10 maggio 2002 – 10 maggio 2003

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10 maggio 2002 – 10 maggio 2003
Un altro anno di
…
… un sito scritto a matita…
…da
quanti si sono fermati per qualche minuto e si sono lasciati incantare da un foglio
bianco e una matita, da quanti hanno cercato quella vecchia poesia che avevano chiuso
nel cassetto, oppure hanno scritto sul momento un racconto, trascritto un'immagine,
un'emozione, così come gli è venuta in mente. Un anno di tutti noi, che abbiamo
raccolto quello che avevamo e quello che siamo, le nostre esperienze o fantasie, dolori
o immaginazioni, solitudini o miracoli, sogni o silenzi altrimenti inconfessabili.
Così, col bagaglio delle nostre parole, abbiamo scritto pagine e pagine di un grande
libro, siamo stati gli astronauti in un cielo di luna, abbiamo disegnato una costellazione:
tra tante, la nostra.
Perché in fondo...
... siamo storie che raccontano storie ...
Ioracconto è al suo secondo anno di vita.
Dedicato a tutti gli uomini e alle donne che vivono nel nostro piccolo e
grande pianeta Terra. Dedicato alla storia personale di ognuno.
Buon viaggio nella terra-libro di ioracconto!
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Le matite di ioracconto-anno due…
aiseop 21 maggio 2001
Andrea Serra
Alex Biondi 7 aprile 2003
22 ottobre 2002
Andrea Sperelli 28 settembre 2002
Carlo Volpicella 2 marzo 2003
Cecilia Caporusso
9 settembre 2002
Diego Fornero 28 dicembre 2002
Domenico Vicinanza 7 ottobre 2001
Dora Vergombello 23 ottobre 2002
Folletto Dav
marzo 2003
Francesco Ambrosi
Francesca Pellegrino 25 novembre 2002
19 dicembre 2002
Franco Zarpellon 21 febbraio 2003
Gerardo Sorrentino
Gloria Guzzi
10 dicembre 2002
19 giugno 2002
Gloria Venturini 25 febbraio 2002
Gabriella Cuscinà
6 giugno 2002
2
Giuseppe Bianco
20 settembre 2002
Guglielmo Giusti 6 aprile 2003
ipini
5 agosto 2002
lidia 10 maggio 2001
Livia 3 giugno 2002
livio 10 maggio 2001
[Love] 13 maggio 2002
malium
12 aprile 2003
Manuel Galante
marco
14 febbraio 2002
6 giugno 2001
Maria Oliveri 6 luglio 2002
Marinella 27 marzo 2002
Massimo Carubelli
Matteo Costarelli
6 settembre 2002
20 marzo 2003
moscerino 20 novembre 2002
Nello Praz 21 gennaio 2003
nik 29 marzo 2003
Nunzio Cocivera ottobre 2001
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Odile
26 aprile 2003
Paola Budassi 12 marzo 2003
Paola Fabiani 27 luglio 2002
Paolo Pagliotti
Ruby Bumblerott
15 gennaio 2003
26 aprile 2003
Sandra Cervone 10 marzo 2003
shead
20 gennaio 2003
simbad il marinaio 12 gennaio 2001
Simona Rogani
25 settembre 2002
soleazzurra 19 marzo 2002
Tiziana Previato
Vinz Pn
26 aprile 2003
30 gennaio 2003
4
… e le nuove storie
I cassetti dell’anima
Gli occhi tristi
Un sogno vestito d’azzurro
Nel cassetto dei giorni trascorsi
Il cassetto delle lettere
La bacchetta magica
Ferro
Centri concentrici
Piccolo Halloween
Fatastregabambina
Tante e una storia
Ballate di mari lontani
Ombra di falò
Un racconto al giorno (24 racconti)
Circo
Le persone a colori
Da questo balcone di anima inquieta
Doppia notte
Apnea
Incubo ad aria condizionata
Senza speranza
Anestesia
Origami di angeli
Mercurio
Gli angeli che durano poco
Dov’è la magia in quel che viviamo?
ORIGAniMa
Adiòs Lorenzo
Adiòs Lorenzo
Ho visto cose che voi umani…
Come occhi di donna
Il giardino delle 15 pietre
Ossessioni di rosso
Incomunicabile
Ho visto cose che voi umani…
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I cassetti dell’anima
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Gli occhi tristi
Le preghiere dei bambini stavolta/
Non sono bastate/
Dentro la chiesa del quartiere/
Senza capire il significato/
Di quel legno troppo chiaro/
Che ti vestiva ingiustamente/
Quella mortale malattia/
Che è la gioventù/
Fonte di illusioni/
Madre di speranze/
Tu non ce l’hai avuta/
Un’altra possibilità/
Per provare a volare/
Senza quel tubo nel naso/
Seppellito nel tuo sorriso/
Hai giocato troppo poco/
In questo mondo che non ti ha voluto/
Che non ti ha amato/
Che tu hai lasciato/
Hai smesso di avere freddo/
Liberato da te stesso/
Sei stato il prezzo da pagare/
Il prezzo di te stesso/
Angelo tra gli angeli....
Vestito di legno...
Angelo tra gli angeli...
Vestito di legno....
Angelo tra gli angeli....
Angelo tra gli angeli.... (G.G., anonimo)
Mezzanotte. Occhi tristi muoiono anonimi nei letti di tante camere senza casa. Dicono al
mondo che si stanno addormentando. Ma muoiono. Orgogliosi, coraggiosi. Muoiono.
Triste
come una cometa senza coda
come una bottiglia vuota
come una notte senza sogni
Triste
come il mattino che arriva e non sei pronto
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come un’onda che non riesce ad arrivare sulla spiaggia
triste come una luna sprecata
una pioggia che non lava
una carezza non data
triste…
come è triste quel pensiero che non trova forma
quel fantasma senza anima
quella colpa senza peccato..
Triste come un angelo che non vuole volare
Triste come la nuvola più lontana dal sole
come l’ombra che si allunga
le mani che si chiudono
il vuoto che si apre
Triste
Come una preghiera che non senti
Una lingua che non conosci
Un’emozione che non provi
Triste come l’impotenza…
Triste (Livia)
Una lacrima piove da dolori smeraldo.
Si spezza un'armonia che iniziava a stonare.
Ma il nuovo spaventa e disorienta.
Colori e luci offuscati da una tristezza incombente.
Buio.
Alba nuova.
La pioggia è finita ma uno specchio è rimasto.
Forse l'armonia non è ricomposta ma sarà nuova musica!
Sono parole vacue queste,
che non ristorano,
che non risolvono,
che non distendono.
Ma sono versi del mio cuore... (soleazzurra)
Nell'immensità sofferta
di una lacrima,
scopro indifeso
un messaggio d'amore.
Tanti motivi, tutti uguali e diversi. Gli occhi tristi...
Frugare dentro al cuore,
nelle pieghe della memoria,
nella ritrosia dei ricordi
per riemergere nella bellezza
dell’amore più grande,
trovare tanto dolore,
sentire ancora male.
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Vedere emozioni congelate dalla vita
e non percepire più quel calore
che dava tanta forza nel tempo andato.
Gli anni che passano scolorano i sentimenti.
Ci si sente intorpiditi,
incapaci di avvertire il sole che riscalda la pelle.
I fiori profumano appena,
intanto passano gli anni,
e si diventa vecchi.
Incapaci di frugarsi dentro,
per ritrovare la forza di vivere completamente.
Passano gli anni,
i capelli s’imbiancano,
ogni ruga cadente dal viso
è un segno dolente,
Ogni macchia che copre la pelle,
un pianto senza conforto.
Amaro…
Quanto sono tristi gli occhi
di quando passano gli anni!
C’è il bisogno di rovistare di nuovo,
trovare i gingilli di gioia,
i preziosi dell’anima,
ma sono gioielli così cari,
così dolci, così solo nostri,
che appena li vedi…
ti si spezza di nuovo il cuore.
Gli occhi tristi... nelle pagine della vita...
Capita, nella vita capita, che la realtà si schianta addosso così,
di colpo, con tutta la sua cruda violenza ed amarezza.
Si vive con il bel sogno da portare avanti,
con una meravigliosa pagina tutta diritta di esistenza,
scritta con una calligrafia impeccabile, tutta posata e fitta di colori,
quando per caso, ci si accorge di una piccola e minuta piega.
Una parte del foglio solo un po’ sgualcita, allora si va a vedere,
per capire, per rendersi conto del perché non si era mai notata.
Avvicinandosi bene, osservandola ci si accorge che nella parte retrostante,
c’è un altro foglio, con scritte parole mai pensate, alle quali non ci si crede nemmeno.
Scrutando con occhi inesperti s’ intravede un nuovo inserto,
con altre parole scritte da chi ci vive vicino, mentre ignari si andava avanti.
Quando un macigno crollato inaspettato cade, ci si ricopre di nuova consapevolezza.
Si pensa a come sia potuto accadere che le persone, quelle più care,
quelle del cuore, quelle della storia presente, quelle che fanno parte della speranza,
vivessero in altro modo, in altri eventi e in altro sogno con diverse aspettative.
Non ci si rende conto, non si capisce…eppure i fogli sono reali,
sono lì, di fronte a noi…non si riesce a leggerli, a capirne le parole.
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Si pensa di aver sbagliato completamente.
Ci si era convinti di aver creato un mondo a prova di realtà,
ma non è vero, quando meno si aspetta lei piomba addosso pesante,
e lascia così, senza fiato, senza pensieri e senza nemmeno una parola di conforto. (Gloria
Venturini)
“Perché sorge il sole?”.
Ogni mattina, quando la luce penetrava tra le vecchie persiane nella sua camera buia, e si
infrangeva contro le chiuse palpebre, egli si chiedeva senza trovar risposta.
“Non importa” si rispondeva ormai per abitudine.
Invano altre giorni aveva cercato una risposta diversa, ma alla fine non rimaneva altro che il
solito “non importa”.
Allora si levava dal suo letto caldo, si lavava nel suo piccolo bagno, si vestiva con i pochi vestiti
che aveva e faceva colazione con il suo solito caffè, come ogni altra persona al mondo.
Ma lui non era come gli altri.
Perché?.
Erano ormai troppi i perché e non c’era tempo per poter cercare di rispondere ad ogni
domanda, erano troppe.
Bisognava fare dei tagli decisivi, delle scelte nette, dei freddi calcoli affinché ogni cosa
quadrasse alla perfezione.
Non gli era permesso sbagliare.
Lui lo sapeva.
E allora via, di corsa verso il suo piccolo ufficio, dove si consumava la maggior parte della sua
giornata, della sua vita.
Non era un gran che, ma con il trascorrere del tempo quel luogo era diventato familiare,
accogliente.
Ogni oggetto non era messo lì per puro caso, ma aveva un’importanza unica, dato che era
necessario allo svolgimento, alla risoluzione di un qualsiasi problema che man mano gli veniva
incontro.
Certo, non sempre tutto era in armonia.
Perché?.
Un altro quesito al quale non poteva trovar risposta.
A volte pioveva, pioveva forte, grandinava, ed egli si incantava davanti a quell’unica finestra, e
ammirava tutte quelle gocce e tutti quei chicchi di grandine che dall’alto del cielo cadevano giù
per andarsi ad infrangere contro la sua limpida finestra, contro il suo ufficio, contro la sua
strada, contro la sua terra, e si chiedeva… perché?.
Lavoro su lavoro, migliaia di fogli impregnati di inchiostro che si accatastavano sulla sua
piccola scrivania.
Ogni giorno erano sempre di più.
Con il passar del tempo, egli incominciava a credere che non sarebbe mai stato in grado di
compiere tutto quell’immenso lavoro, ma continuava, continuava, continuava fino alla fine delle
sue ultime energie.
Perché?.
Sembrerà strano, ma forse questa era l’unica domanda alla quale aveva una risposta.
Non era molto precisa, non risolveva niente, ma comunque era pur sempre una risposta, no?.
Naturalmente non poteva spendere tempo per esporla ad altre persone, non gli era permesso.
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Nessun genere di sbaglio gli era permesso.
Lui lo sapeva, e quindi tirava a dritto.
Nella sua vita si era permesso di sbagliare soltanto una volta, e se la ricordava bene.
Ah se se la ricordava bene.
Gliel’avevano fatta pagare cara però, molto cara.
Non immaginate quanto.
Il tempo passava, a volte lento a volte veloce.
In dei momenti sembrava quasi che si fermasse, ma in realtà scorreva sempre allo stesso
modo: secondi dopo secondi e minuti dopo minuti, senza interruzioni.
Non si sa bene ne quando e neppure come, ciò che è certo è che un bel giorno di primavera,
quando il sole iniziava a scaldare e a soleggiare i verdi prati fioriti, egli non andò a lavorare.
Non andò a lavorare neanche il giorno dopo, neppure quello seguente e quello dopo ancora.
Ti starai chiedendo perché, vero?.
Egli venne trovato morto una mattina dalla sua donna delle pulizie, già perché lui non aveva una
donna, non aveva nessun tipo di affetto all’infuori di quello di un gattino nero che di tanto in
tanto lo andava a trovare in cambio di cibo.
Era ancora sdraiato sul suo letto, coperto dal solito lenzuolo bianco, con il solito volto
affaticato e la solita luce negli occhi chiusi.
Però c’era qualcosa di diverso nel suo volto, le sue labbra.
È come se stesse sorridendo.
Chissà?.
Chissà qual è stata l’ultima cosa che ha pensato…?.
Forse la solita domanda?!, forse sorrideva perché ha trovato finalmente la risposta!?.
Si!, deve essere senz’altro così!.
Allora … perché sorge il sole?.
Non lo sapremo mai, o meglio, non lo saprete mai. ([Love])
Gli occhi tristi, a volte occhi di un bambino.
Bambino sfiorito,
fermo all’angolo della strada,
negli occhi
sogni fatti a pezzi.
Lo sguardo dolce,
di una tristezza infinita,
trafigge il cuore.
Un’anima
senza sussurri
di primavere,
senza spiragli
di sole.
Speranze negate,
feriscono come
gelide lame.
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Con la tua piccola mano
chiedi soldi e carità.
Non domandi affetto o giochi!
Ti hanno rubato l’infanzia,
le prime verdi fantasie.
La notte dove dormi?
Chissà se la tua preghiera,
scioglie un poco,
questa oscura indifferenza.
Gli occhi tristi, a volte occhi di donna.
Come occhi di donna,
guardo l’anima incerta.
Con occhi di donna
vedo lo spuntare di lacrime amare.
Tanta polvere nera
smorza il sorriso.
Un dolore antico,
nato all’origine della vita,
punge fino a trafiggere il cuore,
e in un attimo l’angoscia lancia lampi di paura,
dagli occhi di donna.
Orme lasciate nel tempo,
leggere serate spensierate si separano in un momento,
lungo quanto un attimo.
Il costo di un rimpianto,
prezioso come l’oro.
Rimangono frammenti di sogni,
come una ragnatela di luce che avanza nella ritrosia dell’esistenza,
come occhi di donna in attesa di un limbo.
Bramano sospiri lucenti di un desiderio appeso alla notte,
lindi pensieri d’amore eterei nel sole,
come occhi di donna un amore purificato,
per arrivare fino alle stelle,
innalzato sempre più in alto da un sacrificio senza storia,
senza tempo, troppo grande da misurare,
una rinuncia stretta al collo nell’occasione che è la vita,
catene d’amore legate ai piede da secoli e secoli,
echi lontani della stessa penitenza,
dell’annullamento della medesima natura,
sempre in nome dell’amorevole devozione di donna.
Un anno dietro l’altro, un passo dopo passo,
ed occhi sempre più tristi,
fino ad accorgersi, che anche l’amore muore.
L’amore muore…
anche l’amore muore,
sbranato da un’enorme ferita delle femminee vicende umane.
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L’amore muore,
anche l’amore muore,
ucciso da stolti intelletti deformi…
nella lunga serie dei ricordi.
L’amore muore,
anche l’amore muore e finisce,
esala il suo ultimo respiro e muore.
Un vuoto colore delle tenebre,
un vortice ubriaco di malinconia,
una spaccatura nella mente,
una crepa nel cuore.
Come occhi di donna il nulla,
l’annientamento della coscienza,
l’oblio di una luce che mai più brillerà
negli occhi di donna.
Uno spiraglio di speranza rimane celato,
dentro la stessa tristezza, delle calde lacrime,
degli occhi tristi di donna.
“Guardo in fondo al mio cuore, guardo dentro la mia mente, guardo l’ultima immagine riflessa
nei miei occhi e ritrovo sempre te.” Sta esplodendo qualcosa di misteriosamente grande
dentro di me, una rivoluzione che si ribella a tutti i soprusi subiti, a tutti quei silenzi forzati,
alla mia voglia di gridare il mio dolore, la mia disperazione, la mia disillusione per tutto quello
che mi aspettava di diritto e non ho avuto mai. Per questa vita destinata, per questo sbaglio
non voluto, quanto caro il prezzo! Nessuno, mai nessuno è vicino ad un altro essere. Tutti,
anche quelli più gioiosi, anche quelli più amati, sono chiusi nel bozzolo della loro sola esistenza.
Questa è la realtà più dura, quella che a volte ti fa mancare di più. L’insufficienza di ogni
persona nei confronti di se stessa è quella ignota malinconia che rode come un tarlo, che
brucia anche quei pochi illusi spiragli di felicità, che ancora da povero incosciente ti permetti
di assaporare. Nonostante tutto rimane illeso il bisogno del sogno, la voglia di assaporare la
vita dentro ad ogni attimo. Fugace, dolce ed amara, questa voglia quasi inconsapevole di stare
bene, di sentirsi in sintonia con il mondo, ed il tutto con te. E’ solo un sogno, un dolce
profumato sogno di speranze destinate a morire sulle guance rigate di lacrime, su quell’eterno
amaro senza nome. Volerà ancora la mia fantasia con le stesse ali di cristallo di dieci anni fa.
Libera.
Vola libera nello spazio della vita, la stessa mia triste, allegra, sofferta anima, di chi ama
ancora. (Gloria Venturini)
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Un sogno vestito d'azzurro
Aquilo nero, aere di settentrione.
Gocce sospese nell'acqua,
cosa nella sua natura,
senza affondare.
Parole di tela sulla parola di aere.
Aquiloni (livio)
Segui questo tuo sogno leggero vestito d'azzurro... sii leggero leggero leggero...
L’emozione si sta librando nell’aria,
annuso il profumo di una nuova sensazione,
mentre chiudo le finestre delle palpebre
per aprire la porta ad un sogno appena iniziato.
La mente vola nel cielo colmo d’azzurro
e l’anima naviga in un mare pieno d’azzurro,
sereno, ogni cosa si tinge di zaffiro,
celeste pastello ovunque,
tutto è pace quando è azzurro.
La quiete ha il tuo volto, con il cuore lo accarezzo,
come un lieve soffio di vento ti sfioro le labbra,
dolcemente bacio i tuoi occhi azzurri,
cerulei con l’apparire dei tuoi primi crucci,
esili rughe come segni dei tuoi intensi pensieri.
Mi cullo tra le tue braccia, ti culli sul mio petto,
siamo un’insieme carico d’amore, entrambi,
in questo sogno solo nostro,
ci perdiamo per ritrovarci ancora noi.
D’improvviso nel mare s’infuria la burrasca,
nel cielo si agita un temporale e la tranquillità svanisce.
Tuoni e lampi rompono il silenzio,
un frastuono di rumori deliranti,
fulmini corrono impazziti ovunque,
l’acqua si mescola all’aria in un vortice spietato,
uno sfondo tenebroso e oscuro fa avanzare la paura.
La paura di morire in te per vivere.
Con un battito di ciglia tutto s’annulla…
ricompare l’azzurro con l’armonia dell’arcobaleno
e mi avvolgo dai nuovi colori dell’iride.
Vivo un sogno vestito di nuovo. (Gloria Venturini)
Leggi, sogna... storie d'amore e d'azzurro...
Era l'imbrunire quando la piccola lancia raggiunse l'insenatura dell'isola: a pochi metri dalla
riva, Tommaso, spento il motore, saltò nell'acqua bassa e raggiunta la spiaggetta, trasse in
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secca la barca. Preso lo zaino con le provviste e si avviò rapidamente verso l' alta costruzione
imbiancata a calce alla sommità del promontorio. Fu proprio in quel momento che una lunga
lama di luce fendette l'oscurità perdendosi all'orizzonte; l'uomo ristette un istante ad
osservare il mare illuminato poi aperto l'uscio entrò nell'edificio. Era egli quello che si suol
definire un lupo solitario; laureato in biologia marina, aveva scelto di lavorare al faro per poter
proseguire i suoi studi sui piccoli animali che vivono sui fondali della zona ed a questo scopo
all'interno della costruzione aveva impiantato un piccolo ma efficiente laboratorio. Molti anni
prima, aveva perso i genitori in un incidente d'auto ed era stato allevato da uno zio anch'egli
ricercatore il quale aveva permesso al giovane di conseguire con profitto la laurea . Di statura
superiore alla media, aveva una fluente capigliatura corvina che contrastava con l'azzurro
profondo degli occhi. Molte coetanee sulla terra ferma, avevano cercato di trascorrere una
notte su quell'isola incantata ma, dopo il matrimonio con Ester, naufragato in pochi mesi, egli
aveva sempre vissuto da solo, rifiutando con decisione ogni relazione duratura.
Consumata una frugale cena e riordinata la cucina, prese dalla libreria alcuni volumi, gettò
un'occhiata all'orologio appeso alla parete e chiamò via radio la capitaneria per il rapporto
serale. Avuta conferma del collegamento, segnò su di un notes alcuni appunti, smorzò infine le
luci del locale lasciando in funzione solo la trasmittente unico legame con il mondo. Era quello il
momento in cui il giovane chiudendo gli occhi si rilassava, complice il rumore del mare che si
infrangeva contro la scogliera. Dopo che Ester l'aveva lasciato, aveva desiderato rimanere
solo; talvolta il desiderio di felicità che alberga in ogni essere umano prendeva il sopravvento
e lo sommergeva con ondate di malinconia. Rivedeva se stesso, quando ragazzo trascorreva
lunghe giornate di pesca con il padre che gli aveva insegnato a rispettare e ad amare il mare;
ricordava sua madre bionda creatura del nord dotata di una cultura eccezionale. Il sibilo acuto
dell'allarme radar, lo fece trasalire, l'apparecchiatura appena installata, stava infatti
segnalando la vicinanza di una imbarcazione alle secche. Tolti da una cassetta alcuni razzi, salì
rapidamente la scala a chiocciola che portava al faro e di lì alla terrazza circolare.
A ponente, una luce appena visibile, attirò la sua attenzione: si trattava senza dubbio di un
piccolo natante che tuttavia non pareva in difficoltà ma la sua rotta puntava sull'isola. Senza
indugiare accese le torce che ruppero con violenza il buio della notte: chiamò con la radio
portatile l'imbarcazione ma tutto fu inutile. Stava per allertare la guardia costiera quando la
misteriosa luce, deviò a sinistra evitando così le insidie del basso fondale per proseguire
infine nella rotta precedente: era chiaro che l'obiettivo del natante era quello di raggiungere
l'insenatura. Senza indugi, Tommaso corse giù, prese da un cassetto la pistola che aveva in
dotazione e raggiunse la caletta nel momento in cui una minuscola imbarcazione a vela, gettava
l'ancora poco distante dalla spiaggia. Per nulla intimorito, restò in attesa, non per molto però:
dal castello di poppa emerse infatti una donna che con un sorprendente balzo scavalcò la
murata e nonostante la pesante cerata che la impacciava nei movimenti, in pochi istanti fu
davanti all'uomo che osservandola con sguardo severo disse-: non siete autorizzata a
sbarcare, la zona è vietata ai natanti.- lo so signore- lo interruppe la ragazza parlando con
voce gentile- ho la radio in avaria e la bussola pare impazzita, fortunatamente ho visto la luce
del faro vi chiedo il permesso di pernottare sulla barca; domattina, mi metterò in contatto con
amici che verranno in mio aiuto.- In questo caso, non ho nulla in contrario- ribatté l'uomo
fissando due splendidi occhi color nocciola.- grazie signore, vedrò di non recarvi disturbo, se
permettete ora vorrei ritirarmi- non prima di aver bevuto una tazza di tè e fatta una doccia
calda- la interruppe il giovane- accetto volentieri, la notte è fredda da queste parti. -: dove
siete diretta?- disse Tommaso dopo aver versato il tè bollente nella tazza di fronte alla donna
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che lo sorseggiò avidamente- In nessun luogo in particolare, sto trascorrendo una vacanza in
mare per fuggire alla confusione della costa, mi piace navigare da sola, mi permette di
riflettere a lungo- aggiunse sistemando il bordo dell'accappatoio. Il giovane, al quale non era
sfuggito il gesto, distolse lo sguardo dalla ragazza che, doveva confessare, nonostante
l'aspetto minuto, emanava un fascino al quale tentava inutilmente di resistere. Decise allora di
congedarla ma le parole che uscivano dalle sue labbra non seguivano i pensieri- se credete- si
sorprese a dire-potete dormire qui per questa notte, abbiamo una stanza per gli ospiti, non
sarà lussuosa ma è pulita- accetto volentieri - ribatté con noncuranza la donna - a proposito il
mio nome è Marina-se volete seguirmi- la interruppe l'uomo- cercando di resistere al fascino
crescente che aveva su di lui l'ospite, ma quando lei gli passò accanto, una fragranza intensa di
mare lo avvolse. Chiusa la porta della sua stanza, prima di coricarsi, per distogliere la mente
dal pensiero, lesse ancora alcune pubblicazioni che lo zio gli aveva inviato dall'africa: stanco
poi della giornata, decise di coricarsi, fece una doccia bollente e quando ne uscì rinfrancato,
percepì ancora quel profumo che emanava la sua ospite; il bussare discreto alla porta lo fece
trasalire- avanti- si sorprese a dire. Nella penombra discreta della stanza gli apparve Marina,
l'accappatoio le era caduto sulla soglia lasciandola splendidamente nuda. Un raggio di sole colpì
in pieno volto Tommaso, facendolo emergere dal sonno, allungò la mano accanto a se ma trovò il
vuoto... di colpo fu desto, lei non c'era più. Ancora svestito scese a precipizio le scale
sperando di trovarla in cucina. niente. prese il binocolo dalla scrivania e come un lampo fu sulla
terrazza più alta. Il sole stava sorgendo in uno spettacolo da favola: puntò il binocolo lontano e
osservò la vela che garriva al vento. La barca era ormai quasi un punto all'orizzonte ma ciò non
impedì all'uomo di vedere, lungo la murata, Marina che lo salutava sorridente; in un attimo ella
scavalcando la battagliola, si tuffò, sollevando una candida spuma: l'ultima cosa che apparve
all'esterrefatto giovane fu una splendida coda pinnata che per un attimo catturò i primi raggi
del sole nascente riflettendoli in mille colori. Fu in quell'istante che Tommaso percepì ancora
quel profumo di mare che l'aveva ammaliato. comprese. (simbad il marinaio)
Parole d'azzurro. Azzurro, azzurro ancora, parole azzurre.
Al di là di questa finestra, vola libero il mio pensiero. Oltre a questo azzurro mi aggrappo alla
bianca barba di Dio. Oltre a questo giorno, a queste notti, a questi sogni volo nella vita con
fragili ali ricamate dai fili dell’esperienza. Mi destreggio con grazia in questo mare agitato. A
volte un turbine, un ciclone, una tempesta inaspettata, mi colgono impreparata, e a questi
improvvisi cado a terra con l’orgoglio ferito. Una volta uno strano essere, mi sembrava della
razza umana, mi ha visto gemere di dolore, e guardandomi negli occhi mi ha cullata e lenita la
sofferenza. Ero ammalata e mi ha portata dal dottore, avevo fame e mi ha saziata, avevo
freddo e mi ha riscaldata, avevo bisogno d’amore e mi ha amata. Al di là di questa finestra
leggero si posa il mio pensiero sul mondo e comincio ad avanzare lungo i sentieri del grande
cammino. Passeggio appoggiata al mio bravo maestro, lo ascolto, lo ammiro e mi sento protetta.
Vedo orizzonti rosa intrisi di celeste sfumato, vedo enormi montagne a solleticare il cielo,
vedo anche un uomo svestito e scalzo, vedo una mano tesa in cerca di soldi. In un angolo c’è un
bambino in braccio alla madre che vorrebbe del cibo, più in là c’è qualcuno che muore. Maestro
gli chiedo, perché? Confuso ed affranto mi prende per mano, mi culla e mi dice che il mondo è
anche un po’ vano, cattivo e feroce, bellissimo e delicato. Mi sento sicura vicino a lui, mi guida,
mi parla, mi aiuta. Un giorno mi lascia un momento, per cogliere un fiore felice nel vento, mi
siedo tranquilla vicino a un ruscello e aspetto, lo attendo. Sono passati anni ed è sparito,
mentre il torrente si è prosciugato. Non credere, “esserino leggero” che ti confortino il cuore
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per tanto. Sono crudeli feroci e cattivi. Gli uomini cercano la bellezza per ucciderla, cercano la
purezza per rubarla, danno affetto solo perché ne hanno bisogno, non per capire. Creatura
felice “rivola” nel cielo, riprendi a sognare, ma non credere, non abbandonarti mai più. Gli
uomini lasciali stare, guardali solamente, perché anche se gli mancherai non lo diranno mai,
sarà solo perché sono degli eterni solitari, distruggono ciò che amano senza un perché,
lasciando calare un tramonto dentro all’anima di chi li ama. Rosso, vivo, brucia, aspetto
fremendo la notte per celare la pace nel cuore, che troppe volte ha visto, troppe volte ha
amato, troppe volte è stato dilaniato. Ora cuore non ne ho più, solo ricordi, un lusso senza
prezzo. Come un uccellino felice vola libero nel cielo, e non voltarti indietro, non farti
ingannare, non farti prendere per il cuore, vaga fin che puoi nel tuo mondo d’amore.
... parole d'azzurro. Speranza di un Dio azzurro...
La leggenda narra che, quando nasce un bambino,
Dio crea un ponte tra il cielo e la terra: l’arcobaleno,
per perpetuare un patto d’amore con il mondo e l’umanità.
Ogni bimbo è un dono di tenerezza dai colori dell’iride.
L’arco è un mezzo cerchio, una metà di bene regalata da Dio ad ogni fanciullo,
il quale ha come compito, durante il percorso della vita,
di completarlo in un unico insieme rotondo ed armonico.
Il cerchio dell’esistenza è concluso da un ultimo punto,
un atomo indissolubile che, alla fine della vita,
con una scintilla divina ci unisce al Padre,
per ritornare a Lui, tra le sue braccia.
Ogni giorno ha un regalo per i suoi figli…
Il mondo con le sue mani di vento accarezza la mente.
La natura con toni di luce illumina gli occhi dell’anima.
Il tepore del sole fa battere il cuore.
Festa, quando si nasce è un giorno di festa!
Le piante danno ossigeno al respiro.
La musica è il battito del sangue che scorre nelle vene.
Cascate di lacrime per la gioia della vita.
Il profumo della terra, appena baciata dalla pioggia,
s’impregna nella memoria, fino ad arrivare al cuore.
Come creta si plasma il ricordo di un sogno antico.
Un campo di grano bagnato, papaveri spavaldi fanno capolino qua e là,
fiordalisi impauriti spuntano sparuti con il loro caldo azzurro.
Nell’aria l’odore gradevole dei fiori di campo.
Il dolce sapore del succo della frutta nutre d’ingenuità il corpo.
Vivere un’essenza concessa, esistere per il creato,
riscaldati dalla rassicurante coperta della natura.
Vivere per la gente, per dare noi stessi a tutti quanti.
La volta celeste notturna s’ incastra di stelle dorate.
La luna d’argento nel cielo aspetta un racconto,
un pensiero, il soffio di una favola fatata, incantata.
Ad ogni bambino piccino, si racconta così la leggenda dell’arcobaleno,
come figlio di Dio, del mondo, della natura umana,
si sente persona nell’universo e con il cuore in mano va incontro al destino,
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al domani, fino ad arrivare a concludere il suo cerchio d’amore.
Ogni tanto dalla tasca toglie il fazzoletto per asciugare le lacrime,
ma quando alza gli occhi al cielo e vede l’arcobaleno,
un sorriso gli si strappa dalle labbra,
rammenta che Dio è vicino a lui e che lo sta tenendo per mano.
Dentro di noi si sprigiona la potenza dell’immenso, un raggio d’infinito
attraversa l’anima dell’uomo e l’amore puro fa vibrare l’essere in sussulti di estasi profonda.
Credo che questa sia la parte più occulta e meno ascoltata della nostra essenza,
quello che ci fa evoluire e che ci avvicina a quel Dio-Amore a cui tutti aspiriamo.
Sento il soffio della vita accarezzare le mie fragili ossa e la mia mente sogna
di essere cullata dalle braccia di Dio, mentre la mente, abile creatrice e perfida distruttrice,
spera di crogiolarsi nella tranquillità del puro pensiero, lontano dal lavoro assiduo
ed asfissiante di doversi difendere e competere dall’intelletto altrui,
sempre accompagnato poi dalla triste azione-reazione, che ne è la conseguenza.
Optare e fare il bene, seguire ed inseguire la via dell’amore è la lotta più dura e difficile.
La società, il consumismo, la cultura e la non-cultura sono barriere non indifferenti,
che legate al più grosso dei mali di questo tempo, il benessere,
si oppongono al cammino verso il bene, verso il giusto e la verità.
Oramai la verità è diventata una parola mitologica, lontana ed astratta
in quanto è solamente soggettiva. E’ come la realtà, viene storpiata dall’individuo,
il quale è inevitabilmente coinvolto dalle sue esperienze e dall’ambiente a lui esterno.
Ritengo che una sola sia la Luce uguale a tutti, o meglio, a tutti gli animi,
quella che ci manda Dio per unirci a Lui.
... speranze e tristezze d'azzurro...
Lei buttò giù dalla finestra tutti i suoi guai e con loro si buttò a capofitto,
credendo finalmente di morire, invece la sua anima iniziò a volare,
alta alta nell’azzurro, oltre l’orizzonte del possibile.
Immersa nella meraviglia affogava tra mille colori stupendi,
un rosa pallidissimo faceva da cornice ad un quadro
in cui mille cavalli correvano sopra un prato celeste
in contrasto con un cielo bianchissimo, più della neve.
E lei volava leggera in questi strani cieli, sereni, placati come lei.
Sentiva infondersi nel suo nuovo essere un senso di libertà,
una cosa mai provata nella vita precedente.
Lo sfondo era plumbeo, un grigio irreversibile, non come quando a novembre
alla stazione si sta aspettando un treno in cui sono riposte tante speranze!
Vide se stessa seduta sopra un masso a contemplare chissà quale illusione
e a questa immagine l’anima iniziò a piangere disperatamente
perché capì che i sogni non liberano nessuno e che non serve a niente
buttarsi via con le tristi realtà.
D’improvviso le due immagini combaciarono perfettamente
e questa inaspettata congruenza fu tanto amara.
Una sensazione positiva vagheggiava nell’aria, piccola piccola,
quella strana libertà, forse un giorno l’avrebbe raggiunta
e non solo rincorsa invano.
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E ancora versi d'amore e d'azzurro a spezzare via la tristezza. Tanti toni d'azzurro, tante
vite... amore azzurro...
Sei entrata nella mia vita
come un raggio di sole,
come una brezza di primavera
hai spazzato via le nubi
che offuscavano la mia anima
di uomo ferito,
come uno splendido fiore
mi hai ridato la voglia di tornare a sorridere.
Con la tua sincerità,
con il tuo essere te stessa fino in fondo,
con la tua fiducia,
mi hai gratificato come uomo.
Ti amo per quello che sei,
ti amo per quello che fai,
ti amo per il tuo coraggio,
e mentre le parole si perdono nell'etere,
tu sei la regina del mio cuore,
tu sei l'amore mio.
Vorrei correre insieme a te
in un prato circondato dai monti imbiancati,
sdraiarmi con te a guardare le stelle
sulla riva di un lago di montagna
mentre la luna riflette strane ombre
sopra l'acqua immobile,
vorrei fare parte con te
di quello che è il nostro quadro più bello.
Il nostro è un amore unico e speciale,
vive nella gioia per la vita,
la serenità d'animo ci fa affrontare tutto.
Ti amo tanto e sempre più
io mi innamoro di te,
fai volare le tue emozioni,
accanto a te ci sarò sempre io,
e in ogni giorno, e in ogni notte,
e in ogni momento,
tu sei l'amore mio. (Gloria Venturini)
Le stelle mi parlarono di te
e mi sussurrarono il tuo nome
in un sera d’inverno.
E’ quella sera
che la mia ricerca ha avuto inizio.
Ti ho cercata sulle vette del pianeta
e ho navigato gli oceani
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attraverso i miei sogni.
Il viaggio è stato lungo
ed il mio cuore
è stato messo a dura prova
ma ora che sei qui
a paura è un lontano ricordo.
Sei un stella in fiore
timorosa di far incontrare
le tue lucciole e i miei occhi.
Ti leggerei dentro
e tu ancora non lo vuoi.
Vorrò stare anch’io lassù
come le stelle appese al cielo.
Su di un fiore
o su di un prato…
Angioletto mio
leggi nel mio cuore.
Un giorno non lontano
una mia poesia ti parlerà
e sarò pronto a volare
bambina mia.
Parlami d’amore…
Parlami d’amore…
Ti prego, spiegami cos’è.
Stringi il mio respiro,
spezzami le ali
e tienimi con te.
Mi sembra di capire solo ora
cos’è l’Amore.
Può non sembrare giusto
per chi c’è stato prima
ma è quello che mi dice il cuore adesso
e non potrei tacerlo.
Niente al mondo
mi regala voglia di vivere
come il renderti felice amore mio.
Non ci sono sogni o realtà
che possano appagare la mia sete
come fanno la tua carne e la tua anima.
Adesso… vivo per te.
Grazie Principessa.
Anche se finisse domani potrei solo ringraziarti
perché da quando ti ho incontrata la serenità
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si è ritagliata il suo spazio nel mio cuore
e le emozioni che mi dai
quando stiamo assieme
sono pura follia…
Impossibile spiegarle.
Grazie di tutto allora.
So che sembrerebbe un addio
ma non è così…
Perché la nostra storia è appena iniziata.
Sto cullando l’idea di averti accanto per sempre…
Che bel pensiero stellina!
Forse non so bene nemmeno io
cosa provo per te…
Impossibile registrare i battiti del mio cuore,
avere istantanee con la luce dei miei occhi
o riprendere il volo delle mie mani
sul tuo corpo.
Mi è troppo facile regalarti me stesso
e se ci penso
quasi mi sembra di darti sempre troppo poco,
perché vorrei darti di più
ogni giorno che passa stellina mia.
Ho una sola certezza:
non può non essere amore.
Ancora parole di un amore azzurro... non sono mai troppe, le parole dei sogni vestiti
d'azzurro...
Vorrei regalarti la tenerezza di cui ho bisogno.
Quella del passero menzionato nelle mie poesie,
quella di un abbraccio,
di una carezza tra i capelli,
di un fiore raccolto per terra,
quella dell’azzurro del cielo
e quella del sorriso di un bimbo.
