Politica economica e gestione delle risorse umane

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Facoltà di Scienze della Formazione
Università di Roma Tre
Anno accademico 2013/2014
Corso di laurea in “Formazione e sviluppo delle risorse umane”
Insegnamento
Politica economica e gestione delle risorse umane
Docente
Prof. Aldo Gandiglio
Prima parte
LEZIONE 5
CICLO ECONOMICO – CRISI - SVILUPPO
Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre
a.a. 2013- 2014
Ciclo economico, crisi e sviluppo
Ricordiamo ancora una volta che ci limitiamo ad approfondire in via prioritaria la crescita economica,
definita attraverso la crescita del reddito e della produzione, mentre quando affrontiamo i contenuti
dello sviluppo dobbiamo tener conto di fattori non solo produttivi - quantitativi, ma da un insieme di
elementi e variabili socio-economiche, quantitative e qualitative (come riportato nelle lezioni
precedenti).
La crescita economica e produttiva si muove nel tempo con oscillazioni, momenti di forte crescita,
rallentamenti, diminuzioni.
Il ciclo economico indica le fasi alterne di espansione e di contrazione dell'attività economica di un
paese, che viene segnalata da indici quantitativi globali, come il Pil, o con altri indicatori, come la
produzione industriale o l'occupazione.
Sul piano empirico, viene solitamente individuato in due fasi: l’espansione, con il Pil che aumenta
fino a un periodo di boom, l’attività economica (ed anche finanziaria) e, solitamente, anche i prezzi,
aumentano; e la recessione (viene così tecnicamente definita quando il Pil reale diminuisce per
almeno due trimestri).
I cicli economici non vanno confusi con le fluttuazioni economiche, normali variazioni determinate da
andamenti settoriali, dai cambiamenti nella propensione e orientamenti dei consumatori, dalla
scomparsa di alcuni beni di consumo sostituiti da altri, dall’introduzione di nuove tecnologie, dagli
andamenti stagionali che influenzano i raccolti agricoli o il turismo, ecc.. Si può realizzare un declino,
magari temporaneo, in un settore economico, cui fa da compensazione un aumento in un altro
settore, ovviamente con oscillazioni e disallineamenti temporali.
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L’osservazione di una qualche regolarità nel tempo e le sue manifestazioni e conseguenze – positive
e negative sull’occupazione, sui redditi - hanno spinto gli economisti ad analizzare le cause che
possono determinare/influenzare il ciclo economico, e a cercare di individuare e misurare i possibili
interventi da porre in atto per far riprendere una espansione dell’attività economica o per rallentarne
la caduta.
Solitamente, le teorie del ciclo individuano cause esogene o endogene, a seconda che i fattori
ritenuti responsabili vengano individuati all’esterno o all’interno del sistema economico.
Sono sicuramente esogene le cause imputabili alle guerre, eventi rivoluzionari, cui fanno seguito
politiche economiche dettate dalla eccezionalità degli eventi, ma anche alle elezioni, (vi sono degli
studi sugli effetti economici dei cicli elettorali); altrettanto esogeni possono essere gli impulsi sul
sistema produttivo derivanti da scoperte di giacimenti energetici (paesi produttori di petrolio).
Affrontando il ciclo economico, ci permette di iniziare ad accennare, con una estrema sintesi, anche
ad alcune elaborazioni appartenenti ai più grandi economisti. E’ inutile rammentare che esiste una
vastissima letteratura al riguardo.
L’interesse nell’approfondire gli elementi che possono influenzare la crescita economica è già
rinvenibile negli scritti degli economisti classici: Adam Smith riconosceva come il tasso di risparmio e
d’investimento aumentasse le possibilità della crescita economica, mentre Malthus sosteneva che la
crescita demografica e la crescita economica trovassero limiti nella disponibilità delle risorse della
terra.
