anche intesa nel senso che l’atto riportante sinteticamente il motivo per il quale l’amministrazione ha ritenuto non sussistere nel caso di specie l’obbligo di procedere e di provvedere debba essere adottato in esito al procedimento preliminare, in cui l’amministrazione valuta e decide se procedere o meno e che costituisce di solito un atto interno. Seguendo tale opzione esegetica, se l’amministrazione ritiene che sussista l’obbligo di procedere, deve provvedere nei termini di legge, mentre, in applicazione della novella del 2012, ove invece ritenga non sussistere tale obbligo, dovrebbe ugualmente darne conto nei termini di legge attraverso un atto sinteticamente motivato. 2.3 La responsabilità pubblica da mero ritardo. Il rispetto del termine stabilito per la conclusione del procedimento è una delle manifestazioni del concetto di buona amministrazione, diritto del cittadino ai sensi 11 dell’art. 41 della carta di Nizza e dell’art. 97 Cost., che afferma i principi di imparzialità e buon andamento12. Per buon andamento, si intende l’efficienza dell’azione amministrativa che si rivela anche nella sua tempestività e, nell’ambito dei diritti fondamentali del cittadino europeo, sono compresi quelli riguardanti il rapporto con la pubblica amministrazione, tra cui il generale diritto alla buona amministrazione che concreta il diritto di ogni individuo a che le questioni che lo riguardano vengano trattate in modo equo, imparziale ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni che operano nell’ambito comunitario13. L’art. 101 del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, firmato a Roma il 29 ottobre 2004, sancisce il diritto ad una buona amministrazione e prevede che ogni persona ha diritto a che le questioni che la riguardano siano trattate in modo imparziale ed equo ed entro “un termine ragionevole” dalle istituzioni, organi e organismi dell'Unione. L’art. 29, comma 2 bis, l. n. 241 del 199014, inoltre, dispone che attengono ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione le disposizioni della legge relative alla durata massima dei procedimenti. 12 Cfr. P. Quinto, Il tempo “bene della vita” nel procedimento amministrativo: la tutela risarcitoria, in www.giustizia-amministrativa.it, 2011 13 A. Lazzaro, La certezza dei tempi dell’azione amministrativa nella l. n. 69/2009, in www.giustizia-amministrativa.it, 2009. che richiama A. Serio, il principio di buona amministrazione nella giurisprudenza comunitaria, in Riv. It. di Dir. Pubbll. Comun., 2008. 14 Il comma è stato aggiunto dall’art. 10 l. n. 69 del 2009. 12 Il tempo, peraltro, quale risorsa scarsa, costituisce un bene prezioso non solo per i privati ma anche per la pubblica amministrazione che, nel perseguire gli interessi pubblici affidati alle sue cure, non dovrebbe compiere o essere costretta a svolgere attività inutili ed antieconomiche. L’art. 2 bis della legge n. 241 del 199015, rubricato “Conseguenze per il ritardo dell’amministrazione nella conclusione del procedimento”, stabilisce, al primo comma, che “le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento” e, al comma 1 bis - con disposizione introdotta dall’art. 28, comma 9, del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito in legge con modificazione dalla legge 9 agosto 2013, n. 90 - che, “fatto salvo quanto previsto dal comma 1 e ad esclusione delle ipotesi di silenzio qualificato e dei concorsi pubblici, in caso di inosservanza del termine di conclusione del procedimento ad istanza di parte, per il quale sussiste l'obbligo di pronunziarsi, l'istante ha diritto di ottenere un indennizzo per il mero ritardo alle condizioni e con le modalità stabilite dalla legge o, sulla base della legge, da un regolamento emanato ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400. In tal caso le somme corrisposte o da corrispondere a titolo di indennizzo sono detratte dal risarcimento”. L’art. 28, comma 1, del d.l. n. 69 del 2013, come modificato dalla legge di conversione n. 98 del 2013, inoltre, ha direttamente stabilito che “la pubblica amministrazione procedente o, in caso di procedimenti in cui intervengono più amministrazioni, quella responsabile del ritardo e i soggetti di cui all'art. 1, comma 15 Articolo aggiunto dalla lettera c) del comma 1 dell’art. 7 l. 18 giugno 2009, n. 69. 13 1 ter, della legge 7 agosto 1990, n. 241, in caso di inosservanza del termine di conclusione del procedimento amministrativo iniziato ad istanza di parte, per il quale sussiste l'obbligo di pronunziarsi, con esclusione delle ipotesi di silenzio qualificato e dei concorsi pubblici, corrispondono all'interessato, a titolo di indennizzo per il mero ritardo, una somma pari a 30 euro per ogni giorno di ritardo con decorrenza dalla data di scadenza del termine del procedimento, comunque complessivamente non superiore a 2.000 euro”. Il susseguirsi, in periodi recentissimi, di tali modifiche normative ha generato ulteriori e complessi problemi ermeneutici di carattere sia sostanziale che processuale. L’art. 2 bis l. n. 241 del 1990, aggiunto dall’art. 7 l. n. 69 del 2009, come detto, obbliga le pubbliche amministrazioni al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, introducendo il c.d. danno da ritardo. Nel disciplinare le azioni di condanna, il codice, all’art. 30, co. 2, prevede analogamente che possa essere chiesta la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante non solo dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa, ma anche dal mancato esercizio di quella obbligatoria. A seguito dell’entrata in vigore del nuovo corpus normativo, come meglio si vedrà infra, una corrente di pensiero sempre più ampia ha individuato il c.d. danno da ritardo in ogni pregiudizio derivante dal ritardato esercizio della funzione pubblica, vale a dire sia nel pregiudizio ricollegabile all’interesse materiale al bene della vita richiesto con l’istanza rimasta non evasa o evasa oltre 14 i termini di legge sia in quello concernente il mero rispetto del termine di conclusione del procedimento. Un’altra tesi, invece, in continuità con l’indirizzo espresso dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la decisione n. 7 del 2005, ha limitato l’area del danno risarcibile alla sola ipotesi in cui sia concretamente dimostrata la spettanza del bene della vita richiesto, senza possibilità di ristoro per la sola violazione del dies ad quem previsto per la conclusione del procedimento avviato dall’istanza pretensiva del cittadino16. Il punto focale, più complesso e più dibattuto, dell’esegesi normativa, quindi, concerne la risarcibilità ex se dell’interesse del privato al rispetto della tempistica procedimentale, vale a dire se la responsabilità amministrativa possa prescindere dalla spettanza del bene della vita costituente il lato interno della posizione di interesse legittimo dedotto nell’istanza pretensiva, ovvero se sia necessario dimostrare l’effettiva lesione al conseguimento o al conseguimento tempestivo di tale utilità. In altri termini, la questione fondamentale che si pone è se sia risarcibile il danno da ritardo indipendentemente dalla fondatezza della pretesa azionata con l’istanza avanzata all’amministrazione17. 16 Un’ulteriore distinzione, che costituisce un’articolazione della questione principale, deve essere compiuta tra l’ipotesi di adozione del provvedimento richiesto, favorevole all’interessato e, pertanto, attributivo del relativo “bene della vita”, emesso oltre la scadenza del termine procedimentale, e la completa inerzia dell’amministrazione, vale a dire la mancata adozione di qualsivoglia provvedimento. 17 In proposito, tra gli altri, F. Caringella, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2012, pagg. 1201 e segg. 15 L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con decisione 15 settembre 2005, n. 7 – nel premettere, per quanto attiene alla giurisdizione in materia di “silenzio”, che non si è di fronte a “comportamenti” della pubblica amministrazione invasivi dei diritti soggettivi del privato in violazione del neminem laedere, ma in presenza della diversa ipotesi del mancato tempestivo soddisfacimento dell’obbligo dell’autorità amministrativa di assolvere adempimenti pubblicistici, aventi ad oggetto lo svolgimento di funzioni amministrative e perciò al cospetto di interessi legittimi pretensivi del privato, che ricadono, per loro intrinseca natura, nella giurisdizione del giudice amministrativo - ha a suo tempo escluso la risarcibilità del danno correlato alla mera violazione dei termini in quanto il sistema di tutela degli interessi pretensivi, nelle ipotesi in cui si fa affidamento sulle statuizioni del giudice per la loro realizzazione, consente il passaggio a riparazioni per equivalente solo quando l’interesse pretensivo, incapace di trovare realizzazione con l’atto, in congiunzione con l’interesse pubblico, assuma a suo oggetto la tutela di interessi sostanziali e, perciò, la mancata emanazione o il ritardo nella emanazione di un provvedimento vantaggioso per l’interessato (suscettibile di appagare un “bene della vita”). Tale situazione, ha rappresentato la citata decisione, non sarebbe assolutamente configurabile quando è incontroverso che i provvedimenti adottati in ritardo risultano di carattere negativo per il richiedente e che le loro statuizioni sono divenute intangibili per la omessa proposizione di qualunque impugnativa. L’inerzia amministrativa, quindi, per essere fonte di responsabilità risarcitoria, richiederebbe non solo il preventivo accertamento in sede 16 giurisdizionale della sua illegittimità, ma, ancor più, il concreto esercizio della funzione amministrativa in senso favorevole all’interessato, ovvero il suo esercizio virtuale, in sede di giudizio prognostico da parte del giudice investito della richiesta risarcitoria18, per cui, nel 2005, la giurisprudenza del massimo consesso della giustizia amministrativa ha escluso la risarcibilità per equivalente patrimoniale del danno da mero ritardo19. La