Computazione delle donazioni antecedenti alle seconde nozze ai fini della determinazione dell’asse ereditario ed ammissibilità della rinuncia tacita all’azione di riduzione. Nota a Cassazione Civile, Sez. II, sentenza 28 ottobre 2008 - 20 gennaio 2009, n. 1373 di Pasquale Laghi - Dottore in Giurisprudenza e Dottorando di Ricerca in “Impresa, Stato e Mercato” presso l’Università degli Studi della Calabria del legittimario al diritto di esperire l’azione di riduzione. La decisione chiarisce, coerentemente al dato normativo, i criteri di determinazione sia dell’asse ereditario su cui operare la divisione, sia dei soggetti tutelati dall’ordinamento mediante l’attribuzione della qualità di legittimario. Cristallizza, quindi, i principi regolatori del fenomeno successorio in modo condivisibile alla stregua della interpretazione testuale, sottacendo, però, la imprecisione delle formule normative in tema di collazione, col conseguente rischio di variabili applicative spesso aberranti sotto il profilo etico e sociale. Premessa – Con la sentenza n. 1373 del 20 gennaio 2009, la Suprema Corte è intervenuta nella materia successoria, prospettando una soluzione della controversia sottoposta al suo esame in precisi termini logico-giuridici, tali da garantire una corretta e sicura applicazione dell’impianto normativo che regola il funzionamento del sistema della successione necessaria e dei particolari istituti a tale settore afferenti. La decisione della Corte, seppur priva di portata innovativa, in quanto riafferma consolidati principi in tema di successione mortis causa, si segnala per la sua intransigente attenzione alla precisa applicazione dei testi normativi, escludendo dall’ambito di valutazione ogni elemento estraneo ad essi, anche se inerente al comune sentire sociale. Essa ha adottato un’ermeneutica rigorosamente testuale e positiva delle disposizioni di legge, condivisibile sul piano della legittimità, ma al tempo stesso staccata e insensibile rispetto al sentimento che informa i rapporti sociali nel contesto della successione ereditaria. Questo aspetto carente della legge, segnalato dalla dottrina più attenta (Gabrielli, Rapporti patrimoniali e successori nell’ambito della famiglia a vent’anni dalla riforma, in Vita notarile, 1996, p. 28), è stato imputato al carattere generico delle disposizioni in tema di collazione ed azione di riduzione, le quali tendono ad accomunare aprioristicamente, soprattutto nella rilettura imposta a seguito della novella legislativa del 1975 in materia di diritto di famiglia, posizioni soggettive di fatto collidenti sotto il profilo affettivo e parentale. Concretamente la sentenza n. 1373 affronta, tra le altre, due questioni successorie, inerenti rispettivamente all’individuazione dei soggetti tenuti alla collazione a favore dei coeredi, di ciò che hanno ricevuto per donazione, salvo dispensa, al fine di determinare la quota riservata ai legittimari, ed alla valenza dei mezzi probatori, diretti ed indiretti, della eventuale rinuncia tacita Vicenda – Da parte del figlio nato dalle prime nozze del de cuius erano stati instaurati tre giudizi civili nei confronti della seconda moglie di quest’ultimo, ottenendone la condanna al pagamento di 120 milioni di lire a titolo di spettanze sulle risultanze attive ed interessi di un conto corrente che era cointestato al defunto ed alla sua prima consorte. La convenuta, in via riconvenzionale, aveva rivendicato i propri diritti di legittimaria sull’asse ereditario del marito, incrementato dalla quota di spettanza dello stesso sull’eredità della prima moglie e tenuto conto delle donazioni da lui effettuate in favore del figlio (attore in giudizio), prima di contrarre il nuovo vincolo coniugale. Inoltre, la stessa convenuta aveva chiesto la reintegrazione ex art. 557 c. c. della quota di legittima del marito, lesa dalle donazioni fatte dalla prima moglie al figlio, le quali venivano ad incidere negativamente sulla quantificazione della quota di riserva della seconda consorte sull’eredità del de cuius. Tanto il Tribunale che la Corte di Appello di Napoli avevano accolto la domanda dell’attore, e rigettato le deduzioni avversarie e le richieste riconvenzionali, affermando che la seconda moglie convenuta poteva pretendere esclusivamente la collazione delle donazioni poste in essere dal de cuius dopo il secondo matrimonio, 1 ai fini della ricostruzione dell’asse ereditario e del calcolo delle quote riservate ai legittimari, con esclusione di quanto dallo stesso donato in epoca anteriore alle seconde nozze; e dichiarando, inoltre che il marito, in virtù del contegno tenuto negli anni intercorrenti tra la morte della prima moglie ed il proprio