Le tue piccole mani che sai muovere
come fa il vento con i petali delle rose.
I tuoi occhi che non so descrivere
perché non posso
visto che mi sono entrati dentro.
Emozioni che mi dai
come se ti conoscessi da sempre.
Eppure ho incontrato i tuoi occhi
solo ieri.
Chiudi gli occhi e lasciati guidare
angelo del mio cuore.
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Non pensare che sia presto,
non credere che ci sia fretta
e non dubitare mai di me.
Ti porterò via con me
alla ricerca della felicità di ogni giorno,
in posti dove il sole non tramonta mai
e vive accanto a miriadi di stelle,
dove le nuvole sono dipinte di rosa
e i temporali non respirano.
lo so che certi posti non esistono angelo mio…
ma li inventerò nel mio cuore solo per te.
Avvolti nella nebbia come due angeli
tra le nuvole del paradiso,
abbiamo unito i nostri cuori
in un abbraccio che avrei voluto
fosse stato per sempre.
Non potrò mai dimenticare quella sera
perché è rimasta scolpita nel mio cuore
come nessuna scultura al mondo.
Troppo dolce quella sera…
Troppe volte ti ho baciata…
Troppo bella da guardare…
I nostri cuori che si parlavano
con un battito irregolare
che faceva crescere il mio bisogno di te
e poi dovevo allontanarmi di tutta fretta
per non rimanere senza respiro…
Se non avendoti accanto
le mie ali sono così pesanti
restami vicino piccola.
Non farmi rimanere a terra per sempre…
È così bello volare assieme!
Esistiamo solo noi su questo pianeta.
Accompagnati da nuvole e fiori
con i nostri sguardi
al di sopra di tutti i tramonti.
Battiti di cuore…
Piove sul mio viso
e tu sei lì… pronta ad abbracciarmi.
Soffre il mio cuore
e tu… lo stringi con le tue mani,
come una carezza sulla fronte di un bimbo.
Il bimbo che si fa tanto spazio dentro me
quando tu mi sei accanto.
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Poche parole
per far uscire dal mio cuore
solo quello che sento:
Ti amo Amore mio.
Ti amo come non potrei amare
la luna e quelle povere stelle,
il mare con i suoi ridicoli tramonti,
e tutto ciò che mi circonda…
Niente è degno di considerazione
in questo momento della mia vita.
Non riesco a vedere che te
e tutto ti ruota attorno meravigliosamente.
Che bella storia diventerà…
Amore mio.
Mi stai rubando il tempo
Amore mio.
Ogni attimo vissuto con te
diventa breve come un respiro
e la mia vita al tuo fianco
scorre così veloce
che ogni secondo a mia disposizione
è diventato vitale.
E allora che stiamo aspettando?
Diamo fiato ai nostri cuori
e lasciamo che i nostri gesti,
i più dolci del mondo,
siano accompagnati da parole…
Le parole dei nostri cuori.
Parole di sogni d'azzurro, che ci stanno rubando il tempo... inosservate, dolcissime ninne
nanne...
Affaccendato come una piccola ape
con il suo fiore
mi nutro del nettare
che i tuoi sorrisi mi danno
e mentre ti solletico
con le mie ali
tu continui a sorridere;
e io, continuo a nutrirmi di te.
Non voglio volare ancora
in cerca di altri fiori
e se tu mi vorrai
e sopporterai il mio peso
starò su di te.
Non ti lascerò mai
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né per la pioggia,
né per il forte vento.
Che bell’amore. (Manuel Galante)
C’è chi è riuscito a farmi volare senza ali,
c’è chi è riuscito a farmi brillare nel cielo,
c’è chi è riuscito a farmi sentire importante,
c’è chi è riuscito a farmi stare bene solo con un suo sorriso,
c’è chi è riuscito a baciarmi così dolcemente da non poter più dimenticare quel brivido,
c’è chi è riuscito a farmi vivere una favola,
c’è chi è riuscito a farmi stare sveglia la notte per paura che al risveglio non fosse più con me,
c’è chi mi ha fatto innamorare. (soleazzurra)
Sono mille i pensieri d'amore e di azzurri.
Mille pensieri e mille parole
ma un unico bisogno nel cuore: un abbraccio.
Disorientato come una madre
che perde di vista il figlio,
lo cerco tutti i giorni
senza quasi rendermene conto.
A volte mi manca
e altre volte, sento che quasi
non posso farne a meno.
E’ allora che cerco aiuto
con i miei piccoli segnali.
Forse troppo piccoli
perché chi mi sta attorno
possa rendersi conto che sto male.
Il male che sento
farà più intense le mie richieste di aiuto
finché qualcuno se ne accorgerà
e allora, verrà a soccorrermi.
Batti cuore!
Ma non pensare di farmi soffrire ancora…
Non ora, altrimenti ti strapperò
dal mio petto.
Ho trovato un po’ di riparo
sotto una bellissima piantina,
non dirmi che la perderò così in fretta.
Mi protegge dal freddo,
mi coccolerà la notte
e resterà verde per tutte le stagioni.
Sarà sempre verde
solo per il mio cuore.
Sono mille i pensieri d'amore e di azzurri. E sono e diventano mille le parole di mille poesie...
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Una poesia per dirti che mi manchi
dopo averti vista una sola volta.
Può diventare solo poesia
il mio pensiero
perché troppa è la paura di perderti
se ti aprissi il mio cuore ora.
Terrò per me quello che provo
e continuerò a farlo scorrere
nelle mie poesie,
anche se la poesia più dolce
sei solo tu.
Perché dovrei smettere di sognare?
E’ così bello!
Chiudo gli occhi
e scrivo poesie
accompagnate dalle note del mio cuore.
Immagino di avere ciò che mi manca
e scrivo per chi ancora non ho.
Una canzone dolce
e immagini fantastiche
mi catturano il cuore
per trasformarsi in poesia.
Perché dovrei rinunciare
a tutto questo?
E’ l’unica cosa che
mi rende libero di amare.
E sei libero come vento che ti sbatte in faccia una domenica.
Una moto che ci ha uniti nel viaggio
mentre il sole era accanto a noi,
io che avrei voluto cento braccia
per proteggerla dal freddo,
una passeggiata sulla spiaggia,
ci siamo studiati sugli scogli
e siamo tornati con il calare del sole.
Ci credete?
Ho avuto vicino il sole
e una stella per tutto il giorno
e poi li ho visti andarsene assieme. (Manuel Galante)
Amore, ancora amore, e silenzi, e necessità. Elasticità e silenzi d'amore.
Ti ho amato in silenzio
Ti ho guardato in silenzio,
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Ho sognato ad ogni tuo saluto,
Mi sono persa nei tuoi sguardi…… (Marinella)
Manca solo il tuo
Amore
Nella mia vita
Un’
Eclissi di
Luna è quello che è diventata.
Vive di me,
si nutre e cresce di quello che sono.
Dolore e pioggia nel cuore
sono ciò che ho comportato.
Ma come ho potuto?
Forse la mia inesperienza
o magari i miei ideali non più chiari.
Apparivano offuscati, quasi cancellati
da una forza incontrastabile,
maligna.
C'erano persone accanto a me
ma per me c'ero solo io.
L'egoismo non mi è mai appartenuto
eppure...
Ho sbagliato
ed ho reso vere profezie
che erano per me solo falsità,
sfiducia,
gelosia.
Invece no,
si sono rivelate per ciò che purtroppo erano.
Perdonami amore mio,
perché tutto quello era paura;
ora sono cresciuta
e molto ti devo,
tanto ti dovrò
perché sei il mio unico grande amore.
Ti amo... (soleazzurra)
E’ l’amore che muove le cose
E’ amare che rende viva una persona
Non smetterò mai di ripeterlo… mi domanderai perché?
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Guardami negli occhi ogni volta che sono con te.
Non quando lavoro, non adesso che scrivo al mio computer, solo e unicamente quando sono con
te…
Vedrai nei miei occhi quel filo sottile che mi lega a te e fa innalzare il mio cuore, che mi rende
felice…
Quel filo che sostiene tutte le mie speranze e i sogni , quel filo a cui continuo ad aggrapparmi
con tutte le mie forze…
L’amore è in ogni cosa che faccio per te, nei mie pensieri rivolti a te..
L’amore è in ogni sguardo che rivolgo a quel cielo e alla luna ogni sera….
L’amore è con me quando sono sulla strada per venire a trovarti..
L’amore è con me anche adesso che ti scrivo e penso al tuo volto….
L’amore è con me in ogni canzone che ascolto e mi riporta a te…
Ci sono delle sere in cui ogni nuvola che osservo in cielo scatena in me un interrogativo dubbi e
domande, ma l’amore è sempre qui con me…
Sono una grande sognatrice ma conosco anche molto bene le mie emozioni e quello che provo
per te sembrerà assurdo ma è amore….
Io ti amo in silenzio
quando aspetto una tua telefonata e aspetto di chiamarti
Io ti amo in silenzio
quando al telefono cerco di parlare e raccontarti
Vorrei gridarti quanto ti voglio bene , quanto ti desidero, ma mi blocco
I miei silenzi sono il mio amore per te.
Io ti amo in silenzio
quando sto con te così poco da non aver tempo di dirti niente,
ma solo guardarti e amarti
Io ti amo in silenzio
quando sto con un bacio ti saluto e mi domando quando ti rivedrò ancora
Soffro in silenzio quando le mie lacrime nella notte scorrono sul mio viso e il mio cuore è così
triste xché ti sento così lontano e non posso stare con te. (Marinella)
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Nel cassetto dei giorni trascorsi
Ti avrei aspettato una vita…
I ricordi scivolano
Su sogni abbaglianti d’amore,
chiusi in un forziere,
buttato nel fondo del mare dei silenzi.
Un vortice di tempeste,
dove s’intrecciano pensieri.
Una ferita ancora aperta,
il cuore sanguina.
Rosso che non si vuole vedere,
che non si vuole ascoltare.
Siamo anime naufraghe
nel mare della vita,
anime sbattute e stordite
da quel chiarore di passato,
che sfugge al buio degli abissi
e tremulo si affaccia,
per poi accendersi.
Divampa il fuoco nel mare,
gridano i silenzi.
Un amore senza contorni
dilaga astrale nelle notti,
prendendo il corpo di un fantasma
si affaccia alla memoria
e rivive ancora un poco. (Gloria Venturini)
Mi ritrovai lì davanti inaspettatamente, all’improvviso, ed il mio cuore per un istante cessò di
battere.
Rimasi ferma, immobile, fissando il vuoto, accecata da fantasmi che credevo ormai lasciati,
mentre l’impulso di fuggire diveniva irrefrenabile.
Dovevo andarmene, l’angoscia mi attanagliava la gola, la mente iniziava a vacillare. Dovevo
allontanarmi immediatamente, correre via lontano, sferzata dal vento, dalla pioggia, accogliere
quel freddo pungente nel mio corpo tremante, fin quando ogni emozione sarebbe stata
annullata e sopraffatta dal gelo, e nella mia mente non ci sarebbe stato posto per altro.
Ma in pochi istanti tutto era già accaduto, ogni sensazione riemersa ed i fili del passato
avevan catturato il mio cuore, trascinandomi senza pietà.
Non potei che entrare mio malgrado.
Eran passati tre anni, ma quel parco, quel maledetto parco, era esattamente come lo
ricordavo: stessi odori, stessi rumori, stesso opprimente grigiore, così pesante che finiva per
avvolgere ogni cosa, ogni volto, ogni pensiero.
O forse era la mia mente a sovrapporre il passato al presente, rendendo ogni singolo istante
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uno spasimo doloroso.
Era come camminare in un cimitero, infestato da spettri implacabili: ero attaccata da ricordi
pungenti come lame che uscivano lenti ma inesorabili dal mio cuore per penetrarlo e lacerarlo
con la violenza d’un uragano.
Il vento soffiava feroce, scompigliando le foglie che singhiozzavano sotto il mio passo incerto:
l’autunno non ne aveva risparmiata neppure una, alberi scheletrici protendevano supplichevoli i
secchi rami al cielo, invano: la primavera sarebbe ritornata solo a suo tempo, come sempre.
Lottavo con tutte le mie forze per riempire la mia mente di dettagli insignificanti ma un nome,
un nome mi opprimeva l’anima e tentava di riemergere dalla mia memoria.
Lo sentivo avvicinarsi, bruciarmi il petto e salirmi alle labbra, deciso, irrefrenabile,
terribilmente potente, fino a quando nella mia mente non ci fu posto per niente altro.
Michele.
Vedevo il suo volto come se lui mi stesse innanzi, le scarpe da tennis sgualcite, la fronte
imperlata di sudore, lo sguardo ostinato nel frenetico sforzo di segnare un goal.
Pareva ieri, era ieri, anche se poi i mesi erano scivolati via, e con loro gli anni, ma la mia anima,
i miei occhi erano lì, sempre e ancora, e di nuovo.
Era finita senza una spiegazione, senza nemmeno una parola, senza una ragione, era finita
come terminano le stagioni, come prima o dopo termina la nostra esistenza.
Un giorno lui mi era passato accanto senza neppure salutarmi, come non esistessi più, come tra
di noi non ci fosse mai stato nulla, ed in quell’istante io avevo cessato di essere, di sentire, di
vivere.
Se ne era andato in silenzio, senza un cenno, un gesto qualunque, rubando la mia anima, il mio
cuore, la mia esistenza, lasciandomi sola, terra arida ricoperta di sale.
Quanto tempo…
Troppo, ma sempre e comunque troppo poco…
Un incontro…
Mio Dio, quanto lo avrei desiderato…
Da troppo tempo la mia mente era assetata di ragioni mancate, di domande irrisolte.
Se solo un’altra possibilità mi fosse stata concessa…
Solo una…
Ora ero pronta, mi sarei giocata il tutto per tutto, anche la dignità se necessario pur di
poterlo riavere.
Sentivo la potenza dei miei diciannove anni premermi nel petto con disperazione: volevo
un’altra chance, un’altra occasione, ancora tempo.
Ora ero in grado di cambiare gli eventi, ora che sapevo cosa dire, come dirlo, ora che avevo il
coraggio di rischiare, di lottare, di esistere…
Mio Dio, qualsiasi cosa avrei dato, ogni cosa…
…La mia stessa vita…
Il grido delle foglie lacerate alle mie spalle mi fa sobbalzare.
L’immagine di lui aggredisce i miei occhi improvvisa e dolorosa, come uno spettro impazzito
uscito dalla mia mente e materializzatosi all’istante.
Il cuore mi salta nel petto, violento e assordante, il mio corpo è divorato dal gelo, non più mani,
non più gambe, non più pensieri.
Il nulla mi inghiotte, la lingua è marmo indurito, l’aria sabbia che non posso respirare.
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Fremente il corpo, brucianti i polmoni, sento la vita abbandonarmi in un istante tra immagini
confuse e annebbiate.
Lui rallenta la sua corsa incrociando il mio sguardo, meraviglia e stupore nei suoi occhi.
Scosta dalla fronte i capelli carezzati dalla pioggia, per un brevissimo istante mi è davanti e
mi sorride.
Mio Dio, non ho voce, non ho fiato, non ho volontà.
La mia mente è annegata nella sua presenza, non posso parlare, non posso sentire.
Mio Dio, ti prego, una parola soltanto, devo fermarlo, devo sapere, devo capire…
Mio Dio, ti prego, morire due volte no…
Ti prego…
Ti prego…
Ma già l’istante è passato, la sua immagine troppo lontana.
Spalanco la bocca, il suo nome è sulla mia lingua, ma la mia gola non emette alcun suono.
Il crepitio dei suoi passi è ormai svanito, il mio ombrello è a terra, i miei capelli bagnati
piangono gocce gelide sulle mie spalle.
Respiro appena, foglia secca e gemente tra tante altre foglie, nell’umido della sera, nel
silenzio del parco.
Resto immobile in dimensioni senza spazio, in istanti senza tempo, in pensieri senza forma.
Odo solo il battito accelerato del mio cuore. (Dora Vergombello)
Giorni sospesi, lievi
tra il grillo e il cielo chiaro,
tra i rami dell’ulivo e le colline,
tra l’aria molle ed il vagar d’insetti.
Giorni diletti,
su tramonti lontani, e sole,
su scogli solitari e sabbia fine.
Giorni d’amore,
giorni tinti d’intenso e di sapore,
spesi tra l’ombra netta sopra il muro,
e lei, nel sole.
Giorni confusi, uguali,
giorni lasciati a piene mani,
tra il riso, e il pianto,
trapunti di stelle e desideri.
Giorni sinceri,
su strade di campagna, e sterpi,
e frasi ingenue, e risa con gli amici.
Giorni d’estate, un tempo.
Giorni felici. (ipini)
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Nel cassetto dei giorni trascorsi, ci sono parecchie nostalgie, tanti echi di suoni lontani, sapori
passati, svariati colori sfumati. Cartoline e lettere, pensieri persi, ritrovati per un appunto, lì
per caso, silenti, in attesa di essere protagonisti, ancora solo per un momento! Quanta vita,
quante cose hanno visto gli occhi della memoria, a volte sembrano spenti, ma se gli accendi un
ricordo brilla una lacrima. Una scatola di cerini, un fuoco tiepido, innocente al lume di candela…
è un sogno solo sognato, e un fiammifero dopo l’altro si è spento, lasciando un po’ di vuoto. La
figurina di un fantasma, una grande paura infantile, diventata piccola… lì accanto un poster, lo
apro e vedo un timore più grosso, è quello di adesso, del vivere giorno dopo giorno, è la
trepidazione del domani, il dubbio del futuro. Luccica un gioiello, un bagliore in un punto scuro,
brilla come un diamante, la gemma più preziosa e seducente. Ahimè è uno specchio! Osservo il
volto della vita, nei momenti dei suoi anni. L’ingenuità della verde età ha lasciato il passo ai
primi battiti del cuore. Delusioni cocenti, lacrime amare, per assaporare poi il vero amore. Le
prime rughe dei problemi quotidiani hanno dato al mio viso un’espressione più vecchia. Negli
occhi e nel cuore non c’è più traccia di spensieratezza. Un carillon suona una nenia… un ricordo
di coccole per niente ottenute, di carezze anelate da bambina, doni mai ricevuti… eppure
bastava solo un po’ d’affetto! Un vuoto smisurato, un silenzio assordante… solo buio, è come
una notte senza stelle e senza luna. Chiudo il cassetto, accantono i rimpianti, guardo le mani e
con loro il presente, eppure, malgrado tutto, mi sento viva luce d’amore! Una sera un po’ strana
stasera! Mi propongo di dormire, ma una notte senza stelle è come un sonno senza sogno…
allora mi accendo un’altra sigaretta.
Una notte senza stelle
È come un sonno senza sogno.
Un bambino senza allegria
È come un fuoco spento.
Una musica senza poesia
È come un fiore appassito.
Una madre senza amore
È gelida come granito.
Una vita senza passione
È come un quadro senza colore.
Una coppia senza armonia
È come una rosa senza profumo.
Un pensiero senza speranza
È come un vuoto senza rimedio.
Nei cassetti dei giorni trascorsi c'è ancora speranza...
Quante vane promesse!
Ho così tanto amaro da poter scrivere cento, forse mille lettere, un fiume di parole che non si
ferma più. Tutti quei bei principi che nascono dall’anima, che fine fanno? La sofferenza, la
poesia più profonda, quella che si esplica anche solo con uno sguardo, una semplice parola, e
quella forza dentro che non muore mai, che ti dà il coraggio per tirare avanti, perché in fondo
non è finita, c’è sempre qualcosa da fare, chissà, magari un vecchietto ti chiede su quale binari
parte il treno, oppure viene un amico che non vedevi da tempo. L’importante è non mollare,
anche se ti hanno deluso, tradito. Forse, dietro l’angolo di casa trovi quello che hai sempre
cercato, non so, magari l’amore, o un nuovo amico, o un altro ideale per cui lottare. C’è sempre
qualcosa da scoprire, qualcosa di nuovo per cui vale la pena di credere ancora, di pensare che è
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sempre lì con te, ovunque vada o ti trova, ed è più di una parola, forse è l’unica amica che non
ti lascerà mai, è sempre lei, la speranza, che riscopri in un sorriso, in un altro viaggio o tra le
righe di un diario scritto in fretta, mentre cerchi qualcosa di bello da fare domani.
Nei cassetti dei giorni trascorsi cadono le illusioni sopra i petali di un fiore ...
Grigio, vedo il cielo grigio come la libertà. Vedo un gabbiano volare senza meta verso il sole,
che non riscalda più. Non è il sole dell’infanzia, non è più giallo, è fievole, lieve il suo raggio
come la neve, non lo si sente, è l’inverno in cui la realtà appare piano piano, in cui i sogni di
bambino muoiono, perché la vita è l’amaro di quel grigio che non abbiamo creato noi, che non
vorremo fosse lì, in cielo. Bisogna accettare questo brutto giorno, che non è la vita intera, è
solo un periodo che passerà, questa è la sua stagione. Cadono le illusioni sopra i petali di un
fiore, ne sboccerà uno a marzo e sarà il motivo per essere felice, almeno sarà il mio motivo, e
con lui crescerò di nuovo, a modo mio s’intende, e la primavera ritornerà a scaldarmi dentro le
pieghe dell’anima dove un giorno ritroverò, frugando tra i miei ricordi, anche questa specie di
inno al coraggio per andare avanti, perché credo ancora in me, so che oltre quelle plumbee nubi
risplende ancora il mio sole, libero nello spazio della mia fantasia, signore di una nuova realtà.
Nei cassetti dei giorni trascorsi cadono giorni passati anni fa...
In un giorno di sole, tanti anni fa, correvo lungo i piccoli canali della campagna di casa mia, e
tutto era un inno alla natura, come il sole che si nascondeva a tratti dietro i rami degli alberi
già in germoglio. L’erba stava perdendo il tono freddo dell’inverno per vestirsi di nuovi colori,
mentre i passeri facevano ricordare i sorrisi da bambina che la scorsa stagione si perdevano
per gioco nel magico incanto di un fiordaliso. Rammento con tristezza quei giorni passati, non
solo perché legati alla dolcezza infinita della mia infanzia, all’innocenza che ricopriva il mio
mondo, ma anche per la purezza di quei sorrisi rivolti allo splendore delle piccole grandi
meraviglie della natura. Adesso che vorrei correre e spaziare, anche se solo con la mente,
ancora tra quei campi in fiore, non posso più, perché quei luoghi sono scomparsi dietro il grigio
pallore del progresso, almeno così lo chiamano. Vorrei portarci le mie figlie perché potessero
vedere un mare di margherite, ma oramai non si vedono neanche più le lucciole, solo tra i
banchi di scuola ne conoscono la specie, mentre nelle sere d’estate, giocavo a raccoglierle e a
tenerle in mano, con la sorpresa di scorgere quella piccola lucina. (Gloria Venturini)
Nei cassetti dei giorni trascorsi...
Così la vide.
Quella sera sulla spiaggia, non fu la solita sera tra amici.
Un vento fresco soffiava piano piano, il cielo era ricoperto di stelle una più bella dell’altra, ma
era la prima volta che la vedeva.
Era bionda, la sua pelle era chiara come la luna, ed ogni volta che sorrideva le guance le si
coloravano di un tiepido rosso.
Non si poteva non notare.
Così le parlò.
Era timida, molto timida, non parlava quasi mai.
Il suo delicato volto ed i suoi occhi esprimevano qualunque suo pensiero, nonostante le dolci
labbra restassero immobili.
“Ciao” le disse.
Lei gli rispose a bassa voce.
I due iniziarono a parlare del più e del meno, e passarono molto tempo insieme.
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Erano entrambi molto timidi, e così gli sguardi non si incontrarono mai.
Così la conobbe.
Si era fatto tardi, bisognava far ritorno a casa.
Lui si offrì di accompagnarla.
Lei prima disse di no, ma non si fece pregare molto.
Sotto il portone i due si salutarono, e nella notte i due sguardi si incrociarono per qualche
istante.
Così se ne innamorò.
I giorni passavano velocemente, e con essi, il tempo trascorso insieme, diventava sempre più
piacevole.
“Ti Amo” le disse un giorno.
Così si amarono.
All’inizio tutto era strano … ma bello.
Il tempo passava, e tutto sembrava andare per il meglio.
Un bel giorno però, tra mille discorsi, i due capirono una cosa molto importante.
I due si lasciarono.
Chissà quante lacrime versarono.
Con il passare dei giorni si persero di vista, e tutto ciò che era stato divenne ricordi, belli e
brutti… ma solo ricordi.
Il motivo?
Come potete ben immaginare non è altro che un semplice…
Così.
Non è colpa mia… non lo so.
La testa mi batte come un martello… sì questa musica infernale non si fermerà mai… almeno
spero.
Ah il vento contro il viso, ah le luci … accese, spente, sembra natale. Sì un albero con i regali
tutti colorati e con enormi fiocchi variopinti.
Mentre corro vedo una stella… la mia stella. Si può possedere una stella? Io ho la mia dolce
stellina.
NOOO!!, non la trovo più. Ma non ti scorderò mai, non l’ho mai fatto.
FRENAA!!!, il semaforo è rosso .. anche se prima era giallo. Devi fare attenzione.
Inchiostro… inchiostro o lacrime? C’è differenza? Tanto prima o poi asciuga lo stesso.
Sudo sì, sudo, e le gocce di sudore col vento si spostano come comandate da non so chi. Che
bello comandare. Fai questo, fai quello... e già… è bello. Che peccato … tutto è comandato
ormai. I fili sono sempre gli stessi, così grandi… ma inspiegabilmente invisibili. Forse dovrei
controllare i miei occhi.
Come sono belli i tuoi occhi amica mia. sembrano due gemme che brillano nel mare. Un mare
può brillare dentro una gemma? Certo che può… che domande. Spero di rivederli sai… come
quando tremavano così velocemente da sembrare immobili. Forse erano realmente immobili.
Chi?, dove?, quando? … a tutto c’è risposta, manca solo il come.
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Amore, mi ricordo questa parola. Già, eh eh sotto la pioggia leggera, mano nella mano. Amore?
Mmmm, non so.
Come quando ti senti stringere forte da un abbraccio, quando non mangi per 2 giorni, altro che
tunz tunz commerciale.
OPS!… il semaforo è tornato verde… sento i clacson suonare, devo muovermi.
La meta non è mai lontana se la fissi vicina.
Tic… Tic… Tic… l’orologio scandisce i secondi. Non mi stancherei mai di guardarlo. Che dolce
melodia il tempo. Cosa non si può misurare? Mmmm, ci devo pensare su per un Tic Tic Tic … e
forse capirò, … forse.
Sono stanco… un giorno mi renderò conto che non è stato tutto perduto. ([Love])
Nel giardino dei giorni trascorsi ritrovi dei gesti che ora vedi in tua figlia..
Oggi ho visto scendere dal cuore
le tue prime lacrime d'amore.
Singhiozzi enormi bimba mia,
per un giovane sogno che fugge via.
Cocente delusione,
grande passione,
un forte dolore al petto,
un graffio all'anima dal tuo affetto.
Una spada lancinante nella mente,
quanti ricordi,
quanto amore dolente.
Bimba mia,
splendida perla di Venere,
ingenua è la tua rara bellezza,
non piangere,
meravigliosa sei tu,
unica ricchezza.
Mi si spezza l'anima
vedendoti sfidare
il nuovo dispiacere.
Vecchio è il ricordo,
la mia prima lacrima d'amore
riaffiora in te,
doverla provare su una figlia
fa ancor più male.
Bimba mia sorridi alla vita,
agli amori cominciati,
ad altri pianti disarmati,
assapora tutto con forza e gioia,
perché ogni giorno
nasce ogni giorno,
c'è un nuovo sole,
una prima primavera,
un nuovo sorriso,
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una prima canzone,
tutto questo rinchiuso
in un antico sentimento,
l'amore perpetuo
del cuore di mamma. (Gloria Venturini)
Poi magari non puoi avere una figlia, perché ti rubano giorni trascorsi. Ti ammazzano.
L’aria del mattino è tersa e tu ne aspiri intensamente i mille profumi, provenienti dalla vallata.
Come ogni giovane hai voglia di vivere, godere per quello che di più bello esiste al mondo ma la
paura che tutto finisca in una vampa di fuoco, ti segue ad ogni passo… no, non può accadere
nulla in una radiosa giornata come questa. Sorridi felice a te stessa, mentre con lo zaino in
spalla percorri la stretta via protetta da un alto muro di cemento, diretta alla fermata del bus
che ti porterà in città: un tempo quella grigia barriera non esisteva e lo sguardo si spingeva
lontano fino a scorgere in distanza le antiche mura di Gerusalemme inondate dal sole del
mattino. Quante volte hai percorso quella stradina diretta ad una festa durante la quale ti
stringevi a colui che sarebbe presto divenuto tuo sposo…Era solo un sogno distrutto da una
rosa di sangue sbocciata all’improvviso sul suo petto.
L’hai tenuto tra le braccia mentre moriva ucciso da qualcuno appostato nella valle; era giovane
come te e come te sognava la pace…Affrettati ora il bus non può attendere…
Il sole non è ancora sorto tra le macerie della casa distrutta dalle ruspe:uscito
dall’improvvisato rifugio, osservi i compagni con i quali fino a ieri giocavi nel grande cortile.
Tute mimetiche, troppo grandi per dei ragazzi, li rendono simili a grotteschi soldati ma
sguardi mostrano autorità e ferocia. Anche tu, come loro, sei cresciuto respirando l’acre
odore della paura, vivendo buie notti di coprifuoco volute da chi non ti era accanto quando scie
luminose solcavano il cielo per infrangersi come bolle di luce, contro inermi edifici. Giorno
dopo giorno è cresciuta così in te la rabbia ed il disgusto per una vita che non conosce tregua:
hai visto tuoi fratelli lanciare sassi contro mostri d’acciaio; li hai osservati morire senza una
ragione apparente… Ora tocca a te; forse domani il tuo sacrificio renderà libero un popolo
oppure ancora più schiavo; questo non lo saprai mai mentre attendi il bus proveniente da Gilo…
Già, nulla poteva accadere in una bella giornata di sole; come te, così pensavano tanti giovani…
il loro sogno si è infranto ad una fermata di autobus. (simbad il marinaio)
I giorni trascorsi si sfogliano da diari d'infanzia.
Tun tun, tun…è mezzanotte.
Il vecchio orologio a pendolo attaccato al muro suona ancora una volta la mezzanotte.
Sta iniziando un nuovo giorno, uno speciale, un giorno tutto per me.
L’arcaica e stanca sedia a dondolo vicina al focolare è illuminata dal tenue chiarore delle braci,
da questi mozziconi di legna ardenti che fanno perdere la mia mente nel mondo melanconico ed
amaro dei miei più cari ricordi.
Risento l’odore dei libri di scuola, lo strimpellare della chitarra e rivedo il sorriso della mia
ingenuità.
Il gatto della nonna è accovacciato come il solito sotto il piccolo tavolo in stile barocco,
mentre il ritratto del nonno osserva padrone la stanza, quel posto tanto pieno di calore, dove
si tenevano le riunioni di famiglia a Natale.
Odo ancora le voci dei miei cari, lo strillare di noi bambini per le litigate, mentre lo sguardo
severo e dolce del nonno ci faceva smettere e stare quieti. Sento ancora il silenzio durante le
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preghiere, il rumore delle posate che sbattevano contro i piatti, nel tentativo di raccogliere
più in fretta la minestra, per far prima, proprio come i grandi, per mangiare al più presto la
torta, quella buona con la frutta, preparata dalla nonna.
Tun, tun, tun, il vecchio orologio scandisce ancora le ore, e mi riporta nel presente.
Guardo attorno a me, è ancora tutto come allora, manca solo il sorriso del nonno e quella
sentita comunione e serenità che avevo un tempo con la mia grande famiglia.
Si sfogliano da diari d'infanzia come parole dolcissime.
Come ombra di luna
il tuo volto mi appare ridente,
solo luce cinerea
riflessa dal sole dei ricordi.
Ombra di luce
di un caldo affetto
aggrappato al cuore
dal nostro grande amore.
Madre di mia madre,
storia nella storia,
vita nella vita,
un intreccio di passioni,
un’insieme di momenti
fatti con te.
Quando avevo freddo al cuore,
lo riscaldavi col sorriso,
col tuo ingenuo e dolce amore.
Cara la tua presenza,
come ombra di luna mi appari,
offuscata dalla tua non più giovine età,
come luce riflessa nella mia anima,
da tutto quel bene,
quel parente affetto,
che nella vita,
mi hai voluto solo tu.
Si sfogliano da diari d'infanzia come parole nel vento.
Il vento è la carezza della natura.
Il vento è pari, è uguale,
imparziale fino in fondo,
con le sue mani di velluto accarezza tutti,
buoni e cattivi, brutti e belli, vecchi e piccini,
sfiora ogni volta indistintamente.
Il vento è musica, dolce sinfonia,
con le fronde degli alberi, come strumento,
suona nenie tranquille,
canzoni il cui vociare è dato dal mare.
Vento caldo di mare,
vento azzurro che si perde tra il verde degli alberi,
vento giallo caldo di sole,
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vento bizzarro che gioca con l’acqua marina,
fa riccioli d’onda e schiuma bianca che corre,
per finire lentamente a vezzeggiare i piedi scalzi di un bimbo,
che sulla riva del mare gioca col vento e con l’onda.
Aspetta… ascolta… la voce del vento!
Parole scritte nel vento
Le nostre sono solo parole al vento…
scritte nell’aria…
ascoltate da cuori che si stringono
infreddoliti nel loro pigiama,
sotto coperte di nuvole a pecorelle…
cuori solitari che cercano una canzone…
che aspettano nella notte
anche solo un’emozione…
basta poco, basta un nulla…
solo poche parole scritte nel vento…
Scritte nel vento, eppure parole veloci come segni di penna nell'anima.
In questa notte buia la pioggia sta piangendo con me.
Sono lacrime d’amore, una fiamma spenta dal tempo,
volata lontano come le foglie al vento.
Com’è triste il cielo senza stelle!
Tutto è avvolto nelle tenebre, anche la luna,
così importante per il mondo degli innamorati!
Rammento che una sera,
passeggiando a fianco del mio amore perduto,
ammiravo gli astri, e la luna era talmente bella e luminosa,
che quella luce risplendeva nei suoi occhi,
le stelle brillavano, sembravano piccole gocce di rugiada
sparse qua e là nel manto nero della notte.
Mi ritrovo con un enorme bagaglio di ricordi ed esperienze,
di infinite amarezze, di sogni, di illusioni e delusioni,
della collana ne sono filo, dove piccole perle d’amore spiccano opache.
La delusione è il culmine dei miei momenti,
mentre credevo di tenere stretta la felicità,
sognavo meravigliose immagini proiettate nel futuro,
mi accorgo che era tutto un quadro di fantasia,
dipinto dalle mani della poesia. (Gloria Venturini)
Cambiamenti d'anima, ricordi come parole di un dolce novembre.
Ci incontrammo in un pomeriggio buio e umido di novembre, una di quelle sere in cui la nebbia ti
si incolla alla pelle e ti toglie il respiro. I suoi occhi verdi mi colpirono ad un tratto; li percepii
quasi fisicamente su di me. Lui se ne stava sul marciapiede,incurante della pioggerella noiosa
che sin dal mattino non aveva mai smesso di sferzare gli alberi dai rami nudi.Era un cittadino
del mondo,come tutti i barboni.
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Lo fissai in modo sfrontato e lui non chinò il suo sguardo.Non so perché lo invitai a salire da
me: magari perché mi sentivo molto sola e depressa; o forse perché lui mi aveva intenerito e
non potevo lasciarlo lì, con quel tempaccio. Le previsioni del tempo prevedevano inoltre che
durante la notte la temperatura sarebbe precipitata sotto lo zero. Il portinaio ci lanciò uno
sguardo curioso e maligno, quando entrammo nell'androne del palazzo e ci avviammo per le
scale.
Una volta arrivati nel mio appartamento ci asciugammo per bene e poi cenammo presto, in
cucina. Preparai del pesce al cartoccio e, non per vantarmi,ma lui si leccò davvero i
baffi.Guardammo un po' di tv e la noia davanti allo schermo ci fece terminare la serata in
camera da letto.
Lui dormì nel mio letto, per tutta la notte e mi scaldò l'anima.
Ma poi venne l'alba, spuntò un sole pallido e triste, velato da nuvole grigie e mio marito rincasò
dal turno di notte. Entrò in camera da letto con la cravatta allentata, senza giacca, reggendo
in mano i mocassini neri. Non la prese troppo bene. Si mise ad urlare e lanciò anche una scarpa
contro di noi. Non lo avevo mai visto così fuori di sé.
Puntò minaccioso l'indice contro di lui, dicendo :"Fuori!Non voglio gatti in casa mia!!" (maria
oliveri)
E poi, nel cassetto dei giorni trascorsi, trovi giorni che continuano a vivere, nei sogni, nei
pensieri, nei desideri... anche, solamente, in un amore... e ancora amore, e ride la parola
amore... amore, AMORE amore....
Sto pensando sempre a lui
La sua immagine è sempre impressa nella mia mente
Però quello che voglio è quello che lui non mi dà
Un bacio, ma un bacio vero non rubato ….
Un bacio, dolce, passionale che non staccheresti più le labbra da lui…
Questo è quello che voglio ed è quello che mi manca….
Che mi manca quando al mattino mi sveglio nel mio letto.. da sola…e il pensiero è rivolto a te ,
dove sei e cosa farai…
Il mio pensiero va sempre a te,
ma il mio cuore cerca di più e vuole di più
darebbe qualsiasi cosa per avere un bacio tenero e dolce da te…
Ma sarebbe come rubare la luna…. (Marinella)
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Il cassetto delle lettere
Apriamo cassetti polverosi, scardinati. Vi troviamo fogli ingialliti, sbiaditi, spiegazzati. Carta
velina quasi...
Vecchiaia. La vecchiaia delle nostre lettere... una solitudine informe e gigantesca ci piega le
spalle.
E' la solitudine deforme dei pazzi... ci guardiamo vecchi allo specchio di una vita stanca, ci
guardiamo grassi e stanchi. Lettere. Lettere che non abbiamo mai scritto, o che non possiamo
più scrivere. Sono lì, in quel cassetto maledetto che è nascosto, mai troppo bene, in fondo ai
nostri occhi, dentro lo specchio dove solo noi stessi possiamo guardare...
Come va? Passavo di qua e....Ho sentito riecheggiare la tua voce e mi sono fermato. Ogni tanto
fa bene fermarsi un po': in questo mondo va tutto così in fretta!
Volevo parlarti, sì! Discorrere della realtà, del tempo che va sempre più veloce: ogni anno
sembra sempre più breve del precedente e passano come niente; se ti volti ce ne sono tanti
accantonati là che sembra impossibile averli attraversati tutti....o ci hanno attraversato loro?
Questo non lo so!
Gli esperti dicono che non esiste né il passato e né il futuro e che l'unica entità certa sia il
presente. Ipotesi affascinante, ma mentre sei lì a pensarci un attimino su..... diventa già
passato. Dicono che il segreto sia vivere bene ed intensamente l'attimo, e lo dicono come se
fosse una cosa semplice.....è inutile negarlo: ci sono dei momenti invivibili in cui il tempo
sembra fermarsi.....sembra! Forse è proprio questa la fregatura. Davanti ad una delusione o di
fronte ad un dolore ti lasci andare e non reagisci come se il tempo si fosse davvero fermato.