positivizzazione dell’istituto della responsabilità per c.d. danno da ritardo, come evidenziato, è avvenuta in un primo tempo attraverso l’introduzione dell’art. 2 bis l. n. 241 del 1990, aggiunto dall’art. 7 della l. n. 69 del 2009. In tal modo, il legislatore ha previsto un nuovo strumento di tutela delle posizioni giuridiche soggettive contro l’inerzia della pubblica amministrazione, strumento che trova la sua collocazione nell’ambito del rito ordinario, affiancandosi in posizione autonoma a quello rappresentato dal rito speciale in camera di consiglio contro il silenzio rifiuto. La stessa previsione dell’obbligo del risarcimento del danno ingiusto cagionato dall’amministrazione in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento è ora contenuta nell’art. 30, commi 2 e 4, c.p.a. 18 In tal senso, ex multis: Cons. St., V, n. 1162 del 2009; Cons. St., IV, n. 6242 del 2008, secondo cui il danno risarcibile è individuabile nel ritardo al conseguimento del bene della vita. 19 La decisione dell’Adunanza Plenaria n. 7 del 2005, peraltro, ha rilevato come, su di un piano di astratta logica, possa ammettersi che, in un ordinamento preoccupato di conseguire un’azione amministrativa particolarmente sollecita, alla violazione dei termini di adempimento procedimentali possano riconnettersi conseguenze negative per l’amministrazione, anche di ordine patrimoniale (ad es. con misure di carattere punitivo a favore dell’erario; con sanzioni disciplinari, etc.) e che. in un quadro non dissimile si muoveva, secondo talune linee interpretative, l’art. 17, comma 1, lettera f), della legge n. 59 del 1997, delega non attuata, che ipotizzava «forme di indennizzo automatico e forfettario», qualora l’amministrazione non avesse adottato tempestivamente il provvedimento, anche se negativo. 17 L’espresso riferimento al “danno ingiusto”20 – contenuto nell’art. 2 bis l. n. 241 del 1990 così come nel secondo comma dell’art. 30, secondo cui può essere chiesta la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal “mancato esercizio di quella obbligatoria” – induce a ritenere che per poter riconoscere la tutela risarcitoria anche in tali fattispecie non possa in alcun caso prescindersi dalla spettanza di un bene della vita, atteso che è soltanto la lesione di quest’ultimo che qualifica in termini di ingiustizia il danno derivante tanto dal provvedimento illegittimo e colpevole dell’amministrazione21 quanto dalla sua colpevole inerzia e lo rende risarcibile22. 20 La famosissima sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione 22 luglio 1999, n. 500 ha nitidamente posto in rilievo che la lesione di un interesse legittimo, al pari di quella di un diritto soggettivo o di altro interesse (non di mero fatto ma) giuridicamente rilevante, rientra nella fattispecie della responsabilità aquiliana solo ai fini della qualificazione del danno come ingiusto. Ciò non equivale certamente ad affermare la indiscriminata risarcibilità degli interessi legittimi come categoria generale. Potrà infatti pervenirsi al risarcimento soltanto se l'attività illegittima della P.A. abbia determinato la lesione dell'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell'ordinamento. In altri termini, la lesione dell'interesse legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., poiché occorre altresì che risulti leso, per effetto dell'attività illegittima (e colpevole) della P.A., l'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell'ordinamento positivo. 21 La richiamata sentenza delle Sezioni Unite n. 500 del 1999 ha rappresentato che nell’art. 2043 c.c. risulta netta la centralità del danno, del quale viene previsto il risarcimento qualora sia "ingiusto", mentre la colpevolezza della condotta (in quanto contrassegnata da dolo o colpa) attiene all'imputabilità della responsabilità. L'area della risarcibilità non è quindi definita da altre norme recanti divieti e quindi costitutive di diritti (con conseguente tipicità dell'illecito in quanto fatto lesivo di ben determinate situazioni ritenute dal legislatore meritevoli di tutela), bensì da una clausola generale, espressa dalla formula "danno ingiusto", in virtù della quale è risarcibile il danno che presenta le caratteristiche dell'ingiustizia, e cioè il danno arrecato non iure, da ravvisarsi nel danno inferto in difetto di una causa di giustificazione (non iure), che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l'ordinamento. 22 N. Durante, I rimedi contro l’inerzia dell’amministrazione: istruzioni per l’uso, con un occhio alla giurisprudenza e l’altro al codice del processo amministrativo, approvato con decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, in www.giustizia-amministrativa..it, 2010, pone l’accento sul fatto che l’ingiustizia del danno, quale presupposto della condanna al risarcimento, è richiesta dall’art. 30, co. 18 Seguendo una tradizionale linea argomentativa, ancorata ai principi espressi nella richiamata decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 7 del 2005, come già esposto, il giudice non potrebbe accogliere l’istanza risarcitoria a prescindere dalla formulazione di un giudizio sulla spettanza dell’utilità finale richiesta con l’istanza pretensiva, ma il risarcimento del danno da lesione dell’interesse legittimo sarebbe anche in tal caso subordinato alla dimostrazione, secondo un giudizio prognostico, che l’aspirazione al provvedimento era destinata, certamente o probabilmente, ad un esito favorevole23. Tale opzione ermeneutica postula evidentemente l’esistenza di un solo bene della vita, costituito dall’utilità richiesta con l’istanza rivolta all’amministrazione, e di una sola posizione giuridica soggettiva, avente natura di interesse legittimo pretensivo. Diversamente, negli ultimi anni è venuto delineandosi un orientamento, che oggi può ritenersi prevalente, in ragione del quale la ratio della norma introdotta nel 2009 è quella di presupporre che per il richiedente, titolare dell’interesse legittimo pretensivo, anche il tempo sia o possa essere un bene della vita. In sostanza, non vi è dubbio che il danno per essere qualificato ingiusto e per essere di conseguenza risarcibile deve derivare dalla lesione ad un bene della 2, del codice, sia per l’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa, sia per il ritardato o mancato esercizio della stessa, per cui, essendo indiscusso che il danno da uso illegittimo del potere presuppone sempre la titolarità dell’interesse sostanziale in capo all’istante, non si vede perché, quando nello stesso contesto l’aggettivo “ingiusto” è utilizzato per il danno da mancato uso del potere, questo debba assumere un’accezione diversa e più favorevole. 23 D’altra parte, la giurisprudenza, già nel previgente regime, aveva chiaramente evidenziato come il solo ritardo nell’emanazione di un atto fosse elemento sufficiente per configurare un danno ingiusto, con conseguente obbligo di risarcimento, nel caso però di procedimento lesivo di un interesse pretensivo dell’amministrato, ove tale procedimento cioè sia da concludere con un provvedimento favorevole per il destinatario (cfr. Cons. St., IV, 23 marzo 2010, n. 1699). 19 vita, ma tale è anche il tempo e non solo il bene cui aspira il privato con la presentazione dell’istanza. La giurisprudenza ha quindi riconosciuto che il ritardo nella conclusione di un procedimento amministrativo, qualora incidente su interessi pretensivi agganciati a programmi di investimento di cittadini o imprese, è sempre un costo, visto che il fattore tempo costituisce una essenziale variabile nella predisposizione e nell’attuazione di piani finanziari relativi a qualsiasi intervento condizionandone la relativa convenienza economica24. In questa prospettiva, ogni incertezza sui tempi di realizzazione di un investimento si traduce nell’aumento del c.d. rischio amministrativo e, quindi, in maggiori costi, attesa l’immanente dimensione diacronica di ogni operazione di investimento e di finanziamento25. Va da sé, allora, che la risarcibilità del danno derivante dal mero ritardo dell’azione amministrativa e cioè a prescindere dalla fondatezza della pretesa avanzata con l’istanza, postula che il tempo sia esso stesso un bene della vita, differente rispetto a quello perseguito con la richiesta pretensiva, ed avente parimenti natura sostanziale e non meramente procedimentale26. 24 Cfr. Cons. St., V, 21 giugno 2013, n. 3407; Cons. St., V, 28 febbraio 2011, n. 1271; Cons. Giust. Amm. Reg. Sicilia 4 novembre 2010, n. 1368. 25 E, Follieri, La penalità di mora nell’azione amministrativa (art. 28 D.L. n. 69/2013), www.giustamm.it, 2014, evidenzia che tra gli elementi da considerare quando si programma un’attività economica vi è il c.d. “rischio amministrativo” e, anzi, il tempo di conclusione del procedimento è quello che assume maggiore rilievo poiché un operatore economico ha interesse ad ottenere una risposta alla sua domanda in un termine ragionevole per poter eventualmente decidere di indirizzare altrove l’iniziativa economica, per cui conoscere i tempi per la definizione di un’istanza diretta allo svolgimento di un’attività economica è rilevante di per sé, a prescindere dal se il provvedimento sia poi favorevole. 26 Cons. St., III, 31 gennaio 2014, n. 468, pone in rilievo che la disposizione tutela in sé il bene della vita inerente alla certezza, quanto al fattore tempo, dei rapporti giuridici che vedono come parte la pubblica amministrazione, stante la ricaduta che il ritardo a provvedere può avere sullo svolgimento di attività ed iniziative economiche condizionate alla valutazione positiva della pubblica amministrazione, ovvero alla rimozione di limiti di rilievo pubblico al loro espletamento. 