decesso, avesse tacitamente rinunziato all’azione ex art. 557 c. c. nei confronti del figlio – odierno attore, al fine di ottenere la riduzione delle donazioni effettuate in favore di quest’ultimo dalla propria madre (nonché prima moglie del de cuius). Investita della questione, la Corte Suprema ha cassato con rinvio la decisione di appello per ciò che concerne il su esposto primo motivo di ricorso, mentre ha rigettato il secondo motivo col quale la ricorrente lamentava l’errata applicazione degli artt. 115, 183 e 184 c. p. c. e delle norme in tema di comunione legale tra i coniugi ex art. 177 e 179 c. c., in riferimento ad un conto corrente intestato al defunto ed alla prima moglie, asserendo che questo ricadesse nei beni comuni. ai coeredi tutto ciò che hanno ricevuto dal defunto per donazione, salvo dispensa da parte dello stesso (art. 737 c. c.). Questa norma non pone limiti temporali all’operatività della collazione, non facendo alcuna distinzione tra le donazioni effettuate prima o dopo del secondo matrimonio. Sul punto, tanto la dottrina che la giurisprudenza non hanno mai registrato dubbi, affermando che non rilevi il momento in cui è stata effettuata la donazione, poiché la lesione della legittima, a cui consegue l’assoggettabilità a riduzione degli atti di liberalità compiuti dal de cuius, si verifica soltanto con la morte di quest’ultimo, non potendosi fare riferimento neanche alla situazione che si viene a determinare per effetto del mancato esperimento dell’azione di riduzione da parte di qualcuno dei legittimari (v. Cass. civ., Sez. Unite, 12 giugno 2006, n. 13524). Ciò, peraltro, è indirettamente dimostrato dal fatto che i coeredi gravati dall’obbligo devono conferire tutte le donazioni dirette ed indirette ricevute, prescindendo dal tempo in cui queste furono effettuate nonché dal loro valore (art. 514 c. c.), con la conseguenza che, in caso di riduzione, da esse sarà decurtata la sola porzione di valore che esuberi il limite della rispettiva quota di legittima. Tale fenomeno si determina in deroga al disposto dell’art. 559 c. c. che, invece, prevede per le donazioni la riduzione individuale e progressiva, dalla più recente alla più remota. Conseguentemente, l’effetto della computabilità nella quota di riserva si verifica per il figlio legittimo o naturale, anche in riferimento ai beni che siano stati donati prima della nascita; per il figlio adottivo, anche per i beni oggetto di disposizione prima del provvedimento di adozione; analogicamente per il coniuge si deve fare riferimento anche alle donazioni compiute prima della contrazione del vincolo matrimoniale (Mengoni, Successioni per causa di morte, in Trattato di diritto civile e commerciale a cura di Cicu-Messineo, XLIII, t.2, Milano, 1967, p. 233). Opinione contraria è quella che ritiene insussistente l’obbligo di collazione nell’ipotesi in cui il de cuius abbia interamente disposto in vita dei suoi beni per mezzo di donazioni, in quanto sarebbe da ciò desumibile “un’implicita deroga ai principi dell’istituto, che sono dispositivi”(Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, p. 531). In realtà tale ricostruzione teorica esalta eccessivamente il profilo aritmetico della collazione, non considerando che a seguito di essa – e non già prima – si ha la formazione dell’asse Commento: Collocazione temporale degli atti di liberalità soggetti a collazione e caratteristiche della rinunzia tacita all’azione di riduzione – Nella decisione in esame viene preso in considerazione il profilo temporale dell’istituto della collazione ereditaria e dell’azione di riduzione, ossia la loro estensibilità ad atti di disposizione del patrimonio del de cuius, individuati nella loro collocazione cronologica rispetto all’acquisizione della qualità di legittimario. Il Giudice di merito al riguardo aveva affermato che la seconda moglie, quale legittimaria, avesse delle aspettative tutelate, relative alla quota a lei riservata del patrimonio del marito solo con riferimento agli atti di liberalità posti in essere dal defunto dopo il matrimonio, escludendo la sua legittimazione all’azione di riduzione relativamente agli atti a titolo gratuito compiuti prima di tale momento. La Cassazione, a tale argomentazione, ha rilevato giustamente la violazione delle norme che disciplinano la riduzione delle donazioni e la collazione. Infatti, la determinazione quantitativa del patrimonio relitto e delle quote successorie, consegue alla c. d. riunione fittizia, volta a ricostruire la consistenza dell’asse ereditario mediante la collazione dei beni donati in vita dal de cuius (art. 724 c. c.). A tal fine, i soggetti tenuti alla collazione, cioè i figli legittimi