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Ma è con Schumpeter, uno dei massimi economisti del ‘900, di origini austriache, professore di
economia in varie università europee ed americane, che si ha un contributo importante alla
individuazione delle determinanti della crescita e del ciclo economico. E’ l'introduzione delle
innovazioni tecnologiche nel processo produttivo che innesca un ciclo economico di lungo periodo,
con l’alternarsi di fasi di forte espansione seguite da fasi di recessione. Le innovazioni si diffondono
a grappolo in alcuni settori, generando l’aumento di prodotto che si riversa sul mercato mettendo in
crisi le imprese e i settori più tradizionali. La loro introduzione ha effetti che durano nel tempo fino a
quando i nuovi beni saturano il mercato, con le imprese che diminuiscono gli investimenti a causa
delle diminuite le prospettive di profitto. Ha così inizio una fase recessiva del ciclo che riprende con
l'introduzione di altre innovazioni che possono provenire dalle imprese esistenti o da nuove imprese
o da altri settori economici, oppure da altri paesi produttori.
Molti sono gli economisti che hanno approfondito le politiche monetarie. Oltre ad averne analizzato
gli effetti, annettono alla moneta una causa primaria nel determinare i cicli economici, in coincidenza
di aumenti (espansione) e di riduzioni (recessione) del livello dei prezzi indotti dai mutamenti della
quantità di moneta.
Si ricordano gli esponenti della scuola “austriaca” (i più importanti: Mises, Hayek, Böhm-Bawerk)
che individuano quali cause esogene nell’origine dei cicli gli interventi della politica monetaria, in
particolare le politiche attuate dalle banche centrali attraverso un costante aumento dell'offerta di
moneta.
La centralità della moneta nel funzionamento di ogni sistema economico è il fondamento teorico dei
“monetaristi”, una scuola di pensiero economico che ha come principale rappresentante Milton
Friedman (Nobel nel 1976) e gli economisti della Scuola di Chicago.
Gli approcci teorici hanno avuto rilievo nel determinare gli indirizzi di politica economica degli
organismi internazionali (Fondo Monetario Internazione) e di numerosi governi neo-liberista e
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conservatori (Thatcher in Gran Bretagna, Reagan negli USA, i paesi sudamericani ) in
contrapposizione alle politiche keynesiane che avevano prevalso sino all’inizio degli anni ’70, e che
venivano ritenute insufficienti, inadeguate a frenare la crescita della disoccupazione e dell’inflazione
a seguito della crisi petrolifera del 1973.
In estrema sintesi, e semplificando, per i monetaristi:
1. La politica monetaria è uno strumento inefficace di politica economica
2. La gestione dell’offerta di moneta deve essere soggetta a regole per evitare instabilità nel sistema
economico.
Le conclusioni in termini di politiche economiche:
a) controllo dell’offerta di moneta, con quantità predeterminata in relazione con la crescita
economica, al fine di evitare spirali inflazionistiche;
b) stretta del credito, in particolare per il finanziamento del deficit del bilancio pubblico;
c) riduzione della spesa pubblica;
d) riduzione della pressione fiscale.
Da questo impianto teorico è emersa una rinnovata fiducia nel libero mercato, per il quale non
esistono difetti fondamentali tali da generare una disoccupazione persistente, almeno nelle realtà in
cui prezzi e salari sono pienamente flessibili.
All’opposto si colloca l’impianto del pensiero di Keynes, che vede nei meccanismo endogeni del
sistema economico le determinanti del ciclo di sviluppo, relativamente alle aspettative e all’influenza
sulla domanda di investimenti; quando le aspettative diventano negative si contrae la domanda di
beni capitali, che deprime la produzione, genera disoccupazione e ulteriore contrazione della
domanda di beni di consumo. Anzi, era proprio questa differente visione del fenomeno della
disoccupazione a caratterizzare i due approcci economici che per anni si sono fronteggiati: i
keynesiani ed i neoclassici. Mentre nella teoria keynesiana la disoccupazione è permanente,
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involontaria e originata da una domanda insufficiente (di qui l’indicazione di una politica di aumento
della spesa pubblica), per i neoclassici la disoccupazione è transitoria, imputabile al momentaneo
adattamento del sistema economico che naturalmente tende all’equilibrio.