20 Infatti, in presenza di un’unica situazione giuridica soggettiva costituita dall’interesse legittimo il cui lato interno sia costituito dal rapporto con l’utilità che si aspira a conseguire a seguito dell’agire positivo dell’amministrazione, non potrebbe sussistere dubbio sul fatto che, come rappresentato dall’Adunanza Plenaria n. 7 del 2005, l’ingiustizia del danno e, quindi, la sua risarcibilità per il ritardo dell’azione amministrativa sia configurabile solo ove il provvedimento favorevole sia stata adottato, sia pure in ritardo, dall’autorità competente, ovvero avrebbe dovuto essere adottato, sulla base di un giudizio prognostico effettuabile sia in caso di adozione di un provvedimento negativo sia in caso di inerzia reiterata, in esito al procedimento27. In altri termini, il riferimento, per la risarcibilità del danno, al concetto di “danno ingiusto”, ove l’unica posizione considerata e tutelata sia quella avente ad oggetto il bene della vita richiesto con l’istanza che ha dato origine al procedimento, non potrebbe che postulare la subordinazione dell’accoglimento della domanda risarcitoria all’accertamento della fondatezza della pretesa avanzata, altrimenti si perverrebbe alla conclusione paradossale e contra legem di risarcire un danno non ingiusto28. Viceversa, la novità della novella legislativa del 2009 sembra individuabile nel fatto che l’ingiustizia del danno risarcibile deriva dalla lesione di un bene 27 In tale ipotesi, è necessario distinguere in sede di giudizio prognostico tra attività amministrativa vincolata e attività amministrativa discrezionale in quanto solo nel primo caso la spettanza del bene della vita può essere accertata, mentre, nell’ipotesi di attività discrezionale, potrebbe essere valutata ai fini della risarcibilità del danno la chance che l’istante avrebbe avuto di conseguire il bene della vita. 28 E’ questa la premessa da cui sembra partire chi - come E. Sticchi Damiani, Danno da ritardo e pregiudiziale amministrativa, Foro Amministratio (II), TAR, 2007 – ritiene che l’idea che il danno da ritardo o inerzia della p.a. possa essere risarcito anche a dispetto di un’istanza del privato manifestamente infondata non convince del tutto atteso che accordare il risarcimento in tal caso avrebbe il significato di dargli oggi ciò che il soggetto non avrebbe potuto ottenere domani, in altre parole di risarcirlo per ciò che non avrebbe mai potuto ottenere e che non aveva interesse a domandare. 21 della vita differente rispetto a quello, vale a dire dalla lesione del tempo come bene della vita. Dimodochè, con la presentazione di un’istanza all’amministrazione, ove la stessa sia fonte di un obbligo di provvedere, il cittadino (o l’impresa) farebbe valere non solo una posizione di interesse legittimo pretensivo ad ottenere il bene della vita richiesto con l’istanza, ma anche una posizione di diritto soggettivo ad ottenere nei termini stabiliti dalla legge una risposta certa e conclusiva circa l’attribuzione o meno di quel bene. In definitiva, può ritenersi che la dimostrazione dell’ingiustizia del danno derivante dalla lesione del bene della vita richiesto con l’istanza, ove l’amministrazione abbia rilasciato in ritardo il provvedimento richiesto, è desumibile dal fatto che la stessa amministrazione ha ritenuto spettante il bene della vita. L’ingiustizia del danno derivante dalla lesione del detto bene della vita, ove l’amministrazione abbia continuato a rimanere inerte, può altresì essere desunta dal giudizio prognostico da compiere in sede giurisdizionale. Invece - ove l’amministrazione abbia provveduto negando l’utilità richiesta in modo legittimo ma in ritardo, oppure ove, in caso di reiterata inerzia, il giudizio prognostico in sede giurisdizionale si sia concluso con l’accertamento della infondatezza della pretesa – l’ingiustizia del danno non può riguardare il bene della vita oggetto della richiesta, ma può derivare dalla lesione al bene della vita costituito dal tempo e cioè dalla lesione all’affidamento sui tempi di svolgimento dell’attività amministrativa ed alla certezza della programmazione delle proprie attività personali e dei propri investimenti finanziari. 22 Il bene della vita oggetto della posizione giuridica sostanziale, in altri termini, è in questo caso costituito dalla tempestiva eliminazione dell’incertezza circa il possibile svolgimento dell’attività richiesta con l’istanza che ha dato avvio al procedimento e, quindi, si configura come diritto alla certezza dei tempi dell’azione amministrativa al fine di autodeterminarsi ed orientare la propria libertà economica. Va da sé, infatti, che la ritardata conclusione del procedimento e, quindi, l’incertezza sul legittimo svolgimento dell’attività richiesta, può incidere negativamente sull’impegno di risorse, così come può comportare la rinuncia ad altre opportunità o ad avvalersi di altre circostanze favorevoli che non abbiano durata indefinita29. La convenienza economica di determinati investimenti e di determinate scelte di vita, in sostanza, può certamente risentire dell’inerzia amministrativa. Così impostati i termini del problema, peraltro, la questione sarebbe riferibile ai soli interessi legittimi pretensivi e, quindi, ai soli procedimenti ad istanza di parte, mentre l’obbligo di concludere il procedimento nei termini di legge riguarda anche i procedimenti d’ufficio ed i relativi interessi legittimi oppositivi. Di talché, occorre chiedersi se, con riferimento a tale categoria di situazioni protette, ugualmente abbia spazio ed in che termini si ponga la tematica della responsabilità amministrativa da mero ritardo. Nella fattispecie, ove il procedimento non sia concluso o sia tardivamente concluso senza l’adozione del provvedimento di esproprio, non può ontologicamente ipotizzarsi un danno da ritardo per la lesione di un bene della 29 P. Quinto, op. cit., che richiama M. Clarich, G. Fonderico, La risarcibilità del danno da mero ritardo, in Urbanistica e Appalti, 2006. 23 vita diverso dal tempo in quanto il destinatario dell’azione aspira al non agere dell’amministrazione ed il suo bene della vita è di conseguenza soddisfatto dalla mancata incisione sulla utilità che preesiste all’avvio del procedimento e di cui già dispone. Viceversa, ad avviso di chi scrive, non è possibile escludere a priori la configurabilità di un danno da mero ritardo, vale a dire derivante dalla lesione del tempo come bene della vita. Infatti, così come la violazione del diritto alla pianificazione dei propri investimenti e, in definitiva, del diritto alla libertà economica può sussistere in caso di ritardo nella conclusione di un procedimento ad istanza di parte, può parimenti ipotizzarsi per la ritardata o, soprattutto, per la mancata conclusione di un procedimento avviato d’ufficio. In proposito, basti pensare alla comunicazione di avvio di un procedimento di espropriazione che si protragga oltre il termine stabilito per la sua conclusione; in tale situazione, l’incertezza sull’esito del procedimento è ben in grado di produrre un nocumento economico nella sfera individuale dell’espropriando, il valore del cui bene subirebbe un deprezzamento, sino a renderlo sostanzialmente inalienabile, durante il procedimento di esproprio30. La prova del pregiudizio sofferto, anche in tal caso, grava sul destinatario dell’azione amministrativa, che dovrà fornire elementi idonei a dimostrare la perdita di opportunità subite nel periodo di pendenza del procedimento concluso tardivamente senza l’adozione del decreto di esproprio. 30 In realtà, al fine di evitare il perpetuarsi dello stato di incertezza, potrebbe ammettersi anche l’esperimento dell’azione avverso il silenzio ai sensi degli artt. 31 e 117 c.p.a. da parte del titolare di un interesse legittimo oppositivo. 24 Pertanto, secondo tale opzione esegetica, il tempo come bene della vita potrebbe accompagnarsi sia al diverso bene della vita oggetto di un interesse pretensivo sia al diverso bene della vita tutelato in via oppositiva e la responsabilità risarcitoria della pubblica amministrazione sussisterà tutte le volte in cui il ritardo nel concludere il procedimento avviato, rispettivamente, ad istanza di parte o d’ufficio, possa riverberarsi con effetto negativo sulla capacità di autodeterminazione e sulla libertà di iniziativa economica del privato. La posizione giuridica soggettiva di cui è titolare il privato, che si affianca all’interesse legittimo pretensivo fatto valere con la presentazione dell’istanza ovvero all’interesse legittimo oppositivo al potere ablatorio, ad avviso di chi scrive, può essere qualificata di diritto soggettivo. L’interesse legittimo31 traduce una relazione dinamica tra il singolo o, meglio, il suo interesse materiale e l’esercizio della funzione pubblica. La giurisprudenza – premesso che la posizione di interesse legittimo si collega all’esercizio di una potestà amministrativa rivolta, secondo il suo modello legale, alla cura diretta ed immediata di un interesse della collettività, mentre il diritto soggettivo nei confronti della pubblica amministrazione trova fondamento in norme che, nella prospettiva della regolazione di interessi sostanziali contrapposti, aventi sovente carattere patrimoniale, pongono a carico dell’amministrazione obblighi a garanzia diretta ed immediata di un interesse particolare – ha precisato che la distinzione tra interessi legittimi e diritti 31 L’interesse legittimo è una situazione ontologicamente collegata all’esercizio del potere amministrativo, che si manifesta non soltanto su un piano processuale, nella legittimazione riconosciuta al suo titolare di proporre ricorso giurisdizionale avverso il provvedimento amministrativo conclusivo del procedimento che abbia leso la sua sfera giuridica, ma anche su un piano sostanziale, attraverso la possibile partecipazione al procedimento in cui gli interessi pubblici e privati sono acquisiti e valutati dall’amministrazione procedente o ancora nella stessa possibilità di sollecitare, nei procedimenti ad istanza di parte, l’esercizio del potere. 