e naturali, i loro ascendenti legittimi e naturali ed il coniuge che concorrono alla successione, devono conferire 2 ereditario su cui poi procedere alla determinazione delle quote di riserva ed alla divisione del patrimonio relitto. Inoltre, non tiene conto che la quantificazione della legittima è susseguente all’apertura della successione, ragione per la quale non può ricavarsi da uno stato di fatto precedente una manifestazione tacita di volontà del de cuius di derogare alle norme in tema di collazione. La stessa giurisprudenza di legittimità sul punto si è espressa in maniera univoca, affermando come sia necessario, al fine di procedere alla determinazione dell’asse ereditario e delle quote di riserva, prendere in considerazione la massa composta da tutti i beni che appartenevano al de cuius al momento della morte, sottratti i debiti, ed incrementata del valore dei beni donati dal defunto in vita, senza che si possa e debba distinguere tra donazioni anteriori o posteriori al sorgere del rapporto giuridico da cui discende la qualità soggettiva di legittimario (v. Cass. civ., Sez. II, 23 febbraio 1982, n. 1122). Alla luce delle considerazioni esposte, appare agevole comprendere l’errore della Corte territoriale, che non ha tenuto conto delle ragioni per cui la collazione riguarda la totalità delle donazioni effettuate dal defunto, non incidendo sul punto il momento storico – sia esso quello del matrimonio, della nascita o dell’adozione – in cui il coerede ha acquisito la posizione giuridica di successore necessario del de cuius. Per ciò che concerne la posizione del coniuge superstite – esaminata nel caso di specie – occorre rilevare che questa nel corso degli anni ha subito notevoli mutamenti di disciplina passando dal semplice diritto di usufrutto sui beni del coniuge defunto a quello di legittimario pro quota dei beni nella successione dello stesso, con conseguente obbligo di collazione e legittimazione all’esperimento dell’azione di riduzione al fine di ottenere la reintegrazione della quota di riserva lesa dagli atti dispositivi a titolo gratuito compiuti dal de cuius. L’estensione dell’obbligo di collazione delle donazioni fatte da un coniuge all’altro, ai fini della determinazione dell’asse ereditario dividendo e delle quote di riserva, è stata implicitamente ammessa – prima della riforma del diritto di famiglia, entrata in vigore con la legge 19 maggio 1975, n. 151 – con la sentenza 27 giugno 1973, n. 91 della Corte Costituzionale, la quale, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale del divieto di donazione tra coniugi (art. 781 c. c.), ha ritenuto contraria al principio di ragionevolezza la discriminazione della condizione del coniuge colpito dal divieto rispetto a quella degli altri soggetti legittimati a fare donazioni liberamente all’infuori del rapporto coniugale: tale limitazione comprimeva, senza alcuna valida ragione logico-giuridica, l’autonomia contrattuale in relazione alla facoltà di disporre a titolo gratuito dei propri beni, anche a favore del coniuge. Questo principio, di ampia portata, deve reputarsi riferibile anche al coniuge di seconde nozze, in mancanza di una espressa o tacita esclusione, con la conseguenza che questi, trovandosi nella posizione di legittimario analoga a quella dei figli del de cuius, se da un lato è assoggettato all’obbligo della collazione, dall’altro ha il diritto di esercitare l’azione di riduzione e d’integrazione della quota riservata nei confronti di donatari o attributari a titolo gratuito di beni rientranti nell’eredità, in forza di atti anche precedenti al vincolo matrimoniale. Alla luce dell’esposto dato positivo, la decisione della Corte Suprema è senza dubbio corretta, non prevedendo il codice distinzioni tra la posizione del coniuge di seconde nozze rispetto al figlio di primo letto (entrambi eredi necessari), in ordine all’obbligo di collazione ed alla legittimazione all’azione di riduzione. Il Giudice di legittimità ha anche disatteso la tesi subordinata svolta dal Tribunale, relativa alla possibilità di considerare le donazioni del de cuius al proprio figlio, quali elargizioni familiari di modico valore, come tali non soggette a collazione. Tale configurazione è stata giustamente respinta dalla Corte Suprema, atteso che l’art. 738 c. c. esclude l’obbligo della collazione delle donazioni di modico valore fatte al coniuge e non già di quelle a favore di discendenti o di altri soggetti. Pur condividendo la decisione della Suprema Corte, è opportuno sottolineare l’eccessiva genericità del testo dell’art. 737 c. c. che, nella riformulazione operata dall’art. 201 della legge 19 maggio 1975, n. 151, ha accomunato, in ordine