Invece no, mentre tu sei lì tutto continua ad andare lasciandoti indietro. A volte sai cosa
penso? Bisognerebbe applicare al mondo un pulsante di un grande cronometro virtuale, così
quando una persona attraversa un momento difficile schiaccia il pulsante ed il tempo ed il
mondo si fermano per davvero; passato il dolore si ricomincia da dove si è lasciato, come nelle
partite di basket.
Cosa dici? Sì c'hai ragione tu! Il mondo starebbe sempre fermo, oramai siamo diventati sei
miliardi, sai quanti momenti difficili!?!?? Forse al di là di ogni filosofica teoria, nel bene o nel
male, è proprio questa la sua bellezza, e come dice qualcuno la sua cura: lo scorrere! Solo che
come un fiume si porta via tutto, anche le cose e le persone che vorresti tenere con te.
Lo dicevi anche tu: "La vita è dura ma passa, se ne va.......".
Lo vedi, sono di nuovo qua a dirti sempre le stesse cose....così!
L'altra volta parlavo di tempo e di cose fuori dallo scibile nonostante tutte le spiegazioni in
proposito. No, sta' tranquillo, oggi mi chiedo solo se in me c'è qualcosa di te: un portamento,
un pensiero.... Mi ricordo che a volte parlando di alcune persone e dei loro infimi
comportamenti tu ti chiedevi: "Siamo nel duemila ed esiste ancora questa gente?".
Lo dicevi qualche anno fa, quando ancora c'eri ed il terzo Millennio (a parte le date) non era
ancora arrivato. Adesso nel duemila ci siamo per davvero e....sono ancora tante le cose da
cambiare, sono sempre le solite cose, quelle che tutti sanno. Tu però, avevi fiducia nelle
persone, tu come me. Probabilmente è questo il seme che hai lasciato in me: la fiducia nel
prossimo, quella speranza che dicevi :"Bisogna cercare di tenere viva!".
Dimmi un'ultima cosa poi vado: ora che sei a spasso fra le nuvole e guardi il mondo da lassù.
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Ora che tante cose ti sembreranno stupide. Ora che di tutta la bella esteriorità del mondo ne
puoi fare a meno e ti arriva solo la verità quella che a volte quaggiù manca. Dimmi ce l'hai
ancora tutta quella fiducia nelle persone?
Pensaci un po', poi me lo dici.....ne ha bisogno quel seme che hai lasciato dentro di me.
Sono le sei del mattino e sto andando a lavorare proprio come facevi tu. A quell'ora io non ti
sentivo mai, avevo da dormire. Ora tocca a me. Tocca a me uscire quando il sole non è ancora
su, e devo dire che stamattina fa tanto freddo che restare qualche ora in più a letto non
sarebbe stato male. Che tempo c'è lassù? È sempre giorno? É sempre notte? É caldo o è
freddo? Ti copri o le anime non hanno bisogno di niente? Spero che faccia caldo e che sia un
giorno di sole, ché di freddo ne hai sentito tanto quaggiù! Siamo a Gennaio e nonostante siano
passate da un po' le sei è ancora notte. In macchina c'è una specie di riscaldamento e l'ho
acceso, ma fa freddo e penso tante cose. Cose belle, cose brutte, dipende anche da come ho
dormito le poche ore previste dal sistema. Chissà se tu mentre aspettavi l'autobus pensavi le
stesse cose, avevi gli stessi dubbi, o eri convinto di quello che facevi?
Io convinto non lo sono quasi mai: mi chiedo che senso ha tutto questo: il copione che con
tanto stress ed avidità, ogni giorno recita l'umanità e lo comincia a recitare ancora prima del
giorno.
Una risposta a tutto questo c'è! Il mondo che ci siamo costruiti è un mondo fatto di bisogni
superflui da soddisfare per essere all'altezza di non so che cosa, spesso dimenticando che i
bisogni non sono sogni e alla fine possono non appagare: sai ..... non ho ancora quarant'anni ma
di morti sui marciapiedi della nostra città ne ho incontrati davvero tanti e....quelli fanno paura.
Sono fra di noi, si nascondono, si fingono amici solamente per trascinarti nel baratro. Noi ci
abbiamo messo un po' di tempo ma queste cose le abbiamo capite, non possiamo far finta di
niente. Aspetteremo il sole e poi lo grideremo assieme alla vita, alla gioia, alla felicità....
Sì, grideremo le nostre ragioni assieme alla vita, alla gioia e alla felicità, ma prima dobbiamo
fare una guerra che non abbiamo mai fatto. Dobbiamo batterci contro nemici invisibili:
l'ipocrisia, l'invidia, la meschinità. Penso che queste siano le grandezze occulte da cui non
riusciamo a difenderci e che non riusciamo a capire. Sembra che stia dicendo una cretinata,
certo! L'ipocrisia, l'invidia sono cose che tutti sanno cosa sono e dove stanno. Lo sanno
tutti.......e allora perché nel duemila esistono ancora uomini usciti da una stessa donna ma divisi
da poche centinaia di migliaia di lire, perché?
Perché Caino continua ancora ad ammazzare Abele e Giuda continua a tradire, perché?
Non so se a queste domanda ci sarà mai una risposta o se la risposta siamo noi come uomini. Io
non lo so, ma lassù fra le nuvole ne parlate mai?
Avrei da dirti ancora tante cose ma arriva gente e devo tacere: va di sicuro a finire che mi
prendono per pazzo. Qui uno non ci mette niente a dire "quello parla da solo, quello è matto".
Però puoi stare tranquillo l'ho capito.
Sì certo è chiaro!
Cambierà se cambierò è questa la cura, la ricetta.
Poi non so.
Cambierà se cambierò!
Ciao Papà, ciao...ciao. (Giuseppe Bianco)
Distorsioni e richiami, e solitudini, tra le poche righe di queste nostre lettere...
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Ed
è
solo
una piuma
che si frappone
fra te e me
...ma che
distanza siderale
essa è ! (corrado carlin Dag.)
Stanotte sono qui...
in cerca di parole,
di note, di musica,
forse solo di sogni.
Ma cosa conta?
Dimmi, dimmi tu che mi stai sentendo,
dammi una sola ragione,
dammi un tramonto a cui aggrapparmi.
Ascoltami, ascoltami,
ho anche bisogno di te,
ti sento vicino perché siamo nella stessa vita,
siamo vita delle stesse lacrime,
vita sotto lo stesso sole,
anime che sono qui,
che guardano la stessa luna.
Voglio luce di stelle,
sta sera.
Fuori è tutto buio, una notte nera,
nera e fredda,
ma oltre, nascoste da questo attimo oscuro,
loro, le mie, le nostre stelle brillano.
Con gli occhi del cuore,
ti prego, dammi la mano,
accompagnami con gli occhi del cuore sopra una stella, sopra il bagliore di un nuovo sogno,
in questa notte, in questo momento così opaco.
Chissà cosa nascondono gli occhi opachi...
manca quel raggio di luce,
siamo nella stessa vita, nella stessa luce,
anime in cerca d'azzurro.
Ascoltami, parlami. (Gloria Venturini)
Le parole per te...
A volte mi chiedo com'è possibile voler bene a qualcuno che non si è mai visto o si vede
pochissimo….
Ci ho pensato, molto anche….
Alla fine mi sono convinta che non è difficile…
Anche in quel poco tempo, ho sentito la voce del suo cuore, ho sentito il battito del suo cuore,
ho sfiorato la sua anima, ho ascoltato i suoi pensieri......
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Può essere assurdo, ma a volte si è in grado di farlo anche in poco tempo…..
Sento la tua voce dentro di me che non va via….
Sento il suo pensiero che si è impossessato della mia mente…
Quindi non è impossibile volerti bene......
A volte non serve una giustificazione per voler bene ad una persona. E’ come un sesto senso
che si sviluppa e ti fa capire molto di quella persona e te la fa piacere….
Fa sì che lei riesca a toccare il tuo cuore…
Il sole quando si alza al mattino e poi la sera tramonta , fa' un atto d'amore e non chiede nulla
in cambio, La luna quando illumina il cielo notturno fa' un atto d'amore senza chiedere nulla in
cambio, I fiori quando coprono i nostri prati di colori e profumi fanno un atto d'amore ed
anche loro non chiedono nulla in cambio. Loro non si chiedono perché lo fanno, quindi, perché
dovrei chiedermi per quale motivo ti voglio bene?
Me lo sono già chiesta troppe e troppe volte…
Basta….. non me lo chiederò più, mi domanderò quando avrò smesso di volerti bene che cosa è
successo !?!?! (Marinella)
... per te, le parole per te...
Vola il pensiero......come una farfalla che va di fiore in fiore aleggia nell'aria. A volte spinto da
qualche spiffero uscito dall'anima s'alza leggero; di rado stenta a partire, qualche volta
rimane dentro e fa rumore.
Vuota bolla di sapone va in giro per strade e vicoli dimenticati nel tempo, in cerca di
sensazioni, facce e sospiri lasciati qua e là. Al suo ritorno è un libro da sfogliare, un viaggio già
fatto ma da rifare.
Si sa, quando i ricordi cominciano piacevolmente a grattare le pareti dell'anima, come per
magia, la realtà comincia a diradarsi, e fra le macchie d'oblio riaffiorano attimi dimenticati.
Ed è a quel punto che i ricordi diventano concreti, reali, presenti tanto da viverli.....
Da un po' di tempo non scrivevo d'amore, mi ha sfiorato il tuo ricordo ed eccole, vanno da
sé.....le parole. Ti somigliano a tal punto da sembrare dei frammenti di te ancora vaganti nelle
mie recondite fantasie. E ad un certo punto, anche tu come i ricordi che grattano le pareti
nascoste diventi reale, quasi ti sfioro. Sei davanti a me col tuo viso da bambina, con i tuoi
occhi spersi dentro al cielo e con le parole, che sai dire solo tu. Strano....sei ancora qui.....sei
qui anche se non ci sei più.
Spesso ti raccontavo di storie passate, di attimi vissuti e voglia di cambiare. Tante cose me le
narravi anche tu. Affidandoci alla spontaneità era facile far diventare "parole" le persone, le
sensazioni, il sesso, l'amore, la nostalgia e le piccole cose di ogni giorno.
Parole che nascevano da sole e non sempre in contemporanea alla sensazione che le aveva
germogliate, ma a sorpresa ed in momenti in cui, credevamo di averle perse dentro noi.
Le sensazioni sono verità caduche, possono essere smentite. Rappresentano, però, le uniche
strade capaci di condurci alla base di un sentimento in un preciso istante. Le sensazioni sono
fotografie di sentimenti e come fotografie ritraggono espressioni impossibili da ripetere.
É quell'espressione in quell'attimo ciò che la foto conserverà nel tempo.
Le parole....le nostre parole e quelle delle nostre canzoni e delle nostre poesie, cercavano di
fare la stessa cosa: proiettare nel "domani" i tanti attimi vissuti lungo la strada del tempo.
Adesso è chiaro.....sì! Per noi le parole erano fotografie.....fotografie di sentimenti, espressioni
facciali dell'anima.
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.....E sono tante le parole che non ti ho detto...E sono tante le fotografie che non hai visto. Ed
è questo il dubbio: se le avessi viste? Cosa sarebbe cambiato?
Non so se davvero sarebbe cambiato qualcosa, ma adesso, col senno di poi posso dirti che è
stato giusto così: se è vero che il grande amore s'incontra una sola volta nella vita, quando ci
siamo incontrati avevamo già avuto questa fortuna.
Abbiamo accettato di giocare una partita sapendo già che l'avremmo perduta, è stata questa
la nostra grandezza. ...E... per questo credi, che come recitava l'ultimo verso di una canzone
...... " E' stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati.".
Le lettere sono il nostro passato. Pensa un po'... potremmo inventarci un passato dalle nostre
lettere, mentre il presente stesso diventa passato.
Parlare del "passato" come di qualcosa oramai andato mi sembra sbagliato, poiché esistono
persone che vivono di passato o che cercano di dimenticarlo e se lo ritrovano davanti, e
persone che attingono dal passato i giusti sentimenti per vivere inaspettate situazioni, e
persone che purtroppo il passato lo hanno subito e ne portano dentro l'indelebile segno. Ieri
non è soltanto il giorno andato, quello con una cifra in meno a quello di oggi. Ieri è qualcosa che
almeno in parte resta nella memoria e ti arricchisce con sensazioni che porterai sempre con te
durante il viaggio.
Ieri è una stanza abbandonata in una grande casa, dove col passare dei minuti, delle ore, dei
giorni e degli anni hai accumulato tutte quelle cose che al momento non ti servivano, ma
all'occasione sai che sono lì..........
Una situazione vissuta con una certa intensità, un incontro importante, uno sguardo che ti è
rimasto impresso; il professore che ti ha fatto l'esame di maturità, la prima masturbazione, la
prima volta che hai fatto l'amore, lo sguardo severo di tuo padre; qualche schiaffo, quando hai
pagato per fare l'amore; le persone attorno a te ad un funerale o su di un treno che ti portava
lontano o al mare o in città, qualche addio......dei tanti momenti vissuti, il tempo col suo
scorrere ne potrà smussare i contorni, delle persone digradarne i volti, ma delle sensazioni
provate in quei momenti ti rimarrà dentro qualcosa in più di un ricordo senza nessun peso e
nessuna importanza.
Qualcuno disse " Nessuno è senza passato", forse per dire che il passato con il presente è
l'unico binomio certo del nostro vivere. Il futuro non è arrivato ancora, e credo che nessuno
abbia la facoltà o la fortuna di firmare un improbabile e virtuale documento per esserci
quando esso arriverà.
Per esprimermi meglio devo ritornare all'esempio di poco fa, quando paragonavo ieri ad una
stanza abbandonata di una grande casa: per riuscire a vivere in quella casa con la necessaria
armonia, bisogna farlo tenendo conto della stanza abbandonata, ma non commettere mai
l'errore di vivere in funzione di essa, basterebbe un solo istante. Comunque sia il tempo resta
un egoista, pensa solo a se stesso ed alla sua folle corsa ignorando le inevitabili senescenze da
lui provocate, anche se, per contrasto al suo scorrere, in certi momenti ti volti indietro e ti
accorgi che tanti "ieri" sono ancora là!
Gli attimi che stiamo vivendo saranno i futuri ieri e dovrebbero essere vissuti e respirati
tenendo presente questo piccolo particolare. In ultima analisi, bisognerebbe riuscire a vivere
bene il presente pur pensando in qualche modo al futuro. Come dicevano gli antichi
bisognerebbe ' friggere il pesce e riuscire a tener d'occhio il gatto'. Potrebbe essere in
queste semplici parole la chiave ma intanto.........................
tic...tac...tic...tac....tic...ta.c..... (Giuseppe Bianco)
43
Ci sono lettere gridate di speranza. Perché anche il dolore ha un perché... terribile, crudele,
inaccessibile ai più...
Com’è strano l’animo umano…
Un attimo prima piangi,
Piangi e piangi,
Come se il cuore fosse diviso a metà…
E un attimo dopo ridi,
Ridi e ridi,
Come se il cuore esplodesse dalla gioia…
Com’è strano l’animo umano…
Così misterioso, così imprevedibile,
Ma se non fosse così
Cosa renderebbe la vita degna di essere vissuta?
A volte mi chiedo
Il senso di questo viaggio
Chiamato vita…
Un’intera vita non basta
Per sopravvivere a tante sofferenze…
Che senso ha questa vita mia,
Se ciò che sudo, amo e desidero
E’ destinato a morire?
Soffro, e soffro più
Di quanto gioisca,
Ma per ogni briciolo di gioia
Vale la pena vivere.
Già, perché c’è un tempo
Per nascere,
E c’è un tempo
Per morire.
C’è un tempo
Per gioire,
E c’è un tempo
Per soffrire.
Ed è questo il senso
Di questo viaggio:
Vivere la vita con
Le gioie e i dolori di ogni giorno.
E’ questo quello che
Dio vuole da me.
A questo serve il dolore:
A farmi godere della gioia.
E spetta a me dare un
Significato a questa vita mia!
Tocca a me scegliere…
44
Ed io ho scelto:
Voglio Amare!
Mi sento continuamente
Fuori tempo e fuori posto
Vado alla ricerca del
Mio giardino dell’Eden:
Cerco e ricerco, ma
Non mi accorgo che
Il mio giardino è qua,
Vicino alle persone che amo
E che mi amano: è questa
La mia casa, il luogo
Dove sboccerà il mio amore.
E mi sentirò a casa ovunque,
Ovunque il mio amore potrà
Esplodere, e non creare altro che luce,
Altro che luce.
E questa mia casa, questo mio Eden
Sono per Te, con Te, insieme a Te. (Andrea Serra)
Ci sono lettere gridate di speranza.
Ognuno ha bisogno d’amore perché solo così ci rendiamo conto di vivere.
Io stessa ho provato..
Cerco di vivere le mie giornate senza amore..
Ma poi quando un bambino ti dice t.v.b.e ti abbraccia.
Ma poi una telefonata della persona che ti fa sussultare il cuore
Tutto svanisce, come un castello che crolla, il castello in cui ti eri nascosto ben bene…
E devi ammettere che ti dà mille soddisfazioni in più un secondo con il tuo lui o un tvb detto
con il cuore che mille ore da sola senza amore.
Non ha importanza se per amore stai male, non ha importanza se passi le notti a pensarlo
Se il suo nome ricorre mille volte nella tua mente…
Tutto ciò vale più di tutto il resto … (Marinella)
Lettere agli angeli... ancora speranza...
Nell’angolo più quieto della stanza,
un angelo, a metà fra l’ombra e la luce.
Un angelo incerto.
In tutti i momenti del distacco,
in tutti i momenti in cui la gioventù piove dietro di noi,
e piange, l’anima rabbrividisce agli interminabili gemiti.
In tutti i momenti che precedono l’alba,
luci ed ombre si mescolano tra la tenebra e lo splendore.
In tutti i momenti che dagli occhi traspare il mistero della vita,
è il cuore che parla di speranze ed amore.
45
In tutti i momenti in cui la voce del vento soffia tra le strade solitarie,
quando giunge l’inverno,
il nostro angelo è vicino a noi,
e ci prende per mano.
Incerti, mano nella mano,
andiamo incontro al cammino, alla vita.
Qualche volta il nostro angelo incerto ci prende in braccio,
ci sorregge quando la vita è troppo pesante e ci fa cadere a terra,
come schiavi senza catene, inerti e stanchi.
Se apriamo le finestre dell’anima
e le porte del cuore, lui ci parla.
Lo si può sentire nella voce del vento,
nel mormorio del mare,
tra le note di una canzone,
nel bagliore di una stella,
o tra le lacrime di un bambino.
In tutte le lacrime d’amore c’è la sua voce esitante.
Caro è il nostro angelo,
incerto come noi. (Gloria Venturini)
46
La bacchetta magica
47
Ferro
Tra meridiani e latitudini di luce. Stiriamo la nostra esistenza. Elasticità di una luna morta.
biglie in un mondo di dadi.
rimbalziamo nelle ore
come occhi,
un po' per caso,
come gatti silenziosi.
Rubiamo cibo di sguardi
senza sfiorarci. (livio)
L'esistenza
metallica
o eterna
del tempo
si rafferma
intorno
a pensieri
metallici
o eterni.
Paure
o miracoli.
Flussi. (lidia)
Scorrere
incessante
immutabile.
Eterno.
Uno stridere
di lancette
contro il tempo.
Rumore
di istanti
vuoti.
Traboccare
di armonia.
Sincretismi. (Domenico Vicinanza)
48
Viaggiatori.
Non coscienza
ma conoscenza
del mondo
liquido
che ci passa
tra le mani
come tempo
sudato
e innocente.
Istinti
di sopravvivenza. (lidia)
Suggestioni.
Immagini o
proiezioni
lanciano
lontano
coincidenze.
Incrociarsi
improvviso
di destini.
Susseguendosi
intrappolati
in un carosello
di sensazioni.
Sotto il respiro
azzurro del cielo
si baciano
orizzonti
affannati.
Intanto
il tempo
gocciola
falsamente
innocente
dai rami
più alti
di un'emozione. (Domenico Vicinanza)
49
Suggestioni
o finzioni.
Quanto
finge
il tempo
dell'orologio
di fronte
alla carnalità
dei nostri
brividi?
Quale teoria
comprende
la gravitazione
e l'emozione?
Di quanto sbagliamo
approssimando
il mondo
al tree level?
Quanta passione,
quanto desiderio
quanta VITA
v
vita vita vita
a
t a v i
i
t
t
i
i v a t
a
v
vita vita vita
perdiamo
di vista
rinormalizzando
le nostre
MANI?
Quanto siamo
colpevoli
delle nostre ignoranze? (lidia)
Stupide uguaglianze
si chiudono
50
in cerchio
su di un foglio
preconfezionato,
quadrettato.
Un crepitio
di linee
cerca di nascondermi
nella sua ombra.
Essenza.
Dilatata,
diluita
in giravolte
di finte
giustificazioni.
Chiara
come un'eco
di un raggio
di luce.
VITA
trasparente
come un mormorio
di sassi
in un ruscello.
forte
Forte
FORTE
da far male.
Ma io continuo
a gridare emozioni
come una nuvola
in quel cielo
traboccante
d'azzurro. (Domenico Vicinanza)
Scrivo
senza
convinzione.
Esercizi
di stile.
51
Bugie
facili.
Matematica
alfabetica.
Ma io continuo
a gridare emozioni
sotto la linea
di un cielo
nato da un battito
di mani.
UN CIELO VIVO.
Batto le mani
mettendo
ordine
nel cielo:
"Sole,
spostati
e toccami
gli occhi,
le labbra,
il seno,
le cosce,
i piedi,
le mani,
il ventre,
il collo,
la schiena,
l'utero
bagnato
di vita"
Chiedo un po'
di realtà
che sia pure
malandata
e stanca.
Che sia
percezione
di Sole. (lidia)
Luce
narrativa.
Emulsioni
52
di verità
accarezzano
il corpo.
Stesi
dondolando
tra impronte
di passi
sussurrati
tra destini
incontaminati
come frasi
troppo lunghe
per ordinarsi
in versi.
Poesie
di trasparenti
contatti
sciabordare
di orizzonti
sulla pelle,
sugli occhi,
tra le dita...
Falsi
o veri
tintinnii
di metalliche
emozioni
mi stringono.
Calpestii
sommessi
pulsano
nella mia anima. (Domenico Vicinanza)
Luce
narrativa.
Virgole
e punti
come erba
tagliata,
segni
di addizione
e sottrazione
53
come coriandoli
di uomo.
Costellazione
di un buco
di anima:
"Fino
a che punto
viviamo
di seconde
intenzioni?"
Evidente
e inosservabile:
energia
dello stato
fondamentale.
Elasticità
surreali,
numeri
di avvolgimento
intorno
ai vuoti
di un buco
di anima. (lidia)
Surreale
incredibile
avvolgersi
dentro
rovesci
di intenzioni.
Meccanismi
rotti
cementano
al contrario
sensazioni
incollandole
su grappoli
di stelle
Un'anima
nuda
si stringe
tra i passi
54
vellutati
del buio.
Inosservabile.
Evidente.
Contraddizioni
dinamiche
stonano
melodie
nascoste.
Incessante
alternarsi
di armonie
sotto
la pelle. (Domenico Vicinanza)
Mani
LIBERATE.
C
R
E A TRICI.
Un vaso
di terra
dalle mie
mani.
Fecondità. (lidia)
Germinare
assolato
come un inciampare
di gesti
dapprima
confusi
in apparenza
divisi
prendere corpo
e anima
dietro
gli angoli
distratti
fino
a proiettare
all'
i
e all'unisono
n
f
i
n
i to
55
il suono
del loro
canto:
VITA!!!!!!!!
Ho le mani
stanche
sudate
per aver
dato forma
alla mia vita
stasera. (Domenico Vicinanza)
Ho le mani
sporche
di obliquità
fotografiche,
ho le mani
sporche
di inchiostro,
di mare,
di te. (lidia)
Un richiamo
sottile
ondeggia
tra i fotogrammi.
Muti
palpiti
chiedono
specchi.
Ma io
di chi sono
il riflesso? (Domenico Vicinanza)
Di chi sono
lo specchio?
Carte
di origami
prendono
il volo
dentro
lo specchio.
56
Fiumi
scorrono
lenti
e storici
dentro
lo specchio.
Ma io,
di chi sono
lo specchio? (lidia)
Etereo
imponderabile
riflesso.
Assoluto.
Guadare
notti di luna.
Di chi sono
lo specchio?
Navigo
tra suggestioni.
Origini.
Domanda
implicita
feroce
mi prende
le mani
mentre cerco
l'immagine
della mia anima.
Dov'è il mio riflesso? (Domenico Vicinanza)
Forse
tra ombre
e chiodi
tra
elasticità
57
di terra
e di sangue
in paesaggi
fangosi
e umidi
pietrosi
e rossi,
desertici
tra le mille
identità
delle nostre
mille
realtà
scintilliamo
come riflessi
e realtà
nei mille
nodi irrisolti
della nostra
esistenza
tra i riflessi
mi sottraggo
a un abbraccio
cadendo
tra
surrealtà
e surrealità
di rosso
relativo
mi abbracciano
solo
le mie braccia
stanche
e deboli
le mie gambe
molli
salgono
scale
di piombo
58
e cartapesta
una
o mille
persone
in me
hai abbracciato
le altre
novecentonovantanove
me
di carne
e metallo
sete affollate
d'oriente
sulla mia pelle
la limatura
di ferro
porta
alla
perdita
dell'innocenza
per chi
non ha forma
e per chi mente
come l'acqua
per chi
è acqua
e ferro
e fa emozioni. (lidia)
Una scia azzurra
nella soffitta buia
delle mie solitudini,
sono senza difesa
da questo scroscio di luce.
Parole
vele
nuvole
59
vele
nuvole bianche
parole
vele
tese al vento
nuvole
anime grigie
parole
sul mare
di notte
rumore di vele.
Parole come petali
petali lievi.
Il vento. conosci il vento?
quello che porta le mie parole,
sono fragili
leggere
cadono,
puoi raccoglierne il senso
se vuoi. (aiseop)
Gocce di lacrime
scendono dal cielo.
Pioggia triste che cade,
in una giornata
grigia ed uggiosa.
Malinconia.
Polvere bagnata di nuvola
m’incarta l’anima infreddolita.
Scintille di nebbia color ferro,
come rugiada,
mi bagnano gli occhi,
d’improvviso piango.
Nostalgia.
Cumuli di fumo caliginoso,
mi graffiano il cuore.
Vapori di perle cineree
stridono pensieri
lividi e smarriti.
Perdersi.
Luce armonica,
luce azzurra
spiraglio di passato.
Tante persone
60
tanti puntini
frantumati, dispersi.
Ogni atomo č un sé
sussurra immagini
di vita e di morte.
Suoni callosi
fluttuano nell'aria,
cozzano e si scontrano
con altri rumori,
rimane solo fumo
che cade decrepito e distaccato
in frantumi di piombo. (Gloria Venturini)
Conosci, se vuoi, il senso delle parti del mio azzurro...
Ci sono delle persone,
dei sentimenti,
parole nuove che distendono.
Armonia nuova.
E' il colore per il mio sole.
Spigoli ormai smussati,
luce che emana felicitą,
calma...
E' armonia nuova ancora.
E' passato. (soleazzurra)
... del mio metallo.
Blu accecante
- un barattolo rotola
fuga (in questo preciso momento
in questa notte di universo in
un lampo tra pianeti
sconosciuti)
la pioggia è insistente
sfacciata
( una scarpetta rosa stinto )
un sorriso si nasconde per paura
- alba chiara di azalee bianche (nella tasca un vecchio bottone)
il sapore di un bacio č un gioco mortale
combattere morire
senza capire
seguendo una luce
luce di infinito
(di Dio nascosto)
il campanile
le rondini
il bar in fondo a una via
PIZZA DA ASPORTO
uno yacht da
61
diporto
una vela
onda
grande
stanca
cantiamo la stessa canzone
una follia di stelle
bianca
e
sola
una vela
dentro
ripetuta
non stiamo mai insieme
non ci conosciamo
blu che ti spegni nella notte dolce
"stregata dalla luna"
una pazzia di vento
un uragano
ora spiove piano………
............piano. (aiseop)
62
Centri concentrici
Una luce metallica calda illumina il fondo di una scenografia vuota, in bianco e nero. Seguendo
la musica di una lentissima lettera, una donna con i capelli scomposti davanti al volto e le
braccia tese in avanti sbatte su spigoli e sedie e uomini, ostacoli che determinano il suo
percorso casuale tra la sua vita. Ogni ostacolo, un centro concentrico...
Sono
solo
per quel poco
di miele
che so donare.
Liquide notti senza vento perduti tra le stelle ( abbandonammo la terra milioni di anni fa ),
solo occhi grandi, solo grandi occhi e anima; viaggiamo perduti per sempre ,per sempre, sì,
praticamente immortali. Un lampo di luce fredda penetra il tempo, più veloce della memoria, e
ci troviamo abbracciati inesperti affamati a scoprire annusare mordere e averne poi quasi
rimorso e paura. Perché?………………………………………………………………
Liquide notti senza amore né vento senza scopo senza dolore. Una stella più viva entra nei
nostri occhi grandi e accende un velo di malinconia.
Precipitiamo liquefatti abbracciati perduti lacrime mortali lupi affamati.
"Sono
solo
per quel poco
di miele
che so donare."
Mutevole come il mare
(gli Achei erano stremati),
onde su onde
senza approdo sicuro,
(le spose invecchiate ai telai
tranne una infedeli),
il riposo sotto un vecchio ulivo
sognato frinir di cicale,
(la schiuma che spruzza
dal mantello di Nettuno dio ostile
oggi ha sapore diverso
profuma di alloro e di timo).
Giovani cuori,
allora fanciulli,
ora audaci e inquieti,
cercano di lottare la vita,
giuoco insensato,
dopo un boccale di vino ed assenzio
preparano archi e bersagli
63
(Venere serotina scruta le prime ombre
insidiosa e riempie i boccali
semivuoti invisibile e maliziosa).
La notte fa preferire un caldo letto
a una fredda stanza
dove solo un vecchio enorme arco
ricorda il padrone lontano
così forte così saggio
e ostinato.
Si sono spinti a Cartagine d’Africa,all’Elba,alla Trinacria,
vagando mai domi
sfidando blandizie ed onori e piaceri,
fino a rischiare contro il Ciclope
uniorbita di forza bestiale e crudele,
astuti e sleali,
per sopravvivere,
come i nostri politici attuali
figli di Ulisse
e di generose femmine costiere.
Fino al mare di mille battaglie,
di mille tragedie gridate
in riva al mare
da quinte di pietra,
mentre il tempio dorato di Era
esalta il tramonto come un faro.
Ti donerò un mantello dono di semidei
per riposare veloce sopra mari increspati dai venti
innocente
protetta per sempre
bianca schiuma di Egeo mare
bianca
ritorta contro i legni di cedro e le lunghe pale
e le consunte ampie vele
prima che venga la notte
color del tramonto
e la bocca arsa di sale
desideri un bacio d’acqua dolce.
Luna dea timorosa
risplendi da destra tra stelle lontane
della notte violatrice e vestale. (aiseop)
"Sono
solo
per quel poco
di miele
che so donare."
64
La lettera si fa pura angoscia, con la musica straziata che si ripete straziando l'anima
dell'ascoltatore. Quella musica calma e dolorosamente triste (la musica che non urla il dolore,
ma lo contiene).
"Sono
solo
per quel poco
di miele
che so donare."
Inquietudine senza un nome,
senza un volto, senza parole.
Come una vena nella tempia pulsa,
duole e non si vuole placare.
Neanche una carezza la consola…
Piccola, sotto questo battito continuo,
senza tregua, spogliata dalle mie armi,
nuda e indifesa.
Freddo nel cuore,
cerco calore stringendomi
ad un esile filo di solitudine.
Una nuvola si spezza,
lanciando schegge di ghiaccio…
stridono come la malinconia.
Inquietudine senza colore,
senza profumo,
sale alla gola,
senza fare rumore.
Silenzi stonati,
adombrati da luci soffuse
di vacue sfumature.
Ricordi ancestrali dell’anima,
senza contorni,
senza corpo.
Momento d’oblio.
Oscurità di rimembranze.
Nebbia che confonde,
si dileguano pensieri
smarriti da emozioni gelate.
Viaggi interrotti
da similitudini mancanti.
Turbamenti senza un punto.
Inquieta angoscia
spietata mi perseguita.
"Sono
solo
per quel poco
65
di miele
che so donare."
Cerchi concentrici.
Goccia limpida di rugiada
cade nel pacato stagno di una stagione,
nel lago che per tutta la vita ci porta nel mare dell’esistenza.
Luce di anima,
involucro dentro di me,
inizio dell’inizio,
comincia una nuova strada splendente,
un fiore che nulla potrà sradicare dal verde prato del cuore,
un quadro stampato a fuoco sulle pareti dell’anima.
Armonia di cerchi,
fluttuante gioco d’affetti,
passione ancestrale,
amore astrale.
Cerchi concentrici,
unica matrice,
unico centro,
il punto dell’origine.
Sguardi riflessi del tuo stesso sguardo,
smorfie riscoperte da quel volto generato.
Eredità di similitudini.
Nella partita delle parole,
figlio di tuo figlio,
raggio di luce nel sole… vivido chiarore.
Anima nell’anima,
inscindibile, indissolubile,
cordone ombelicale che neppure l’infausto destino può spezzare,
legame di vita in vita,
vincolo d’empatia nei sentimenti oltre la vita,
dopo la vita, sempre.
L’unico sempre certo.
Cerchi sinergici irradiano
energia di spirito,
musicali entità danzanti
aggraziate come pensieri sublimi.
Sovrumana umanità,
trascendentale magica maternità,
luminosa condizione amorevole,
premurosa affettività.
Insieme di cerchi concentrici,
sorgente di vita, fonte di energia.
Principio dell’amore,
tenero caro bene prezioso,
si plasma il corpo alla tua presenza,
66
per te linfa il mio sangue,
bianco il latte dalla coscienza,
liquido amniotico per crescere il sapere…
odore di parente creatore,
sapore di mamma.
Acqua trasparente le mie lacrime,
per le allegrie e le spine
che il domani custodisce in sé,
successivamente per te.
Vita,
fiato dell’anima,
respiro del mondo,
arcobaleno esistenziale
del primordiale seme universale.
Sussurri di vento…
voci come centri concentrici. (Gloria Venturini)
Orgoglio,
nemico
che mi tieni in vita,
mi respiri dentro,
vento da alte vette,
(un altare di stelle
brillanti
nella notte),
cerco
le parole
che, nel silenzio
più profondo,
spiegano il male,
il male accartocciato
dentro,
maledetto
e necessario,
e l'ossessione di eterno,
l'ostinazione di vita,
la dolcezza che liquefa,
la passione che acceca,
la carne
che urla le sue maledizioni
e i suoi desideri
a cui non abbiamo riparo
..............
e finalmente
orgoglio
ripiegato,
67
come una camicia
nella valigetta
prima di partire,
mentre inizia il ticchettìo
di una pioggia improvvisa di stelle,
fredde e luminose,
compagne
per un altro tratto di vita,
incompresa
e dolcemente
subita.
Sono
solo
per quel poco
di miele
che so donare. (aiseop)
La donna con i capelli davanti agli occhi e le mani tese in avanti gira sui perni di centri
concentrici immaginari, oppure altre mani perpetuano il suo... mai fermarsi... tirano, spingono,
spostano. Bianco e nero.
Cos’è rimasto del giardino dentro me? Il cancello che racchiude tutti i segreti, i sogni, è stato
profanato. Immobile con le mani impotenti distese lungo i fianchi, guardo attonita la
desolazione del mio giardino incantato. Hanno rovinato tutto, fiori spezzati e sparsi
dappertutto, hanno rotto la porta ferrata di quel magico ingresso. I quadri ricamati dai raggi
del sole sullo specchio d’acqua, li hanno spaccati e bucati, dopo che mi avevano detto che erano
stupendi! Con la loro cattiveria hanno inquinato persino l’aria, e le stelle a guardare questo
disastro si sono dileguate in altri posti, in altri giardini, lasciandomi come ora sono: sola. Un
catenaccio con sette chiavi, devo difendere il mio giardino. Hanno usato i miei segreti, i sogni
contro di me... Devo staccarmi da loro, vivendo con loro, senza farmi coinvolgere più.
Barriere.
Serve proprio una spranga con sette centri, nuove vesti per i miei segreti spogliati, una
tavolozza di nuovi colori per i miei sogni sbiaditi. La mia mente deve camminare per sorreggere
l’anima, stanno soffrendo assieme, evitando lotte e contestazioni fra loro, per alleggerire la
pesantezza presente nel povero corpo, dilaniato da questi mali senza nome, senza scrupoli…
senza anima. Stanotte è Natale, una coraggiosa notte, un insieme di anima, corpo e mente
verso un domani migliore, verso una vita diversa, verso un segreto giardino dei segreti.
Divenni cenere…
Galoppando sopra un soffio di vento, feci un lungo viaggio, sì, il giro del mondo. Galoppa,
galoppa, volai leggera sopra verdi paesi, sulle colline in fiore, dove il rosa dei fiori di pesco
sembravano confetti appesi a quei rami, irti per dare il loro dono. Vagai in cima alle montagne
maestose e al loro smeraldo colore per perdermi poi dentro ad un rosso tramonto sopra il
mare, aspettando che il sole tocchi l’acqua per sentire quel “ciuf” come quando qualcosa di
caldo tocca l’acqua. Città, incontrai grandi città con il loro grigiore, con nuvole tossiche e gas,
mi corrodevano il respiro. Volai più veloce, più lontano, nel gelo e nell’afa, nel caldo equatoriale
e nel freddo siberiano, conobbi deserti e cammelli, piante carnivore e uomini.
68
Uomini che sorridono e piangono, che muoiono di fame, che patiscono le intemperie della
natura e della vita, bambini innocenti e contenti, bimbi che soffrono di lacrime amare, di un
vuoto senza nome, senza umanità, senza alcuna poesia.
Allora io, povera cenere, mi accorsi che il dolore è ovunque, che le malattie della mente, degli
affetti, il travaglio dell’anima, si trovano nelle viscere di ogni cuore e che una lacrima di
disperazione ha solcato gli occhi di tutti.
Con la bocca piena d’amarezza viaggiai ancora e vidi un fiore talmente bello che lo portai via
con me, la sua bellezza mi faceva compagnia, ma…mi accorsi di una tomba ignuda, senza
nessuno, nemmeno l’ombra di un ricordo, allora mi fermai e glielo posai sopra.
Ripresi il mio viaggio e cammina cammina tra nuvole e cirri, trovai una piccola ragazza, con
tanti problemi, troppi….incontrai la sua solitudine, la sua amicizia, la sua inconsolabile
tristezza.
Allora angosciata me ne tornai a casa: una fredda lapide.