25 soggettivi va fatta con riferimento alla finalità perseguita dalla norma alla quale l’atto si collega32. La distinzione tra le due posizioni giuridiche soggettive va quindi individuata nel loro lato “esterno”, atteso che, mentre la posizione di diritto soggettivo postula il rapporto con altri soggetti dell’ordinamento, tra cui eventualmente un’amministrazione pubblica, collocati su un piano di parità giuridica con il titolare della posizione (la generalità dei soggetti in caso di diritti assoluti, un soggetto o più soggetti determinati in casi di diritti relativi), la posizione di interesse legittimo postula il rapporto con uno specifico soggetto dell’ordinamento, una pubblica amministrazione che agisce nell’esercizio autoritativo del potere pubblico, collocata su un piano di supremazia, nel senso che è in grado di incidere unilateralmente sulla sfera giuridica del soggetto destinatario, determinando la soddisfazione o il sacrificio dell’interesse materiale di cui lo stesso è portatore. In altri termini, entrambe le posizioni hanno un lato “interno” che traduce un rapporto con un bene della vita, una utilitas, per conservare o conseguire la quale il titolare aspira, rispettivamente, al non facere dei soggetti con cui è in relazione (diritti soggettivi assoluti ed interessi legittimi oppositivi) ovvero ad un facere positivo degli stessi (diritti soggettivi relativi ed interessi legittimi pretensivi) e tale rapporto con il bene della vita, la res, determina la sostanzialità sia dell’una sia dell’altra posizione; ciò che invece distingue e caratterizza la figura dell’interesse legittimo è il suo lato “esterno”, vale a dire la relazione con un soggetto specifico e particolare dell’ordinamento, la pubblica amministrazione 32 In tal senso, ex multis: Ad. Plen. Cons. Stato, 24 maggio 2007, n. 8; Ad. Plen. Cons. Stato, 5 luglio 1999 n. 18; Cons. Stato, V, 2 agosto 2007, n. 4285. 26 che agisce nell’esercizio autoritativo di un potere pubblico, laddove, nel diritto soggettivo, anche quando il soggetto giuridico con cui si entra in rapporto è un’amministrazione pubblica, la relazione avviene su un piano paritario33. Di talché, così come non sussiste dubbio sulla natura di interesse legittimo della posizione vantata dal soggetto che, titolare di una posizione qualificata e differenziata, presenta un’istanza all’amministrazione generando un suo obbligo di provvedere, parimenti deve pervenirsi a qualificare come di diritto soggettivo la posizione sostanziale vantata dal soggetto a fronte dell’obbligo dell’amministrazione, finalizzato alla tutela degli interessi privati, di concludere il procedimento nel termine previsto dalla legge. Di norma, trattasi di un rapporto tra il richiedente ed un solo soggetto, l’amministrazione pubblica destinataria dell’istanza, per cui la posizione può essere qualificata più specificamente come di diritto soggettivo relativo. Il fluire del tempo, in tal modo, non determina il venire meno del potere/dovere dell’amministrazione di concludere, sia pure in ritardo, il procedimento 34, ma costituisce un inadempimento ad un obbligo di legge che può portare, in presenza della dimostrazione di un danno effettivo, alla concretizzazione di un illecito ed alla conseguente responsabilità aquiliana dell’amministrazione inadempiente. D’altra parte, l’azione avverso il silenzio, ai sensi dell’art. 31 c.p.a., è dichiaratamente volta a chiedere l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere, così come, ai sensi dell’art. 117, comma 2, il suo accoglimento 33 Sia consentito il richiamo a R. Caponigro, La pregiudiziale amministrativa tra l’essenza dell’interesse legittimo e l’esigenza di tempestività del giudizio, in Giurisdizione amministrativa, 2008. 34 Ciò si desume, implicitamente ma chiaramente, dall’art. 117, comma 5, c.p.a., che postula come durante il giudizio sul silenzio possa sopravvenire un provvedimento espresso. 27 produce gli effetti di un’azione di condanna in quanto il giudice ordina all’amministrazione di provvedere entro un termine. Le azioni previste a tutela della posizione giuridica soggettiva volta alla conclusione del procedimento, quindi, sono esattamente quelle che l’ordinamento predispone a tutela delle posizioni di diritto soggettivo, laddove la posizione giuridica di interesse legittimo pretensivo, finalizzata all’acquisizione dell’utilità richiesta, in caso di silenzio, è tutelata, in via strumentale, con l’azione di accertamento dell’obbligo di provvedere e, in via finale, con l’azione di condanna al rilascio del provvedimento richiesto (rectius: azione di adempimento)35 che, a prescindere dalla novella introdotta dal d.lgs. n. 160 del 2012 all’art. 34, comma 3, c.p.a., era da ritenere sostanzialmente già contenuta ab origine nel testo codicistico attraverso la previsione, di cui all’art. 31, comma 3, c.p.a., di accertamento della fondatezza della pretesa dedotta in giudizio in caso di attività vincolata e di conseguente condanna dell’amministrazione ex art. 117, comma 2, c.p.a., all’adozione del provvedimento richiesto36. In sostanza, ad avviso di chi scrive, il consolidato principio secondo cui l’azione avverso il silenzio è esperibile solo a tutela di posizioni di interesse legittimo, implicanti, quindi, l’esercizio in via autoritativa di una potestà pubblica, e non se l’inerzia è serbata a fronte di un’istanza avanzata per il riconoscimento di 35 Sia consentito il richiamo a R. Caponigro, Una nuova stagione per la tutela degli interessi legittimi, in www.giusrisdizione-amministrativa.it, 2012. 36 Nella vigenza dell’art. 2, co. 5, l. n. 241 del 1990, come modificato dalla l. n. 15 del 2005 e sostituito dall’art. 3, co. 6 bis, d.l. n. 35 del 2005 – il quale aveva tra l’altro previsto il potere del giudice amministrativo di conoscere della fondatezza della pretesa – la giurisprudenza aveva avuto modo di affermare che la fondatezza della pretesa poteva essere valutata soltanto nei casi di attività amministrativa interamente vincolata quando la spettanza o meno del bene della vita fosse ictu oculi rilevabile. 28 un diritto soggettivo37, deve essere rettamente inteso nel senso che la posizione azionata con l’istanza pretensiva a fronte della quale si è formato il silenzio deve necessariamente essere di interesse legittimo38, con la conseguenza che la stessa potrà essere soddisfatta in via strumentale, con la mera declaratoria dell’obbligo di provvedere, o in via finale, attraverso l’accertamento della fondatezza della pretesa, laddove l’azione tendente alla declaratoria dell’obbligo di provvedere traduce altresì una tutela del diritto soggettivo alla conclusione del procedimento. La contestuale presenza di una posizione di diritto soggettivo alla conclusione del procedimento e di una posizione di interesse legittimo pretensivo, azionato con la richiesta formulata all’amministrazione, o di interesse legittimo oppositivo, sorto a seguito dell’avvio di un procedimento d’ufficio, inoltre, rende coerente l’attribuzione al giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, commi 1 e 3, c.p.a., della giurisdizione esclusiva sulle controversie in materia di “risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento amministrativo” e di “silenzio di cui all’articolo 31, commi 1, 2 e 3”. L’affermazione dell’astratta risarcibilità del danno derivante dal mero ritardo dell’amministrazione nella conclusione del procedimento sposta l’attenzione su quella che si presenta come la vera questione essenziale al fine di pervenire, nel 37 Ex multis: Cons. St., VI, 7 gennaio 2008, n. 33; T.A.R. Lazio, Roma, III quater, 1° dicembre 2008, n. 12254. 38 F. Taormina, Brevi note sul silenzio della pubblica amministrazione, in www.giustiziaamministativa, 2012, del tutto condivisibilmente rileva che il ricorso avverso il silenzio della pubblica amministrazione è inammissibile quando il privato domanda la tutela di un diritto soggettivo per la elementare constatazione che, laddove la posizione attiva abbia consistenza di diritto soggettivo (e sebbene sia stata devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo), il rimedio del silenzio risulta inutile, il che avviene nel caso in cui il petitum ha per oggetto l'accertamento del diritto al riconoscimento di spettanze economiche, la cui tutela giurisdizionale si esplica in sede esclusiva attraverso una pronuncia di accertamento. 29 merito, alla decisione sulla domanda risarcitoria e cioè la prova che un danno risarcibile effettivamente sussista e sia in rapporto eziologico con il ritardo dell’amministrazione. Il tempo è un bene della vita, ma la sua lesione può produrre o meno un danno risarcibile e di tale eventuale produzione deve essere fornita una prova idonea e puntuale. Insomma, al pari delle altre fattispecie di illecito aquiliano, la lesione del bene della vita non determina una automatica responsabilità risarcitoria dell’amministrazione, che nasce solo quando un danno sia stato prodotto e sia adeguatamente provato. Per ogni ipotesi di responsabilità della pubblica amministrazione, la prova dell’esistenza del danno deve essere fornita in modo rigoroso dal ricorrente, non potendosi invocare il c.d. principio acquisitivo perché tale principio attiene allo svolgimento dell’istruttoria e non all’allegazione dei fatti e, se anche può ammettersi il ricorso alle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. per fornire la prova del danno subito e della sua entità, è comunque ineludibile l’obbligo di allegare circostanze di fatto precise. Peraltro, quando il soggetto onerato dell’allegazione e della prova dei fatti non vi adempie, non può darsi ingresso alla valutazione equitativa ex art. 1226 c.c., perché tale norma presuppone l’impossibilità di provare l’ammontare preciso del 30 pregiudizio subito, né può essere invocata una consulenza tecnica d’ufficio 39, diretta a supplire al mancato onere probatorio da parte del privato40. In pratica, al di là di mere enunciazioni di principio e di formulazioni di stile circa il danno che la parte ricorrente sostenga di avere subito per il ritardo nella conclusione del procedimento, occorre in concreto l’allegazione specifica della prova del danno subito, in assenza della quale nessun danno può ritenersi effettivamente sussistente. Pertanto, ove il danno derivante dal mero ritardo nella conclusione del procedimento non sia in concreto provato dalla parte ricorrente su cui grava il relativo onere, l’eventuale azione di risarcimento del danno deve essere respinta non perché il mero ritardo dell’amministrazione, producendo la lesione del tempo come bene della vita, non possa essere astrattamente fonte di responsabilità aquiliana, ma perché, non essendo stata data concreta prova dell’avvenuta produzione del danno, non c’è l’oggetto del risarcimento. Viceversa, ove il danno causato dal mero ritardo sia provato, il tempo, da misura dell’entità dello stesso, che è la sua caratteristica propria quando si tratta di risarcire il danno derivante da lesione dell’interesse legittimo, diviene esso stesso bene da risarcire in quanto la sua lesione determina di per sé un danno ingiusto. In sostanza, se il bene della vita chiesto con l’istanza pretensiva spettava certamente o probabilmente all’interessato, il tempo funge da elemento di parametrazione del quantum del danno in quanto tanto più lungo è il ritardo 39 La CTU non è destinata ad esonerare la parte dalla prova dei fatti dalla stessa dedotti e posti a base delle proprie richieste, fatti che devono essere dimostrati dalla stessa parte alla stregua dei criteri di ripartizione dell’onere della prova posti dall’art. 2697 c.c., ma ha la funzione di fornire all’attività valutativa del giudice l’apporto di cognizioni tecniche non possedute. 