Come si potrà leggere poco dopo (vedi anche le letture suggerite) la politica economica keynesiana
nasce dal fallimento della teoria neoclassica a rispondere alla grande depressione del ‘30. Le teorie
keynesiane sono sintetizzabili soprattutto dall’utilizzo della spesa pubblica (per consumi, ma
soprattutto per investimenti), per aumentare la domanda effettiva del sistema e per portare il sistema
verso la massima occupazione. Ma la vera applicazione su larga scala delle politiche economiche
keynesiane si ha nel dopoguerra, con il grande piano di aiuti americani all’estero e con le alte spese
per gli armamenti, che hanno portato ad un tasso di sviluppo del Pil continuo ed elevato, mai
conosciuto nei periodi precedenti.
Ma il successo stesso delle teorie keynesiane ha creato le condizioni per cui sono entrate in crisi:
l’avvicinarsi alla piena occupazione ha rafforzato la forza dei sindacale e, soprattutto, si è ingenerato
nei governi il ricorso alla spesa pubblica (spesso finanziata in deficit) per controllare il ciclo
economico. Questa politica è però entrata in crisi all’inizio degli anni ‘70, con la difficoltà di
controllare quello che allora era diventato il fenomeno sociale più importante dell’economia:
l’aumento dell’inflazione.
Da ultimo ricordiamo, in analogia a quanto detto, l’interazione moltiplicatore/acceleratore,
sistematizzato da Samuelson e Hicks, in cui si trovano i presupposti del ciclo economico (sia nelle
fasi di espansione sia di recessione). Con il principio dell’acceleratore si ha che un aumento dei
consumi determina un successivo incremento negli investimenti, ma l’incremento dei beni capitali è
più che proporzionale rispetto all’incremento nella produzione dei beni di consumo. E ciò caratterizza
una fase di espansione. Ma se i consumatori mantengono lo stesso livello di consumi si può
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innescare una fase recessiva: rispetto al periodo precedente la domanda di beni capitali si riduce,
generando la depressione in tale settore.
Per alcuni approfondimenti sulle crisi economiche del passato e su quella che stiamo attraversando,
sul dibattito relativo all’intervento dello Stato e sulle misure che si stanno attuando, oltre a quanto
riportato nella precedente Lezione n. 4, vedi:
La Grande Depressione (vedi pag. successiva) e i tre Allegati a questa lezione (inseriti in bacheca):
1) 2012 -01-26 - Diario di Repubblica - CAPITALISMO Dal mercato alle disuguaglianze, la crisi di un
modello globale
2) 2013 -05-18 - Diario di Repubblica - POST-AUSTERITY La fine di un'ideologia moralista che ha
aggravato la crisi
3) 2012 -06-21 - Diario di Repubblica - NEW DEAL Un modello contro l'austerity per rilanciare la
crescita
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Tratto da: Paul Krugman, Robin Wells, Martha L. Olney, L'essenziale di economia, Zanichelli,
Bologna, 2008, pagg. 331-333.
La Grande Depressione
Gli storici concordano: la Grande Depressione, cominciata nel 1929 e durata per tutti gli anni 1930, è
stata uno degli eventi determinanti della storia statunitense. E i suoi effetti non sono rimasti limitati
agli Stati Uniti: le ripercussioni di questo evento catastrofico si sono abbattute su tutte le principali
economie di mercato, in Europa, America Latina, Giappone, Canada e Australia. La Germania fu tra
le economie colpite più duramente dalla Grande Depressione; gli storici ritengono che ciò fu una
delle principali cause dell’avvento del nazismo, che portò infine allo scoppio della seconda guerra
mondiale.