Guardai per un attimo il sole, baciai quel muro di ghiaccio e rientrai nella mia bara,
promettendo a me stessa di non uscire mai più, perché son troppe le cose brutte della vita ed
il mondo ormai è marcio, privo di calore. Chiusi gli occhi e mi addormentai per l’eternità,
mentre l’umanità istante dopo istante, si affanna per arrivare alla distruzione, alla fine del
tempo, del tutto e del nulla.
"Sono
solo
per quel poco
di miele
che so donare."
Terrore e morte
dolore viscerale
mente paralizzata.
Panico senza sfogo
lacrime infantili
dilaganti nell’anima.
Ferite di morte
continue nel mondo
mali incurabili.
Occhi senza peccato
sgorgano pianti di paura,
trasparente innocenza violata.
Sottratta la vergine gioia
A piccole anime
vaganti nel mare crudele
della guerra,
voragine di lava incandescente,
argilla screpolata
nelle mani di Dio.
Anime infanti sole,
sole come non mai,
bisognose di calorosa presenza,
che il freddo progresso ha ucciso.
69
Il cielo carico di vergogna
vuole sprofondare sottoterra.
Stelle color porpora,
nella gelida notte
dei sonni eterni,
ultimi respiri
trapassati nel firmamento,
rosso di sangue e nero di morte.
Ed io con un nodo alla gola
mi sento impotente,
un nulla meno di niente,
un puntino,
come polvere,
dispersa nell’universo,
incapace di sorreggere
quegli sguardi imploranti
solo amore,
pace ed amore.
"Sono
solo
per quel poco
di miele
che so donare."
Poi tutti sul palco cadono a terra, si chiudono nei loro ventri, embrioni come lumache nelle
conchiglie.
La mia casa è una conchiglia.
La melodia del mare suona sempre la voce del vento,
ed io mi cullo tra queste note soffiate dalla bianca schiuma delle onde.
Ogni anno passato è un disegno,
un quadro in una riga, ricordi in un unico decoro,
storia in un attimo di linea.
Forme soffici sono i duri mattoni del mio nido,
piccoli tentacoli aggraziati la difesa del mio posto, del mio cuore.
Accovacciata al calduccio della mia conchiglia,
mi lascio andare dal mare della vita.
Vago tranquilla, trasportata dalla sabbia e dalle onde,
giro tra vasti fondali accarezzata da alghe marine,
accompagnata da pesci palla, anche da qualche sardina.
Mondo acquatico, con meno ossigeno,
mondo più denso,
dove si perdono le sfumature in lacrime di sale.
Dal fondo del mare guardo più su,
e mi par di vedere, nel buio della notte,
la luce lunare, riflessa quando la luna è piena,
e mi par di sentire ululare.
70
Che cosa prega il lupo alla luna?
Rifrazione.
Anche il flutto dei pensieri è rifranto.
Nella mia casa contemplo la vita, la luna…
dal basso del mare.
"Sono
solo
per quel poco
di miele
che so donare."
Ricordi la poesie di Boudelaire?
“Quando il cielo pesa basso come un coperchio
sullo spirito che geme, preda d’un tedio ininterrotto,
quando l’orizzonte abbracciando tutto il cerchio
dispensa un cielo più nero più triste della notte….”
Mi dicevi che questa poesia ti faceva ricordare me, perché è triste, come è triste la mia
storia. Volevo vivere una favola, e in meno d’un batter d’ali, mi ritrovo a vivere in un incubo. Un
passo veloce durato un istante, e poi giù, fino a farmi male oltre le ferite dell’anima. Le mie
mani modellavano un sogno che non esisteva, con persone di fango, alla prima pioggia si sono
disfatte. Credevo di essere una donna che aveva capito quello che voleva, ma la mia anima, il
mio modo di essere, tutta me stessa, si stava lentamente soffocando dentro di me. Lo spettro
della mia anima percepisce a malapena la sua eco, e tra poco anche la sua voce si spegnerà
teneramente, lasciando solo un lumino, che con la sua fioca luce, rischiarerà pallidamente,
come un cerino nella notte la mia coscienza. Credevo di vivere, invece sto morendo. Vorrei
aggrapparmi ad un raggio di sole per superare questo inverno e poter sorridere la prossima
primavera. Fuori la pioggia sta piangendo con me, come una melanconica compagna. Ormai il
gelo si è inoltrato ovunque, persino nelle ossa, l’anima ha freddo, ha bisogno del calore della
vita e del focolare dell’amore. Disillusione profonda ed amara, delusione penetrante e
sofferente fino in fondo. Il mio mondo si è perso tra i miei sogni e sto affogando in questa
realtà che non è la mia. Come posso non sentirmi morire? Vana la mia voce che grida i primi
diritti, il vento se la porta via … e il padre del mio bambino ode solo un lieve suono riflesso,
lontano… sonnecchia pigramente nella tasca del suo vecchio paltò che come lui ha girato tutta
l’Europa.
Continua la poesia di Boudelaire:
“… e la speranza… va urtando contro i muri… cozzando con la testa…
l’angoscia… pianta sul cranio reclino il suo vessillo nero.” (Gloria Venturini)
Hai una goccia nitida
Sulla fronte
Al confine con i pensieri
Scorre lenta
Esitando
Poi si stacca
E cade
E i tuoi pensieri
Rimangono
71
Un mistero
Per me (aiseop)
"Sono
solo
per quel poco
di miele
che so donare."
Amore senza tempo,
amore senza storia,
amore e dolore,
quanto dolore, ma quanto amore…
Vivamus, mea Lesbia, atque amemus,
Viviamo, mia Lesbia, e amiamo,
rumoresque senum serveriorum
e le mormorazioni dei vecchi troppo arcigni
omnes unius aestimemus assis.
non stimiamole un soldo.
Soles occidere et redire possunt :
I soli possono tramontare e ritornare
nobis cum semel occidit brevis lux
per noi una volta che è tramontata la breve luce
nox est perpetua una dormienda.
resta da dormire un’unica notte.
Da mi basia mille, deinde centum,
Dammi mille baci, poi cento,
dein mille altera, dein secunda centum,
poi cento, poi altri mille,
deinde usque altera mille, deinde centum.
poi di nuovo altri mille, poi cento.
Dein, cum milia multa fecerimus,
Poi, quando avremo raggiunto la somma di molte migliaia
conturbabimus illa, ne sciamus,
li mescoleremo alla rinfusa, per non sapere quanti sono,
aut nequis malus invidere possit
o perché nessun maligno possa esercitare il malocchio,
cum tantum sciat esse basiorum.
sapendo che tanti sono i baci.
Odi et amo.
Odio e amo.
Quare id faciam, fortasse requiris.
Forse chiederai perché faccio questo.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior. (Catullo)
72
Non lo so, ma sento che così accade e me tormento.
Nella magia del tempo,
intatto rimane il bisogno d’amare,
di scrivere parole d’amore,
di darsi nel tormento della passione,
eterna necessità dell’umana vita,
fragile e prepotente,
contraddizione intrinseca del cuore.
Eccomi alle soglie dell’antico vetro,
ammirarti come non facevo da tempo.
Gli alberelli sono in fiore
e il vendo gode
agitarli qua e là.
Il cielo sembra imbronciato
e scatena la propria rabbia
sui minuti alberi.
Piccoli uccelli si annidano tra le foglie,
quasi quasi a nascondino...
Ritorno alla vita d’abitudine,
come il vivo fuoco è ora
il mio pianto ignoto.
La musica continua il suo strazio e la donna rallenta il suo ... mai fermarsi...
L’amara dolcezza di certi momenti della vita,
la consapevolezza di questo star male nella voglia di sorridere,
di amare veramente, sempre di più.
Toffee, la disperazione, la solitudine, il vuoto di un chissà.
Il sempre degli istanti, l’eterna malinconia dei miei occhi
e il perché su ogni pensiero.
Lo sballo per star bene un poco,
da questa vita toffee che stringe il cuore.
La forza perenne che fa sentire vivi e che nonostante tutto,
tutto continua.
Tutto toffee, tutto vita, tutto tutto.
Immensamente intenso e squallido questo tutto!
Stranezze, basta una melodia toffee per dire la vita,
il ricordo struggente del passato e la speranza del domani,
con l’assurda incertezza del presente.
Vita, tutto, odio, amore, solitudine e toffee. (Gloria Venturini)
"Sono
solo
per quel poco
di miele
che so donare."
73
Un accenno di sorriso
un faro da dietro una curva
nel buio
un velo di luce bianca di luna
liberata da nuvole scure
sulla tavola nera del mare
occhi che ridono
un attimo
così breve
forse irripetibile
c'è ansia di note blu
in questa notte
che mi appartiene
e che già è svanita
resta solo un barlume di luce
che quasi si spegne
in queste parole
come una stradina di sabbia
che porta alla riva del mare
a un silenzio
da non sciupare. (aiseop)
La lettera finisce con l'ultima nota. Lei cade stremata, straziata, le braccia in avanti che
cadono fuori dal palco, insieme ai capelli.
74
Piccolo Halloween
L'onda che mi invade ha il fragore del silenzio ..... è un'onda di bambola, superficiale e
bugiarda..... resta la tenerezza effimera di un biancore di schiuma e in mezzo un odore di
carne e la deriva dei pesci morti.
Chiudo gli occhi impauriti, schiuma gelida e sola, e nella sabbia scompaio di speranze e
ricordi, l'onda torna sull'onda e rimarca la riva ...... una mano raccoglie il mio sangue e
il mio sale
e mi accarezza la fronte, battesimo di mare,
sento il calore del sole contro il vetro del cuore
sento, onda su onda, rinascere dentro la vita.
Riesco a guardarmi allo specchio non più deforme,
umile specchio sincero tra le mani come una croce,
le lacrime mi incidono il volto mentre cerco il perdono di me stessa a me stessa e mi
canto una nenia da sola cullando, schiuma di mare innocente, la mia parte bambina.
Non si è mai completamente soli..............
forse abbiamo già scontato la pena
forse,
onda dopo onda,
nell'amore di Dio,
sulla riva del mare.
O forse dobbiamo ancora scontare la pena,
e lo facciamo bugiardi a noi stessi, in ginocchio con le mani giunte a pregare una preghiera
bugiarda verso noi stessi, verso un Dio finto, verso un miele disperato e velenoso che
addolcisca, anche solo per finta, le cicatrici salate
sulle os
sa fr
edde come una
luna
m
orta
morta
morta come la preghiera bugiarda.
Ho ossa fredde e indolenzite dalla febbre di una luna morta che lascia scivolare la sua marea
come l'onda di un'anestesia che non mi è concessa.
Cosa devo fare per dirti che ho bisogno d'affetto?
L'onda che mi invade è un mare illusorio, è solo rumore che non so perdonarmi.
Carne offesa e verde, e la vita autoinflitta un fuoco di sterpi,
che non incenerisce e non crema.
75
Ma resta un copertone bruciato tra erba bruciata e dimenticata.
Ero verde come la sensualità sfrontata e spagnola.
Ora sono verde cemento e vorrei bruciare tutti i fiori che incontro.
Quale Dio, quale consolazione, quale scusa
può darmi indietro il calore del mio utero -ora freddoche stringe e morde, e ride, senza fingere, l'amore?
Quale Dio può darmi la casa che non ho?
Nessuno vede mai veramente i fiori
-sono troppo piccoli, o troppo belliper questo odio i fiori
-io sono come loroFiore nell'intimità di una terra secca -fiore bruciatonella ricerca di un'intimità nella finzione
-intimità di fiore e d'uterointimità dove sono completamente sola
-fiore morto e verdedove non entra nessuno
che possa farmi male
-dove non entra nessunoFiore vecchio e verde mi faccio bella per pochi uomini in strada
l'amore non è quello degli dei
gioco
gioco
morto
di luna
morta
morta
gioco
di luna
morta
morto
di luna
morta
gioco
morto
suono a lutto le campane della mia storia felice di ragazza
-fiore verde senza il tempo di appassire-fiore giocato e bruciato dal fuoco-
76
le suono senza paroloni e senza poesia.
Le campane suonano a lutto e alimentano speranze non illusioni. Si ricomincia a guardare
per terra e si scoprono i piccoli fiori, dimenticati nei giorni di festa, si comincia a
raccoglierli con cura scegliendo con tenerezza a volte con amore.
Il cielo è percorso da nuvole ma può iniziare il canto singolo al chiaro di una luna nuova,
canto che diventa corale, umanità sofferente, gli sguardi si accendono di una nuova luce,
una luce bagnata di lacrime.
Si può sfiorare la lettura delle leggi supreme a dover portare il figlio a scuola,
sopportare il vicino o un male avvinghiato alla carne o il trovarsi da soli.
Dio non può essere solo raffinata illusione, supremo prestigiatore,
dobbiamo volerci più bene, sorridere al nostro avido, barbaro e
crudele sentire animale,
che pur ci appartiene, dobbiamo saperne sorridere e aspettare.....siamo
esseri umani
.............siamo...............incredibili............orribili ......
dolenti.............esseri.............u m a n i
Voglio tornare a sentire l'odore
della mia luna interiore,
dolente e orribile luna,
come un animale che annusa nella metropolitana
la pelle degli umani, e riconosce il sapone, il profumo, e se alla mattina hanno fatto l'amore.
Voglio essere un animale che non può essere violentato,
un animale con la sua mezza luna nera,
regina nel territorio della mia intimità interiore.
Regina con quel velo da sposa e da arena, andaluso,
con le mie scarpe nere con i tacchi alti,
e i miei occhiali da attrice anni cinquanta.
Voglio sentire
l'odore
della mia pelle
sulla pelle sudata
degli uomini,
per coprire
lo stupro.
Io devo ancora scontare la mia pena.
Una notte così nera dentro pece di anima morta un dolore così profondo che non riesce
ad urlare e si strozza bestemmiando uno smarrimento tra sterpaglia di desideri e rumore
di pietre una maledizione
una strada segnata da una luce di luna incerta e poi chiara
sempre più chiara
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un sentiero di luce nel buio un profumo buono
un sapore di eternità e di pace nella valle inondata di luna
una speranza così luminosa che si fa materia e ci consuma.
Crocifissi alla nostra intelligenza,al rimorso,al desiderio,
alla natura con le sue prismatiche illusioni,
la sua semplicità così limpida e chiara
che solo occhi fanciulli o folli sanno capire
sorridendo al vento senza paura
senza soffrire.
Un sole pallido, lontano, intiepidisce un salice chino sotto le foglie dell'essere, lontano, non
invadente, inevitabile e cupo amore, un pensiero per me, gettato per caso la mattina, dietro i
vetri appannati della macchina, sacro.
Così la luna non viene bruciata.
Ecco scoperto,
così semplice
-come aver fatto a non scoprirlo prima?il mistero della parte oscura della luna.
La sua tristezza di cera
che sopporta l'affronto del vivere.
Luna di cera triste, nera,
nera come un'onda che mi avvolge nella notte.
Onda di illusioni e di speranze, e di illusioni
e di illimitata fiducia disillusa.
Mareggiata senza fine di strani Dio
che ci danno la danza del sangue,
infinita, mai finita,
nelle vene.
Luna del calvario e dei sabba
sacro e profano,luna misteriosa,
luna d'argento degli amanti fanciulli
e delle spose inquiete presaghe del loro destino
di madri.
Fascino e stupore impaurito
di una Annunciazione,
ai padri solo l'orgoglio un po' vacuo e infantile
di un ruolo incompreso.
La faccia nascosta della luna è là dove il nostro Dio si nasconde.
-Io non ho un Dio-ma sarò madreSono già madre delle mie memorie
madre del mio demone di mille memorie
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madre della bambina pazza
della donna bianca e della donna nera
madre delle mie bugie e dei miei sacrifici.
Sono madre sacra e profana del lupo
e della mia logica inesplosa di carne.
Sono madre improvvisata e jazzata,
in gessato nero e bocca antica.
-questo è il miracolo-sono madre e figliaChe cosa chiede la figlia alla madre
occhi negli occhi sguardo unico e senza fine?
Cosa la madre alla figlia
che non sappia di rimprovero e di perdono?
Consapevole inevitabile sovrapposizione.
E' il nostro destino la nostra magia.
Oggi momenti senza una pausa un respiro, domani separati da una inevitabile necessaria
illusione di vita.
Che duri almeno quanto passa tra il desiderio e l'inizio di un compimento, perché la
madre veda la figlia donna e in lei riflessa si ami.
La pioggia è così forte oggi che fa saltare i sassi nel cortile, che si frantuma sui vetri, che
assorda le sirene delle macchine, che sposta ottobre dentro novembre... e libera dal mio cuore
e nel mio cuore, senza motivo apparente, l'onda falsa e lunare che mi ha invaso.
Ancora struccata a mezzogiorno
con una tuta calda da casa e le pantofole rosse
e una ciotola di cioccolatini del mio piccolo Halloween
di fianco al telefono spento,
-strega e bambina-finalmente senza dover spiegare perché...
ti parlo del dolce inverno che mi viene in mente
...
delle lunghe giornate passate a casa a leggere
...
su una sedia spostata accanto al termosifone
...
sotto la finestra, a guardare fuori che pioveva...
-odore d'arancia dalla stufa-succo d'arancia sul tavolo-scorze d'arancia nella tortaquando le preposizioni articolate si sono fatte semplici la prima volta
...
quando le parole si sono fatte poesia la prima volta
...
79
quando la pioggia s'è fatta onda la prima volta
...
quando tutta la solitudine era fuori dalla stanza
e dentro solo un caldo e dolce inverno
-solo castagne nel forno-solo una casa- (aiseop, lidia)
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Fatastregabambina
Ho ballato teatro danza a piedi nudi sul prato, con i capelli sciolti. Ho ballato il flamenco su un
tronco d'albero al ritmo dei tamburi di un gruppo lontano di ragazzi e del battito di mani dei
passanti che si fermavano sedendosi sulle panchine o sull'erba. Ho insegnato i passi base di
tango e lambada ai miei amici, e ho imparato a ballare salsa e bachata da loro. A piedi nudi, ho
ballato tango sulle spalle di un uomo. Come muoversi in acqua. Nell'aria come nell'acqua,
seguendo i passi di un tango acquatico. Libera, completamente sollevata da terra, dai problemi,
dalle angosce. Ho giocato come una bambina, con l'erba, la terra, la mia bellezza.
La pelle callosa della mia esistenza si scioglie di fronte al miracolo della magia, e io rinasco
come dopo un sonno di un mese, con la pelle bianca e idratata. Come tutti ho molto dolore nella
vita, ma ho anche un lago con un mago dentro, capace di esaudire desideri da cinque centesimi,
solo a patto (minuscolo e immenso) che io ci creda. Lo spazio tempo curva dentro di me come
una mano premurosa, e nel mio personalissimo spazio tempo anche le linee elettriche ritornano
come le linee magnetiche. E' la mia piccola spiegazione del big bang. La nascita, come solo
forse un cuore di donna può sentire.
Camminando lungo il lago incontro un albero con delle luci gialle e rosse intermittenti, e
passandoci sotto comincio a sentire dei rumori. Dapprima credo che siano le luci che sbattono
sul vento, poi mi sembra rumore di pezzi di ghiaccio che si spezzano, o di acqua imprigionata
tra le rocce del lago. Poi vedo un altoparlante tra i rami, e comincio a perdermi cercando di
capire cosa può essere quel suono così familiare, così quotidiano, quasi come il rigurgito di un
rubinetto, o un sasso che cade in una scatola vuota di vetro. Si confondono gli elementi, acqua,
vetro, ghiaccio, metallo, legno, pietra, osso. Non me ne accorgo ma finisco con lo scartare
tutte le ipotesi che mi vengono in mente, e intanto il tempo passa, e sono stata ferma, ferma
nella vita, sotto un albero parlante, a chiedermi cosa mai mi stia dicendo. E mentre mi stavo
allontanando col pensiero a storie magiche di maghi e streghe che popolano il lago in attesa
che qualcuno li rapisca, vengo riportata come un elastico a suoni più familiari, più quotidiani,
che mi impediscono voli magici. Laddove la realtà non fa male. E torno a pensare alla goccia che
cade dal rubinetto. E non mi sono accorta che il tempo sta passando, e che ogni pensiero che
scarto il cuore si alleggerisce. E mi accorgo alla fine di essere leggera, leggerissima, senza più
dolore. Ho scartato a poco a poco ogni dolore, e ti rimane solo una sensazione acquatica
meravigliosa, di essere sott'acqua ma senza pressione, sott'acqua sulla luna. Scartando la
magia, ho trovato proprio la magia più inattesa. Solo gli animali sembrano riconoscere per
istinto quei suoni, infatti sono gli unici che non si fermano, sotto l'albero parlante. Penso a
come il suono della nostra carne sia istintivo, sia legato solo ad esclusivamente ai quattro
elementi, e affatto alla logica. Faccio un pacchetto della logica e delle equazioni e lo butto via,
perché i cinque sensi sono legati ai quattro elementi in modo magico, la loro connessione
scritta su rune indecifrabili e istintive. La logica è quello che serve agli esseri umani per non
impazzire, per mandare all'infinito le linee di campo elettrico, per non dover accettare il
ritorno magnetico ovunque, per credere di poter trovare il cerchio che li comprende tutti, per
non dover accettare il fatto che il nostro corpo curva lo spazio tempo dentro un'emozione, e
che siamo capaci di contenere il vuoto e l'infinito in un solo punto, alla bocca dello stomaco. La
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logica è degli artisti e dei pensatori e dei sognatori, e dei navigatori, e dei suonatori, e dei
medici e degli scienziati, e dei pazzi e dei malati e delle persone sole e dei poveri e dei ricchi.
L'abisso è degli animali. Ed è profondamente umano.
Un uomo sulla quarantina, capelli lunghi, che potrei scambiare per un bohemienne parigino
fuori tempo, con giacca di renna e occhi grandi da bambino, e rughe sulla fronte, e sciarpa di
ciniglia. Poco lontano un uomo d'affari, cappotto elegante, ventiquattr'ore, meraviglioso colore
nero sulla pelle, cappello in testa, cravatta, e occhi grandi da bambino. Si fermano sotto lo
stesso albero, e mi dicono, con la vicinanza e l'intimità di un amico di vecchia data: "E'
meraviglioso, è la cosa più bella che io abbia mai sentito, sono incantato"...
A volte una bolla si apre nel mio stomaco.
E non finisce più. Una solitudine sproporzionata e smisurata. Una sensazione arrivata a nudo, a
fuoco, a sangue. Una malinconia strana, una tristezza profonda e incredibile, come se avessi
perso qualcosa, il centro che li conteneva tutti.
Vedo come un cieco, come un bambino triste che come un cieco non vede il domani, vedo i molti
rumori di oggi.
Vedo come un cieco il fuoco sordo di quella parte incomunicabile di noi che è sull'abisso
imprevedibilmente profondo sulle rive del lago. Ma l'ovvia sordità dei molti rumori (molto
difficile riconoscere i singoli rumori) può essere riconosciuta a poco a poco. C'è una magia
molto strana in giro: qui riesco ad isolare i rumori, a conoscerli, e quindi a riconoscerli tra
tanti, e alla fine non è più solo un suono indistinto quello che viene da dentro o da fuori, ma una
sinfonia più grande, più larga, più ampia, più struggente, più jazz, più assolutamente vera.
Distinguo nitido il battito del cuore. TUM TUM
TUM TUM
TUM TUM. Batte per le
strade trafficate. E batte sotto l'albero parlante, e sotto l'albero dai mille suoni del vento, e
lo distinguo dal suono sconosciuto e familiare che ha preso casa nelle mie mani, quando smetto
la faccia del giorno e sciolgo i capelli per la faccia lunare e lunatica che ho nel mio mondo
autentico di elfi e gnomi, dove sono una lucciola volante, una fata con un abito da grillo che
grida la voce del bambino muto in me. La mia luna che ha portato via la sua ombra al bambino
pazzo che è in me, la mia luna... la mia luna che esige da me più sogni ancora... non smettere...
mai... di sognare... la mia luna folle, con un abito di ombra, ora mi chiama a sognare.
Distinguere violini e sassofono non è sempre così facile come sembra, se non sai che stanno
suonando violini e sassofoni. Ma il grillo volante esplora il suo giardino, che per le sue
dimensioni appare largo come una foresta incantata di luci e colori e suoni. Il grillo conosce
ancora solo un suono, che non sa dire cos'è. Suono di acqua, metallo e osso, un suono
nient'affatto luttuoso, anche se sembra arrivare da un mondo speciale, non terrestre. Ma il
grillo prende coraggio (niente di male può accadergli mentre resta nel suo giardino fatato).
Piove. La terra è bagnata, e l'acqua a terra riflette un mondo di cartavelina, e chissà quale è il
riflesso dell'altro, e chissà cosa si dicono i due mondi, quando si incontrano. Le luci gialle e
rosse diventano rosse e blu, su un altro albero. Il grillo lunare si avvicina sospettoso e sente
milioni di campanelle... e sa subito, chissà perché, che in quel modo quelle campanelle suonano
colori d'altri mondi. Il grillo ha trovato la voce dei colori alieni, e se ne sta incantato e sente
solo le sue campanelle da bambino. Poi si rende conto che c'è un TUM TUM
TUM TUM
dentro di sé... Dio che scoperta: il grillo è vivo! E d'un tratto, senza prestarvi attenzione,
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riconosce sotto l'albero che parla i colori il suono poco lontano dell'albero che parla l'anima
speciale. Il grillo ha dato un nome ai suoi tre suoni magici, e ora ci gioca... li separa uno
dall'altro, e poi li lascia suonare insieme.. niente stona nemmeno una nota in un mondo che non
è nemmeno fatto di note. Il giardino fatato ha un'altra sorpresa, un po' più lontana, più sola.
L'albero che parla il dolore. Accordi di strumenti stonati, catene, un cigolare di ruggine che
sembra quasi il grido di una voce quasi umana. E questo suono non smette mai, come il dolore, e
fa male sentirlo, come il dolore. La corda dello strumento non riesce ad accordarsi, e sempre
esce un suono tristissimo. L'albero pieno di fantasmi. Puoi guardarli in faccia uno ad uno,
ognuno porta il suo grido. Il grillo sotto la pioggia impaurito e solo, ricorda allora che conosce
altri suoni... TUM TUM
TUM TUM
TUM TUM.. campanelle di colori, pioggia di pezzi
d'anima che cadono nelle cavità ossee dello stomaco.. tutti i suoni appartengono al grillo
perché il grillo conosce i suoni creati per lui e lui soltanto dalla magia del mago del lago, in
risposta a quando quel grillo, allora vestito in abiti civili, gettò cinque centesimi nel lago
chiedendo solo di essere acqua, almeno un po’. E il grillo scopre che in quel momento sta
ascoltando una sinfonia bellissima, di cui conosce i pezzi, una sinfonia aperta, finalmente
aperta. Il grillo può tornare ad essere una ragazza...
Folletto e fata, e grillo, ed essere umanissimo, nessuno sa chi è vestito da cosa. In fondo non
c'è nessun mascheramento. Folleggiamenti di magia e salti di un grillo, festeggio perché la mia
casa è sull'acqua, mai ferma.
La mia è una casa d'acqua.
E' come se avessi perduto la magia una volta, tempo fa, chissà quanto tempo fa. Da allora
vagabondo per le "terre di me".
Ho vestiti d'"artista" e da "scienziato" che danno magia al mondo. Dentro c'è una bambina
sveglia, incastrata, che vuole una casa sull'acqua, e cerca la sua magia che ha perso.
Ma la bambina saggia sa che la magia che troverà è irrimediabilmente solo esterna. Che quello
che non c'è più non torna. La bambina sa che è una bambina morta. Gioca da sola, ha freddo da
sola. Compone il jazz più irriverente dentro la sua sordità. Fa venire il mal di stomaco a chi sa
ascoltare il suo canto. Sa cantare solo così.
Mi aggiro seguendo una ritualità antica. La mia pozione magica di mille gesti sacri e profani
prevede 5 centesimi di franco svizzero nella mia mano, e un mago sul fondo del lago che
aspetta un desiderio per poter baciare di nuovo la sua donna, fatta lago di nuovo. La ritualità
va rispettata quasi quanto la fede che il desiderio si avveri. (lidia)
zampe di grillo,
acqua di albero parlante
bacche di luna,
vento quanto basta...
ma sul più bello mentre rimestava la fatastregabambina dà al lago un bacio di vento. il lago
emozionato si riempie di bolle e tutti gl'ingredienti del pentolone si spargono sulla fata e sui
piccoli amici che l'ascoltano e li rende un po’ magici un po’ grilli.
E la fata cuoca d'incantesimi diviene una principessa corvina.... (livio)
E poi il vento si fa freddo e fortissimo, e spazza via tutti i pensieri tranne i desideri e le
magie di una bambina che crede che tutto sia possibile, da grande. Il lago diventa uomo, forte,
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furioso, ribolle di vento, trema d'emozione perché sta per riabbracciare la sua donna. Mette il
suo vestito da sera, cupo, profondo, furibondo. E inghiottisce la mia moneta, che ha parlato
con gli alberi parlanti, e ha parlato con il mio cuore. In un attimo tutto sembra fermarsi. Gli
elementi della mia Ginevra finalmente si rivelano e tutto acquista una luce più viva, anche il
buio del lago nella notte di vento. E capisco la mia casa d'acqua. Capisco gli elementi di cui
sono fatta, così poco comprensibili alla ragione, perché vengono da un'altro mondo, subacqueo,
dove sono nata.
Rido nella lana dei miei cappotti perché vedo quella donna bellissima prigioniera ed eterna nel
lago, forma nuda d'acqua, baciare il suo uomo mentre una polvere magica già è in giro per il
mondo, a far sì che il mio desiderio si avveri. (lidia)
Ginevra ha foglie gialle, foglie degli alberi, sparite, ridotte a semplici suoni su un traliccio di
rami, danza di rami con rumori d'acqua. Le foglie le ha portate via il vento, ma sono rimaste
tutte lì come il canto dell'arpia, nostalgia bellissima e intima di un mondo bambino. (livio)
Una fuliggine
di pensieri
di un dolcezza
l
o
n
come un orizzonte
azzurro
mi toglieva il respiro.
Innamorato
di un istante
cercavo
invano
di assorbirne
il sapore
cercando
tra i riflessi
sull'acqua.
Stringevo a me
ricordi
struggenti
di luna
di braccia
argentate
di foglie
sospese
tra attimi
incerti
che il tempo
nascose
troppo in fretta.
t
a
n
a
respirare
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sentire
sciogliersi
fino ad
affondare
le mani
nel flusso
lento
sommersi
e bagnati
da un brivido
eterno.
Magnetizzato al solo pensiero di trovarmi di nuovo lì, tra il cielo sterminato ed assoluto ed il
lago, la mia vera madre ed il mio vero padre, la mia esistenza,
viscerale
attrazione
come azzurro
per un cielo
infinito
come luce
che ti resta
appiccicata
al respiro
alle parole
ai pensieri
echi di sogni
da cinque centesimi
ritornano
cullati
da ricordi
di onde
di ponti
di strade
intrecciate
su colli e pianure
su tetti innevati
su spiagge
su barche ormeggiate
tra i nostri destini.
Risuonano lenti
tra i nostri
sguardi
lontano
verso quegli orizzonti
che non osiamo guardare
per paura che svaniscano
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e che spesso
non riescono
neppure ad esistere
perché il timore
di averli troppo vicini
li dipinge di dolore
Accordi
lenti
spessi come velluto
dolci come miele di acacia
gocciolano
da mani giunte
quasi in preghiera
alla riva del coraggio
di un sogno...
Magia e sogno, e sogno e magia... (Domenico Vicinanza)
La bambina si sveglia nel suo letto.
Quella sensazione di peso sullo sterno e di compressione delle costole che tante volte mi ha
fatto sembrare le sei pareti della mia stanza richiudersi su di me è insopportabile, quella bolla
di tristezza non va via. Memoria primitiva della prima donna che ha avuto bisogno di un corpo
di uomo che la coprisse e scaldasse, che le stringesse la pelle e le fosse dentro con il sesso e
con l'anima. Non un uomo qualsiasi, ma un uomo che completasse l'animale e la strega e la
bambina. Che fosse buono.
Ho scoperto di essere fatta d'acqua, e l'acqua non ha forma, non ha sperma né ovuli da
fecondare, si disperde, evapora e ghiaccia, riempie i buchi, ma non ha forma. Lo stato
acquatico non ha consistenza che ricalchi le forme del mio corpo. Per una volta sola la mia
anima combacia col corpo, ed io non devo correre disperatamente alla ricerca dei pezzi che
perdo.
Poi la bambina si sveglia.
Non ha quella forma d'acqua, e non ritroverà tutti i pezzi.
E' nata e morta pazza.
Le fa male la pancia perché beve vino bianco a stomaco vuoto.
E' questo il mio destino orribile, essere vagabondo senza casa, se non una casa galleggiante.
Sono una bolla d'acqua,
e l'acqua non ha forma.
L'acqua è una ballata.
Balliamo l'acqua.
L'acqua ballata.
E l'acqua è ballata.
Lo stato acquatico
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dei miei sensi
non ha la consistenza
degli elementi terrestri.
Ho i miei quattro elementi
acquaterraariafuoco
acquatici
e i miei cinque sensi
vistauditotattogustoodorato
acquatici.
La filastrocca
del settimo nano
che nessuno mai ricorda.
Sono una bolla di luna d'acqua.
Fluttuo.
Ho paura della violenza.
Ho un destino orribile,
di vagabondo senza casa.
La luna è dei lupi. (lidia)
Eclissi. Luna color africa, notte di tamtam. Candida, con le fauci spalancate a mangiar l'ombra
del mondo. (livio)
E io da questa parte del mondo
io, madre e amante
della mia vita di lago,
tengo tra le mani
con lucidità
e con cura
la mia morte,
perché aspetti ancora un minuto un'ora un giorno,
quanto basta per sentire ancora quella dolcezza di un tempo
che incantò,
incontrollabile,
i miei occhi e il mio cuore, allora sinceri, innocenti, come la luna. (lidia)
TUM ....non batte più
Ha perduto il contatto con il coro
Dei vivi
Nel silenzio bisbigliano le notizie del giorno
Non si può comunicare a parole
Solo a frequenze
Sintonie improvvise
Hanno una vita eterna
Riflesse e captate
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E riflesse
Sono la voce dell’universo
Il centro che si espande all’infinito
E si conserva uno
eterno
(mi chiedevi dell'universo.....) (aiseop)
E ci furono Ginevra, il suo lago, il suo mago. Qualche desiderio da cinque centesimi fece
prendere all'acqua del lago la forma di una donna.
Un uomo e una donna, mille e mille e mille anni fa, vissero un amore mai visto prima d'allora (e
mai più visto). Camminarono per cento e cento anni visitando tutte le terre; erano sovrani di
tutte le terre sterminate che visitavano insieme, quelle calpestabili e quelle sognabili.
Dopo cento e cento anni, sempre tenendosi per mano, arrivarono davanti al Monte Bianco. Lei
amò quel posto e chiese al suo sposo di sedersi a riposare. Attese la notte, e magicamente la
luna, e nonostante tutta la voglia che aveva ancora di vedere la luce del sole, lei sapeva... Gli
diede l'ultimo dolcissimo bacio, salato di lacrime, e morì di vecchiaia. Piangendo come quando
facevano l'amore... Lui impietrito di dolore davanti al Monte Bianco teneva in braccio
impotente il corpo della sua sposa e fissava quel monte, l'ultima cosa che gli occhi di lei
avevano visto. Non piangeva nemmeno, per non sciogliere con l'acqua delle proprie lacrime il
sale delle lacrime di lei, che si era seccato sulle sue labbra. Soffriva tanto disperatamente
che il Monte Bianco si commosse. Svegliò le sue fate, e le mandò da lui. Le fate non potevano
riportarla in vita, ma chiesero all'uomo il permesso di prendere il sale dalle sue labbra per
farne polvere magica. Lui acconsentì. Le fate gettarono il sale delle lacrime sul suo corpo e su
quello della sua sposa. All'apparire del sole lei divenne un lago, il lago di Ginevra, e lui ebbe
l'immortalità a patto di vivere sul fondo del lago, come mago del lago. Per mille e mille anni
visse a contatto con la sua sposa. Non si lamentò mai della mancanza di lei, di quanto
desiderasse riabbracciarla. Gli bastava vivere "dentro di lei", in qualche modo. Ma il Monte
Bianco sentiva la sua tristezza disperata ancora una volta, e qualche centinaio di anni fa
risvegliò le sue fate. Le fate avevano tenuto qualche granello del sale delle lacrime dell donna,
e con quei granelli fecero un altro incantesimo. Consegnarono al mago del lago la facoltà di
esaudire i desideri della gente espressi col cuore, in cambio di un pegno gettato nel lago. Al
passaggio del pegno nell'acqua, l'acqua stessa avrebbe preso forma e consistenza di un corpo
di donna, non di una donna qualsiasi, ma della sua sposa. L'anima d'acqua poteva essere viva, e
fino a che il pegno non toccava il fondo del lago i due sposi potevano toccarsi, abbracciarsi,
baciarsi ancora.
E il desiderio, per quanto grande, per quanto impossibile e irresponsabile, se espresso col
cuore sincero, veniva esaudito.
Il pegno divenne negli anni una moneta da cinque centesimi di franco svizzero.
Molte persone ora gettano cinque centesimi di franco svizzero nel lago.
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Tante e una storia
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Ballate di mari lontani
E’ già estate!
Girando in macchina si può tenere il finestrino aperto, mentre l’aria tiepida ristora il volto
appesantito dalle lunghe giornate grigie già passate. Oggi si va sui colli, lontano dal trambusto
della città, per vedere se lì l’estate è più bella. Ci sono parecchi turisti in pantaloncini corti,
che fanno sosta sotto l’ombra degli alberi gustandosi chi un panino, chi un gelato e chi l’estasi
della natura. Un contadino coglie le ciliegie sopra una scala, mentre le vecchiette ai bordi della
strada vendono le fragole; una musica mi rimbomba nella testa e mi abbandono nel vuoto sotto
il ciglio del percorso che nasconde piccoli paesi che invaghiscono la mia fantasia. Un bimbo
corre sui prati rincorrendo una farfalla, mentre un altro cade e si mette a piangere per la
paura, una bambina prega il padre di comperarle il sole e i fidanzati camminano tenendosi per
mano.
Ragazzi con il motorino si fermano vicino ad un bar con la scusa di prendere qualcosa soltanto
per parlare con le ragazzine lì sedute. Quanta gente, com’è grande il mondo, com’è bella la
natura che regna sovrana sopra ogni realtà, sempre presente in qualsiasi pensiero.
Ancora parole scritte su un foglio di carta volante per il vento, per eternare un istante, un
sorriso, chissà, magari qualcosa di più. (Gloria Venturini)
Così a volte nascono favole lontane, miti, misteri, FANTASIE che ci raccontiamo al posto delle
cose che non diciamo mai.
La fantasia, che attutisce come erba la meraviglia o la solitudine del vivere.
Una scia di parole non dette
giù per questo sentiero verde
profumato di erba bagnata
una fretta che quasi blocca i passi
l'ansia si trasforma in un vento fresco
che fa socchiudere gli occhi
e attenua il rumore del cuore
vento nella luce azzurra sopra il verde
scia di parole non dette
sopra questo sentiero sottile che scende
fino al mare approdo di ulivi d'argento
incontro di vele sconosciute colorate
destino che naviga dritto fino alla riga del mare
e oltre, all'infinito, e oltre. (aiseop)
C'era una volta, tanto tanto tempo fa...