40 Cfr. Cons St., V, 28 febbraio 2011, n. 1271; Cons. St.,V, 13 giugno 2008, n. 2967; TAR Sicilia, Catania, II, 23 giugno 2011, n. 1271. 31 nell’attribuzione dell’utilità quanto più elevato è il danno prodotto, mentre, se il bene della vita oggetto dell’istanza pretensiva certamente o probabilmente non spettava al richiedente, il tempo viene in rilievo, ove sia in concreto provata la formazione del danno, esso stesso come bene della vita la cui lesione determina il risarcimento. In tale contesto, sembra assumere notevole rilievo l’applicabilità all’azione di risarcimento del danno derivante dal mancato esercizio dell’attività amministrativa obbligatoria del disposto di cui all’art. 30, comma 3, c.p.a., secondo cui, nel determinare il risarcimento, il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso gli strumenti di tutela previsti. Il codice, in tal modo, nel negare la sussistenza di una pregiudizialità di rito, ha mostrato di apprezzare, sul versante sostanziale, la rilevanza eziologica dell’omessa impugnazione come fatto valutabile al fine di escludere la risarcibilità dei danni che, secondo un giudizio causale di tipo ipotetico, sarebbero stati presumibilmente evitati in caso di tempestiva reazione processuale nei confronti del provvedimento potenzialmente dannoso41. La disposizione, pur non evocando in modo esplicito il disposto dell’art. 1227, comma 2, del codice civile, afferma che l'omessa attivazione degli strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell’esclusione o della mitigazione del danno evitabile con l’ordinaria diligenza, in una logica che vede l'omessa impugnazione non più come 41 Cfr. Adunanza Plenaria Consiglio di Stato 23 marzo 2011, n. 3. 32 preclusione di rito ma come fatto da considerare in sede di merito ai fini del giudizio sulla sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile42 Al tradizionale indirizzo che esclude, per definizione, la sindacabilità delle condotte processuali ai sensi del capoverso dell’art. 1227 c.c., è allora preferibile un più duttile criterio interpretativo che, in coerenza con le clausole generali in materia di correttezza, buona fede e solidarietà di cui la norma è espressione, consenta la valutazione della condotta complessiva, anche processuale, del creditore, con riguardo alle specificità del caso concreto. In base a detto criterio interpretativo, può ritenersi che la mancata impugnazione di un provvedimento amministrativo possa essere ritenuto un comportamento contrario a buona fede nell’ipotesi in cui si appuri che una tempestiva reazione avrebbe evitato o mitigato il danno43. Orbene, ad avviso di chi scrive, non vi è alcun motivo per escludere che, in sede di quantificazione del danno da ritardo o da mero ritardo, possa assumere rilievo l’omesso esperimento dell’azione avverso il silenzio, atteso che il danno, se non evitato, avrebbe potuto essere almeno mitigato con l’attribuzione del bene della vita oggetto dell’istanza pretensiva, in caso di provvedimento favorevole, ovvero con l’eliminazione dell’incertezza sul possibile svolgimento dell’attività La richiamata sentenza dell’Adunanza Plenaria ha evidenziato come l’obbligo di cooperazione di cui al comma 2 dell’art. 1227 c.c. abbia fondamento proprio nel canone di buona fede ex art. 1175 c.c. e, quindi, nel principio costituzionale di solidarietà, per cui si deve concludere che anche le scelte processuali di tipo omissivo possono costituire in astratto comportamenti apprezzabili ai fini della esclusione o della mitigazione del danno laddove si appuri, alla stregua del giudizio di causalità ipotetica, che le condotte attive trascurate non avrebbero implicato un sacrificio significativo ed avrebbero verosimilmente inciso, in senso preclusivo o limitativo, sul perimetro del danno. 43 L’Adunanza Plenaria n. 3 del 2011 richiama in proposito una cospicua giurisprudenza e cioè: Cons. Stato, sez. VI, 24 settembre 2010, n. 7124; sez. VI, 22 ottobre 2008 , n. 5183; sez. V, 31 dicembre 2007, n. 6908; sez. IV 3 maggio 2005, n. 2136. 42 33 richiesta, in caso di provvedimento sfavorevole, adottati in esecuzione della pronuncia di accoglimento del ricorso giurisdizionale44. Peraltro, va ritenuto che, così come per l’ipotesi di esercizio illegittimo dell’azione amministrativa, anche nel caso di mancato esercizio dell’attività amministrativa obbligatoria, una condotta complessivamente diligente può ritenersi assolta, pur in assenza della proposizione della specifica azione giurisdizionale avverso il silenzio, quando il privato abbia sollecitato l’amministrazione a provvedere, il che costituisce un comportamento per molti versi analogo all’invito all’autotutela in ordine ad un provvedimento poi rivelatosi illegittimo. Il danno da mero ritardo, a differenza dell’ipotesi di danno derivante dal ritardato conseguimento del bene della vita richiesto con l’istanza pretensiva, dovrà essere evidentemente limitato al c.d. interesse negativo, potendo essere risarcito solo il pregiudizio derivante dalla situazione di incertezza protratta oltre il termine di legge e non anche il danno discendente dalla mancata emanazione del provvedimento che il richiedente non avrebbe avuto titolo ad avere. La responsabilità della pubblica amministrazione, in ragione del disposto dell’art. 2 bis l. n. 241 del 1990, che fa riferimento al danno “ingiusto” cagionato in conseguenza dell’inosservanza “dolosa o colposa” del termine di conclusione del procedimento, non ha funzione meramente sanzionatoria ma soprattutto natura riparatoria del pregiudizio sofferto dal richiedente, per cui la responsabilità risarcitoria si configura secondo lo schema di un illecito aquiliano ai sensi dell’art. 2043 c.c., il che implica sempre la dimostrazione sia del danno subito a causa del 44 In tal senso, va attestandosi la recente giurisprudenza (cfr. Cons. St., V, 13 gennaio 2014, n. 63; Cons. St., V, 9 ottobre 2013, n. 4968). 34 ritardo nella conclusione del procedimento sia dell’elemento psicologico del dolo e della colpa del soggetto inadempiente. La riconducibilità della fattispecie all’illecito aquiliano, pertanto, dovrebbe comportare l’onere probatorio in capo al richiedente anche per quanto concerne l’elemento soggettivo, ma occorre ritenere, in linea con gli approdi cui si è giunti per la responsabilità risarcitoria da illegittimo esercizio del potere, che lo stesso silenzio serbato dall’amministrazione costituisca un indice presuntivo della sua colpa, mentre spetta a quest’ultima eventualmente dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, il quale può configurarsi in caso di rilevante complessità del fatto o di particolare complessità giuridica della fattispecie45 Diversamente, una responsabilità con funzione meramente sanzionatoria sembra essere stata recentemente introdotta con il già citato decreto legge n. 69 del 2013, come modificato dalla legge di conversione n. 98 del 2013 (c.d. decreto del fare), che ha innovato l’art. 2 bis della l. n. 241 del 1990 aggiungendovi il comma 1 bis, secondo cui, in caso di inosservanza del termine di conclusione del procedimento ad istanza di parte, per il quale sussiste l’obbligo di pronunziarsi, l’istante ha diritto di ottenere un indennizzo per il mero ritardo alle condizioni e con le modalità stabilite dalla legge46 o, sulla base della legge, da un regolamento emanato ai sensi dell’art. 17, comma 2, l. n. 400 del 1988; in tal caso, le somme 45 Cfr. Paola Maria Zerman, Il risarcimento del danno da ritardo: l’art. 2 bis della legge 241/1990 introdotto dalla legge 8/2000, in www.giustizia-amministrativa.it, 2009. 