La Grande Depressione fu anche l’evento determinante della moderna macroeconomia: volendo
descrivere la funzione ultima della macroeconomia moderna, potremmo affermare che sia «impedire
che si ripeta un evento drammatico come la Grande Depressione».
La Depressione cominciò nell’agosto 1929 con una debole flessione della produzione aggregata,
che contribuì a sua volta a scatenare il noto crollo dei mercati azionari nell’ottobre 1929, l’evento
forse maggiormente associato alla Grande Depressione. Se gli effetti economici si fossero limitati
alle ricadute della crisi finanziaria, probabilmente l’economia avrebbe sperimentato una breve
recessione.
Ma a fare della Grande Depressione un disastro duraturo fu l’aumento catastrofico della
disoccupazione e la forte caduta della produzione aggregata che seguirono il crollo dei mercati
finanziari.
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Nel 1929 il tasso di disoccupazione (in termini generici, la percentuale della popolazione lavorativa
che non riesce a trovare un lavoro) era solo il 3,2%, come mostrato nella figura 14.1(a). Nel 1933 era
salita al 24,9%: un cittadino statunitense su quattro era senza lavoro, e molti riuscivano a
sopravvivere solo grazie alle mense per i poveri e ad altre opere di carità. Molte famiglie furono
sfrattate dalle loro case e in tutto il paese cominciarono a sorgere delle baraccopoli, interi quartieri
composti da abitazioni costruite con materiale di risulta. I lavoratori diedero vita a molte forme di
lotta, perché si sentivano abbandonati dall’economia di mercato. (In un caso molto famoso, i veterani
della prima guerra mondiale, chiamati «Bonus Marcher», costruirono una baraccopoli sul viale
principale di Washington, D.C., chiamato The Mall. Furono cacciati dall’esercito federale quando
cominciarono a chiedere a viva voce un sussidio finanziato dal governo.) La caduta dell’occupazione
fu accompagnata dal crollo del prodotto interno lordo reale (o PIL reale), una misura della
produzione aggregata. Tra il 1929 e il 1933 il PIL reale diminuì del 27%, come illustrato nella figura
14.1(b).
Furono tempi di grande e inattesa miseria, ancora più sconvolgente se si pensa che il decennio
precedente, i «ruggenti anni Venti», era stato un periodo di crescita e prosperità senza precedenti.
Dieci anni dopo molti pensavano che la democrazia stessa degli Stati Uniti fosse in pericolo.
Trascorse parecchio tempo prima che l’economia cominciasse a mostrare segni di ripresa. Nel 1939,
dopo un decennio di provvedimenti di politica economica attuati nel tentativo di invertire il ciclo
economico, il tasso di disoccupazione si attestava al 17%, un valore molto elevato per lo standard di
quei tempi. La produzione totale non tornò ai livelli del 1929 fino al 1937, e si dovette attendere il
1941 per registrare nuovamente un tasso di disoccupazione inferiore al 10%. La prosperità
economica fece ritorno solo con lo scoppio della seconda guerra mondiale.
La Grande Depressione gettò gli economisti in uno stato di attività febbrile per capire che cosa fosse
accaduto e quale potesse essere il rimedio adatto. Ciò portò a una svolta epocale nella misurazione
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delle variabili macroeconomiche: molte delle statistiche oggi impiegate per seguire l’andamento
dell’economia cominciarono a essere raccolte negli anni 1930. La teoria economica subì un profondo
cambiamento con la pubblicazione nel 1936 della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e
della moneta, opera dell’economista britannico John Maynard Keynes: un libro che ha avuto
un’influenza sul mondo paragonabile solo a quella de La ricchezza delle nazioni di Adam Smith.
L’opera di Keynes, e le interpretazioni e le critiche che altri economisti ne hanno fornito, hanno dato
vita sia alla macroeconomia come scienza sia alle moderne politiche macroeconomiche.
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