Fantasie, immedesimazioni, giochi, giochi, giochi leggeri... Indispensabili!
Gocce di pioggia sul mio volto,
come lacrime scendono adagio,
ricordando chi mi disse addio.
Una grande vela nera la nave
ha disteso sul freddo mare
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e l’alta poppa vedo lontana.
Solo il ricordo di un uomo,
un abbraccio e via…
Il tamburo in cima al fiordo, suona a distesa e annuncia il ritorno dei marinai. Correte donne,
radunatevi là dove la terra finisce che già le grandi vele sono punti all’orizzonte; tra poco alte
prue porteranno a casa dei valorosi. Alcune di voi faranno ritorno al villaggio sole, con al fianco
i figli, in dignitoso dolore che solo chi fu stretta per l’ultima volta dal proprio compagno,
conosce: quando giunta poi l’oscurità, ella spegnerà il lume ed il cuore si scioglierà in un pianto
disperato, celato allo sguardo del fanciullo.
Canti e grida di gioia per tutta la notte, rimbalzano per le strade anguste del borgo: lampi di
luce illuminano le nere fiancate delle barche, inerti sulla spiaggia, simili a serpenti assopiti in
attesa di nuove prede. Uomini dalle lunghe barbe fulve con voce resa incerta dall’emozione,
narrano a bimbi sbigottiti di mostri fiammeggianti e perfidi draghi da loro combattuti nelle
terre aldilà del vasto mare. Madri sorridenti annuiscono con condiscendenza, accarezzando
con tenerezza quelle bionde capigliature, ben sapendo che un giorno divenuti forti guerrieri,
partiranno indossando pesanti armature di cuoio e loro torneranno infinite volte su quella riva
ad aspettare…
Immedesimazioni.
Di sangue è segnato il tuo cammino:
un guerriero ho visto allontanarsi
un eroe senza vita ha fatto ritorno.
Guardo quel corpo immobile
ed il mio cuore è di pietra;
solo il tuo seme è ora in me,
in esso rivivrai in eterno.
Il freddo imbrunire si accompagna a sempre più fitti fiocchi di neve: dall’alta scogliera, guardi
il nero specchio di mare che tra poco sarà la tomba di un eroe: lentamente l’agile legno si culla
nell’abbraccio della marea. Chiudi gli occhi ed abbandonati ai ricordi di un uomo forte; un dio
per te quando nelle fredde notti lo stringevi donandogli te stessa, ricevendone in cambio
amore. Ora egli è là, su quella barca, immobile con la spada al fianco, in attesa di varcare la
soglia del paradiso. I suoi occhi fissano vuoti l’immensità del cielo, i tuoi sono privi di lacrime
mentre il freddo vento del nord penetra attraverso le pesanti vesti. La nodosa mano del
druido che si posa sulla spalla, non serve a dare conforto perché il tuo cuore è accanto a lui,
stretto in un abbraccio di morte.
Tra poco, ad un cenno, alte fiamme si leveranno dalla nave; egli così, con le prime infuocate
vampe, volerà in cielo e potrà finalmente sedere alla mensa di Odino.
Non piangere, donna, sii fiera di aver avuto al tuo fianco un vero Vichingo.
Contorni. Contenuti. Immedesimazioni.
Ora che la mia vita è al tramonto,
rivedo in te, o figlio, l’uomo forte
e generoso che la morte tolse
al mio abbraccio.
Presto partirai lasciando una donna che con orgoglio, vedrà la tua possente figura allontanarsi
all’orizzonte. Non tremare giovane sposa, egli ritornerà mille volte vincitore, recando doni e la
barca sarà quella di un re.
Quando poi i giorni si faranno freddi e bui, nuove e straordinarie imprese al di là del mare, la
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sua sete di avventura, partorirà; i vecchi, scotendo il capo vedranno in lui un giovane lupo come
lo fu suo padre.
E’ ancora notte quando seguiamo il sentiero che sale al promontorio; i tuoi passi sono incerti
sotto il peso del figlio che porti in grembo: le luci dei fuochi, là in basso paiono occhi di draghi;
uomini l’un l’altro incitandosi con alte grida spingono in mare l’affusolata nave ed egli ritto
sull’alta poppa sembra l’immagine del dio.
Il tuo sguardo è fisso laggiù ma il cuore batte forte;
colui che l’ultima notte,
dolcemente ti ha stretto a sé, non è
più tuo, appartiene al mare.
Immedesimazioni.
Il ricordo pesa come un masso su chi
La propria terra un giorno vide allontanarsi;
L’abbraccio di una donna rimarrà nell’anima,
impresso per l’eternità.
La nebbia e il gelo, penetrano nel corpo del guerriero più forte, rendendolo simile ad un bimbo
tremante; ha combattuto con ferocia mille genti, conquistato terre lontane ma di fronte a
quel mare buio ed ostile, ogni sua difesa è inutile, un nemico terribile si è insinuato in lui, la
paura. Molto tempo è trascorso dalla notte in cui il legno spinto da eroi, lasciò l’approdo,
misteriose forze lo guidano ora sempre più lontano, verso l’ignoto.
La sera, seduto a prua, volgi lo sguardo alle stelle e la sua immagine appare; la rivedi stretta a
te durante lunghe passeggiate sulla scogliera, mano nella mano mentre parli del vostro futuro,
della spedizione che farai con l’arrivo della primavera…come sono lontani quei momenti felici. I
lunghi capelli che ella aveva teneramente accarezzato, scendono ora scomposti lungo il
pesante mantello di panno, carichi di salsedine. Sei solo vichingo, solo contro l’oceano che ad
ogni istante pare volerti fare sua preda: osservi lungamente i tuoi compagni vinti dagli stenti
che, appoggiati agli scudi, dormono profondamente; chissà quanti di loro torneranno per
narrare ai figli questa avventura, forse nessuno… L’alba ti coglie ancora desto, quando una
incerta linea scura compare all’orizzonte… vorresti urlare, gridare la tua gioia ma non riesci la
tua gola è riarsa dalla sete, i tuoi occhi si riempiono di lacrime… ancora una volta hai vinto,
guerriero.
Immedesimazioni.
Il mio villaggio, la mia gente, tutto è lontano;
osservo con occhi spenti il mare e da esso
attendo che giunga la grande nave
che mi porterà in cielo.
Uno stanco lume, al pari della mia vita,getta ultimi sprazzi di luce intorno. Guardo mani, un
tempo solide nel brandire la spada, ora inutili appendici di un vecchio. Solo il ricordo di
un’esistenza avventurosa, allevia le ferite della mia anima: rivedo vigorosi compagni giacere
insepolti su ostili lidi, fredde notti attorno al fuoco durante le quali la paura e la nostalgia di
una terra troppo lontana, si impadronivano delle nostre menti devastandole. Un inutile
scheletro semiaffondato, preda sempre più, di un mare impetuoso, è ciò che resta di una
gloriosa nave dalla cui poppa volsi per l’ultima volta lo sguardo ad una donna che, ritta sull’alto
fiordo, nascondeva dietro uno sguardo fiero, il dolore d’un abbandono. Come ogni giorno una
vecchia dai capelli candidi sale sul crinale della scogliera; lentamente percorre quel sentiero e
giunta in cima, ristà lungamente ad osservare il mare: incurante del vento che ne flagella il
fragile corpo, attende silenziosa che una vela giunga da lontano. D’un tratto il cielo diventa
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plumbeo, pesanti nubi ne percorrono la vastità e tra esse compare la snella sagoma di una nera
nave; un dimenticato sorriso incornicia allora quel volto stanco…pochi istanti e poi solo la
risacca contro la scogliera è muta testimone di un amore ritrovato. Lontano su una terra
sconosciuta, una grande pietra scura, in un misterioso linguaggio, reca inciso un estremo saluto
ed un nome, il suo. (simbad il marinaio)
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Ombra di falò
Un geco
verde viola
e giallo
ricamato
in filo
di cotone
scende
la mia gamba
verso
i piedi
e i fiori
porto
jeans
rossi
mentre
sogno
di avere
una chitarra
per suonare
una ballata
di sole
e di frutta
e di capelli
raccolti
in una coda
nel deserto
del geco.
Il geco
fa il solletico
sui jeans
rossi,
e a me viene
da ridere,
e te lo
voglio
dire. (lidia)
All'ombra bruciata di falò raccontiamo storie che raccontano storie...
C'era una volta quando la gente credeva ancora negli incantesimi e nelle magie, una piccola
strega che viveva in un grande castello, e in quel castello c'era il ritratto di un uomo.Giorno
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dopo giorno la piccola strega stava seduta a guardarlo. Quando diventò più grande desiderò il
suo amore e quando diventò una donna, desiderò un figlio;ora tutti sanno che le streghe non
possono innamorarsi, devi inciampare per cadere,devi essere sorpreso dall'amore,le streghe
sanno sempre cosa c'è dietro l'angolo.La strega però non si lasciò fermare da questo.Attese la
notte, e andò nella camera segreta della nonna,cerca cerca trovò il libro,lì dentro erano
annotati gli incantesimi più importanti. Impiegò tutta la notte per trovare quello giusto.Un ora
prima che sorgesse il sole,disse le parole magiche, mise le labbra sulle sue, e nel giro di un
secondo rimase incinta. E ora viene la parte più sorprendente della storia; innamorandosi
aveva infranto la legge della sua congrega, come punizione per la sua disubbidienza il viso del
suo amato fu cancellato sia dalla sua memoria che dal dipinto, rimasero soltanto i suoi occhi a
fissarla, ricordandole quello che lei non riusciva a ricordare;ormai è una leggenda.Quella fu
l'unica strega che si sia innamorata davvero,e fino ad ora non ce n'è più stata un'altra. (gloria
guzzi)
All'ombra di falò cresce un popolo di narratori. Si riunisce ogni giorno, per i motivi più diversi
e più uguali. Il popolo dell'ombra di falò ha i suoi motivi. E li racconta...
Calda notte d’estate,
luna che ti specchi nelle calme acque.
Giovani donne sognano amori:
uomini tornano mostrando
frutti di una generosa pesca:
tutto intorno è pace.
Il vociare lungo la piccola spiaggia, risuona discreto nella caletta. Spose si apprestano ai loro
cari, lasciando che vivaci cuccioli osservino con occhi sgranati quelle meraviglie argentee
ancora guizzanti.
Qui e là fanciulle ammirano con sguardi pieni di pudore ma già ammiccanti, compagni ai quali
forse, un giorno andranno in sposa. Anche tu sorridi discreta ed arrossisci ai primi approcci
d’amore. Sei la più bella ma non ne fai vanto…Improvviso dalla vecchia torre, posta in cima al
promontorio, si leva alto il suono di un corno; fuochi s’accendono sugli spalti, portando lontano
un nome: Saraceni.
Al pensiero, un brivido percorre le membra di ognuno e solo l’innocente pianto d’un bimbo,
rompe il silenzio carico di paura. Sguardi puntati lontano, dove la luna si specchia sul placido
mare, cuori in tumulto che innalzano speranzosi una preghiera… tutto è vano.
Nere vele spinte dalla brezza notturna, avanzano rapide verso la spiaggia, foriere di morte
che solo un uomo, vestito con umile saio, non teme. Egli è giovane ma antica la fede che lo
sorregge quando inginocchiandosi sulla riva, attende alzando al cielo un crocefisso. Quel
simbolo del martirio è ora una barriera che l’umile frate pone innanzi a uomini bruni dagli
sguardi feroci. Non usi a tanto coraggio, essi paiono esitare ma senza pietà una lama ricurva,
brillando alla luna, rotea nell’aria coprendosi di sangue innocente. Una sola invocazione rimane
così in quella gola mozzata “Perdono” essa dice.
Lacrime di sangue rigano il volto.
Tu fanciulla che amavi la vita,
all’alba sei donna umiliata.
Un solo desiderio nel tuo cuore,
la fine d’un uomo: ne sei certa, egli
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morirà per mano del figlio che è in te.
Uomini e donne in catene, piangono mentre trascinati a forza, vengono gettati nelle stive: urli
e invocazioni risuonano ancora nella tua mente. A fatica riapri gli occhi ed una spada rovente ti
trafigge l’anima nel vedere un uomo mutilato che, come un fantoccio, pende da un’improvvisata
croce. Ai suoi piedi un saio ed un crocefisso bagnato di sangue innocente; ecco ciò che resta
del suo coraggio. Anche tu questa notte hai subito percosse, umiliazioni ed a nulla sono servite
le tue preghiere quando quell’uomo ti possedeva.
Come marchio di fuoco, rivedi ancora quel volto incrostato di sangue e sporcizia che ride
mentre ode le tue urla disperate. Quello sguardo, quel viso, non lo scorderai più. La figura d’un
cavaliere, si staglia improvvisa contro il sole del mattino: con dolcezza egli ti bagna le labbra e
sollevandoti come una figlia ti issa sul cavallo.
Occhi che osservarono mille popoli e conobbero la guerra, ti scrutano ora con tenerezza.
Finalmente puoi sprofondare nel buio dell’incoscienza, senza timore, sei salva.
Notti insonni ad osservare la luna;
ombre del passato aggrediscono la mente:
provi a cacciarle ma ti seguono ovunque.
La risata di quell’uomo risuona
ancora nell’aria.
Hai trovato salde mura ed un compagno affettuoso pronto ad accoglierti tra le sue braccia
quando ti svegli la notte urlando al cielo la tua disperazione.
L’alba, pare fugare ogni ombra e la vista di quel giovane dalla pelle ambrata che ogni giorno di
più si fa saldo nel corpo e nello spirito, allevia le tue angustie. Lo scorgi mentre si esercita
all’arte della guerra e sai che presto egli partirà verso terre lontane portando forse al suo
ritorno la notizia a cui tanto aneli, la morte di un uomo.
In primavera, quando le giornate si fanno tiepide e l’aria profuma di ginestra, solitaria
percorri la riva del mare cercando luoghi dove, per troppi brevi anni sei stata felice.
Rivedi la vecchia torre del promontorio, la caletta verso la quale correvi quando tuo padre,
dopo una faticosa giornata giungeva. Della tua casa, circondata da un giardino sempre in fiore,
non rimangono che poche pietre annerite dal fuoco. L’antico olivo sui rami del quale ti rifugiavi
durante le calde ore estive, giace ora a terra e le immense radici, come dita adunche, si
protendono al cielo. Ti domandi dove sono sepolti i tuoi cari, lo ignori, forse tra le mura della
chiesetta dalla quale il generoso frate uscì quella notte, oppure in lontani paesi; quelle grida di
aiuto che ti ritornano in sogno, forse appartengono a loro. Proseguendo lungo la spiaggia, ti
soffermi sulla scogliera dalla quale osservavi sempre l’orizzonte, sperando di scorgere per
prima il ritorno delle barche; era quella una fanciulla spensierata, l’hanno uccisa per sempre.
Copiose lacrime bagnano il tuo viso mentre fai ritorno al castello: un cavaliere, alla testa di un
drappello di soldati, avanza fiero verso te; s’arresta e sceso da cavallo si inginocchia ai tuoi
piedi. Con tenerezza le tue mani sfiorano riccioli scuri che copiosi ne ornano il giovane volto ed
un materno bacio s’imprime sulla sua fronte. Non desideri lasciarlo andar via, ma sai che
presto lo vedrai tornare; e come allora scruterai l’orizzonte dallo scoglio che ti vide tante
volte felice.
Lontana è ormai la costa,
distanti i fantasmi del passato;
presto la gioia di rivederlo
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cancellerà il buio che è in te.
Il vento da est soffia teso, infilandosi tra le strette feritoie del castello.
Accanto al grande camino acceso, hai da poco terminato la lettura dell’ultimo messaggio
proveniente dalla Terra Santa. Con un profondo sospiro, chiudi gli occhi e vedi tuo figlio
conquistare città lontane liberandole dagli infedeli.
Quante primavere sono trascorse da quando egli, sulla grande galea scomparve all’orizzonte: la
nostalgia distrugge lo spirito e solo il ricordo del suo sorriso leale ti è di conforto.
Vivi sola nel grande maniero; l’uomo che amavi giace da tempo nella grande cripta di famiglia.
Tutto ti manca, le sue carezze, la sua dolcezza; ogni cosa è fredda senza il conforto di lui. Ti
aggiri per le immense sale e ad ogni istante il desiderio di rivedere tuo figlio si fa più cocente
e quando all’alba il sole non è ancora sorto, un messaggero lascia la costa su di una veloce nave.
Il viaggio sarà lungo ma la lettera che egli reca sul cuore, vale più della sua vita, annuncia
infatti il tuo viaggio. Il mercantile geme sinistramente sotto la poderosa spinta degli alisei;
appoggiata alla murata, osservi giovani delfini rincorrere la scia della nave mentre il freddo
intenso penetra attraverso il pesante mantello, facendoti rabbrividire. Folti capelli biondi
giocano scomposti con il vento; il tempo non ha alterato la purezza dei lineamenti che si
specchiano nella tua creatura lontana.
Tra non molto la frastagliata costa di Cipro ti apparirà innanzi; con ansia cercherai tra la folla
del porto, occhi azzurri come i tuoi, un sorriso felice; quando li scorgerai, corrigli incontro,
abbraccialo hai ritrovato tuo figlio.
Come sono lontane le notti del tuo paese,
dove rarefatte atmosfere accompagnano
canti gentili di pescatori intenti al lavoro.
Il tuo sangue pulsa forte nelle vene, il caldo è intenso. L’aria della notte è pregna di profumi:
richiami di uccelli notturni, s’inseguono tra frondosi sicomori. La vita pare non arrestarsi mai
tra le stradine del borgo marinaro: una moltitudine di gente, alla luce incerta delle torce,
commercia carichi appena giunti da navi straniere. Dalla tua stanza osservi incuriosita ciò che
mercanti provenienti dall’oriente raccontavano, suscitando in te meraviglia e desiderio di
avventura.
Invano al porto hai cercato quel sorriso tanto sospirato ma egli non era ad attenderti ed il tuo
cuore di madre ha battuto forte per il suo destino. L’ansia questa notte ti impedisce di
prendere sonno; passeggi nervosamente per la minuscola stanza in attesa dell’alba. Numerosi
cavalieri si sono attardati a conversare lungamente con te, descrivendo le gesta di un giovane
dalla pelle bruna che, per contrade nemiche, ha mostrato coraggio combattendo per la fede.
Ora, saputo del tuo arrivo, è in viaggio su di un veloce legno; all’alba potrai finalmente
riabbracciarlo.
Alla luce incerta del mattino,ecco apparire all’orizzonte una bianca vela cristiana che avanza
rapidamente sfruttando la forza di cento rematori e sul far di poche ore, la sottile galea,
attracca al molo subito circondata da turbe di sfaccendati, tenuti a distanza da possenti
soldati. La folla al tuo incedere fa ala ed in pochi momenti sei di fronte ad un uomo dallo
sguardo color del cielo, bruni capelli come allora, scompigliati nel vento ed un sorriso
felice…Esplodi in un grido di gioia quando lo abbracci tra le lacrime e rimanete così per lunghi
momenti, scordando il mondo che vi circonda; attimi di felicità raggiunta. Grida provenienti
dalla nave ti fanno bruscamente tornare alla realtà: uomini laceri e coperti di ferite, vengono
brutalmente sospinti sul molo; la pelle scura riluce di sudore e sangue. Lo sguardo di tuo figlio
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ora s’è fatto duro ed i suoi occhi di ghiaccio nel osservare quei miseri esseri. Un
presentimento ti fa battere il cuore all’impazzata, il ghigno beffardo di un uomo quella notte…
egli è la, in catene nella polvere. Con piglio deciso ti avvicini a quei relitti, esaminandoli con
freddezza… è lui…ad un tuo cenno il soldato che ti è accanto, afferra saldamente i capelli del
prigioniero, obbligandolo ad alzare lo sguardo verso te: senza timore ti avvicini e
fissandolo…”Mi riconosci, vero? Sono passati anni ma il tuo volto non l’ho scordato…”
Un’inattesa fierezza affiora su quel viso coperto di cicatrici ed i suoi occhi si fanno crudeli “
certo bella signora, certo che ti riconosco… è stata quella una splendida notte, non me la posso
scordare…” Le parole gli muoiono in gola quando un violento calcio lo colpisce in pieno volto
rendendolo una maschera di sangue. Nauseata, reprimi un conato mentre ti allontani da lui.
Giunta all’ombra di un grande albero, lontana da tutti pensi a quanto sa di amaro la vendetta;
le ultime parole di un umile frate ti giungono ora dal profondo dell’anima ”perdono”… nascondi
il volto tra le mani e piangi.
Pesanti catene e sangue rappreso,
ecco cosa resta di una vita scellerata.
La livida luce di un’alba inutile, s’affaccia alle sbarre del pozzo ferendo lo sguardo, mentre
orrendi fantasmi assalgono la tua mente torturandola con mille rimorsi. Sono ombre di chi un
triste giorno incontrasti per via; donne, bambini, innocenti.
Per nessuno provasti pietà ed il vederli morire nel proprio sangue, ti strappò spesso un
sorriso… Ora tutto è finito; tra poco la scure s’ abbatterà sul tuo capo ma a te poco importa:
tutta la vita ti sei beffato della morte, l’hai cercata anzi combattendo contro soldati infedeli,
assalendo bastioni imprendibili o cercando prede in pacifici villaggi di pescatori. L’hai derisa
danzando su mucchi di cadaveri…ora essa è la ad attenderti paziente. Quando sentirai la tua
fine, prossima e cercherai tra la folla un volto amico oppure lo sguardo d’un compagno, ti
accorgerai di essere solo…solo di fronte a lei.
Il rumore della pesante grata rompe un silenzio carico di pensieri…è ora. La brezza leggera
che viene dal mare, sfiora il tuo viso portando il profumo di una terra lontana: è strano, per la
prima volta ti torna alla mente una piccola casa di fango, circondata da un giardino odoroso,una
donna distrutta dalle troppe gravidanze ma dal sorriso dolcissimo… tua madre…
Una brutale spinta ti riporta alla realtà; incespicando prosegui il cammino tra due ali di folla
vociante che all’apparire, su un improvvisato palco, di un cavaliere avvolto in un candido
mantello con al suo fianco una figura femminile, tace reverente. Facendo appello all’orgoglio
che mille torture non sono valse a piegare, saluti la coppia che ti osserva con occhi di ghiaccio,
chinando il capo…Lei è bella come quella notte, forse di più…interpretando i tuoi pensieri, sul
volto della donna appare un sorriso terribile che ti raggela il cuore. Ad un cenno della coppia, il
tuo incedere prosegue sotto la sferza di un soldato, per arrestarsi infine di fronte ai due. E’
la dama a rompere quel silenzio carico di minacce: -Uomo, per troppi anni ho atteso questo
momento ma infine esso è giunto…morirai per mano di chi quella maledetta notte generasti…-.
Mai frase fu più crudele ed il vedere quel giovane cavaliere accanto a lei è come un velo che
squarcia le tenebre della memoria… egli è tuo figlio.. tuo figlio che alza sul capo la pesante
spada e pone fine ad una vita scellerata.
Notte di luna in una tranquilla spiaggia un urlo echeggia nel silenzio la rena si copre di sangue.
(simbad il marinaio)
Favole e leggende continuano a essere raccontate... grani di una collana che tiene unito il
mondo e la sua fantasia.. il popolo dell'ombra di falò si incontra per caso, per caso raccoglie
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uno per uno i suoi abitanti. Per caso cresce, e continua a raccontare ...
Alberi d’ulivo immobili, nella loro linearità totalmente femminile protendono i loro rami verso il
sole, per far maturare il loro frutto. Secchi e stanchi se ne stanno tutto il giorno con le
fronde bene in alto per mostrare olive verdi.
Ma al crepuscolo iniziano a muoversi, lentamente e cautamente.
Non è concesso a nessun umano di vederli danzare.
Alle origini delle origini, esisteva una donna dalla forma snella e longilinea, una beltà tra le
bellezze, il suo nome era Olivia, la danzatrice degli Dei. Di giorno dormiva, ma alla notte
danzava, doveva ballare per tutte le divinità, ritmava il suo corpo ad ogni nota ed emanava
messaggi d’amore.
Si era innamorata del Dio Sole, ma i loro fugaci incontri avvenivano in pochi momenti, solo al
crepuscolo e all’aurora.
Una passione incandescente univa i due cuori, ma non c’era tempo per consumare il loro atto
d’amore.
Il Sole doveva sorgere ogni giorno ed Olivia doveva danzare ogni notte, così aveva decretato il
consiglio degli Dei.
Tuttavia una triste notte, una malinconica e calda notte insonne, Olivia non si presentò al
cospetto delle divinità e per loro nessuno ballò. Oltre il tempo, dopo la notte, era andata dal
Dio Sole, complice la Luna, che per i Guardiani non sapeva proprio nulla.
Finalmente una notte d’amore per gli amanti innamorati, una notte tutta per loro! Olivia danzò
il suo primo ballo d’amore, ed il sole, con le sue calde braccia di luce la immerse nel suo tepore,
nella sua passione, così, oltre la notte, dopo il tempo, complice la Luna, si amarono.
Il mattino seguente il Sole cominciò il suo lavoro dando origine al nuovo giorno, quello era per
lui un dì dorato, un dì felice, un dì d’amore.
Quando Olivia tornò al suo giaciglio, una dannata sorpresa l’attendeva!
Gli Dei non perdonano, neanche una volta, neppure per la sua prima ed unica notte d’amore.
Olivia è stata condannata ad essere un albero d’ulivo, secco di giorno, proteso verso il sole,
verso il suo amore, donando i suoi frutti a tutti, tranne che a se stessa. Ma alla notte, al primo
imbrunire, inizia la danza per attirare l’attenzione del suo Dio, del suo amore lassù, che compie
il volere degli Dei dall’inizio dei tempi.
All’alba qualche volta riescono a guardarsi, così, da lontano, ed è per questo che gli alberi
d’ulivo sembrano le danzatrici del cielo, straziate da una grande passione. Guardando da vicino
un ulivo, prima di notte, poi di giorno, si può vedere che a volte, non è nella stessa posizione,
perché il suo corpo si muove con la danza notturna, poi si dimentica la sua forma d’origine,
perché troppo preso nella sua condanna d’amore.
Questa è la triste storia di Olivia, la danzatrice degli Dei, condannata per il suo amore
struggente ad essere un albero d’ulivo finché tempo, finché storia, finché memoria consenta.
(Gloria Venturini)
La compagnia dell'ombra di falò cresce di giorno in giorno, e di giorno in giorno si racconta. Il
popolo dell'ombra di falò si da appuntamento, ogni giorno...
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Un racconto al giorno. Giorno 1
Il popolo dell'ombra di falò si incontra ora una volta al giorno: lunedì... Non so cosa sono
venuto a fare qui.
Il caldo mi avvolge, mi spinge da tutte le parti come una folla ubriaca. La strada polverosa si
arrampica su per il cerro miserabile, collina in cui sembra che si siano accumulate tutte le
immondizie del mondo; cresciuta da questi rifiuti, come un’esplosione vulcanica fa nascere dal
mare una montagna nera di lava. Un indirizzo, una calle, un numero: una specie di titolo per
nobilitare e legittimare un nulla puzzolente.
Una ricerca che mi sta facendo pentire di questa fuga nata dal desiderio di inseguire storie e
sogni altrui lasciando le chiacchiere insulse che si posano nell’aria condizionata dei grandi
alberghi e tintinnano come il ghiaccio in un bicchiere di cuba libre. Un bambino mi guarda, non
c’è curiosità nei suoi occhi, quella è una cosa da ricchi, c’è un soppesarmi per capire quanto
possa valere.
Gli chiedo se conosce Enrique T…… - El viejo pescator loco? - Mi domanda - Si! - E cosa vuoi da
quello? - Mentre una scintilla cupa d’interesse si accende nei suoi occhi. - Gli vorrei parlare. Nessuno vuole parlare con lui!… è pazzo - Una mosca gli cammina vicino all’occhio e lui non fa il
minimo gesto per scacciarla; capisco che la contrattazione sarà lunga e faticosa, così decido di
lasciarlo a proseguire. Dopo pochissimo sento i suoi passi dietro di me. Signore! Vieni con me.
Perfetto! Ha fatto i suoi conti e ha deciso che avrebbe potuto essere interessante, questa
sera, avere qualcosa da raccontare per integrare la magra cena con la sua improbabile
famiglia. Una baracca sorretta da altre due come un ubriaco che torna a casa, la notte,
aiutato da due amici.
Enrique! Urla. Enrique! E mi guarda mentre chiama, quasi ad assicurarsi che io non scompaia.
Te quierèn! Una minuscola porta dipinta di un azzurro granuloso e scrostato si apre, una faccia
tagliata da un’ombra dura, una voce… no un sussurro - ¿que quiere señor? -. Mi manda Patrizia
M….. mi ha detto…..- Che io racconto storie folli? - Non c’è rabbia, fastidio o diffidenza; solo
stanca rassegnazione. Mi fa entrare col semplice gesto di scostarsi lasciando libero il
passaggio. Poi con una rapida raffica di parole blocca il ragazzino che per tutta risposta
c’investe con una secchiata d’imprecazioni. Non vedo dell’interno altro che le poche zone
illuminate dalla luce che entra dai fori del tetto di lamiera ondulata e delle pareti di legno e
cartone. Mi fa sedere vicino ad un tavolo; tiro fuori dalla tasca interna della giacca una
fiaschetta piatta, lui la guarda e sorridendo va prendere due bicchieri, li posa sul tavolo e si
siede davanti a me; le nostre ginocchia quasi si toccano. Avete esaurito i sogni la fuori? Avete
bisogno di quelli di un vecchio pazzo come me per riempire i vuoti rimasti. - Diretto, tagliente
non da scelte al pensiero. La fuori, fuori da che? Dalla sua casa? Dal suo quartiere o dal suo
mondo di sonno e di morte. Non rispondo e lo guardo, guardo la sua faccia che emerge dalla
penombra. Un tuono scuote il serro e la baracca e, prima ancora che l’eco sia scomparso,
esplode la pioggia; istintivamente guardo l’orologio, le cinque, è puntuale come tutti i
pomeriggi. Io non parlo bene lo spagnolo, la mia lingua è l’inglese - è tanto sommesso nel suo
inizio che quasi non mi accorgo che aveva cominciato a parlare e il frastuono delle gocce sulla
lamiera mi costringe ad avvicinare l’orecchio alla sua bocca; sento il suo respiro, il suo odore, il
suo leggero ansimare e ascolto. Ho cercato di dimenticare l’inglese. Ho cercato di dimenticare
gli Stati Uniti. Ho cercato di dimenticare New Orleans. Ho cercato ma ho fallito; sono dentro
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di me perché sono stato marchiato col fuoco dell’inferno. Io ho avuto due amori nella mia vita:
una donna, una creatura nata dal bene e dal bello e la musica che mi ha dannato.
Suonavo la cornetta. Oh lo so! Adesso la chiamate tromba, ma non è la stessa cosa: la tromba
è uno strumento musicale, è fatto per vivere con altri strumenti musicali. La cornetta è … è
un’arma, un oggetto con una sua vita, che ti domina e ti controlla facendoti perdere il senso
della realtà. Ci si mette dentro il fiato e lei crea, fondendosi con le tue dita. Cominciai a
suonare nei bordelli, come tutti allora; i clienti volevano stare allegri, le signorine anche, tutti
dovevano scordare la paura, i fallimenti, il dolore, il lavoro nelle paludi, il sudore o altri amori.
Che importa! È lì che è nata la vera musica quella che ti viene dalle viscere e che urla
trasfomandoti il sangue in acquavite.
Lì io imparavo lo strumento e le sue sonorità; il mio maestro, Papà Luc, era uno dei più vecchi e
conosciuti cornettisti di tutta la Louisiana francese, un creolo. Non l’ho mai visto sorridere,
era cieco all’occhio sinistro; me lo ricordo ancora quell’occhio: era di un azzurro…..infinito,
completamente azzurro come se vi ci fosse posato un minuscolo pezzo di cielo e fosse rimasto
li. Si! Me lo ricordo e quando mi guardava sembrava che lo facesse con quell’occhio. Con quello
buono guardava la superficie del mondo, le cose che potevi toccare, mangiare e odorare e
quando suonava lo chiudeva. Mi ascoltava suonare e diceva - sei bravo ragazzo, troppo, tu vuoi
cercare le note alte e questo è male - Perché? - chiedevo e lui, inevitabilmente rispondeva che
la mia musica doveva restare attaccata alla terra.
La pioggia cade con una monotona violenza, mi sento stordito dal caldo, dal frastuono e dal
puzzo della casupola; il mondo esterno si è liquefatto come fango e scivola verso il mare
mentre noi vaghiamo per le strade di una città lontana nel tempo e nello spazio.
Vivevo alla grande; suonavo fino all’alba, qualche volta una delle ragazze mi accoglieva nel suo
letto e quando uscivo le strade del quartiere francese erano deserte, lucide per l’umido delle
paludi. Andavo con gli amici a mangiare zuppa di granchi, la migliore si faceva da“chez Maman
Louise” in fondo ad Ancoune street vicino al molo vecchio. Fu li che conobbi Marie Noëlle.
Una delle……no! La più bella creola di New Orleans, piccola di statura con un corpo sottile e
flessuoso come una canna palustre e due occhi giganteschi da cerbiatta. Serviva ai tavoli e la
prima volta che mi vide mi disse - Ragazzo a chi hai rubato quello strumento, non può essere
tuo, quello è roba da uomini! - la guardai e lessi la sua sfida nel suo sorriso, così afferrai la mia
cornetta e suonai, suonai per lei e ancora una volta cercai le note più alte e squillanti. La attesi
all’uscita dal lavoro e assieme vagammo per le strade, ci sedemmo nei giardini, ascoltammo le
band che suonavano per strada, ne seguimmo una che apriva un funerale e ballammo ai margini
del cimitero. Non smisi un attimo di parlare; non so bene cosa le dissi: forse della mia vita,
della mia famiglia che non avevo mai conosciuto, del mio desiderio di viaggiare e di riempire il
mondo con la mia musica e del desiderio di arrivare alle note più alte, più squillanti che mai si
siano sentite. Lei mi guardava tenendomi per mano, col suo vestitino di cotone stampato pieno
di rammendi era la donna più bella che avessi mai visto, la più regale nel portamento. Mi
accompagnò fino al bordello, prima di lasciarmi mi diede un bacio sulle labbra e sentii un
sapore di cannella e di zenzero sulla mia lingua, un fuoco liquido mi scese dentro fino al cuore.
Suonai più forte e più alto che mai quella sera al locale. La cornetta vibrava felice e brillava
alla luce dei lampadari. Di quella notte mi ricordo due cose, due cose che segnarono la mia vita:
la prima era che Papà Luc, durante una breve pausa mi afferrò per un braccio e mi disse Ragazzo sta molto attento! Devi smetterla di cercare quelle note così alte, per il tuo bene.
Devi credermi! - Ma perché Papà - perché quelle note le sente solo il demonio, piacciono solo a
lui. Eravamo nella Louisiana, eravamo nel ‘930, eravamo neri.
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Lei Signore, non può capire e nessun può capire: noi neri eravamo schiavi due volte. Eravamo
schiavi dei bianchi che sfruttavano il nostro lavoro e prendevano piacere dalla nostra musica a
dalle nostre donne ed eravamo schiavi di noi stessi, della nostra spiritualità, dei nostri Dei, del
nostro demonio. Il voodoo non era… non è qualcosa di lontano e da turisti; noi ci nascevamo col
voodoo, fin da piccoli vedevamo l’altare delle divinità con i lumini sempre accesi, le offerte
fatte Jeimania e ai santi. Eravamo noi a catturare il gallo nero per i riti e noi raccoglievamo il
sangue che schizzava dal suo collo mozzato. Un “cavalcato” da Orixa poteva essere un nostro
vicino o addirittura un nostro familiare.
Per questo le parole di Papà Luc non mi stupirono, ma ero giovane e i giovani sfidano il mondo
sia quello illuminato dal sole sia quello che vive acquattato nelle tenebre. Io volevo suonare
forte, suonare alto e non avrei permesso a nessuno di impedirmelo. Neppure al demonio in
persona. Questo dissi al vecchio, glielo dissi guadandolo nel suo occhio buono e risi delle sue
parole, risi di lui che mi aveva tirato su sostituendo il padre e la madre che non avevo mai
conosciuto. Io, quella notte, mi sentivo in condizione di cavalcare la luna; ero giovane, ero
forte, ero innamorato. Il suo occhio fatto di cielo mi fissò nell’animo mentre parlava con la sua
voce bassa e roca - Ogni volta che ti inviteranno a suonare ad una festa privata guarda i piedi
dei ballerini, guardali con attenzione. - E mi lasciò li da solo nel vicolo dietro il locale. Il giorno
dopo non venne a suonare e così anche i giorni successivi.
Andai a cercarlo a casa sua, ma non c’era nessuno; una vicina mi disse che era partito.
Non l’ho più rivisto.
L’altra era un uomo che continuava a fissarmi mentre suonavo; era molto elegante, aveva
capelli neri come il carbone lunghi fino alle spalle e si appoggiava ad un bastone col pomo che
lanciava brillii dorati. Ricordo che ad un certo punto vidi la sua mano e mi accorsi che aveva
unghie lunghissime. E sorrideva mentre mi guardava. Marie Noëlle era il mio giorno, la musica
la mia notte.
Due donne , due femmine esigenti e gelose.
La vedevo dopo il lavoro al ristorante, mi dava sempre porzioni abbondanti e profumate di
spezie. Il suo pollo alla creola era un atto d’amore carico di sensualità, il suo cus cus di granchi
era una languida carezza prolungata e calda. Poi, quando finiva, andavamo nel mio minuscolo
appartamento, vicino al canale grande e facevamo l’amore. Ogni volta sembrava l’ultima; nel
caldo umido della stanza i nostri corpi si scioglievano, si fondevano in abbracci sempre più
lunghi e intensi e le nostre bocche diventavano il passaggio delle nostre anime. Fino allo
svuotamento totale e completo; quando i rumori del Quartiere Francese, coperti dal frastuono
dei nostri sensi e affogati nel nostro sudore profumato di piacere, ritornavano a noi era il
momento delle parole. Fu in uno di questi momenti che le raccontai di Papà Luc e della nostra
conversazione. Marie Noëlle si fece seria e con quell’aria di donna/bambina mi disse - Amore
sta attento non devi scherzare col demonio. Nessuno può affrontarlo senza soccombere o
restarne gravemente segnato, non ci sono armi contro la sua malvagità e la sua perfidia. Le sue
promesse e le sue offerte ti possono spalancare sotto i piedi un pozzo da cui potresti non
uscire più. - Dio quanto l’amavo da stupido! Senza capire che lei riversava su di me il suo amore
dandomi tutto senza chiedermi nulla; senza capire la sua profonda saggezza aggrappata ad un
passato lontano, fatto di magie e riti. Quella sera, prima di lasciarmi davanti al locale dove
dovevo suonare, mi disse - Amore mio! Se un giorno o una notte dovessi trovarti in difficoltà,
anche nel pericolo più brutto, pensami. Pensami intensamente e pensa al nostro amore.