alla collazione, la posizione del coniuge in generale e quella dei figli del de cuius, senza distinguere la posizione del coniuge di primo letto da quella del consorte in seconde nozze. Il deficit legislativo appare evidente, se si considera che le due situazioni coniugali, per le differenze sostanziali che le caratterizzano nell’assetto familiare, postulano trattamenti normativi diversificati. Tra i figli di primo letto ed il secondo coniuge del de cuius i rapporti e le esigenze concrete in sede successoria, possono essere e spesso sono contrapposte e richiedono discipline coerenti con le situazioni da 3 regolamentare, secondo il sentimento e le aspettative della società La normativa vigente, finalizzata alla tutela della famiglia intesa come un complesso di rapporti affettivi imprescindibili tra i suoi componenti, presuppone un dato di fatto irreale; si fonda, cioè, su un concetto di famiglia consistente in una pluralità di persone (coniuge e figli) in ogni caso legati tra loro da vincoli affettivi omogenei con interessi comuni, senza tener conto della possibilità che al primo matrimonio ne seguano altri e che vengano a formarsi nuclei familiari distinti, anche sotto il profilo della solidarietà interna a ciascuno di essi. È il caso, deciso dalla Cassazione, del coniuge di seconde nozze superstite che, quale successore legittimario del consorte, rivendica i propri diritti ereditari estesi anche ai beni che il de cuius ha acquisito mortis causa dal primo coniuge premorto. I figli di primo letto, in tale ipotesi, possono essere chiamati a dividere con il patrigno o la matrigna – ossia con un soggetto, rispetto ad essi ed al loro genitore premorto, sentimentalmente rivale nel rapporto successorio – parte del patrimonio in origine di proprietà esclusiva del proprio genitore (Gabrielli, cit). Tale conclusione, benché avvalorata dai meccanismi successori e di tutela della solidarietà familiare, è inaccettabile sul piano etico e di giustizia sostanziale connessa al sentimento di affezione nei confronti del proprio genitore. In merito all’altro profilo oggetto della decisione in esame, pertinente all’ammissibilità di una rinuncia tacita all’azione di riduzione, la Suprema Corte ha osservato, facendo riferimento al proprio consolidato orientamento, che questa deve essere desumibile con sicurezza da fatti concludenti ed univoci, mediante una rigorosa valutazione che consenta di stabilire la loro incompatibilità radicale con la volontà di far salvo il diritto e di esercitarlo in prosieguo (v. Cass. civ., Sez. II, sentenza 7 dicembre 1963, n. 3299). È stata esclusa la necessità di una espressa manifestazione di volontà, sempre che la rinuncia risulti da comportamenti concludenti in senso preclusivo all’esercizio del diritto; non è stata ritenuta concludente in tal senso la richiesta dei legittimari di procedere alla divisione giudiziale dei beni caduti in successione (v. Cass. civ., Sez. II, sentenza 7 maggio 1987, n. 4230). Il Giudice d’Appello, nel caso in esame, aveva tratto la volontà tacita di rinuncia dalla circostanza che il de cuius, nei due anni intercorsi dalla morte della prima moglie al proprio decesso, non aveva esercitato l’azione di riduzione nei confronti del figlio ed anzi gli aveva donato ulteriori beni. La Corte di Cassazione ha giudicato insufficienti le presunzioni adottate in sede di merito per poter risalire dall’accennato comportamento del de cuius al fatto ignoto della rinunzia tacita e definitiva al diritto di riduzione, rilevando come il contegno psicologico del defunto fosse equivoco e potesse esprimere al più una volontà di attesa, ma non una inequivocabile volontà di rinunzia. Il Giudice di legittimità, pertanto, ha accolto il secondo profilo del primo motivo di ricorso, proposto dalla seconda moglie, per ottenere la reintegrazione della propria quota di legittima sull’eredità del marito, lesa dalle donazioni effettuate dalla prima moglie a favore del figlio. La motivazione su quest’ultimo punto della decisione in oggetto è pienamente condivisibile, essendo principio pacifico che le presunzioni semplici, cioè quelle non stabilite dalla legge, pur essendo affidate alla prudenza del giudice, sono ammissibili soltanto se presentano i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza (art. 2729 c. c.), ossia se i fatti noti dai quali è lecito risalire ai fatti ignoti da provare, sono plurimi e comunque legati al fatto ignoto attraverso un nesso, che non può approdare ad un esito diverso da quello rilevante a cui è diretto e che abbia una valenza logica univoca, cioè diretta ad un unico risultato. L’equivocità dei fatti noti esclude in radice l’ammissibilità delle presunzioni. . 4