46 L’art. 28, comma 1, d.l. n. 69 del 2013, come già evidenziato nel testo, stabilisce esso stesso che la pubblica amministrazione procedente, in caso di inosservanza del termine di conclusione del procedimento amministrativo iniziato ad istanza di parte, per il quale sussiste l’obbligo di pronunziarsi, corrisponde all’interessato, a titolo di indennizzo per il mero ritardo, una somma pari a 30 euro per ogni giorno di ritardo con decorrenza dalla data di scadenza del termine del procedimento, comunque complessivamente non superiore a 2.000 euro. 35 corrisposte o da corrispondere a titolo di indennizzo sono detratte dal risarcimento47. Le disposizioni, ai sensi del decimo comma, sono applicate in via sperimentale48 dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge (21 agosto 2013) ai procedimenti amministrativi relativi all’avvio e all’esercizio dell’attività di impresa iniziati successivamente alla medesima data di entrata in vigore. Il legislatore del 2013, quindi, per il caso di mero ritardo nella conclusione del procedimento, ha aggiunto alla previsione risarcitoria con finalità riparatoria del pregiudizio sofferto dal richiedente, una previsione indennitaria con specifica finalità sanzionatoria della pubblica amministrazione inadempiente. In tal modo, la disposizione ha reiterato la fattispecie già contenuta nel disegno di legge c.d. Nicolais che, a suo tempo approvato dalla Camera dei Deputati e poi decaduto, aveva ipotizzato l’autonoma indennizzabilità della violazione dei termini procedimentali con pene pecuniarie anche di carattere progressivo di cui era prevista la devoluzione al privato indipendentemente dalla dimostrazione di ogni danno. In sostanza, imponendo all’amministrazione l’obbligo del pagamento di un’indennità a prescindere dall’effettiva produzione di un danno, la misura prevista ha finalità esclusivamente sanzionatoria dell’agere illecito dell’amministrazione e non riparatoria del danno sofferto dal cittadino. 47 Le norme di legge escludono dalla previsione indennitaria le ipotesi di silenzio qualificato e quelle dei pubblici concorsi. 48 Il comma 12 stabilisce altresì le modalità con le quali, decorsi diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge di conversione, sono stabiliti la conferma, la rimodulazione o la cessazione delle disposizioni. 36 La previsione, di conseguenza, fa discendere dalla lesione del tempo come bene della vita automaticamente un diritto all’indennità perché non postula la presenza di alcun danno ingiusto da riparare. La nuova norma ribadisce ancora una volta che l’obbligo dell’amministrazione sussiste laddove vi sia l’obbligo di provvedere, limitando l’area della indennizzabilità ai procedimenti relativi all’avvio ed all’esercizio dell’attività di impresa. Il diritto a percepire l’indennità, ad avviso di chi scrive, ha evidentemente natura di diritto soggettivo, atteso anche il suo contenuto a carattere prettamente patrimoniale. La giurisdizione, peraltro, è attribuita anche in tal caso al giudice amministrativo in virtù dell’art. 28, comma 3, d.l. n. 69 del 2013, come modificato dalla legge di conversione n. 98 del 201349. In definitiva, nel caso di mero ritardo dell’amministrazione, vale a dire nel caso in cui sia stato adottato in ritardo un provvedimento negativo legittimo ovvero non sia stato adottato alcun provvedimento ma lo stesso sarebbe stato certamente o verosimilmente negativo, l’amministrazione è tenuta risarcire il danno costituito dal c.d. interesse negativo ed ora, anche qualora l’interessato non sia riuscito a dimostrare l’esistenza di un danno patrimoniale e sempre che si tratti 49 La norma prevede che “nel caso in cui anche il titolare del potere sostitutivo non emani il provvedimento nel termine di cui all’articolo 2, comma 9 ter, della legge 7 agosto 1990, n. 241, o non liquidi l’indennizzo maturato fino alla data della medesima liquidazione, l’istante può proporre ricorso ai sensi dell’articolo 117 del codice del processo amministrativo di cui all’allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, e successive modificazioni, oppure, ricorrendone i presupposti, dell’articolo 118 dello stesso codice”. 37 di procedimenti relativi all’esercizio dell’attività di impresa, è tenuta a versare l’indennità di cui al comma 1 bis dell’art. 2 bis l. n. 241 del 199050. 3. Il tempo nel processo amministrativo. Il tempo assume molta importanza anche nello svolgimento del processo in quanto dalla sua durata possono derivare effetti sostanziali incidenti sull’esercizio dei pubblici poteri e sulle situazioni giuridiche soggettive nello stesso coinvolte. Ritengo possa essere interessante concentrare l’attenzione su tre questioni in cui viene in rilievo, sotto diversi profili, il rapporto tra il tempo e lo svolgimento della funzione giurisdizionale amministrativa. 3.1 Il tempo come misura del danno e l’esigenza di tempestività del giudizio. In precedenza, è stato sottolineato come, con la astratta risarcibilità anche del danno da mero ritardo, il tempo, da elemento di parametrazione della entità del danno derivante dalla lesione del bene della vita oggetto dell’istanza pretensiva, viene considerato e tutelato come un autonomo bene della vita, la cui lesione, che naturalmente più si protrae più è ampia, ove il danno sia rigorosamente provato, determina una responsabilità amministrativa di natura aquiliana. Il tempo, però, svolge un ruolo essenziale nel processo anche nell’ipotesi di azione di annullamento di un provvedimento lesivo di un interesse legittimo oppositivo o pretensivo, atteso che l’irreversibile esecuzione dell’atto amministrativo, impedendo la tutela dell’interesse legittimo secondo la ordinaria 50 E. Follieri, La penalità di mora nell’azione amministrativa, cit., sostiene che con l’art. 28 .d.l. n. 69 del 2013 si assegna al ritardo un rilievo svincolato anche dall’interesse al bene della vita e ritiene che l’indennizzo da mero ritardo sia una sanzione che assiste e tutela l’interesse meramente procedimentale. 38 scansione dell’annullamento dell’atto e della conformazione dell’attività amministrativa successiva, se, da un lato, rende possibile l’azione risarcitoria per la tutela dell’interesse legittimo che altrimenti ne rimarrebbe privo, dall’altro, si concreta oggettivamente in un vulnus per l’interesse pubblico, che sarebbe stato meglio e senza incombenze risarcitorie perseguito con la riedizione dell’azione amministrativa come conformata dalle statuizioni contenute nella pronuncia giurisdizionale di annullamento dell’atto. Ne consegue che l’elemento temporale non è per nulla irrilevante ai fini in discorso, nel senso che molto spesso è proprio il decorrere del tempo a rendere irreversibile l’esecuzione dell’atto impugnato ovvero, nei provvedimenti di durata, a rendere più ampio lo spazio temporale in relazione al quale l’atto lesivo produce i suoi effetti pregiudizievoli, con conseguente necessità di tutelare la situazione lesa attraverso il rimedio risarcitorio. Da tali considerazioni - rilevato che il termine decadenziale per l’impugnazione dei provvedimenti è finalizzato ad attribuire certezza ai rapporti giuridici in cui è parte un’amministrazione nell’esercizio del potere pubblico - emerge con forza anche l’esigenza che il giudizio amministrativo abbia uno svolgimento tempestivo, ed a tale logica sembrano infatti rispondere le norme processuali introdotte all’art. 23 bis l. n. 1034 del 1971 ed oggi contenute negli artt. 119 e 120 c.p.a., in quanto da una sua eccessiva diluizione nel tempo non solo possono essere sacrificate le aspettative delle parti ad una celere definizione della vicenda giudiziaria, ma può anche derivare che l’eventuale decisione di annullamento non sia più idonea, per l’esecuzione del provvedimento medio tempore avvenuta e non più reversibile, a rendere piena tutela al ricorrente vittorioso, cui residua perciò la sola strada del 39 risarcimento dei danni con conseguente vulnus, oltre che per l’interesse privato, per l’interesse pubblico51. L’impossibilità di conseguire un’effettiva utilità dalla statuizione di annullamento per il verificarsi di circostanze sopravvenute che siano oggettivamente apprezzabili e la conseguente necessità di avvalersi dello strumento risarcitorio per tutelare la posizione, costituisce anch’essa un’ipotesi tanto più frequente quanto più ampio è l’arco temporale durante il quale il giudizio impugnatorio trova la sua definizione52. La giurisprudenza sia del Consiglio di Stato sia dei Tribunali Amministrativi Regionali, anche nel regime precedente all’entrata in vigore del codice, nel caso in cui, in materia di appalti, all’annullamento dell’aggiudicazione non sarebbe potuto seguire per un fatto oggettivo un ulteriore atto di aggiudicazione in favore dell’impresa ricorrente, ha ritenuto possibile la dichiarazione di improcedibilità della domanda di annullamento e la valutazione nel merito, con conseguente accertamento incidenter tantum dell’illegittimità o meno dell’atto, della domanda volta a conseguire la condanna al risarcimento del danno53. La consapevolezza che l’ampiezza del raggio d’azione del rimedio risarcitorio, con conseguente vulnus anche per l’interesse pubblico, dipende anche e prevalentemente dall’intervallo di tempo compreso tra l’adozione dell’atto illegittimo e lesivo ed il suo annullamento in sede giurisdizionale, in definitiva, accresce l’esigenza di un tempestivo svolgimento del giudizio amministrativo. 51 Sia consentito il richiamo a R. Caponigro, La pregiudiziale amministrativa tra l’essenza dell’interesse legittimo e l’esigenza di tempestività del giudizio, cit.; 52 L’art. 34, comma 3, c.p.a. prevede proprio che, quando nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori. 53 Cfr. Cons. St., VI, 14 marzo 2005, n. 1547; T.A.R. Lazio, Roma, I, 19 novembre 2007, n. 11330. 