Aggrappati a lui e non guardare ciò che ti circonda. Chiudi gli occhi e riempi la tua mente di
me! - io stavo per rispondere che lei era sempre nella mia mente, ma lei svelta si alzò sulla
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punta dei piedi e mi baciò. Poi corse via. Quella notte un compagno della band mi disse che un
signore con lunghi capelli neri e un bastone aveva chiesto di me, prima del mio arrivo, e aveva
detto che mi voleva per suonare ad una festa privata. Per avermi era disposto a pagare 200
dollari! Signore! Era una fortuna. Allora io prendevo 4 dollari e 50 per suonare tutta la notte
ed ero fortunato. Il mio paese era in piena crisi e i disoccupati non si contavano; con quei soldi
avrei potuto comprare dei vestiti a Marie Noëlle e affittarmi un appartamento più decente
per vivere insieme con lei e poi, poi….. mille idee e pensieri su quello che avrei potuto fare. Mi
sembrava che il mondo mi si aprisse davanti. Quando si guarda al passato sembra che tutto si
faccia più complicato col passare degli anni, che all’inizio sia tutto più semplice: ci sono i buoni
e i cattivi, c’è quello che vuoi fare e quello che detesti e che non farai mai, c’è la donna che
ami e le altre. C’è il tuo futuro e non c’è passato. Ma quando si osserva con attenzione ci si
accorge che noi sguazziamo sempre nella stessa merda, mi scusi Signore, però è così.
Il male, la violenza che spezza i poveri diavoli come me e come quelli che vivono in questo
letamaio, la strafottenza dei ricchi e il destino che ti azzanna come un cane rabbioso. Sono
sempre esistiti ed esisteranno sempre.
Dio è un pazzo che ride.
T’innalza su cime altissime, ti fa credere nell’amore, nell’amicizia e nelle tue splendide
possibilità.
Poi, quando hai assaporato tutto, quando ti sembra di essere pronto per il paradiso, allora ti
scaraventa nell’inferno dal suo amico Lucifero e con lui si spartisce questo enorme banchetto
che è l’umanità. La sera dopo mi ero messo l’abito più elegante, il meno sdrucito insomma, che
ero riuscito a trovare tra tutti i miei amici, una cravatta elegantissima a grandi fiori viola su
un fondo giallo canarino e un paio di scarpe lucidissime, la sinistra aveva un grosso buco sotto
la suola ma che diamine! Un po’ di cartone e nessuno se ne sarebbe accorto. Tutto sommato
dovevano ascoltare la mia musica e quella era divina! Alle 9 di sera apparve, davanti a casa mia,
un’immensa macchina nera e l’autista scese per aprirmi lo sportello.
Ragazzi mi sentivo un re, sentivo di meritarmi tutto quello e altro!
Povero verme arrogante che aveva scambiato la melma in cui si dimenava per una strada
lastricata d’oro.
La macchina procedeva nel più assoluto silenzio quasi non poggiasse le ruote a terra e fosse
spinta dal vento e non da un motore che indovinavo potente sotto quel cofano smisurato.
Arrivammo ad un grande cancello che si aprì apparentemente da solo; ma, dal momento che si
era alzata una nebbia densa e fitta che impediva di vedere con chiarezza non mi preoccupai
più di tanto. Vidi avvicinarsi la facciata della villa, bianca con sei alte colonne che reggevano un
frontone. Era tutta illuminata da decine di fiaccole. Quando l’auto si fermò davanti un
servitore in livrea mi fece scendere chiedendomi di seguirlo. Mi portò in una sala splendida,
piena di specchi alti quasi fino al soffitto e quadri e orologi a pendolo che ticchettavano con
un suono leggermente asmatico. Era piena di uomini e donne vestiti in modo elegantissimo. Il
pavimento era tanto lucido che mi divertii a guardare un me stesso che camminava mettendo i
piedi esattamente dove li mettevo io, aveva anche lui un buco sotto la scarpa sinistra. Mi
fecero sistemare sotto una grande finestra su un piccolo palco assieme ad altri tre musicisti e
mi ordinarono di cominciare a suonare. E suonai.
Come mai in vita mia.
Man mano che avanzava la notte le coppie di ballerini danzavano sempre più vorticosamente, le
luci delle candele diventavano sempre più brillanti e il respiro metallico delle pendole più alto e
più cupo. Mezzanotte.
103
Poi anche la mezzanotte passò e le mie note erano diventate tanto alte e squillanti che anche
le stelle sembrava si fossero fermate per ascoltare e gli animali delle paludi si fossero
avvicinati silenziosi… stupiti. E i ballerini danzavano tanto in fretta che mi sembrava non
toccassero il pavimento.
Più alte, più alte. La cornetta si era impadronita di me. Non esisteva più New Orleans con la
sua miseria e la sua allegra disperazione, non esisteva più il bordello, la tana che io chiamavo
casa, i tram affollati e puzzolenti di sudore. Non esisteva più Marie Noëlle.
Solo la musica ed il vorticare delle danze.
E gli orologi a pendolo.
Noi tutti tendiamo a ricordare e rivivere i grandi momenti. Quegli istanti che ci hanno fatto
credere di essere unici e al centro dell’attenzione. Il giorno delle nozze, della laurea, una
medaglia o quando si è battuto un bel colpo che ha fatto segnare il punto decisivo per la
propria squadra. Invece dovremmo ricordare i piccoli gesti, gli attimi insignificanti che
occupano il nostro corpo e la nostra mente in attesa del momento indimenticabile. Allacciare
una scarpa slacciata può significare, per un soldato al fronte, la possibilità di evitare un
proiettile nemico. Cosa c’è di più normale e seccante di una scarpa slacciata. Eppure quel gesto
può salvare il tuo cuore così che possa battere forte quando ti daranno una medaglia, le tue
braccia così che possano stringere tuo figlio appena nato, la tua testa così che possa creare
una musica indimenticabile o un quadro o un libro. Un maledetto laccio può fare tutto questo.
Per me fu la valvola della cornetta piena di saliva.
Mi fermai per svuotarla e fu allora che vidi i piedi dei ballerini.
Non avevano scarpe lucide, non avevano calze di seta; quello che io vedevo erano zampe
biforcute di capre.
Orrende zampe sotto vestiti sontuosi che si muovevano sospesi nell’aria. Le vedevo riflesse sul
pavimento. Si muovevano e sgambettavano oscenamente.
Perché non suoni più ragazzo? Alzai gli occhi da quell’orrore e vidi davanti a me l’uomo dai
capelli lunghi col suo bastone e il suo sorriso.
Tu sei stato pagato per suonare e la tua musica piace moltissimo ai miei ospiti. O mio Signore!
I suoi ospiti stavano continuando a ballare, ma non c’era più musica! Gli altri musicisti erano
scomparsi e quelli si muovevano come bambole impazzite. Stracci colorati su esseri immondi.
No! Urlai o Dio no
Dio non ti può aiutare sai. Abbiamo fatto un patto: lui si tiene le note basse e quelle alte io e
tu fai delle note altissime…. Ragazzo.
Fu allora che chiusi gli occhi e chiamai Marie Noëlle. La chiamai con tutte le mie forze, mi
riempii della sua immagine, del suo profumo di fiori palustri e del suo sapore di cannella. E lei
venne Amore sono qui!
Aprii gli occhi e la vidi davanti a me mentre si lanciava sul demonio.
Vidi il momento in cui lo toccava.
E vidi la vampata e le fiamme che li avvolgevano entrambe mentre un urlo schifoso scuoteva
tutto. Io protesi le mani per cercare di afferrarla mentre lei gridava il mio nome. In una mano
tenevo il mio strumento che per un tempo rapidissimo entrò in contatto con quel fuoco
orrendo. Bastò quel lievissimo contatto perché si arroventasse bruciandomi le dita
imprigionate tra i pistoni. Svenni.
Quando mi risvegliai, ero in mezzo alla palude su ciglio di una strada sterrata che correva in
mezzo alle canne; mi alzai e mi incamminai senza una direzione precisa.
Non ho ricordi buoni di quello che successe poi, ma alla fine mi ritrovai a New Orleans.
104
Una strana angoscia mi stava prendendo e mi misi a correre verso il ristorante della mia
donna. Più correvo e più l’angoscia cresceva.
Quando arrivai la strada era piena di gente e dappertutto c’era una puzza di fumo e di
bruciato.
Mi feci largo tra la folla fino al punto in cui un cordone di poliziotti impediva il passaggio e vidi
una facciata annerita, contorta su se stessa con denti di legno carbonizzato che spuntavano
fuori disordinatamente. Guardai, guardai senza aprire bocca, guardai senza sentire la voci
della gente che raccontava, guardai ma non vidi la fila di corpi carbonizzati allineata sul
marciapiede. Guardai e poi fuggii.
Mi sono fermato qui e non ho più suonato. No! Sono diventato un pescatore. Volevo sentirmi
l’acqua attorno, la sua trasparenza, la sua calma e anche la sua ira. Da allora non ho più né
suonato né guardato una donna. Questo almeno lo dovevo fare per lei vero Signore?
Rimase in silenzio a fissare il vuoto poi si alzò ed andò ad aprire la porta. - non piove più
Signore. Può uscire adesso. Spero che le sia piaciuta la mia storia; ma non si lasci
impressionare! Una buona storia era l’unico modo che avevo per ringraziarla della compagnia e
dell’ottima acquavite. Mi alzai e mi mossi verso il riquadro illuminato dalla luce del tramonto;
prima di varcare la soglia vidi, appesa ad un chiodo e vicino all’immagine della Vergine di
Guadalupe, una vecchissima cornetta ossidata ed annerita. Su un lato… mi avvicinai per
guardare meglio, un lato era quasi fuso e accartocciato su se stesso come se avesse cercato di
allontanarsi da qualcosa. Guardai il vecchio, lui sorrise e ripeté - solo una buona storia, come le
aveva promesso la signora Patrizia. Una buona amica, me la saluti! Por favor!. (Massimo
Carubelli)
105
Un racconto al giorno. Giorno 2
... martedì... Anselmo era partito per uno dei suoi tanti viaggi di lavoro e la moglie quella notte
sarebbe rimasta sola.
Si preannunciava un temporale e, fuori, i tuoni ed i fulmini erano stati violenti.
Giulia, la moglie, aveva recentemente visto un film di fantasmi ed il suo animo non era ben
disposto ad affrontare la solitudine di quella nottata tempestosa.
“Ci mancavano pure i lampi e i boati dei tuoni!” si era detta, mentre s’apprestava a coricarsi.
S’era fatta coraggio e adesso stava leggendo un bel romanzo d’avventure.
Il protagonista purtroppo non era un tipo fortunato, poiché dopo una serie di casi sventurati,
era finito in ospedale. Lì, aveva cominciato ad avere le prime visioni e le prime percezioni
extrasensoriali.
“Bella questa!” aveva pensato Giulia “ Ci voleva pure un romanzo con i fantasmi!”
Aveva dunque richiuso il libro e si stava addormentando, quando sentì un rumore provenire
dalla stanza accanto.
Leggeri brividi la pervasero, ma pensò bene d’andare ad accertarsi di cosa si trattasse.
Nella camera adiacente, accese la luce e, d’un tratto, vide un oggetto indefinibile, un qualcosa
mai visto, dai contorni sbiaditi, luminescente ed informe, né umano né animale.
Aprì la bocca e gridò, ma si ritrovò nel letto e si mise a sedere di scatto.
“E’ stato un sogno,” pensò “ mi devo mettere tranquilla a dormire, senza lasciarmi
impressionare da nulla.”
Poco dopo, squillò il telefono. Era Melania, la sua più cara amica.
“Giulia, come stai? Scusa se ti disturbo. Sai sono sola, perché Aldo è partito.”
“Ah! Anche tu! Sono sola anch’io.”
“ Se sapessi! Ho fatto un sogno bruttissimo. Ho visto un oggetto informe, dai contorni
sbiaditi, luminescente, non era un animale, però non era neppure un uomo. Non so cosa fosse.
So solo che mi sono impressionata tantissimo ed ho avuto il bisogno di sentire la tua voce.”
Altri brividi attraversarono le membra di lei!
“Dove l’hai visto scusa?” fece con voce atona.
“Come dove l’ho visto? Ma in sogno naturalmente. Ah! Mi pareva che si trovasse in una stanza
della mia casa.”
“Una stanza vicina alla tua camera da letto?” La voce di Giulia ora era un sussurro.
Dall’altra parte silenzio. Poi:
“Come fai a… a saperlo?” Melania era interdetta.
“L’ho sognato anch’io. Un oggetto come l’hai descritto tu.”
“Ma va! Ho capito, vuoi prendermi in giro per incoraggiarmi. Sei sempre la solita, Giulia!”
“Non ti prendo in giro. Sto tremando internamente, ho fatto anch’io il medesimo sogno.”
Di nuovo un primo silenzio dall’altra parte del cavo!
“ E perché? Oh, che impressione! E che vuol dire? Può essere solo una coincidenza?” La povera
Melania aveva la voce strozzata.
“Non lo so, avevo la certezza che fosse reale ciò che vedevo. Mi sono accorta di sognare solo
dopo avere gridato per la paura.”
“Io sono sconvolta! Perché abbiamo fatto lo stesso sogno, scusa?”
106
“Non so che dirti. Adesso però bisogna che ci tranquillizziamo. Qualsiasi cosa ti succeda,
richiamami. Io farò altrettanto.”
“Va bene Giulia. Terrò il telefono portatile accanto a me, sul letto.”
“Okay. Buona notte Melania.”
Chiuse la comunicazione, ma era agitata. Non riusciva a spiegarsi il perché e come mai fosse
potuta capitare una cosa del genere!
Ma no! Era stata solo una casualità! Doveva mettersi tranquillamente a dormire.
Stava finalmente per addormentarsi, quando squillò nuovamente il telefono.
“Sì pronto” rispose.
“Pronto signora, lei è la moglie di Anselmo……?” Una voce d’uomo aveva pronunziato anche il
cognome del marito.
Si allarmò all’istante. Cosa era avvenuto? Perché chiedeva di lui?
“Sì, sì, certo sono io. Cosa è successo a mio marito?”
“No, nessun incidente. Volevo solo avvisarla che in questo momento si trova con Amelia. Sa,
quella è una rovina famiglie.”
Quel tono di voce era strano, profondo, come insolente ed insinuante.
Giulia di nuovo s’era messa a sedere sul letto.
“Scusi, ma lei chi è?”
“Il mio nome non importa. Le sto dicendo di stare attenta perché Amelia ha già consumato
varie famiglie.”
“Sì, ma lei prima si presenti e poi possiamo continuare a discutere.”
Cominciava ad innervosirsi. Quella persona era arrogante e poi perché non voleva dire come si
chiamava?
“Non c’è bisogno signora, lei deve sapere che suo marito è partito con Amelia.”
“Senta, se lei non si presenta, io le dico che è un gran maleducato!”
Giulia era tutta rossa in viso ed arrabbiatissima. Aveva una fiducia cieca in Anselmo e sentirlo
accusare così gratuitamente e, ancor peggio, in maniera anonima, la indignava.
Dall’altra parte del filo, la sua reazione era evidentemente giunta inattesa.
Infatti udì ancora qualche frase sconnessa, e poi la comunicazione fu interrotta.
“Ecco appunto! Bella educazione!” Guardava ancora la cornetta, come se da un momento
all’altro, potesse venirne fuori la faccia di quello screanzato.
Internamente avvertiva una strana inquietudine, una particolare agitazione.
Ma che belle nottata di mistero! E chi era quell’individuo? Che intenzioni aveva? Perché le
aveva detto quelle cose?
Come si poteva più riaddormentare! Una cosa del genere non le era mai capitata.
Si rigirava nel letto, pensando se dovesse o meno telefonare a Melania per raccontarle
l’accaduto, quando squillò ancora il telefono.
“Se è lui lo mando a quel paese! Porca miseria!” disse fra sé.
Difatti rispose urlando: “Prooonto!”
“Ehi, Giulia, ma che c’è mogliettina, perché gridi?
Era Anselmo, meravigliato di sentirla rispondere a quel modo.
“Non sai cosa mi è capitato!” Che sollievo però udire la sua voce!
“Stai bene? E’ tutto a posto?”
“Sì sto bene, ma un cretino ha telefonato e ha detto che tu eri partito con Amelia.”
“Con chi?”
“Ma che ne so! Amelia, ha detto Amelia.”
107
“Ah! Ho capito di chi si tratta, e forse ho pure capito chi ti ha telefonato. Aspetta, non ti
preoccupare, fra non molto riceverai una telefonata chiarificatrice.”
“Anselmo, ma che stai dicendo? Chi mi deve telefonare?”
“Tu stai tranquilla. Tra poco, capirai tutto. Ciao amore, ci risentiamo.”
La comunicazione cadde.
Ma quella era proprio una notte di mistero! E adesso chi avrebbe dovuto telefonare? Intanto
s’era fatta mezzanotte.
Tornò a rigirarsi nel letto e trascorsero così altri dieci minuti, dopo i quali, squillò per
l’ennesima volta il telefono.
“Pronta signora, sono l’architetto Amelia……, so che ha ricevuto la telefonata del mio ex
compagno.”
“Sì sono io ed ho ricevuto una telefonata a dir poco inquietante. Mi scusi sa, ma è pazzo il suo
ex?”
“E’ un mascalzone, signora, non stia più ad ascoltarlo.”
“Io non lo avrei mai ascoltato, ma ha telefonato senza presentarsi, ha detto che lei era
partita con mio marito. Che è una rovina famiglie.”
“Signora, io sono qui in città, se vuole, la vengo a trovare. Vede, con quell’uomo ho avuto un
figlio. Siccome è un tipo poco raccomandabile, non glielo faccio più vedere per precauzione.”
“Capisco, deve essere proprio pazzo.”
“Peggio, è un lestofante! Pensi che vuole farmela pagare cercando di mettermi in cattiva luce
con tutti coloro con cui lavoro, tra cui suo marito.”
“Accidenti! E’ un bel pasticcio!”
“Secondo la sua mente contorta, non potrò più lavorare e sarò costretta a tornare con lui.”
“Ha fatto bene a chiamare architetto. Ora so che lei è una brava persona. Mi dispiace per la
situazione. Si faccia coraggio.”
Bella anche questa! Ora era Giulia a dover incoraggiare gli altri!
Trascorsero altri dieci minuti, e richiamò suo marito.
“Pronto tesoro, hai capito adesso? Quella è un architetto con cui ho lavorato; le ho telefonato
subito ed ho spiegato la situazione.”
“Sì ho capito, mi è sembrata una brava signora.”
“Era già divorziata con due figli. In seguito ha conosciuto quello lì e s’è inguaiata!”
“Anselmo ma che ore sono?”
“Ormai è tardi. Cerca di dormire. Buona notte amore.”
Una parola dormire, dopo tante emozioni! Ormai il letto era divenuto come il famoso giaciglio
chiodato del fachiro.
Si alzò e andò a guardare nella stanza incriminata.
Tutto era tranquillo e nessun oggetto luminescente faceva bella mostra di sé. Meno male.
Andò in cucina: avrebbe bevuto una tazza di latte caldo per conciliare il sonno. Fece così e
tornò a letto.
Ma perché non riusciva ancora ad addormentarsi? Già, il perché era chiaro: si sentiva troppo
agitata e nervosa.
Pensò di telefonare a Melania. In fondo s’erano ripromesse di chiamarsi se ci fossero state
novità. E più novità di ciò che le era capitato!
“Pronto sono io. Se sapessi ciò che m’è successo! Stento io stessa a crederci. Sono scossa e
non riesco a prendere sonno.”
“Dai, racconta. Tanto neppure io riesco a dormire.”
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Trascorsero dunque tutto il resto della notte a raccontarsi e a commentare i fatti. Fecero le
dovute congetture ed espressero gli immancabili giudizi.
Melania sembrava esterrefatta di ciò ch’era capitato all’amica. Davvero pensava che, nella
vita, non si possa stare mai tranquilli.
Ritornarono a discutere dei loro strani e coincidenti sogni.
“Sono sempre più convinta che sia stata una casualità.” Diceva Giulia.
“In vero una strana casualità, Giulietta!” ribadiva l’altra.
“Sì, ma vedi, secondo me, è il caso che domina gli uomini, non sono essi a poter intervenire sul
caso.” Sarà stata l’ora tarda, ma cominciava a diventare filosofa.
“Va bene, il caso ci domina, però io mi stupisco lo stesso.”
“Melany, i due più grandi tiranni della terra sono il caso e il tempo!”
L’amica l’ascoltava affascinata.
“Per esempio c’è un filosofo tedesco che invece sostiene che nulla al mondo avviene per caso.”
“Già, allora a noi perché è accaduto di fare il medesimo sogno?”
“Domandalo a lui. Io, più invecchio, più mi convinco che il caso faccia i tre quarti del lavoro in
questa vita. Proprio perché il Padre Eterno ha tutto programmato affinché sia esso ad
intervenire sempre. Poi noi, con il nostro libero arbitrio facciamo il resto.” “Giulia mi stai
facendo ricordare Flaubert quando dice: “ C’est la faute de la fatalitè!” cioè: “E’ colpa della
fatalità!”
“Ecco appunto. Vedi anche lui era d’accordo con me.”
Nel frattempo, cominciava ad albeggiare e le prime luci s’insinuavano tra le fessure delle
serrande.
“Questa notte non abbiamo dormito. Prima che sia troppo tardi, consiglio di provarci. Buona
notte Melania.”
“Buona notte Giulia.” (Gabriella Cuscinà)
109
Un racconto al giorno. Giorno 3
... mercoledì... Eravamo appena arrivati dalla nonna Greta e mi accorsi che c'erano animali
nuovi.
La sera aiutai la nonna Greta a chiudere le galline nel pollaio e mi accorsi che il gallo mi
guardava e io incominciai a sentire molto freddo e tanta paura.
Ero molto sorpresa perché non faceva freddo e perché non avevo mai avuto paura del gallo
fino ad ora. Cenammo e io andai subito a dormire perché ero molto stanca ma non riuscii a
dormire, ad un certo punto aprii gli occhi e vidi il gallo che mi guardava appoggiato sul
davanzale della finestra, poi l'occhio mi cadde sull'orologio e vidi che era mezzanotte in
punto!!!
La mattina la mamma mi disse che dovevo aiutare la nonna allora decidemmo che io dovevo
aprire e chiudere il pollaio e la mamma doveva dar da mangiare agli animali.
Andai ad aprire il pollaio e vidi che c'era un buco, un buco nella rete.
Incominciai a contare le galline e non ne era scappata nemmeno una!!!
Ma mi accorsi che mancava il gallo allora andai a chiamare la nonna Greta, la portai davanti al
cancello e gli feci vedere il buco ma... il buco non c'era più, e per di più c'era anche il gallo!!!
Il pomeriggio salii in camera e vidi che sul letto c'era un libro; lo presi e lo lessi: parlava di un
uomo che odiava il gallo così lo uccise e quando questo uomo morì si dice che rinacque in un
gallo e che se avesse trovato una persona che odiava o aveva paura del gallo lui si sarebbe
preso il corpo della vittima mentre l'anima della vittima sarebbe andata nel corpo di quel gallo.
Lo portai in cucina e lo feci leggere a mia madre che mi disse "ma cosa c'è di strano questo è il
tuo giornalino".
Io rimasi a bocca aperta era impossibile io avevo letto ed ero sicura che non era il giornalino..
La mattina decidemmo di partire e così decisi di parlare al gallo gli chiesi "Perché c'è l'hai con
me?"
lui mi rispose con mia grande sorpresa "Scusa adesso ho capito che un'anima giovane come te
non doveva appartenere ad un gallo mi dispiace...".
In quel momento passò mia madre e mi disse che dovevo venire in macchina per tornare a casa
non vedevo l'ora di tornare!!! (Cecilia Caporusso)
... mercoledì è ancora giovane, c'è posto per un'altra storia... C’era una volta una piccola ape,
solinga girava sul mondo. Le sue ali avevano un colore dorato, biondi, lisci i suoi lunghi e fragili
capelli, lineare, regale e composta la sua agile figura. Questa ape laboriosa voleva cambiare
lavoro, era stanca di portare carriole di miele, voleva fare l’interprete del russo. Una volta,
durante un viaggio in Siberia, aveva incontrato un apino col basco mentre ballava una polka, e
senza alcun ritegno, se ne era innamorata perdutamente. Dopo una folle notte d’amore, lui se
n’era andato, lasciandola sola e ubriaca nella sua solitudine. Al ritorno dalla sua gita, lei non
sopportava l’idea di non rivederlo più. Noia e dolore quella vita assente d’amore! Fuggi! Povera
piccola ape malata d’amore!… Un giorno mentre passeggiava nel parco fiorito, incontrò un
moscone, dall’aria assai dotta, lui le chiese, con gesto beffardo e palese, che cosa fosse quello
sguardo assorto e compunto! La piccola ape era disperata, raccontò la sua storia d’amore
perduto, e il moscone sorpreso e compiaciuto, gli insegnò il russo, l’arabo e anche l’americano.
Lui pensò tra sé e sé, con aria gioiosa, di fare finalmente qualcosa di utile, almeno una volta
110
nella sua vita, troppe volte noiosa e tutt’altro che laboriosa. Passarono i mesi, un anno e l’ape
contenta riprese il suo viaggio. In Russia tornò, e in quello stesso paese ritrovò il suo amore
abbracciato a una mosca, entrambi ubriachi. A singhiozzi ininterrotti se ne andò verso il
treno, per quel lungo ritorno al suo mondo noioso. Una voce l’allarma, un bambino piccino viene
punto sul viso da quell’apino ubriaco e dalla mosca sfacciata. Corre l’ape veloce e punge quei
due, che in preda al terrore muoiono di crepacuore. Mentre l’ape assassina si avvicina a quel
bimbo, una mano piccolina l’accarezza piano piano, e spira così nell’amore più grande, più
eterno, il magico amore di un cuore bambino. (Gloria Venturini)
111
Un racconto al giorno. Giorno 4
... giovedì... Il bianco della tazza da the spiccava in bell’evidenza sul tavolino di marmo rosso, in
sottofondo una soave musica di Mozart, sulla mia sinistra un bel gatto tigrato addormentato
sul tappeto orientale; una lieve brezza di maggio faceva vibrare le foglie dell’immensa pianta,
per me tropicale, mai vista, tutt’attorno alla pianta un cespuglio di menta spandeva nell’aria un
odore forte.
Lei mi versò il the e disse:
- “Nel pomeriggio è salutare gustare un the caldo, non trova?”
- “Sì”, risposi, “grazie”, mentre pènsavo che a quell’ora non avevo mai bevuto il the, che anzi
prendo solo in inverno inoltrato e solo se sto poco bene.
- “Finalmente si è deciso ad accettare il mio invito, sa lo sapevo che lei è diverso dagli altri
che mi evitano, credono che sia una iettatrice portatrice di malocchio e disgrazie varie, tutti
si toccano passando davanti casa mia, lei no?”
- “No io lo faccio solo quando sono eccitato”, replicai, ma mi pentii subito di averlo detto, così
mi scusai per la volgarità.
- “Non fa nulla sa, è normale, dunque lei non è superstizioso, bene ne sono felice, sarà
l’occasione per scambiare due parole ogni tanto, le dispiace?”
- “Oh no anche a me fa piacere parlare con qualcuno di tanto in tanto, qui non conosco nessuno,
mi distraggo leggendo alla libreria di Pegacity.
- “Da quale località viene, sostituisce il portalettere, vero?”
- “Sì, tre mesi di supplenza dei quali uno è già passato; io sono invece di Librizzi in provincia di
Messina, un piccolo paesino di collina.”
- “E dove vive, in pensione? Paga molto?”
- “Sono in mezza pensione e pago 800.000 al mese, quasi mezzo stipendio.”
- “Sono degli approfittatori, le faccio io una proposta: venga a stare qui da me, la casa è
grande ed io sono sola, ho ottanta anni suonati e comincio a soffrire la solitudine… sa, non le
costerà nulla.”
- “Signora, lei mi prende un po’ alla sprovvista, non so che dirle.”
- “Ci pensi con calma e se lo riterrà opportuno la stanza è sempre qui e stia tranquillo che non
attenterò alla sua privacy, l’avverto però che ho la reputazione di strega che ormai è come un
marchio e siccome tutti mi evitano faranno di tutto per tentare di dissuaderla dal venire qui.”
Sorrisi, finii il mio the e poi chiesi incuriosito: “Che tipo di pianta è questa?”
- “Non lo sa? E’ la pianta del pistacchio, il suo nome è Pistacchia.”
- “E non ha frutti?”
- “Oh, non fruttifica mai; è una questione di impollinazione: ci vuole una pianta maschio ogni
otto femmine, questa è sola, poverina.”
- “E’ maschio o femmina?”
Lei sorrise, “non lo so, proprio non lo so.”
- “Bene”, risposi, “arrivederci.”
Ripresi a distribuire la posta nel rione delle arti (troppa posta ricevono gli artisti!) senza
riuscire a dimenticare quella tenera vecchietta e quel dolce sapore del the caldo, un po’ troppo
zuccherato, ma un signore dal fare scorbutico con un grosso porro sul naso mi riportò alla mia
triste condizione; ero stanco, sudato e in un posto che neanche conoscevo.
112
- “Che modi sono questi, alle cinque del pomeriggio, chi cerca… che cavolo rompe… io cerco di
riposare e lei suona, non compro nulla, vada via!”
- “Mi scusi io non sono un venditore, sono il sostituto del postino.”
- “Cosa? E distribuisce la posta a quest’ora, mi risulta che si faccia di mattina.”
- “Lo so, ma purtroppo per me non riesco a smaltire il lavoro arretrato e poi non conosco il
posto, le vie, le persone: i rioni sono tanti a Pegacity!”
- “Bene”, riprese con un sorriso che mostrò i suoi denti ingialliti dal tabacco, “venga dentro
che le offro da bere, avrà certo sete.”
Superai quella soglia come sollevato, aveva cambiato tono, era gentile ed io avevo sete, quel
the mi aveva procurato una forte arsura.
- “Ecco, beva”, mi disse davanti una bevanda che aveva il colore di una palude africana.
Guardandomi perplesso disse:
- “Beva, beva pure: è un the alla menta, un bel the freddo alla menta di mia produzione.”
Il pensiero corse di nuovo alla vecchietta, ma bevono tutti the qui, pensai mentre cominciavo a
bere rassegnato.
Anche in questo caso era la prima volta che bevevo un the freddo, non era una mia bevanda
abituale.
Bevvi piano e devo dire che era molto dissetante, mi sentii sollevato e rinfrancato; consegnai
la posta e poi me ne andai.
Alla pensione quasi piansero per me appena dissi loro che a fine settimana sarei andato via e
proprio lì mi informarono che altre persone che avevano accettato l’ospitalità della strega
erano sparite nel nulla: mi dissero che dovevo essere impazzito e per farmi desistere da
quell’idea mi abbassarono di 200.000 lire la pensione, dovevo restare lì se volevo restare vivo.
Chiesi la prova di quanto affermavano: per esempio, nessuno lavora per lei, mi riferirono,
eppure ha un parco ben curato!
- “Un parco? Un piccolo giardino davanti alla casa”, dissi.
- “No, proprio un parco all’interno della villa”, io ho visto solo la facciata davanti..
- “Una villa con centinaia di stanze, come fa una vecchietta sola a pulirla se non con l’aiuto dei
demoni?”
- “Ma fate i seri”, ripresi, “lo fa con l’aiuto di Dio, è in buona salute e non facendo altro può
anche farli da sola quei lavori.
Mi portarono la nonna che era coetanea della strega e mi raccontò di strani rumori, strane
luci, voci e pianti di bambini sentiti per anni, circa 40 anni prima e a tutte le ore, strani
movimenti e ombre notturne poi si susseguono da anni. E poi la spesa che fa!
- “Che cosa compra di così strano?”
- “Rossetti, ombretti, smalti, profumi, scarpe di misura 38, calze, vestiti femminili taglia 50,
assorbenti… e l’abbiamo tenuta d’occhio: non si trucca e non ha mai messo nulla di ciò che per
anni ha comprato. Fa la spesa per più persone, non può assolutamente mangiare tutte quelle
cose!”
- “Beh, ha un gatto”.
- “Compra anche il cibo per gatti e ai tempi che sentivo il pianto comprava cibo per bambini,
vestitini, giocattoli come se in quella casa ci fosse davvero un bimbo.”
- “Beh”, dissi io, “non credo che ci sia nulla di così diabolico, sarà un po’ fissata, magari ama la
stramberia.
- “Senta”, disse infine la vecchia, “dirò a mio figlio di prenderle solo 500.000 lire per questi
due mesi, ma non vada lì nel modo più assoluto.”
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Chissà perché io, invece, ho sempre fatto l’opposto di quello che gli altri si aspettavano, fin da
ragazzo; così decisi che sarei andato lì, dovevo farlo non per i soldi, ma perché sentivo dentro
di me qualcosa che mi spingeva a farlo.
Bussai deciso a quella porta, lei mi aprì con un sorriso.
- “La aspettavo”, disse, “Venga le mostro la sua stanza.”
Dappertutto c’erano mobili, bellissimi stucchi, mosaici e sui muri dei quadri Bellini, però
moderni, così chiesi: “Sono belli, ma chi li fa e con quale tecnica?”
- “Si chiama trompe l’oeli, le dirò chi li fa un’altra volta.”
Poi mi portò in quella che doveva essere la mia stanza: un letto, un armadio sempre in stile
antico e sulle pareti quadri con ballerine in tutù, copie perfette delle ballerine del grande
Degas.
- “Questa è la sua stanza, in fondo a sinistra c’è il salone, ci riuniamo tutti lì per la cena.”
Uscì con un lieve inchino.
Le corsi dietro nel corridoio… “Senta!”, lei si voltò facendo una piroetta.
- “Sì !?”
- “Lei.. lei ha detto ci vediamo tutti?
- “Certo caro, tutti, io, lei e tutti i fantasmi di questa casa”, sorrise e se ne andò.
Mi sentii gelare il sangue nelle vene, un fremito di paura mi assalì, una gocciolina di sudore
dalla nuca scese sulle natiche facendomi sussultare; che diamine ripetei a me stesso,
scherzava, avrà uno spiccato senso dello humour.
Disfeci la mia valigia, riposi i capi nell’armadio, udii quasi per caso la musica a bassissimo
volume che proveniva dal piano superiore, la solita musica di Mozart.
Mi venne voglia di vedere il salone, così mi mossi in quella direzione. Appena vi entrai, sulla
parete centrale vidi un’immensa opera di circa 20 metri per 10, raffigurante una copia in scala
maggiore de “I Girasoli” di van Gogh, mentre sulla sinistra un’altra tela raffigurava “Il
prosciutto di Manet”, anch’essa però era di dimensioni maggiori, forse 3 metri per 4;
tutt’attorno poi c’erano tele con vari dipinti che a prima vista non sono riuscito ad
identificare.
Mentre assorto ammiravo quei quadri, in verità perfetti, una dolce voce femminile molto
sottile disse:
- “Buonasera, vedo che apprezza i miei quadri”
Mi girai e rimasi senza parole: una donna alta circa 1 m. e 50, sui 30/35 anni, molto in carne,
con sandali da francescano, gambe massicce e pelose come quelle di un uomo, con una gonna a
pieghe molto ampia a fantasia, un top verde pisello che evidenziava un seno enorme. Il viso
sembrava una maschera di Pierrot, ma truccato male e in modo eccessivo: mi sembrò di
rivedere l’uomo del the alla menta.
Ero esterrefatto: era una visione, era lui oppure sua figlia con quel porro enorme sul naso?
- “Lei è Nunzio, vero? Piacere, Prisca.”
Ho la reputazione di avere grandi mani, ma le mie le avvolse completamente in una stretta
decisa ed energica, poi disse:
- “Ho tanto di quel tempo disponibile che per farlo passare dipingo, lo faccio da quando ero
bambina.”
- “E’ brava”, le dissi, “ma fa solo copie?”
- “Oh, no. Amo molto gli impressionisti e li copio, ma ho anche uno stile mio, anzi due per
essere più precisa.”
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- “Come due?”
- “Venga.”
Mi prese la mano e mi trascinò felice su per le scale, nonostante la mole e le gambe corte e
tozze saliva le scale di corsa e mi trascinò dietro a sé.
Giunti al piano superiore mi fece attraversare un corridoio lunghissimo; in fondo, da una
piccola finestra, filtrava una tenue luce, fuori era quasi buio.
Dopo aver attraversato ambo i lati e non so quante porte, giungemmo alla meta; spalancò una
porta sulla nostra sinistra e mi buttò dentro, poi finalmente mi lasciò la mano che mi faceva un
male boia.
- “Guardi, guardi” e volteggiò per l’enorme stanza come una danzatrice da lago dei cigni.
Era una stanza di almeno 50 metri quadri, nel soffitto un’unica opera: un cielo azzurro, credo
ci fossero tutti i volatili del mondo nei loro colori migliori. Sulle pareti fiori, insetti, pesci,
piante, uno spettacolo; non sapevo dove guardare prima mentre lei rideva felice e solare.
Senza mentire le dissi che era un genio, che era un lavoro meraviglioso.
Mi stampò un bacio sulla guancia.
- “Grazie”, disse d’impeto, “Oh mi scusi, ma sa mai nessuno mi dice che sono brava.”
- “Non fa niente”, risposi.
- “Bè venga adesso deve vedere l’altro mio stile” disse diventando triste e seria.
Uscimmo sul corridoio, la porta di fronte era già aperta: all’interno quadri orribili, mostri,
animali, deformi, diavoli, streghe.
Alzai gli occhi al soffitto e vidi un cielo nero e cupo con migliaia di serpenti che mi sembrò
stessero precipitandomi addosso, mi prese la paura e una gran voglia di fuggire via.
Ma ero in trappola, lei era sulla porta, ferma, immobile, fissava un punto di fronte a lei, un
quadro con dei fiori appassiti e frutta marcia.
Due grosse lacrime le solcarono il viso sciogliendo gran parte del trucco della maschera che
aveva disegnata sul volto, fino ad arrivare sul top verde.
Di colpo il top si trasformò da verde in vari colori, quella che arrivò sul pavimento diventò
invece una macchia tra il viola ed il rosso sangue in cui sguazzavano come anguille dei vermi
orribili, cacciai un urlo!
Lei fuggì via lasciando libera l’uscita, in me rimase solo un pensiero: fuggire via da quella casa.
Saltai fuori e corsi in quel corridoio interminabile; stavo per precipitarmi giù per le scale
quando mi si mise davanti un uomo che, vedendomi trasalire, si scusò.
- “Mi perdoni se l’ho spaventata”, disse “non volevo.”
- “Lei chi è?” chiesi.
- “Basco Eutitio, prof. Di disegno, pittore e scultore, piacere. Sa, insegno a Prisca le tecniche,
è brava vero? A Parigi i suoi quadri sono ben quotati.”
- “Quali? Quelli con i mostri?
- “Ah glieli ha fatti vedere entrambi?”
- “Sì entrambi”
- “Sa, lei è il primo al quale lei ha permesso di guardare i suoi due mondi completamente
opposti, quello interiore e quello esteriore, povera ragazza è sola triste, brutta, anzi orribile.
Ma quanti di noi sono belli fuori ed orribili dentro? Eppure l’aspetto esteriore domina troppe
volte le nostre misere vite.”
- “Lei vive qui professore?”
- “Certo, da 30 anni.”
- “Da trenta anni?”
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- “Si, sa ero un promettente prof. di disegno, ma ero solo riuscito a fare qualche supplenza
quando la signora mi contattò: dovevo dedicarmi ad una bambina di 10 anni con tendenze
artistiche; con una paga elevatissima, vitto, alloggio e 300 milioni all’anno per 30 anni.
Domani scade il mio contratto.”
- “E anche il mio”, disse una voce dietro di me.
Mi voltai piano e vidi una donna di circa 50 anni, ben curata ma strabica e con il corpo un po’
incurvato.
- “Le presento la dottoressa e professoressa Rufina Maiela, laureata in lettere, lingue, storia,
filosofia e qualche altra laurea, nonché mia moglie.”
- “Piacere”, disse “anche io vivo qui da 30 anni e la storia è quasi la stessa, solo che la paga è
diversa, la mia infatti è di 500 milioni all’anno; l’unica pecca è stata una norma del contratto
che ci impediva di farci vedere dagli abitanti del paese, ma il gioco valeva la candela.”
- “Adesso dobbiamo andare, ricchi e felici, sì felici, ci siamo incontrati qui anni fa e più che
altro era la nostra solitudine ad unirci, ma ora ci amiamo davvero.”
- “Come mai adesso ve ne andate?”
- “Prisca ormai non ha più bisogno di noi e poi si sposa e va a vivere a Parigi.”
- “Bene, un bel cambiamento da Pegacity a Parigi, ma sono molto ricchi?”
- “Certo, erano già ricchi di famiglia, una delle caste più antiche della Sicilia, negli ultimi anni
hanno guadagnato miliardi speculando in borsa e con azioni varie delle più grosse società
mondiali.”
- “Ed il padre di Prisca chi è? Dov’è?”
- “E’ una brutta storia: molti anni fa un losco individuo del paese ha abusato della signorina che
da quello stupro rimase incinta e purtroppo Prisca è l’esatta copia del padre. Lei nascose tutto,
nessuno è al corrente dell’esistenza di Prisca, neanche quell’uomo sa di avere una figlia.
Scendiamo ora, la cena sarà sicuramente pronta.”
Giunti nel salone la tavola era imbandita in modo regale. La signora era felice, seduta a
capotavola, mancava Prisca che aveva preferito mangiare in camera sua.
Mangiammo totalmente in silenzio, si sentiva solo il nostro masticare ed il rumore delle posate
che intonava nell’enorme salone.
Appena finimmo, la signora mi chiese di ascoltarla attentamente per conoscere il motivo della
mia presenza lì; agli altri chiese di rimanere per fare da testimoni sia all’accordo sia al
matrimonio.
- “A quale matrimonio?”
- “Ma a quello suo con Prisca!”
- “Il mio ?!?”
- “Si, la proposta è la seguente: lei si sposerà Prisca ed andrete a vivere a Parigi.
Lei in cambio otterrà un miliardo subito ed un miliardo all’anno per ogni anno trascorso con
Prisca.
Loro saranno i tutori di Prisca: visto che sono i padrini di Prisca, sia di battesimo che di
cresima, saranno anche i testimoni; non vivranno con voi, ma mensilmente Prisca li contatterà e
ne potrà disporre liberamente.
Se non ci saranno figli e lei dovesse sopravvivere a Prisca, sarà tutto suo: un patrimonio che
oggi si aggira sui 340 miliardi. Se invece lei lascerà Prisca o divorzierà perderà tutto.”
- “Ma… io sono senza parole…”
- “Bè non dica nulla adesso, starà qui un mese e poi mi darà la risposta.
Buonanotte, e ci pensi bene.”
116
Ritornai nella mia stanza dopo aver salutato i professori.
Mille mostri popolarono il mio dormiveglia, finché all’una decisi: non avrei sposato quella povera
donna, non avrei rinunciato agli occhi belli della mia Maria, la mia dolce ragazza che avevo
lasciato al paese e che non vedevo da due mesi. Non c’erano miliardi che potessero
convincermi, di vita ce n’è una sola e bisogna viverla al meglio, forse senza lussi, ma almeno con
serenità.
Preparai le valige ed in punta di piedi cercai di uscire; sul portone al buio cercai la maniglia,
accovacciato a terra c’era il gatto, non lo vidi ma lo sentii dopo avergli pestato la coda, poiché
emise un urlo e mi graffiò una gamba.
In strada respirai forte, finalmente ero libero. Ritornai con passo da maratoneta verso la
pensione voltandomi spesso per assicurarmi che nessuno mi seguisse.
Giunto alla pensione fu come tornare alla realtà: due ragazzini fermi su un motorino si
baciavano molto teneramente.
Varcai la porta, dietro il banco non c’era nessuno: la chiave della mia stanza era il numero 7, la
presi e corsi su. Caddi sul letto esausto e mi addormentai.
Il sole mi svegliò con il suo tepore; guardai l’orologio, erano le 7.20. Uscii sul balcone: davanti a
me la campagna appariva rigogliosa.
Scesi giù in fretta, dovevo spiegarmi con i proprietari.
- “Buongiorno, ben alzato.”
- “Ieri sera sono rientrato all’una e, non trovando nessuno, sono andato a dormire.”
- “Come al solito, è normale.”
- “Sa, vorrei riparlarle delle 500.000 lire mensili.”
- “Non so proprio di cosa stia parlando!”
- “Io ho deciso di restare ed accetto la vostra offerta di sconto.”
- “Sconto? Che sconto, di cosa parla, si è alzato strano stamattina.”
Risposi: - “E’ vero, mi scusi, stanotte ho dormito proprio male.”
- “Colpa vostra, voi giovani andate a letto troppo tardi.”
Gli feci un cenno con la mano ed uscii. Procedevo verso la porta confuso… avevo dunque
sognato tutto? Dovevo scoprirlo a tutti i costi. Rifeci il giro verso quella casa finché la notai;
esisteva! Più mi avvicinavo e più l’ansia mi assaliva.
Giuntovi di fronte vidi l’enorme Pistacchia secca, uno scheletro, attorno la nuda terra senza
menta.
Ritornai verso la casa del the alla menta, anche quello faceva parte del sogno o forse era
realtà.
Giuntovi trovai una casa diroccata, semicoperta dai rovi e da un enorme albero di eucalipto.
Lì non abitava nessuno da tanti anni… eppure lo avevo bevuto lì un the alla menta!
Più confuso che persuaso cominciai a convincermi di aver davvero sognato tutto, ma mentre
smistavo la posta, nel raccogliere delle buste che mi erano cadute, notai la mia gamba
graffiata…
(Nunzio Cocivera)
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Un racconto al giorno. Giorno 5
... venerdì... Un giorno il vento, irato perché stanco di soffiare, si crucciò con tutto il mondo.
Con folate decise disperse i semi dei fiori, recise le foglie dagli alberi, e per tutta la notte,
con il suo impietoso ululare, fece paura ai bambini.
Il giorno dopo, i raggi del sole lo accarezzarono, e come un neonato infelice, gli scaldarono il
cuore, così il vento, cullato dalla luminosa ninna nanna, si addormentò. Dormì di un sonno lungo
e profondo, aveva proprio bisogno di riposare. Una fresca pioggerellina di marzo pianse sulla
natura, perché le mancava il suo amico assopito. Pioggia e vento insieme si divertivano
parecchio.
Ai bordi di un campo di grano, lentamente, crescevano due semi di fiori, giocando con la luce e
con il giallo tutto intorno.
Chiacchieravano con le coccinelle, con le farfalle e le libellule, ridevano a crepapelle. Di notte
dormivano vicini, e di tanto in tanto, qualche stella raccontava loro una favola, di ufo, di
streghe, di gnomi, di elfi celestiali, di giostre e stelle filanti. Spensierate le loro giornate
dorate da fate incantate!
L’estate avanzò e quei piccoli semi crebbero diventando due fiori stupendi. Una rosa rossa,
vellutata e profumata, è regina tra i fiori, fra tutti la più bella. Sparuto ed impacciato era il
suo compagno di giochi, un esile papavero. Ogni volta che vedeva la bella rosa arrossiva di
pudore e …diventava sempre più rosso. Un amore accecante avvampò in quel fiore titubante,
che non aveva il coraggio di dichiararlo alla rosa.
Lei si profumava tutte le mattine e crescendo diventava ogni dì sempre più bella, sempre più
rosa rossa. Ma la vita corta di una rosa è breve… Giunse il giorno della sua massima beltà e
della sua unica maturità.
Lei si rivolse al papavero con uno sguardo colmo di lacrime e gli confessò il suo amore, gli disse
che da tanto tempo aspettava che lui la prendesse fra i suoi petali, e proprio quel giorno, il suo
ultimo giorno, il suo giorno da sposa, lei lo amò, lui l’amò.
Cercarono di fermare il tempo, chiedendo al mattino di mettere un palo sulla ruota che faceva
avanzare le ore, ma questo si ruppe e i momenti continuarono.
Chiesero al sole di rimanere nel cielo per sempre, almeno un po’ di più, ma la notte
imperterrita e nera arrivò. La luna gemente raccolse la rosa, la sua bellezza e le parole
strazianti d’amore del papavero innamorato.
Ora era un papavero tutto solo, ai bordi di un campo di grano, con il cuore strappato!…
Dolcemente rammenta i primi giorni, la loro infanzia, i loro sorrisi e infine i loro baci, il loro
unico giorno d’amore, solo un giorno da sposi.
Il suo lamento echeggiava tutt’intorno, era così acuto e dilaniante, che anche il vento si
svegliò. Incuriosito e allarmato, andò a vedere cos’era quel pianto disperato e dopo aver
trovato il papavero dal cuore spezzato, che gli raccontò la sua triste storia, con gli occhi
arrossati dalle lacrime, cercò di consolarlo con le sue brezze più lievi, con il suo sussurro più
delicato, con le sue note di nenie lontane. Ma il papavero disse che per certi mali del cuore non
esiste nessun conforto e pregò il vento di aiutarlo, di strappargli i petali con un’unica sferzata
e portarli fino alla luna, per ricoprire il corpo della sua cara rosa rossa, come un estremo
sconsolato abbraccio d’amore.
Per quel compito così ingrato il vento chiuse a serra le sue labbra, con occhi gonfi e chiusi
118
estirpò il rosso dal papavero… il suo ultimo desiderio era esaudito.
Un estremo atto d’amore, un peso che il vento si porta nel cuore, ogni tanto ne parla, per
liberarsi l’anima, attanagliata da incerte paure. Fu in così che il racconto di questa storia
dilagò in tutto il mondo, fu così che il rosso segreto del papavero morì tra la vita corta di una
rosa. (Gloria Venturini)
119
Un racconto al giorno. Giorno 6
... sabato... HO LASCIATO QUESTA TERRA IL PRIMO GIORNO DELL’ ANNO. IL MIO
NOME E’ ULISSE, SONO UN GROSSO TERRANOVA NERO. ORA VIVO NEL PONTE
ARCOBALENO, IL PARADISO DEI CANI, INSIEME A TANTI ALTRI AMICI.. IL NOSTRO
DIO, IL DIO MATHAN, E'’UN DIO BUONO E GIUSTO, COME QUELLO CHE AVETE VOI.
QUI CI SONO VERDI PRATI, FRESCHI RUSCELLI PER DISSETARSI, LA NOTTE NON
VIENE MAI. IL NOSTRO DIO E’ BUONO E GIUSTO, PER QUESTO POSSO SCRIVERE.
NON SOLO : UMILMENTE, GLI HO CHIESTO SE AVREI POTUTO, NON VISTO,
SCENDERE DI NUOVO SULLA TERRA, PER STARE VICINO ALLA PERSONA CHE HO
AMATO TANTO. COME LEI HA AMATO ME. E LUI ME LO HA PERMESSO. ORA SONO
VICINO A LEI, ACCOVACCIATO AI SUOI PIEDI, MA PURTROPPO NON PUO’ VEDERMI.
PERO’, IN CERTI MOMENTI, HO LA SENSAZIONE DI SENTIRE LE SUE MANI SULLA
MIA TESTA, LA SUA VOCE CHE MI CHIAMA. NO, QUESTA NON E’ UN’ ILLUSIONE, MI
STA CHIAMANDO PER DAVVERO. LA VEDO, E’ LI’ ALLA SCRIVANIA E STA PIANGENDO,
CON UNA FOTO IN MANO DOVE SIAMO INSIEME SOTTO L’ ALBERO PIU’ ALTO DEL
GIARDINO. IN QUESTA FOTO, LEI SORRIDE FELICE ED IO HO IL CAPO APPOGGIATO
SULLE SUE GINOCCHIA. COM’E’ BELLA QUANDO SORRIDE ! ANCOR PIU ‘ DEL SOLITO,
PERCHE’ LEI E’ DAVVERO BELLA. MA ORA I SUOI OCCHI SONO TRISTI, SPENTI, DA
QUANDO ME NE SONO ANDATO OGNI GIORNO MI CHIAMA E PIANGE, PIANGE FORTE,
URLA IL MIO NOME. ED IO SONO LI’ VICINO A LEI. MA NON PUO’ VEDERMI, SE NON
NEI SUOI SOGNI. ED ALLORA, QUANDO SULLA TERRA IL SOLE SE NE SCENDE E
SPUNTANO LE PRIME TIMIDE STELLE, PIANO PIANO IO ENTRO NEI SUOI SOGNI, E
SIAMO DI NUOVO FELICI INSIEME. MA ALL’ ALBA, IL SOGNO SPARISCE E TUTTI E
DUE, RIMANIAMO CON UN FORTE DOLORE NEL CUORE. LA VEDO PIANGERE, E NON
POSSO FARE NULLA, NULLA. SOLO GUARDARLA E SEGUIRLA IN TUTTI I SUOI PASSI.
MA VOGLIO COMINCIARE DALL’ INIZIO. QUANDO LEI VENNE A PRENDERMI, IO ERO
IN UNA BELLA GABBIA CON I MIEI DUE FRATELLINI. ERAVAMO MOLTO PICCOLI. LEI,
CON IL VISO LUMINOSO PER LA GIOIA, SI E’ AVVICINATA E CI GUARDAVA. IO
PENSAVO : “ O GRANDE DIO MATHAN, FA CHE SCELGA ME, TI PREGO “. E COSI’ FU. MI
GUARDO’ FISSO NEGLI OCCHI, IO GUARDAI LEI DENTRO I SUOI OCCHI VERDI E
CAPII, CON IL CUORE CHE MI BATTEVA FORTE PER LA FELICITA',’CHE NON CI
SAREMMO LASCIATI MAI PIU'.’E COSI' E’ STATO. MI PRESE IN BRACCIO E MI BACIO’.
POI MI PORTO IN MACCHINA E COMINCIAMMO IL LUNGO CAMMINO VERSO CASA. LA
NOSTRA CASA. ERO PICCOLO, E UN POCHINO PASTICCIONE. MA LEI NON SI
ARRABIAVA MAI, RIMETTEVA IN ORDINE IN SILENZIO E MI ABBRACCIAVA. COSI’
PER QUALCHE MESE. POI CREBBI, E NON LE DIEDI PIU’ QUESTI PROBLEMI.
MA VEDEVO CHE PER LEI NON ERA UN PESO, PERCHE’ L’ AMORE CHE MI DAVA ERA
COSI’ GRANDE CHE NEMMENO TUTTI GLI ANGELI DEL CIELO POTREBBERO
IMMAGINARE. DIVENTAMMO INSEPARABILI. QUANDO LEI ERA TRISTE, IO CORREVO
A METTERE IL MIO TESTONE SULLE SUE GINOCCHIA PER DIRLE :” CI SONO QUA IO,
PERCHE’ PIANGI, DUNQUE ? NON SAI CHE TI PROTEGGERO’ SEMPRE, A COSTO DELLA
VITA ? “ E LEI CAPIVA, E MI STRINGEVA A SE’ ANCORA PIU’ FORTE, LASCIANDOSI
ANDARE AD UN FORTE PIANTO LIBERATORIO, E MI ABBRACCIAVA, MI COCCOLAVA,
120
PERCHE’ CAPIVA IL MIO GRANDE AMORE. E LEI AMAVA ME IN MODO
INDESCRIVIBILE, MI METTEVA PRIMA DI OGNI ALTRA COSA. ERO PER LEI L’ UNICO
AMICO E COMPAGNO DI VITA, E MI AMVA PROFONDAMENTE, COME UNA MADRE AMA
IL PROPRIO FIGLIO. MI HA CURATO, MI HA MEDICATO, MI HA VEGLIATO QUANDO
ERO MALTO. E POI, INSIEME, SI ANDAVA A CORRERE LIBERI NEI BOSCHI, NEI PRATI,
UNO VICINO ALL’ ALTRA, SEMPRE, ED ERAVAMO FELICI, CI SCAMBIAVAMO SGUARDI
D’ INTESA ED IO VEDEVO IL SUO VOLTO PROVATO DA UNA VITA DIFFICILE E PIENA
DI DOLORE, ILLUMINARSI DI GIOIA. QUANTO L’ HO AMATA ! E SONO STATO
RICAMBIATO CON IL PIU’ TENERO DEGLI AFFETTI. MI PORTAVA A NUOTARE, PERCHE’
SAPEVA CHE AMAVO L’ ACQUA, GIOCAVAMO CON LA PALLA E LEI RIDEVA COME UNA
BAMBINA, CHE DOLCE RICORDO….MI DAVA CIBO BUONO E AVEVO SEMPRE ACQUA
FRESCA. QUANTO TUONAVA, IO TREMAVO DALLA PAURA E GRATTAVO AL PORTONE
DI CASA. E LEI MI APRIVA, ANCHE SE ERO TUTTO SPORCO E BAGNATO. MI METTEVO
SDRAIATO AI SUOI PIEDI, E NON AVEVO PIU’ PAURA. IN CASA C’ ERANO ANCHE DUE
ALTRE BESTIOLINE, MOLTO PIU’ PICCOLE DI ME, CHE GLI UOMINI CHIAMANO “
GATTI “. IMPARAI SUBITO A GIOCARE CON LORO E SPESSO, LI LASCIAVO DORMIRE
SULLA MIA SCHIENA. MI FACEVANO COMPAGNIA, E NON ERO AFFATTO GELOSO,
PERCHE’ ANCHE LORO MI VOLEVANO BENE. ERAVAMO UNA BELLA COMPAGNIA,
DAVVERO. MA LA MIA AMICA E’ MOLTO MALATA E SPESSO SI ASSENTAVA PER
LUNGHI GIORNI E ANDAVA A CURARSI. PORTAVA SEMPRE CON SE’, LA MIA
FOTOGRAFIA. ED IO, PAZIENTE, L’ ASPETTAVO PER LUNGHI GIORNI E LUNGHE NOTTI
DAVANTI AL SUO PORTONE. SAPEVO CHE NON MI ABBANDONAVA, MA SOFFRIVO
PERCHE’ LA VEDEVO STAR MALE. E LEI SOFFRIVA PERCHE’ DOVEVA LASCIARMI. MA
QUANDO TORNAVA, SI FACEVA FESTA GRANDE, AH, CHE GIOIA ! NON ERO TANTO
CONTENTO QUANDO MI PORTAVA DA UN UOMO CON IL CAMICE BIANCO, PERCHE’ A
VOLTE MI FACEVA UN PO’ MALE. MA LEI ERA LI’ VICINO CON LA SUA MANO SULLA
MIA TESTA ED IO MI TRANQUILLIZZAVO. CON IL PASSARE DEGLI ANNI, IMPARAI A
NON AVERE PIU’ PAURA DELL’ UOMO VESTITO DI BIANCO, PERCHE’ AVEVO CAPITO
CHE ANCHE LUI MI VOLEVA BENE. E IL TEMPO PASSAVA, ED IO ERO FELICE. AVEVO
LEI ED IL SUO AMORE, COSA POTEVO PRETENDERE DI PIU’ DALLA VITA ? NULLA.
INTANTO IL TEMPO PASSAVA ED IL NOSTRO AMORE AUMENTAVA SEMPRE PIU’. PER
ME, LEI ERA LA COSA PIU’ BELLA MAI VISTA PRIMA, LA LUCE DEI MIEI OCCHI E
QUANDO LA NOTTE, VEGLIANDO SU DI LEI SDRAIATO NELL’ ERBA FRESCA DEL
PARCO , ALZAVO IL USO VERSO IL CIELO E GUARDAVO LE STELLE. MA NESSUNA
AVEVA IL SUO SPLENDORE. A VOLTE MI IMMALINCONIVO , PERCHE’ SAPEVO CHE
PRIMA O POI AVREI DOVUTO LASCIARLA. E PREGAVO IL DIO MATHAN CHE NON
FOSSE LEI A LASCIARE ME. MI ACCONTENTO’.
LA NOTTE DI QUESTO ULTIMO CAPODANNO COMINCIAI A SENTIRE FORTI DOLORI
E CAMMINAVO MALE. LEI MI PORTO’ SUBITO DALL’ UOMO VESTITO DI BIANCO CHE
MI TROVO’ UN PO’ MALANDATO. ALLORA, LEI OGNI GIORNO MI DAVA DELLE PICCOLE
COSE BIANCHE, CHE IO DOVEVO INGOIARE. MA NON MIGLIORAVO. ALLORA L’ UOMO
VESTITO DI BIANCO VENNE QUI PER CURARMI MEGLIO, E VENNE TANTE VOLTE. MA
IO PEGGIORAVO, ORMAI NON CAMMINAVO NEMMENO PIU’. CAPII ALLORA, CON UNA
GRANDE FITTA NEL CUORE CHE IL DIO MATHAN MI CHIAMAVA E CHE AVREI DOVUTO
LASCIARLA. LEI MI PORTO IN SALA, SI TRASFERI’ A DORMIRE SUL DIVANO PER
STARMI SEMPRE VICINO. MI DAVA L’ ACQUA CON LE MANI, PERCHE’ NON POTEVO
121
PIU’ ALZARE LA TESTA, MI ABBRACCIAVA STRETTO STRETTO. POI SI SDRAIAVA SUL
DIVANO, MA IO SAPEVO CHE NON DORMIVA, SI ASSOPIVA OGNI TANTO E BASTA,
PERCHE’ AVEVA PAURA CHE IO AVESSI SETE. SI ALZAVA DAL DIVANO OGNI
MOMENTO PER DISSETARMI. I SUOI OCCHI ERANO STANCHI, IL SUO VISO PALLIDO
PER LA STANCHEZZA. ERA STREMATA. MA NON MI LASCIAVA UN MOMENTO.
UNA NOTTE, NEL MOMENTO IN CUI COMINCIAVA AD ALBEGGIARE, UNA NOTTE D’
INVERNO, IO CAPII CHE IL MIO CUORE AVREBBE BATTUTO I SUOI COLPI ANCORA
PER POCO. LO CAPI’ ANCHE LEI E VEDEVO GROSSE LACRIME SILENZIOSE SCENDERE
DAI SUOI OCCHI STANCHI. CI GUARDAMMO A LUNGO, UN TEMPO INTERMINABILE, E
VEDEVO NEI SUOI OCCHI LA PAURA, L’ AMORE INFINITO, IL TERRORE, L’ ANSIA, IL
DOLORE, L’ IMPOTENZA. PIANGEVA, PIANGEVA E INVOCAVA IL MIO NOME E QUELLO
DEL SUO DIO, MA A NULLA SERVI’. UN ULTIMO SGUARDO, ED IO CHIUSI GLI OCCHI
PER SEMPRE. VOLAI SU, SU, SU IN ALTO NEL CIELO STELLATO FINCHE’ VIDI UNA
LUCE, E SENTII UNA VOCE DOLCE CHE MI CHIAMAVA. PENSAI :” FORSE STO
SOGNANDO, DOMANI MI SVEGLIO E SCOPRO CHE E’ STATO SOLO UN INCUBO “. CAPII
CHE NON ERA COSI’. ALLORA SEGUII LA VOCE ED ALL’ IMPROVVISO, MI TROVAI IN
UN MAGNIFICO GIARDINO PIENO DI ALBERI E FIORI COLORATI. VIDI ATTORNO A
ME CENTINAIA E CENTINAIA DI MIEI SIMILI E VIDI CHE TUTTI SALTELLAVANO
FELICI. CAPII DI ESSERE ARRIVATO IN PARADISO. E IMPROVVISAMENTE IL MIO
CUORE SI RIEMPI’ DI FELICITA’. SAPEVO CHE DOVEVO SOLO ASPETTARE, E QUANDO
ANCHE LEI, LA GIOIA DEL MIO CUORE, SAREBBE STATA CHIAMATA, CI SAREMMO
RIUNITI IN ETERNO E NESSUNO CI AVREBBE POTUTO PIU’ SEPARARE. ALLORA
COMINCIAI A CORRERE ANCH’ IO NEI PRATI FIORITI E PROFUMATI, INSIEME AI
MIEI AMICI, PERCHE’ AVEVO LA CERTEZZA CHE POI SAREMO SATI SEMPRE INSIEME,
LEI ED IO, LIBERI PER SEMPRE. ED IL DIO MATHAN, CHE E’ GRANDE E
MISERICORDIOSO, MI FECE IL GARNDE DONO : QUELLO DI FAR SCENDERE SULLA
TERRA IL MIO SPIRITO. ED ORA IO SONO QUA, VICINO A LEI, ANCHE SE NON PUO’
VEDERMI. E LA VEDO QUASI FELICE : FORSE ANCHE LEI HA FINALMENTE CAPITO CHE
CI RITROVEREMO, UN GIORNO, A CORRERE INSIEME NEI PRATI DEL PONTE
ARCOBALENO, PERCHE’ ANCHE IL SUO DIO E’ GRANDE E MISERICORDIOSO, NON CI
SEPARERA’ MAI. A VOLTE HO LA SENSAZIONE CHE LEI SENTA LA MIA PRESENZA : SI
FERMA, POI SI ALZA E VA ALLA FINESTRA . SI GUARDA IN GIRO COME SE CERCASSE
QUALCOSA O QUALCUNO ED I SUOI OCCHI SI ACCENDONO PER UN ATTIMO. SI’,
SONO SICURO CHE AVVERTE LA MIA PRESENZA. SOPRATTUTTO NEL BUIO DELLA
NOTTE. PERCHE’ LEI MI PARLA, LA SENTO. E LA SENTO ANCHE PREGARE IL SUO DIO
PER ORE E ORE, CHIEDENDOGLI LA GRAZIA DI FARCI VIVERE INSIEME, IO, LEI, ED I
SUOI CARI ANDATI IN PARADISO NEI TEMPI PASSATI. ED IL SUO DIO ESAUDIRA’ IL
SUO DESIDERIO, PERCHE’ LEI LO PREGA ALL’ INFINITO, E PERCHE’ IL SUO DIO E’
GRANDE E MISERICORDIOSO. ORA LA STO GUARDANDO : I SUOI OCCHI SONO PERSI
NEL VUOTO, SI STA ACCENDENDO UNA SIGARETTA E LA VEDO PENSIEROSA
GUARDARE FUORI DALLA FINESTRA.
E AD UN TRATTO, SORRIDE ! SI’, PERCHE’ I NOSTRI OCCHI SI SONO INCROCIATI
ANCORA UNA VOLTA PER UN PICCOLISSIMO ISTANTE E LEI ALLORA HA CAPITO, HA
CAPITO ! ADESSO NON MI RESTA CHE ASPETTARLA. E PER IL RESTO DELLA SUA VITA
SERENA, IO VEGLIERO’ SEMPRE SU DI LEI, PERCHE’ NESSUNO POSSA FARLE DEL
MALE. LE STARO’ VICINO SEMPRE, FINO A QUANDO POTREMMO CORRERE LIBERI,
122
ALLEGRI, GIOIOSI NEI GRANDI PASCOLI DEI CIELI. PAOLA, DOLCE COMPAGNA DELLA
MIA VITA, IO SONO QUI CON TE ED ANCHE SE NON PUOI SENTIRMI, VOGLIO
DIRTELO LO STESSO :” SEI STATA TUTTA LA MIA VITA, TI HO AMATO QUANTO TU
HAI AMATO ME, SEI LA MIA STELLA POLARE, IL MIO UNICO GRANDE AMORE. DORMI
SERENA, DOLCE AMICA, IO SONO QUI VICINO A TE. CON TUTTO IL MIO AMORE.
ARRIVEDERCI LASSU’. IL TUO FEDELE COMPAGNO, ULISSE.”
(Paola Fabiani)
123
Un racconto al giorno. Giorno 7
... domenica, giorno di angeli...
Il silenzio della grande cucina è rotto solo dalle ritmiche e misteriose vibrazioni del
frigorifero russo. È incredibile la quantità di rumori e scricchiolii che questi elettrodomestici
riescono a produrre quando sono sicuri di essere lontani da occhi indiscreti. L’alba comincia a
farsi strada tra le tende bianche e il turbinio della neve, fuori dalla finestra. Con calma inizia
a dare forma e colore all’ambiente, si riflette un po’ stancamente sull’orologio appeso al muro a
forma di due cuori trafitti, rimbalza sul lavandino con i piatti sporchi della sera prima, scivola
sullo strofinaccio e cerca di sbirciare negli scaffali tra i barattoli di caffè e di latte
condensato. Poi, come un gatto in cerca di preda, volge la sua attenzione al tavolo di formica,
salta sulle sedie spaiate che lo circondano disordinatamente e gioca con le briciole di pane ed
il portacenere pieno di mozziconi. Una mosca, unica sopravvissuta all’estate, si muove sul piano
alla ricerca di un granello di zucchero; ogni tanto si ripulisce le ali con le zampine posteriori e
si ferma guardinga in ascolto dei rumori della casa, ha imparato a convivere con i suoi abitanti
applicando rigorosamente la regola del . Una porta, in fondo al corridoio si apre cigolando, è il
segnale per la sua ritirata discreta fra le pieghe della tendina. Si sentono passi attutiti
accompagnati da un lamentoso sbadigliare; nella cucina entra una ragazza, gli occhi ancora
chiusi per il sonno, i capelli sulla faccia e le mani protese in avanti come un cieco che cerca di
evitare gli ostacoli improvvisi. Si ferma al centro della stanza. Con un sforzo apre un occhio,
poi l’altro e si guarda intorno.
Anche oggi è riuscita a farcela!
L’aria è quella di chi si sta chiedendo "dove sono? Come sono capitata qui? Forse torno a
letto!". Va verso lo scaffale e prende il barattolo del caffè, lo guarda per qualche minuto nel
tentativo di metterlo a fuoco, infine lo poggia sul tavolo. Prende il bollitore, lo riempie d’acqua
e dopo alcuni tentativi e molte parolacce borbottate a mezza voce riesce ad accendere il
fornello. Finite queste operazioni si siede vicino al tavolo, prostrata dallo sforzo; il suo
sguardo è fisso nel vuoto e il suo cervello comincia lentamente ad analizzare la situazione. Ha i
capelli castani, la pelle chiara e gli occhi scuri sono tondi e grandi, il naso è sottile e dritto le
labbra carnose. La bocca, quando sorride, si piega leggermente verso il basso dandole
quell’aria di distacco enigmatico che ha ispirato molte delle figure femminili di Botticelli.
Varia, Varicka, Variuscia, neanche lei sa perché il suo nome le rigira per la testa come un
ritornello.
Varia, Varicka, Variuscia, Barbara! È così che la chiama il suo vecchio amico italiano. Ha un
suono strano dolce e aspro. Barbara, priva di civiltà, ribelle, guerriera, fedele, coraggiosa.
Sola! Sente una leggera fitta al pensiero dei suoi cari sempre lontani, sempre desiderati. La
madre che insegue sogni e lotta per realizzarli e la sorella persa nella sua casa lunare. Sente
la mancanza di un punto fermo nella sua vita. Una pausa tra dolore e dolore, tra paura e paura.
Da sempre le sembra che i momenti di felicità siano piccole isole strappate con la forza ad un
mare di preoccupazioni e di ansie. Eppure, anche se piccole, esse sono così intense da riuscire
a cancellare tutto il resto. Intuisce, più che sentire, la porta di una delle tre stanze che si
apre, senza neanche voltarsi saluta la ragazza che viene a sedersi vicino a lei - Ciao Katia dice con voce un po’ nasale - Katia sembra riflettere su quale sia la risposta più adatta e poi
dice - Ciao - si passa un mano tra i capelli e guarda il paesaggio nevoso e i palazzi di fronte -
124
Dio che schifo di giornata! - sussurra - e siamo appena all’inizio della settimana - conclude in
un lamento. Il suo volto minuto e gentile ha un ovale accentuato dagli zigomi alti, la bocca
mobile ed espressiva riesce, nelle risate, ad illuminare tutta la faccia. La massa di riccioli
rossi e l’incarnato roseo la fanno sembrare un angelo uscito da un affresco di Melozzo da
Forlì. Non è piccola ma la sua statura è come compressa in una costante incertezza della vita.
Una sorta di peso continuo sulle sue spalle che lei cerca di contrastare con una lotta caparbia
e senza sosta. Pronta anche ad infiggersi la tortura di un reggi schiena ortopedico, quasi una
specie di cilicio, pur di riuscirci. Katia è quel tipo di persona che guardandosi allo specchio non
pensa - sono bella o sono brutta? - ma - piaccio o non piaccio? -.
Una frase di gratificazione o un sorriso di incoraggiamento hanno, per lei, più valore di una
collana di perle.
Il suono del vapore che esce dal bollitore le aiuta a scivolare via dal torpore, Barbara prepara
il suo adorato caffè e Katia un te; il rumore delle tazze e dei cucchiaini sembra il segnale per
la terza ragazza che entra nella cucina con aria imbronciata. Alta e statuaria, anche lei di
nome Katia, è la più slava delle tre; la sua pelle chiarissima e i suoi occhi leggermente allungati
la fanno somigliare ad una madonna di un’icona della scuola di Pskov. È, forse, anche la più
donna, ma proprio per questo la più debole e la più esposta. La rigidità a cui si è auto educata
traspare nei movimenti, nel passo e nel modo in cui muove la testa per osservare le persone
con cui sta parlando, senza mai spostare il busto. Sente il bisogno di affidare la sua vita a
schemi ben definiti, limitando le emozioni al minimo; mette tra sé ed il mondo circostante un
muro fatto di educazione formale e di tecnica. Solo il movimento delle mani e certi piccoli
lampi negli occhi fanno emergere la sua passionalità che lei sente come un peccato grave. Un
labirinto nero da cui non saprebbe più come uscire. Si prepara una tazza di te e va ad aprire il
frigorifero, guarda dentro e poi ritira la testa di scatto come se avesse visto un cobra.
Maledizione di nuovo!- esclama con voce profonda - L’ha fatto di nuovo - ripete sbattendo
violentemente lo sportello del povero elettrodomestico che per tutta risposta comincia a
ronzare freneticamente. Con una falcata raggiunge lo scaffale e afferra un barattolo di latte
condensato che poggia, anzi sbatte, con violenza sul piano del tavolo. - Ieri sera ne avevo
aperto uno e mi ero presa solo un paio di cucchiaiate, così! Per addolcirmi la serata - dice
indicando col lungo dito indice il barattolo bianco e azzurro - E adesso non c’è più. Il signorino
deve avere avuto il suo solito appetito notturno e, naturalmente, si è guardato bene dal
prendere il suo, si è fatto il mio, si è fatto! - mentre parla aggredisce, con un coltello, il
coperchio della scatola cercando di fare il maggiore rumore possibile. Quasi in risposta, giunge
dal bagno lo scroscio dello sciacquone; la porta viene aperta con violenza ed entra in cucina il
quarto ed ultimo abitante dell’appartamento. Costantino entra nella stanza con passo leggero e
aggraziato, indossa una maglietta rossa ed un paio di mutande, dopo essersi preparato una
tazza di te afferra anche lui un barattolo di latte e si siede al tavolo con la schiena appoggiata
al muro. Costia ti sei mangiato il mio latte! - esclama Katia cercando di dare alla voce il
massimo dell’indignazione possibile. Il giovane la guarda e sorridendo le risponde - Si! Avevo
fame e quello era già aperto e pronto. Non mi andava uno intero! - non c’è malizia nella sua
risposta né cattiveria, come non c’è cattiveria nel bambino che da fuoco alla lucertola per
osservarne i contorcimenti. C’è solo fredda constatazione dei fatti, nessun ripensamento e
nessun senso di colpa. È così e basta! Costantino non è alto, ma la fluidità dei suoi movimenti
fa passare quasi inosservata la sua statura; la faccia con un ovale allungato, gli occhi ed la
bocca atteggiati ad un perenne risolino lo fanno sembrare un fauno. Un perfetto Papagheno
uscito dal Flauto magico di Mozart. Per lui la vita non è un percorso rettilineo, ma una serie di
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curve sinuose fatte attorno a tutto ciò che può essergli di ostacolo. I sentimenti, l’amicizia, il
potere e l’autorità, la violenza ed la debolezza, sono montagne gigantesche e nere che il
ragazzo cerca di evitare insinuandosi tra gole e stretti passaggi alla ricerca ossessiva di una
luce. Di un rifugio che lo tenga lontano da qualche mostro di cui solo lui è a conoscenza. Katia
si immerge con stizza nella sua colazione e dopo aver finito è la prima ad alzarsi per andare a
chiudersi in bagno.
Ad uno, ad uno i quattro ragazzi si preparano, berretti di lana, sciarpe, scarpe pesanti e
guanti. Arrivati nell’atrio del palazzo, Costantino si volta e corre di nuovo verso l’ascensore
gridando - Aspettate un attimo mi sono dimenticato di lavare i denti e ho lasciato le sigarette
in cucina - Certo Cossia, certo - gli rispondono le amiche in coro, ormai abituate a questo
quotidiano rito del “qualcosa” scordato all’ultimo minuto. La neve cade lentamente, rigirando su
se stessa. I fiocchi roteano, scendono e risalgono mossi da una sottile corrente, ondeggiano a
destra e sinistra intessendo una musica silenziosa, privi di peso e di coscienza, felici di
esistere per una breve frazione di vita. Poi stanchi vanno a morire sulle piccole colline gelate
ai bordi della strada. Quattro figurette scure nel paesaggio bianchissimo, tre prese a
braccetto ed una che corre dietro, quattro bamboline ritagliate nel cartoncino nero che
corrono, ondeggiano e pulsano come i fiocchi di neve. Sull’orizzonte le sconfinate foreste della
Karelia.