40 3.2 Il rilievo del tempo nell’interesse al ricorso. Il valore del tempo nell’azione amministrativa può intersecarsi con i principi generali del processo amministrativo. Il tema della particolare onerosità dei procedimenti amministrativi54 è stato trattato dalla giurisprudenza in materia antitrust con riferimento al problema dell’ammissibilità di un ricorso proposto avverso l’atto di comunicazione di avvio di un procedimento di abuso di posizione dominante nonché avverso l’esercizio del relativo potere ispettivo55. Il ricorso è stato ritenuto ammissibile56 laddove gli atti impugnati, sebbene a carattere endoprocedimentale, abbiano evidenziato una valenza di per sé lesiva dell’interesse legittimo dedotto in giudizio, nel senso che il loro eventuale annullamento avrebbe potuto produrre un’utilità non più conseguibile attraverso l’annullamento del provvedimento conclusivo del procedimento, e tale valenza immediatamente ed autonomamente lesiva è stata riconnessa sia al momento in cui l’Autorità ha ritenuto sussistere la propria competenza per l’esercizio del potere, 54 L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con le sentenze da n. 11 a n. 16 dell’11 maggio 2012, ha affrontato il tema della actio finium regundorum tra l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ed altre Autorità indipendenti in relazione a procedimenti aventi come finalità la tutela dei consumatori ed ha posto in rilievo in via preliminare che la questione del conflitto positivo di competenza tra due Autorità indipendenti, che ritengano entrambe di avere competenza nella materia operando in tal senso, solleva il problema della coerenza di un sistema del genere con il principio del buon andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost., atteso che i procedimenti in discorso sono estremamente onerosi sia per l’amministrazione sia per i privati e che gli operatori potrebbero essere sottoposti a duplici procedimenti per gli stessi fatti, con possibili conclusioni anche differenti tra le due Autorità ed evidente violazione del principio di proporzionalità che si verrebbe a configurare nel caso di cumulo materiale delle sanzioni da parte di entrambe le Autorità, 55 TAR Lazio, Roma, I, 26 gennaio 2012, n. 865. 56 Gli atti endoprocedimentali sono considerati, in linea di massima, privi di autonoma ed immediata lesività in quanto la stessa è destinata ad attualizzarsi soltanto con l’adozione del provvedimento finale afflittivo, per cui gli ipotizzati vizi di legittimità dell’atto possono essere fatti valere, in via derivata, in sede di impugnazione del provvedimento conclusivo del procedimento sul quale possono riverberarsi con effetto viziante. 41 imponendo in tal modo ai destinatari dell’azione l’assolvimento degli obblighi di collaborazione di cui all’art. 14, co. 5, l. n. 287 del 1990, sia al momento in cui l’Autorità ha deciso di autorizzare l’ispezione, acquisendo documentazione accessibile, sia pure nei limiti di legge, ai soggetti denuncianti, tra cui una Società concorrente57. L’ammissibilità dell’impugnativa relativa all’atto di avvio del procedimento è stata circoscritta all’an dell’esercizio del potere amministrativo ed è stato evidenziato che, in una valutazione complessiva degli interessi pubblici e privati in gioco, l’eventuale accertamento in questa sede di una carenza di potere in concreto consentirebbe alla stessa Autorità di non proseguire, evitando così un antieconomico dispendio di mezzi amministrativi, un’attività alla stessa non consentita. La caratteristica della estrema onerosità, sia per l’amministrazione che per i privati, dei procedimenti avviati dalle Autorità indipendenti - posta tra l’altro in rilievo dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato in via preliminare nelle sentenze del 2012 sull’actio finium regundorum tra Autorità antitrust e AGCom al fine di evidenziare il problema della coerenza di un sistema in cui due Autorità avrebbero competenze sovrapposte con il principio costituzionale di buon andamento dell’amministrazione - ha assunto pertanto rilievo non solo sul piano 57 Nei confronti dell’eventuale provvedimento conclusivo del procedimento che accerti l’esistenza di una fattispecie di abuso di posizione dominante irrogando la relativa sanzione pecuniaria, il bene della vita che l’impresa interessata tende a conseguire è costituito dal venire meno dell’accertamento dell’illiceità della condotta e della conseguente sanzione, mentre, nei confronti dell’atto di avvio del procedimento, l’utilità sperata è costituita in primo luogo dall’arresto procedimentale, vale a dire dal non essere investito da quegli obblighi di collaborazione che nei procedimenti in materia antitrust sono particolarmente intensi e sanzionati, ai sensi dell’art. 14, co. 5, l. 287 del 1990, in caso di rifiuto od omissione senza giustificato motivo, in modo rilevante, così come nei confronti dell’atto autorizzativo dell’ispezione, il bene della vita è costituito dal venire meno dell’accessibilità, sia pure nei limiti di cui all’art. 13 d.P.R. n. 217 del 1998, ai denuncianti dei documenti acquisiti. 42 sostanziale, ma anche sul piano processuale, determinando, nel caso in cui sia contestata la competenza dell’Autorità ad avviare il procedimento, un’anticipazione della tutela giurisdizionale dal provvedimento conclusivo del procedimento, momento in cui gli interessi di cui è chiesta tutela risulterebbero già irrimediabilmente compromessi, alla comunicazione di avvio del procedimento da parte dell’Autorità di cui il destinatario eccepisca l’incompetenza e, quindi, la carenza di potere in concreto, momento in cui la tutela potrebbe ancora preservare gli interessi dedotti in giudizio ed il buon andamento dell’amministrazione. Va da sé, pertanto, che il tempo dell’azione amministrativa, nel caso di procedimenti complessi, è stato ritenuto essere un valore così elevato, sia per l’amministrazione procedente sia per il destinatario su cui gravano gli obblighi di collaborazione, da poter essere configurato esso stesso come bene della vita da tutelare in via autonoma in sede giurisdizionale. 3.3 Il dominus del ricorso ed i tempi del processo. Per lunghi anni ed ancora oggi, coerentemente con la connotazione soggettiva della giurisdizione amministrativa, si è soliti affermare che il ricorrente è il dominus del ricorso. Tale principio - in linea con l’evoluzione del giudizio amministrativo da mero giudizio sulla legittimità dell’atto a giudizio sulla correttezza sostanziale della disciplina dell’intero rapporto controverso – deve essere attentamente interpretato. Nella complessità dei rapporti connaturata ad un mondo sociale ed economico sempre più evoluto, la ragionevole durata del processo, come indicato dall’art. 11 della Costituzione, espressamente richiamato dall’art. 2 c.p.a., costituisce un valore irrinunciabile. 43 Il tempo, come detto, è un valore anche economico e, sovente, la durata del processo incide di per sé, a prescindere dal suo esito finale, sulla disciplina interinale del rapporto e sui connessi interessi patrimoniali. Va da sé che ciò possa accadere, come indicato nel paragrafo 3.1, nel caso di rapporti disciplinati da atti rivelatisi illegittimi ed annullati in sede giurisdizionale, fattispecie in cui tutti gli effetti irreversibilmente prodotti medio tempore non possono che essere tutelati attraverso il risarcimento per equivalente patrimoniale del danno ingiusto, ma può accadere anche, sia pure meno frequentemente, nell’ipotesi in cui sia la stessa parte ricorrente ad avere interesse ad una più lunga definizione del giudizio al fine di lasciare medio tempore immutato lo status quo ante. Un’ipotesi paradigmatica può configurarsi in una materia delicata quale quella degli appalti, ove il gestore in carica di un servizio o di una fornitura, che non è risultato aggiudicatario della gara per il successivo periodo, nell’impugnare gli atti della procedura concorsuale, abbia un interesse concreto alla prorogatio del rapporto in essere più che alla sollecita definizione del giudizio. In generale, un interesse della parte ricorrente a che il giudizio non si concluda celermente può sussistere in ipotesi di accoglimento dell’istanza cautelare58 ovvero quando, in una controversia in materia di appalti, nelle more del giudizio cautelare o di merito, la stazione appaltante non dia comunque corso al rapporto con l’aggiudicatario sub judice lasciando inalterato lo status quo ante. Ne consegue che, interpretando il principio secondo cui il ricorrente è dominus del rapporto nel senso di ritenere che lo stesso abbia anche la disponibilità della 58 La previsione di cui all’art. 55, comma 11, c.p.a., secondo cui l’ordinanza con cui è disposta una misura cautelare fissa la discussione del ricorso nel merito, in tale prospettiva, va salutata come una norma di grande civiltà giuridica e sociale. 44 gestione dei ritmi del processo, potrebbe determinarsi una lesione al valore tempo ed un ingiustificato vulnus agli interessi pubblici e privati delle controparti coinvolti nel rapporto amministrativo. Non a caso, la giurisprudenza ha già avuto modo di chiarire che un’istanza di rinvio, quand’anche sorretta dall’allegazione di un problema di salute dell’unico difensore costituito, in assenza di determinate condizioni, non può essere accolta perché, altrimenti, risulterebbero gravemente vulnerati il principio di ragionevole durata del processo e il pari ordinato diritto delle controparti alla difesa, il quale implica l’interesse sia ad una decisione celere sia alla previa e tempestiva informazione preventiva di qualunque eventuale causa di rinvio59. In definitiva, ad avviso di chi scrive, può continuare ad affermarsi che il ricorrente è il dominus del ricorso nel senso che è l’unico soggetto, in quanto titolare delle condizioni soggettive dell’azione, che può introdurre il giudizio e decidere di rinunciare allo stesso, mentre non è affatto il dominus del processo, i cui tempi e le cui modalità devono essere dettate dal giudice nel rispetto di tutti gli interessi coinvolti nel rapporto amministrativo sottoposto al suo giudizio60. 59 Cfr. CGARS, sentenza 5 gennaio 2011, n. 11, la quale – specificando che, nell’ipotesi di una parte costituita con più difensori, l’impedimento di un solo avvocato non potrà mai condurre a un differimento della trattazione, a meno che non consti in tal senso l’accordo di tutte le parti costituite e sempre che il collegio giudicante ritenga detta concorde istanza meritevole di positivo vaglio in relazione alla natura ed allo stato della controversia – ha rappresentato che il dovere di cooperazione obbliga il difensore, il quale sia nelle obiettive condizioni di non potere comparire, di rispettare le altrui aspettative di celebrazione del giudizio e comporta anche l’onere di porre in essere ogni attività, materiale o giuridica, necessaria e sufficiente a rendere ugualmente possibile tale celebrazione o, in alternativa, di giustificare le ragioni dell’indispensabilità del rinvio, indispensabilità che non si esaurisce nella mera allegazione di un ostacolo alla presenza in udienza. 60 Cfr. TAR Lazio, Roma, II Ter, 28 gennaio 2014, n. 1086, secondo cui le disposizioni in materia non impongono al decidente di differire la discussione di un ricorso ogniqualvolta un avvocato si trovi nell’impossibilità di presentarsi personalmente in udienza per assolvere al proprio mandato. Un tale obbligo, che procede dal generale principio del contraddittorio e dalla tutela del diritto inviolabile alla difesa, si configura soltanto nei casi in cui la richiesta di rinvio non sia in contrasto con il dovere di ogni parte di cooperare alla ragionevole durata del processo, tanto più nelle ipotesi in cui sia stata accolta l’istanza cautelare e sussista l’esigenza, alla quale è ispirata anche la norma di cui all’art. 55, comma 11, c.p.a. , di definire con sollecitudine il merito della controversia. 45 In altri termini, solo la parte ricorrente, in una giurisdizione ancora a carattere soggettivo, può determinare la nascita del giudizio, con la proposizione del ricorso, e la sua estinzione, ma non può unilateralmente orientare i tempi e le modalità del giudizio, che restano nella disponibilità del giudice ed affidati al suo prudente apprezzamento in ragione delle complessive esigenze del rapporto. 4. Conclusioni. La consapevolezza che il tempo è un essenziale valore sociale, economico e giuridico di cui occorre tenere conto nella disciplina di ogni rapporto è oramai acquisita. La sua caratteristica di bene della vita, particolarmente prezioso in quanto risorsa scarsa, viene in rilievo, per ragioni diverse, tanto per il cittadino quanto per la pubblica amministrazione, e la stessa assume rilievo sia nello svolgimento dell’attività amministrativa sia nello svolgimento della relativa funzione giurisdizionale. Il tempo è stato per la prima volta considerato a livello normativo un bene della vita, la cui lesione può determinare il risarcimento del conseguente danno patrimoniale, con l’introduzione, attraverso la legge n. 69 del 2009, della risarcibilità del danno da ritardo nella conclusione del procedimento. In particolare, accanto al risarcimento del danno per la ritardata o omessa attribuzione dell’utilità richiesta con l’istanza pretensiva, la novella legislativa, secondo l’interpretazione preferibile, ha considerato, ed in questo riposa la sua vera originalità, che per il caso di mero ritardo, e cioè per l’ipotesi in cui non ci siano i presupposti per l’attribuzione del bene della vita richiesto, il tempo sia esso stesso un bene della vita la cui lesione può essere risarcita. 46 Pertanto, sulla base del nuovo corpus normativo, sembra ora possibile ipotizzare che, con la presentazione di un’istanza all’amministrazione che generi un obbligo di procedere e provvedere, il richiedente divenga al tempo stesso titolare di una posizione giuridica di interesse legittimo pretensivo, avente ad oggetto la specifica utilità richiesta, e di una posizione giuridica di diritto soggettivo alla tempestiva conclusione del procedimento, in cui il bene della vita è costituito dal tempo. Peraltro, ritengo che il tempo come bene della vita di per sé tutelato possa accompagnarsi anche all’interesse legittimo oppositivo alla conservazione di una specifica utilità nei procedimenti d’ufficio. La constatazione che il tempo è tutelato come bene della vita solo laddove vi sia un inadempimento dell’amministrazione e cioè un’inerzia in relazione a procedimenti che obbligatoriamente devono essere avviati e conclusi offre lo spunto per ritenere che, accanto a questa condivisibile impostazione, il legislatore ha ultimamente introdotto delle modifiche che sembrano poter trasformare il silenzio dell’amministrazione da fenomeno rispetto al quale vi era prima una scarsa attenzione per il privato a fenomeno rispetto al quale vi è forse oggi un eccesso di tutela del privato. Infatti, la legge n. 69 del 2012 ha previsto la conclusione del procedimento con un provvedimento redatto in forma semplificata per le ipotesi di manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza dell’istanza, il che, a prescindere dal plausibile intento di semplificazione della norma, finisce in concreto con l’ampliare l’area delle fattispecie in cui sussiste l’obbligo di procedere e provvedere in quanto la giurisprudenza consolidata aveva escluso, almeno per la manifesta infondatezza, tale obbligo. 47 Parimenti, il d.l. n. 69 del 2013, convertito con modifiche con l. n. 98 del 2013, nel prevedere un indennizzo per il mero ritardo nella conclusione del procedimento con funzione sanzionatoria e, quindi, svincolato dalla prova del danno, appare idoneo a generare un obbligo di carattere patrimoniale anche a fronte di istanze pretestuose, atteso che, come evidenziato, l’obbligo di concludere il procedimento è stato sostanzialmente esteso dalla legge n. 69 del 2012 anche alle istanze manifestamente irricevibili, inammissibili, improcedibili e infondate. Il tempo assume rilievo come bene della vita, sia pure in un'accezione diversa rispetto a quella tradizionale, anche nello svolgimento del processo amministrativo Basti pensare ad un giudizio di impugnazione di un provvedimento lesivo di un interesse legittimo, oppositivo o pretensivo, ipotesi in cui più il giudizio si protrae nel tempo più l’atto eventualmente illegittimo è in grado di produrre effetti irreversibili; in tal caso, per il segmento temporale in cui l’atto ha prodotto effetti irreversibili, residua all’interessato la sola tutela risarcitoria del danno per equivalente patrimoniale con conseguente vulnus non solo per l’interesse privato ma anche per l’interesse pubblico, in quanto il rapporto si trova ad essere medio tempore disciplinato in modo illegittimo e le finanze pubbliche sono tenute a corrispondere somme di denaro a titolo risarcitorio quando una più celere definizione del giudizio avrebbe consentito la soddisfazione in forma specifica dell’interesse materiale dedotto in giudizio ed evitato o limitato la responsabilità risarcitoria. L’antieconomicità e l’inutilità dello svolgimento di procedimenti complessi, che sottraggono tempo prezioso alle amministrazioni procedenti ed impongono adempimenti illegittimi ed onerosi ai destinatari, dovrebbero consentire di anticipare la tutela giurisdizionale, in determinate circostanze e quando sia 48 contestata la competenza a procedere, dal provvedimento conclusivo alla comunicazione di avvio del procedimento d’ufficio. L’osservazione che il tempo è un bene prezioso e che, quindi, la celerità della definizione del giudizio costituisce un elemento importante per rendere un migliore servizio giustizia alla collettività consente inoltre di interpretare il principio secondo cui il ricorrente è il dominus del ricorso nel senso che, in quanto titolare delle condizioni soggettive dell’azione, egli ha il potere di far nascere o morire il processo, ma non ha anche la disponibilità dei tempi e delle modalità dello stesso che restano affidati al prudente apprezzamento del giudice in considerazione dei molteplici interessi pubblici e privati coinvolti nel rapporto controverso. °°°°°° Sono ormai lontani gli anni in cui contro i comportamenti omissivi delle pubbliche amministrazioni l’ordinamento non prevedeva espressamente alcuna tutela e la giurisprudenza si affannava nella ricerca di interpretazioni che potessero colmare tale lacuna. Gli strumenti di tutela dell’interesse legittimo, infatti, postulavano che la sua lesione fosse avvenuta per mezzo dell’adozione del provvedimento, ma non contemplavano l’ipotesi in cui si fosse consumata attraverso l’inerzia dell’amministrazione, tanto da rendere necessaria la costruzione pretoria di un’azione atipica quale quella c.d. di impugnazione del silenzio rifiuto. Il legislatore dell’ultima stagione, dapprima, ha stabilito termini per la conclusione dei procedimenti amministrativi da avviare obbligatoriamente, poi ha introdotto l’apposito rimedio giurisdizionale dell’azione avverso il silenzio individuando anche le ipotesi in cui il giudice possa conoscere della fondatezza 49 della pretesa, quindi ha previsto una responsabilità risarcitoria per il mancato esercizio dell’attività amministrativa obbligatoria introducendo il danno da mero ritardo e, infine, sembra avere esteso l’area dell’obbligo di provvedere rispetto a quella individuata dalla giurisprudenza ed ha stabilito, in relazione all’attività di impresa, l’indennizzabilità per il mero ritardo nell’adozione del provvedimento. Ritengo che l’evoluzione normativa di questi ultimissimi anni possa portare ad una tutela addirittura sovrabbondante del privato, cittadino o impresa, che abbia rivolto all’amministrazione un’istanza senza ottenere una tempestiva risposta. Ciò in quanto, ampliandosi l’area dell’obbligo di provvedere, si costringe l’amministrazione ad attività che potrebbero rivelarsi anche inutili ed antieconomiche e, prevedendosi un obbligo di indennizzo svincolato dalla prova del danno, può sorgere un obbligo indennitario anche a fronte di istanze pretestuose. Il concetto di tempo nei rapporti pubblicistici è stato trascurato per molto tempo, mentre ora viene esaltato e la norma introduttiva del’obbligo indennitario da mero ritardo, optando per una presunzione assoluta, vale a dire svincolata dalla prova del danno, che il tempo sia un bene della vita la cui lesione va comunque ristorata, sembra essere in grado di generare effetti controproducenti, potendo esporre le amministrazioni ad una pluralità di istanze poco significative. Il grande scrittore e pensatore russo Fedor Dostoevskij era solito tratteggiare i personaggi dei suoi romanzi come figure costantemente “al limite”, al fine di esplorare e indagare il confine finale delle dinamiche umane di azione e reazione. Non vorrei che il concetto di tempo nell’azione amministrativa fosse disciplinato sempre “al limite”, con un’oscillazione tra il poco ed il troppo, mentre a servire meglio gli interessi pubblici e privati servirebbe il giusto. 50 Roberto Caponigro Consigliere TAR Lazio 51