E uno e due e tre - la voce bassa, quasi stanca dell’anziano maestro che cura il training del
piccolo corpo di ballo del teatro di Petrozavodsk nuota nella grande sala prove illuminata da
una lunga finestra ad arco. La musica, suonata al pianoforte da una anziana signora che sembra
uscita da un vecchio album di foto in bianco e nero, quando le signorine di buona famiglia
affidavano alla tastiera i loro sogni e i loro desideri di fughe romantiche, scandisce i
movimenti dei ballerini. Ogni mattina nella sala i ragazzi arrivano alla spicciolata, ogni giorno
l’arrivo è segnato dagli stessi scherzi e dallo stesso ritmo. Prima i nuovi acquisti, quelli freschi
d’accademia, poi gli anziani ed infine i solisti. Scalda muscoli rosa shocking o azzurro elettrico,
tute ginniche di varie fatture, vecchi maglioni con più buchi e toppe che lana, calzamaglie
attillate e top sgargianti, scarpe ballerine, scarpette col tacco basso o piedi nudi protetti da
ghette di lana. Risate e rincorrersi, musi lunghi e facce allegre, parole sussurrate e qualche
grido. Una piccola banda di gitani che hanno scavato le fondamenta sotto i loro carri,
immobilizzandoli per sempre. Qualche bambino di tre o quattro anni corre sul pavimento di
linoleum e gioca con gli attrezzi per le prove, accentuando quest’immagine di tribù. L’arrivo del
maestro Eugenio Michailovic, Michaluic da sempre per i ballerini, è quasi preceduto dalla sua
voce calma e sussurrata - Signori cerchiamo di dare un senso alla giornata - Nei suoi occhi si
riflettono i volti di tanti altri giovani ballerini che sono arrivati lì. Che sono arrivati pieni di
speranza e di voglia di sognare. Per tanti la speranza è diventata un’abitudine, per qualcuno
una certezza, per qualcun altro ancora il nulla della sconfitta. E uno e due e tre.
I ragazzi con movimenti quasi impercettibili prendo posto lungo le sbarre. La distanza tra l’uno
e l’altro è perfetta. Le espressioni dei volti cambiano. Concentrati, attenti e tesi. Ogni tanto
controllano la posizione sui grandi specchi che circondano la sala.
E uno e due e tre
Gli esercizi si susseguono sempre più incalzanti e complessi. L’insegnate mostra la sequenza
dei passi e gli allievi eseguono rapidamente tutti assieme o a piccoli gruppi o, ancora,
singolarmente. Il sudore comincia a scorrere sulle facce ed i corpi. Le pause sono brevissime
tra un esercizio e l’altro, piccoli asciugamani vengono usati sempre più spesso mentre parti di
abbigliamento cominciano a cadere per terra o si poggiano sulle sbarre come foglie in autunno.
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E uno e due e tre.
Katia, slanciata nel controluce della finestra, si piega a libretto sulla sua gamba poggiata sulla
sbarra, la sua mente comincia a contrastare la stanchezza allontanandosi dalla sala. Rivive
brani di ricordi come sensazioni epidermiche, caldo, freddo, caldo; rincorre l’amore in un
pomeriggio d’estate e il desiderio di libertà future e lontane. La voce del coreografo si
confonde con la voce della madre che parla dei buoni comportamenti delle ragazze per bene,
ma è il volto del padre che le appare sovrapposto ai volti degli uomini che la guardano con
ammirazione per strada e nei locali. Le spalle si drizzano, la testa è leggermente buttata
all’indietro; solo giorni a venire, solo luce, esistere, ma come? Quale è il buon comportamento?
Lontano! Devo guardare lontano. Muove il lungo braccio in un lento semicerchio, è un’ala? Si! La
sua ala che sbatte contro le sbarre di una gabbia. Katia danza per imparare ad aprire la gabbia
E uno e due e tre.
Barbara si bilancia sulla punta del piede mentre si piega in avanti col braccio e la testa, l’altra
gamba è tesa indietro. Sente la sua debolezza nel mondo, percepisce la sua fragilità e capisce
che la sua unica arma è imparare. Capire, ascoltare, vedere. Imparare da chi sa e da chi
sbaglia. Osservare senza mai darsi tregua e non permettere mai alle lacrime del dolore e delle
umiliazioni di offuscarle la vista. La musica, la danza e poi? Il canto e la voce. Recitare per
trasmettere a tutti, il mondo che le esplode dentro, per abbracciare il mondo. Per parlare
all’uomo schiacciato dalle preoccupazioni, alla vecchia all’angolo della strada, agli innamorati e
a chi l’amore non l’ha mai conosciuto, al bambino che ha paura del buio e a chi vive nel buio.
Sogna un immenso palcoscenico sotto le stelle, miliardi di stelle in una notte di luce. Barbara
danza per quella luce.
E uno e due e tre
Adesso è Ludmila Alexsandrovna che guida le prove; Luissia sta provando i passi per lo
spettacolo della sera “Giselle”di cui cura la coreografia. Buona ed amata dai ragazzi, col suo
caschetto di capelli neri sembra una piccola porcellana, anche la voce è sottile e delicata come
porcellana.
E uno e due e tre
Costantino si avvita su se stesso riprovando per la terza volta la piroetta. Detesta
l’imperfezione, la trova un errore di natura, qualcosa di abominevole da nascondere o, meglio
da eliminare. Vive nel terrore che la gente scopra in lui una deficienza, una tara che lo possa
mettere al bando da quel mondo di successo, danaro e sicurezza cui aspira. Cerca di
allontanare dalla sua esistenza tutto ciò che, in qualche modo, gli ricorda la miseria, la
malattia, un difetto fisico, la morte; si chiude nel suo cinismo per nascondere la sua paura e
calcola le sue mosse così come controlla allo specchio i suoi passi di danza. Il suo bisogno di
riuscire ad affermarsi è il suo desiderio di fuggire. La sua voglia di fuggire è il suo bisogno di
ballare.
E uno e due e tre
Sulla porta della sala appare la prima coreografa del teatro, la signora Tolskaija, lei non ha
nomignoli e diminutivi, lei è solo la Signora Tolskaija. La padrona assoluta della vita artistica e
dell’avvenire dei ballerini. Ogni più piccolo atteggiamento rilassato scompare, anche la
stanchezza va via di colpo; solo movimenti precisi e perfetti come un metronomo.
E uno e due e tre
Con un rapido movimento Katia allontana un ricciolo che gli cade sull’occhio. Prova, in disparte,
un passo che non è riuscita a fare in modo corretto assieme agli altri suoi colleghi; lo prova
con la diligenza di una bambina che inciampa sempre sulla stessa strofa di una poesia. Lo prova
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perché lo vuole fare e perché la danza è tutto ciò che ha. È qualcosa di completo in una vita
che le ha rubato la completezza. Katia combatte il gelo di una famiglia inesistente col
desiderio di sorprendersi sempre del mondo. Di accettarlo e gioirne giorno per giorno. Katia
ama tutto ciò che si può amare: i fiori che sbocciano, le grida dei bambini, il sogno di avere
tanti amici, le corse sull’erba, il sole sulla faccia ed il vento tra i capelli. Katia prova ancora il
passo, non perché vuole essere la migliore, ma perché vuole che nessuno le possa strappare la
sua danza.
Chi aveva arredato il bar doveva essersi ispirato ad una sala operatoria, acciaio e luci
azzurrine con qualche festone di fiori e foglie di plastica per aggiungere un tocco da obitorio.
I quattro ragazzi, troppo stanchi per ritornare a casa, aspettano l’ora dello spettacolo
sorseggiando lentamente un succo di frutta. La musica che esce dalle casse, poste vicino al
bancone del bar, è ad un volume altissimo e non facilita la discussione. Per un po’ hanno parlato
dei problemi di convivenza, ma alla fine la conversazione è morta di morte naturale.
Il tavolo è pieno di briciole, di tovagliolini unti e di bicchieri dei clienti che li hanno preceduti.
A poca distanza da loro due uomini, che si atteggiano a pericolosi mafiosi, sono immersi in un
fitto dialogo; dall’angolo opposto arrivano scoppi di risa di un gruppo di nuovi ricchi. Uomini e
donne vestiti in modo appariscente con abiti più o meno firmati, uno indossa un paio di occhiali
scuri su cui ha lasciato incollato il bollino con la griffe. Barbara sente una canzone che ama e
comincia a cantarla quasi distrattamente, dopo una strofa Costantino si unisce a lei, e alla fine
con sincronia anche le due Katie iniziano a cantare. Restano lì a quel tavolo sporco,
indifferenti al chiasso e cantano assieme lasciando scivolare nelle parole lo loro stanchezza.
Sono sul largo viale che porta al teatro, quando ad un certo punto Barbara si ferma di colpo ed
esclama - Ragazzi! Ma io lavoro in un teatro! - gli altri la guardano senza capire - Varia - le
dice Costantino - è da diversi mesi, ormai, che lavori in un teatro - Si Cossia! Lo so che ci
lavoro da sei mesi. È vero! Ma solo adesso ci ho pensato con attenzione. Io lavoro in un teatro!
È splendido non è vero? - La morbida matrona accompagna gli spettatori ai posti assegnati, con
aria tra il severo e l’affettuoso. Accoglie, da padrona di casa, queste donne fiere dei loro abiti
cuciti sui modelli all’ultima moda rubati ad una rivista di due anni fa. Oppure portati in regalo
dal marito o dal figlio tornati da un viaggio in Finlandia o in Germania carichi di buste, scatole,
borse e pacchi le cui forme sembrano ispirate a Guernica di Picasso. Sente su di se il grave
compito di accompagnare quelle donne troppo truccate e quegli uomini coraggiosamente
strizzati nei loro abiti da cerimonia, introducendoli in un mondo perennemente bilanciato tre il
reale e il fantastico, dove l’amore vibra sulle corde del violino e l’odio, la paura e la morte
avanzano sulla pelle tesa dei timpani. È grata a questi spettatori dalle guance rosse per il
freddo e il troppo fondo tinta; perché, con i loro golfini di strass acquistati a San. Pietroburgo
e le loro cravatte ultimo grido di Mosca, fanno vivere, ogni sera, un sogno di bellezza e di
commozione. È grata perché, con la loro presenza, chiudono le crepe del vecchio intonaco e
rendono splendenti i cristalli dei lampadari.
Ridanno sofficità e colore al velluto liso delle poltrone.
Riempiono l’atrio, il ridotto, la platea, le scalinate di una calda ed intensa fantasia che rotola
felice sopra gli orchestrali facendo scintillare le note dei loro strumenti e che, giocando, va a
premere impaziente sul sipario chiuso. Le ultime poltrone del piccolo teatro si stanno
riempiendo, mentre le luci si abbassano ad intervalli dando il segnale di inizio.
Dietro le quinte i quattro ragazzi sentono l’ansimo trattenuto del pubblico che gonfia i pesanti
tendaggi. Piano, piano, lentamente cominciano ad abbandonare il mondo che li circonda: i rotoli
di corda accatastati, l’elettricista che controlla le luci, la coreografa che da gli ultimi consigli,
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la costumista e la sarta che fanno i ritocchi finali ai vecchi costumi.
La polvere di anni e il fumo di sigarette fumate in fretta.
Le luci si spengono dopo l’ultimo singhiozzo, la sala diventa il ventre di un fantastico levitano
pronto ad abbandonare il mondo dei problemi, delle ansie e delle miserie.
Dal nulla inizia l’Ouverture. Una mano invisibile ha aperto il coperchio del carillon e le note
corrono libere, piene di una gioia da troppo tempo repressa e contenuta nella sala delle prove.
La musica si allarga, poi, quasi intimidita, sbircia nel buio con occhi di diamante, si riavvolge in
se stessa e balza in avanti; raggiunge la cupola del soffitto e ricade sul pubblico ricoprendolo,
assorbendolo, riplasmandolo in nuova forma e nuova entità.
Le mani dei ballerini si cercano e si stringono, si fondono nel sudore della paura. I cuori
battono allo stesso ritmo ed i quattro respiri diventano un solo.
Il sipario si apre con un sottile rumore di foglie secche mosse dal vento.
La musica cala di intensità mentre le luci dei riflettori regalano realtà alla scenografia di
legno e stoffa. Le finestre diventano scrigni di vita, i boccali dell’osteria si riempiono di vino
profumato e l’erba e i fiori iniziano a crescere.
I quattro cuori non battono più.
Nelle orecchie c’è il rombo del vento.
I nervi si irrigidiscono.
La musica comincia a risalire arrampicandosi su se stessa.
Ora!
Un’ondata di gelido calore si scarica sulle quattro figure accucciate e, finalmente, entrano
nella luce.
Non sono più muscoli, sangue e ossa.
Non sono più pensiero e paura.
Non sono più amore e sofferenza.
Sono vita.
Sono elettricità.
Sono musica.
Volano in uno jetè che sembra non finire mai.
Volano incontro alla neve che cade.
Volano verso immensi boschi dove antichi alberi raccontano senza sosta la stessa storia da
mille anni.
Volano nelle fiabe raccontate da Chagal e da Grin.
Volano nelle tenebre attraversate dai cavalli dei mongoli.
Scavalcano cupole dorare e fiumi che sembrano mari.
Scavalcano grattacieli di vetro simili a magici cristalli neri.
Scavalcano città frenetiche e pianure addormentate.
Scavalcano un intero paese tanto grande che la notte ha bisogno di un intero inverno per
percorrerlo e il sole di un’intera estate per tramontare. (Massimo Carubelli)
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Un racconto al giorno. Giorno 8
Le settimane passano, e con i giorni e con i colori dei giorni si sfogliano storie...
Dovevo subire la rimozione chirurgica di alcuni strumenti metallici con cui mi avevano
ricomposto le rotule delle ginocchia. Rispetto alla precedente operazione ortopedica di
ricostruzione, quest’ultima mi si prospettava come una passeggiata. Dunque l’affrontai a cuor
leggero e con spirito stoico, quasi d’allegra vacanza dal lavoro e da ogni altra incombenza
familiare. Mi recai in un ospedale privato molto attrezzato e lussuoso.
Un mio caro amico ortopedico mi avrebbe riaperto le ginocchia in questione, per prelevare e
togliere via per sempre una vite ed un bullone dal ginocchio sinistro, e dei fili metallici dal
ginocchio destro. Alle otto del mattino, ero già nella sala d’aspetto del suddetto nosocomio,
nell’attesa che mi portassero in sala operatoria. Poltrone comodissime erano sparse ovunque,
quadri e stampe varie ornavano le pareti, tavolini di vetro e di legno erano ricolmi di riviste.
Con una calma serafica, come se stessi solo attendendo di confessarmi con il mio sacerdote
preferito, aspettavo, e intanto mi ero seduta ed avevo preso una rivista che sfogliavo
tranquillamente. Poco dopo, venne a sedersi di fronte a me una ragazzina molto attraente.
Aveva i capelli biondissimi, lungi ed inanellati, gli occhi blu ed enormi, orlati da ciglia folte e
lunghe. Ostentava un’aria annoiata e di sussiego.
Anche lei aveva preso in mano una rivista e ne sfogliava le pagine, senza però neppure
guardarle. Piuttosto, ogni tanto, osservava me di sfuggita. I lineamenti erano delicati ed assai
belli. Il suo corpo era di bimba appena sviluppata. Aveva, infatti, un accenno di seno, i fianchi
vagamente rotondi. Le gambe erano magre e ricoperte da calze azzurre. Le scarpette erano di
vernice nera. Tutto il suo abbigliamento era molto ricercato e costoso. Non era alta, ma era
proprio ben fatta. Sbuffava e, ogni tanto, continuava a rivolgermi occhiate altezzose.
Poi improvvisamente: “ Deve operarsi anche lei?” mi chiese.
“Sì, certo sono qui per questo. Sto aspettando che mi portino in sala operatoria.”
“Così tutta vestita?” continuò.
“Devono intervenire sulle mie ginocchia, quindi è inutile che mi svesta. E tu, perché sei qui?”
“Oh! Hanno deciso sia opportuno togliermi l’appendice! Sto per essere ricoverata e attendo
che mi chiamino per assegnarmi una camera decente!”
“Non hai paura? Ti vedo molto spavalda!”
“Perché dovrei averne?! Mi faranno un buchino e andrò a casa in fretta.”
“I tuoi genitori, sono con i medici?” feci, certa di quel che affermavo.
“I miei genitori sono sempre all’estero. Sto con i nonni, che sono i gioiellieri più facoltosi della
città.”
“Ah! Mi spiace, non immaginavo! Papà e mamma lavorano in un’altra città?”
“Macché! Non lavorano, si divertono! Lei di cosa si spiace, scusi? Che loro si divertano? A me
non dispiace. Stanno sempre fuori dei piedi e non rompono. Poi anche se fossero qui, la cosa
non cambierebbe. Con me non parlano mai, però mi danno tutto quello che desidero, come
fanno, d’altronde, i nonni.”
La sua aria era altezzosa e sdegnata, anche se lei, evidentemente, non se ne rendeva conto.
“In che scuola vai?” azzardai a chiedere.
“In un istituto privato. Anche lì, mi fanno fare tutto ciò che voglio. Una noia mortale!
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Studio, ma gli insegnanti non valgono un fico secco, e quello che imparo di più, lo faccio per
conto mio, con l’aiuto del computer e delle enciclopedie.”
“Brava! Ma è tempo che ci presentiamo. Come ti chiami?” e pronunziai il mio nome.
“Romilda” e aggiunse il cognome, nel quale riconobbi, quello dei più importanti commercianti
orafi della città.
“Lei è simpatica però, signora, sa parlare con i ragazzi!”
“Anche tu sei simpatica, Romilda. Un po’ palloncino gonfiato, ma in gamba, tutto sommato.”
“Palloncino gonfiato? Come sarebbe!”
“Sì, intendo dire che ti dai molta importanza, però mi piaci lo stesso.”
In quel momento, un’infermiera venne a dirmi di seguirla.
Mi ritrovai in una gran sala attrezzata chirurgicamente.
Il mio amico ortopedico mi volgeva le spalle e non mi guardò. I chirurghi, a quanto so,
preferiscono non guardare in viso coloro sui quali devono intervenire. Mi fecero adagiare su di
una barella posta sotto un’enorme lampada.
Un medico anestesista s’avvicinò sorridendo e mi prese un braccio nel quale introdusse un ago.
L’ultima cosa che vidi fu la sua faccia di beota sorridente.
Mi sveglia di lì a poco e…, sorpresa delle sorprese! Sentii che mi avevano bucato la pancia.
Provavo un forte bruciore nel lato destro dello stomaco e non riuscivo a capirne la ragione.
Allora mossi una mano per toccarmi là dove mi doleva e, così facendo, mi accorsi che la mia
mano era piccola e paffutella. Provai un brivido di raccapriccio! Cosa mi stava capitando?
Le braccia! Non erano più le mie! Erano più piccole.
Mi toccai, dunque, il viso e avvertii il contatto di capelli riccioluti. Non erano i miei capelli!
Mi venne da piangere! E, infatti, cominciai a lamentarmi e a gemere.
A questo punto, entrò una bella signora un po’ avanti negli anni, ma egualmente piacente e
molto elegante.
“Romilda, tesoro! Ti sei svegliata!” disse carezzandomi.
“Io non sono Romilda!” ribattei all’istante.
“Va bene, va bene, dormi, ancora non ti sei ripresa!”
Andò via lasciandomi nelle più gravi ambasce.
Mi faceva male il fianco destro, ma potevo benissimo muovermi, e quindi mi alzai.
Tosto però dovetti piegarmi in avanti poiché il dolore al fianco era aumentato.
Non desistetti e mi avvicinai ad uno specchio di quella che, doveva essere una camera
d’ospedale.
Quello che vidi mi fece gelare il sangue nelle vene!
Non ero più io. Ero proprio Romilda!
Quegli occhi azzurri e pieni di ciglia, non erano i miei, i quali, a quanto ricordavo, erano sempre
stati castani. Quel visetto assai bello non era il mio. Il mio viso non era mai stato brutto, ma
certo non era più tanto giovane.
Povera me! Ero Romilda!
Mi balenò un’idea: doveva esserci stato uno scambio in una non ben identificata dimensione! Se
così fosse stato, in quel momento, Romilda si trovava nei miei panni.
Rientrò la signora di poc’anzi in compagnia di un medico in camice bianco.
“Allora, signorina, ti sei svegliata?” disse quest’ultimo.
Ero in piedi e subito l’assalii: “Dottore! Non sono Romilda!”
Restò un po’ interdetto. Poi sorrise e disse: “La nonna mi ha detto che ancora non ti eri
svegliata bene, io penso piuttosto che ti senta perfettamente e che abbia voglia di scherzare
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e fare i capricci.”
“I capricci, un corno! Sono la signora……..” e pronunziai il mio cognome.
“Sì, sì, va bene! Coricati! Domani andremo a casa” ribatté, prontamente la nonna.
Ero stremata. Mi coricai davvero e le forze mi vennero meno.
L’indomani, mio malgrado, fui portata via e condotta in una casa lussuosissima. Era un’antica
villa ubicata al centro della città, racchiusa da un parco principesco con miriadi di fiori.
La nonna, trascinandomi per una mano, la quale per poco non si staccava dal polso, mi condusse
nella stanza di Romilda.
Anche lì, il lusso e la ricchezza trasudava dai muri rivestiti di seta e dalle migliaia di giocattoli
e peluche sparsi ovunque.
Niente di tutto quello che avevo visto però, mi attirava minimamente, benché la dimora
rappresentasse quanto di più desiderabile potesse esistere!
“Mettiti di nuovo a letto e non ti muovere, ” ordinò la nonna ed uscì come un siluro dalla
stanza, certo per andare ad assolvere le sue molteplici incombenze di direzione ed
organizzazione di quella che, più che una casa, pareva un castello.
Adesso dovevo proprio risolvere quel mio tremendo ed insolito problema.
Dovevo tornare a casa mia, da mio marito, al mio lavoro.
Dunque dovevo fuggire. Sì, non vi era altra soluzione! Per quanto fosse ardua l’impresa di
uscire da quella villa, lo dovevo fare, ci dovevo provare!
Per fortuna non avvertivo più alcun dolore al fianco. Come se non mi avessero neppure operato
d’appendicite.
Furtivamente, uscì dalla stanza e mi avviai verso il parco. Nessuno mi vide.
Il cancello era aperto ed uscì, dirigendomi verso la strada dove si trovava la mia casa.
Camminai per molto tempo ed avevo la mente confusa, come se avessi la febbre!
Non desistevo però, ero determinata a tornare nella mia adorata casetta.
Vi arrivai alla fine e trovai la porta d’ingresso aperta.
Forse mio marito era presente e l’aveva lasciata socchiusa, prima di uscire nuovamente.
Accidenti! Ero Romilda! Cosa avrebbe detto il mio consorte?
Entrai furtivamente e mi nascosi dietro un divano, rincantucciata, in preda alla più grande
costernazione ed ai dubbi più feroci!
Caso volle che mio marito si venisse a sedere proprio su quello stesso divano.
Non sapevo che fare e com’esordire.
Pensai di chiamarlo senza farmi ancora vedere.
Lo feci, ma la voce che gorgogliò dalla mia gola era quella di Romilda!
Ricordo che molti anni or sono, quando ero piccolissima, una volta, in casa di una mia vecchia
zia, mi nascosi dietro una poltrona, mentre la poverina stava recando, in mano, un vassoio pieno
di tazze di caffè. Per gioco e per scherzare, venni fuori all’improvviso e feci: “Cucù!” La zia si
produsse in un salto in aria di almeno mezzo metro e andò ad atterrare su un tappeto,
rovesciando vassoio, tazze, piattini, zucchero e zuccheriera.
Ora mio marito non fece di meno della zia e, all’udire quella voce, schizzò via dal divano come
se avesse ascoltato un lamento d’oltretomba! Poi, di filato, uscì da casa.
Ero rimasta sola, ma mi trovavo fra le pareti domestiche. La mia casa era ben più modesta di
quella di Romilda, ma non l’avrei giammai scambiata per nulla al mondo.
“Casa mia, casa mia, per piccina che tu sia……….” recita un vecchio adagio.
Mai parole m’erano parse più calzanti!
Nuovamente avvertivo spossatezza e confusione mentale, e pensai dunque di andare a adagiare
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le provate membra sul mio benamato lettuccio.
Mi addormentai. Di lì a poco però fui svegliata da un rumore strano, come di passi che
s’avvicinavano. Spalancai gli occhi e vidi me stessa di fronte!
Quello era il mio viso! Il mio volto di sempre! Caro, vecchio, abituale volto! Quella ero io,
proprio io! Cosa facevo lì?
Ah sì! Poco dopo, compresi. Lo scambio era stato perfetto! Romilda era divenuta me, come io
ero divenuta lei.
Si sedette sul mio letto e disse: “Mi trovo bene nei tuoi panni! Ho sempre avuto fretta di
crescere ed eccomi qua. Adesso sono già grande! Ah, ah, ah, ah.”
“Romilda, a me invece non piace essere te. Per carità, senza offesa! Anzi, n’acquisto in
gioventù; però rivoglio la mia vita, il mio corpo, la mia faccia, la mia personalità!”
“Ci deve essere stato uno scambio in non so quale dimensione” fece lei “forse nella dimensione
degli anestetizzati!”
“Sì forse, ma io non voglio restare anestetizzata, mi voglio svegliare, Romilda!”
“Allora forza, svegliati! Svegliati! Svegliati! Svegliati! Svegliati!”
Qualcuno stava scotendomi, continuando a ripetere quella parola.
Mio marito mi guardava, mentre aprivo gli occhi, e stava dicendo: “Oh finalmente! Ti sei
svegliata! E’ finita! T’hanno già tolto i ferri dalle ginocchia! Come ti senti? E’ andato tutto
benissimo. Domani torneremo a casa e sarà tutto veramente finito!”
Un sogno! Dunque era stato tutto un sogno, una specie di delirio dovuto all’anestesia!
Però Romilda l’avevo conosciuta sul serio, e mi aveva molto colpito! Mi aveva coinvolto ed
impressionato con quel suo fare pieno d’alterigia. Un modo di fare di bambina spaventata che
vuole darsi coraggio ostentando freddezza ed altezzosità.
Una bellissima ragazzina che non parlava mai con nessuno. Cui i genitori avevano negato la loro
presenza anche in un momento delicato come quello di un intervento chirurgico! Aveva parlato
con me, quasi a sfidarmi, a dimostrarmi che lei non aveva bisogno di nulla e nessuno. Senza
sapere che tutti i ragazzi hanno bisogno d’affetto, di qualcuno che stia loro sempre vicino, e
che li sappia amare in ogni istante della vita. (Gabriella Cuscinà)
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Un racconto al giorno. Giorno 9
Oh notte sei infinita quando il cuore è pesante: alba, perché non giungi ad alleviare questo
tormento: che serve il calore d’un fuoco quando il gelo è nell’anima.
Ho pregato a lungo cercando Dio; nel Suo nome una giovane donna, domani, udrà dalle mie
labbra la sentenza…Rogo…
No, non posso condannare un innocente…sto male, tremo; le mani stringono, fino a sbiancare, il
crocefisso che porto in petto.
Vorrei gridare ma la voce muore sul nascere: anche un sorso d’acqua pare fuoco, fuoco
dell’inferno, fuoco che purifica.
Tra non molto le carni di quella creatura bruceranno ed io assisterò al supplizio, pregando per
la sua anima.
Alla luce incerta di un lume, sfoglio gli atti della Santa Inquisizione alla ricerca di una ragione
che giustifichi il mio operato… tutto è vano. Come vorrei essere l’ultimo dei servi, vivere di
elemosina, prostrarmi nella polvere al passaggio di un potente piuttosto che cedere,
piegandolo ai suoi ordini, il credo che è in me.
Ho condannato ai più crudeli tormenti umili bottegai, contadine ,fanciulli, colpevoli tutti di
professare un’altra fede.
A decine hanno essi raggiunto il patibolo innalzando salmi al Signore…non li udivo…Io, soldato
di Cristo, difensore della fede, mi sono eretto e mi erigo a Giudice supremo: la Chiesa non
morirà perché io La difenderò. Quanta forza mi dà il credere in tutto ciò e quanti dubbi
nascono nel cuore allorché vedo innalzarsi un patibolo.
La fiamma del camino proietta sui muri della cella, ombre che paiono aggredirmi; gli scricchiolii
degli alberi che si piegano sotto la sferza del vento, risuonano come grida di dolore dei
condannati…
Via…via, sparite ombre del passato, perché continuate a tormentarmi. Mi prostro sul freddo
pavimento, singhiozzando come un infante; Signore perché questo umile servo non ode la Tua
voce…All’improvviso un tenue profumo di fiori giunge a me; alzo lo sguardo ed il viso dolce di
quella fanciulla mi appare in tutta la sua bellezza: sorride e dalle sue labbra sgorgano melodie
che giungono al cuore: esse parlano d’amore, di fratellanza nel nome di Chi morì per noi sulla
Croce. Il suono della campanella che invita alla Compieta si fa udire, invitando alla preghiera:
lentamente, seguendo le rigide regole del convento che mi ospita, procedo verso il grande coro
per le ultime orazioni della sera.
Un’altra alba nebbiosa mi coglie ancora desto, quando odo un leggero bussare all’uscio: EntrateLa figura segaligna del cardinale, avvolto in un mantello purpureo, fa il suo ingresso nella
stanzetta; senza parlare ma con gesti misurati si accomoda su di un piccolo scranno, non
distogliendo per un istante i suoi occhi dai miei:
- Voi, tra qualche ora sarete chiamato ad esprimere, nel nome della Santa Madre Chiesa, un
giudizio: esso non potrà che essere di condanna nei riguardi di quella donna, rea confessa di
aver patteggiato con il diavolo…:
- intuendo il mio stato d’animo…
- non interrompetemi:- La sua voce è ora simile al sibilo di un serpente:
134
- Ella ha pregato a lungo questa notte ed anche durante la tortura, strumento per altro
necessario, non ha mai smesso di invocare la Vergine Maria e Santa Caterina, finché…lo
sappiamo, la carne è debole…la verità è venuta alla luce; confessando infatti la sua eresia, la
giovane ha potuto così pentirsi. Voi perciò la condannerete al fuoco purificatore senza che
dubbio alcuno possa sfiorare la vostra mente: tenete ora questo salvacondotto:- Così dicendo, da sotto il mantello, egli trae un plico sigillato con cera lacca recante il simbolo
reale e porgendomelo quindi con mano sicura:
- Dopo il processo vi recherete nella località indicata qui, per imbarcarvi su di una nave diretta
in Terra Santa; colà giunto farete un pellegrinaggio al Santo Sepolcro appena liberato dai
crociati:Il suo sguardo ora s’è fatto di fuoco:
- Molte anime attendono il Verbo del Signore e sarete voi a portarla negli angoli più sperduti
della terra. Così vuole la Chiesa alla quale, vi rammento, dovete obbedienza. Attraverso quindi
la preghiera, la meditazione ed il sacrificio, ritroverete la via per ritornare, rafforzato nello
spirito, tra le sue braccia secolari:Una mano guantata di rosso, ha stretto il mio spirito riducendolo a brandelli: giudizio,
coscienza, pilastri sui quali ho retto la mia esistenza,sono ora vuote parole…nulla conta più.
Come vorrei essere accanto alla fanciulla; quando arderà, vorrei bruciare con essa, purificare
la mia anima ma sono un vile ed il capo si china innanzi al vincitore.
Là fuori, sulla piazza, tra gli schiamazzi della folla accorsa di prima mattina per assicurarsi un
posto vicino al palco dell’esecuzione, le fiamme si levano già alte in cielo, mentre a bordo di un
carro lascio la città e con essa, la fede. (simbad il marinaio)
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Un racconto al giorno. Giorno 10
Aprii gli occhi quando il fracasso al di là della porta divenne insopportabile. Qualcuno bussava
e, nonostante le preghiere ad occhi chiusi nel dormiveglia, sembrava non volersene andare.
Mi alzai con lo stomaco sottosopra, dalle persiane chiuse filtrava già la luce del sole, poteva
essere mezzogiorno ma per me era ancora notte fonda. Le occhiaie toccavano terra e non
riuscivo a trovare le ciabatte. A piedi nudi e con le gambe claudicanti mi avvicinai alla porta,
pregando che un fulmine divino incenerisse l'infame che mi aveva svegliato.
- Un attimo, arrivo - urlai cercando nel mazzo la chiave giusta.
Lo stomaco ribolliva ancora. La sera prima avevo proprio esagerato, valutai con la nausea che
mi attorcigliava le budella.
Appena aprii la porta la figura pesante della signora Colombo, la mia vicina, sbucò tra la luce
del pianerottolo.
Era lì, ferma, impalata come una guardia svizzera. La bocca stretta da un'espressione nervosa,
gli occhi porcini mi fissavano da dietro la montatura enorme degli occhiali presi in qualche
supermercato. I suoi sessant'anni sovrastavano i miei trenta. Quella mattina lei era
sicuramente più in forma di me. Avevo fatto qualcosa, lo capivo dalle scintille che scoccavano
dal suo sguardo, ma non riuscivo a ricordare cosa. Dopo un caffè, forse, mi sarebbe venuto alla
mente ma la signora Colombo non poteva certo aspettare la mia colazione.
- Buongiorno signora Colombo - salutai.
Quanto era brutta! Per la prima volta notai quel ciuffo di peli da circo aggrappato sotto al
naso.
- Buon giorno signor Giorgio. - rispose lei cercando di sbirciare dentro casa mia.
Riuscii a coprire prontamente la sua visuale; non c'era niente da vedere ma il mistero a volte
riesce a far divenire interessanti anche le cose più stupide.
Volevo che se ne andasse, le sue scintille oculari cercavano ancora di spaccarmi il cervello. In
quel momento non ero certo in grado connettere. Cercai di giustificarmi, forse avevo lasciato
un'altra volta la mia auto davanti al suo box.
- Mi dispiace signora, appena trovo le chiavi la sposto subito? - ma capii che non era quello il
problema.
- Ancora quei rumori, signor Giorgio. Quelle urla - disse scandalizzata mentre con una mano
callosa e grassa andava a stuzzicarsi il ciuffo di peli.
- Quali urla? - chiesi quasi spaventato.
- La voce di donna che questa notte ha iniziato ad urlare alle due e ha smesso solo alle quattro.
- mi spiegò con aria turbata.
Urla di donna? Il mio cervello iniziava ad ingranare lentamente. Un'idea si stava delineando
scacciando via tutta la nebbia.
Ancora a piedi nudi, con un movimento furtivo, feci due passi indietro continuando a fissare la
signora Colombo ferma sull'uscio. Non volevo assolutamente lasciarle la via libera per entrare
ma dovevo controllare una cosa. Con un movimento lento del collo arrivai a guardare in camera.
Scorsi un fagotto di circa quaranta chili sotto le lenzuola. Il mio cane, timido e pulcioso
animale ronfante con l'abitudine di seguirmi ovunque, era mancato all'affetto del mondo un
mese prima, quindi, quella forma nel letto non poteva essere che Katia. Mi parve di vedere un
piccolo movimento, se era Katia respirava ancora. Meno male.
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Tutto sotto controllo, pensai tornando dalla Colombo.
- Sa, signor Giorgio - iniziò lei con aria estremamente più gentile. - Io sono vedova e dormo
sempre sola. La voce era una lagna, forse più fastidiosa del suo volto.
- Sì, mi scusi - buttai lì - Si deve essere spaventata - Già - rispose infilando un piede ciabattato tra la porta e lo stipite in modo da impedirmi di
chiudere la porta. - Mi sono spaventata ed ero indecisa se chiamare la polizia oppure venire
qui a vedere - No - la bloccai subito - non si deve preoccupare, è una mia amica e stavamo solo giocando - Immagino... una partita lunga due ore. Deve essere divertente - disse allungandosi dentro
casa - Mio marito perdeva sempre a tavolino Cercai di spingerla fuori ma le sue mani grassocce avevano avvinghiato l'attaccapanni; allora
tolsi tutti i vestiti che vi erano appesi e lo spinsi fuori insieme alla signora Colombo.
Aveva una strana luce negli occhi, qualcosa che mi augurerei di avere io alla sua età.
Quando, abbracciata al mio attaccapanni, capì di essere oramai spacciata, cercò di nuovo di
prendermi con le buone.
- La prossima volta che sentirò delle urla di donna, allora, magari, potrei? - la sua figura,
accanto al mio pezzo di mobilio da quattro soldi in mezzo alla luce del pianerottolo mi sembrò
una visione surreale.
- Se sente delle urla di donna non si preoccupi, la mia amica probabilmente vorrà la rivincita,
ma se sente la mia voce urlare, allora, si chiuda in casa e chiami subito l'ambulanza.
La lasciai lì, ancora fissa a guardarmi mentre chiudevo la porta. Spiai i suoi movimenti, ma
subito dopo se ne tornò in casa con in ostaggio il mio attaccapanni preferito.
Lasciai i vestiti a terra e tornai a letto.
Non ricordo se feci in tempo ad addormentarmi, so che d'un tratto il corpo raggomitolato si
stese e la testolina di Katia sbucò dalle lenzuola.
- Chi era? - domandò con la voce roca.
- La Colombo - risposi girandomi dall'altra parte.
Ero fermamente convinto che quella mattina, se era ancora mattina, niente e nessuno avrebbe
potuto sbattermi più giù dal letto. Forza con i bombardamenti! Avanti con le ruspe! Tanto non
riuscirete a smuovermi.
- Ma è mai possibile che stia lì ad origliare ogni volta che vengo a casa tua? Dovrebbe
imparare a farsi i cazzi suoi! - esclamò spalancando il lenzuolo e rivelando all'aria fresca il suo
corpo ancora nudo.
Cara la mia Katia, sempre fine, mogliettina premurosa di un marito cornuto. Amante fedele
solamente nell'amplesso, futura madre modello e chissà quante altre cose ancora. Non mi
interessano tutti i lati delle persone, solo quelli che devono condividere con me.
Probabilmente era anche una donna di casa eccezionale, forse preparava pranzetti squisiti e
spolverava come la più esperta delle colf, ma tra le mie braccia diventava la più assatanata
divoratrice di carne maschile. Questo mi bastava e bastava anche a lei.
Non si curò di rivestirsi per andare in bagno. Vidi il suo delizioso sedere ancheggiare fino alla
porta del cesso. Si fermò un attimo a guardarsi allo specchio. Vanitosa Katia. Si rimirò in
tutte le sue forme abbondanti e poi sbirciò dalla mia parte. Sospirò profondamente quando
capì che stavo fingendo di dormire. Sparì nel bagno per qualche minuto. Quanto ci impiegano le
donne! Pensai. Se si dovessero anche radere nessun uomo potrebbe resistere all'attesa,
soprattutto vedendo che all'uscita ben poco era cambiato nella figura che vi era entrata.
137
Quando tornò cercò di trovare i suoi vestiti tra quelli sparsi a terra. Sollevò un paio di
mutandine bianche, finite chissà come sotto al letto.
- E queste di chi sono? Io non le porto così minuscole - chiese con una calma incredibile.
- Non lo so - risposi con la voce contraffatta dal cuscino. - mettile nel comodino insieme alle
altre. Katia aprì la porticina del comodino e vedendo il contenuto non riuscì a trattenere
un'esclamazione di stupore.
Non mi disse nulla, rimase in silenzio, le mutandine trovate sotto al letto erano già sparite
dalla sua memoria e anche dalla mia. Rimaneva la sua parte da recitare, ogni volta sempre la
stessa, ogni volta più insopportabile.
- Giorgio - disse con un'aria solenne.
- Mmm - risposi da dentro al cuscino.
- Non posso continuare a fare questo a mio marito. - Va bene - Dio che attrice!
- Non se lo merita - disse infilandosi mutandine e minigonna bianca semitrasparente Dopotutto sono una donna sposata e lui non mi ha mai fatto mancare niente. Su questo, a giudicare dalla fame che aveva dimostrato su quel letto, potevo nutrire dei seri
dubbi, ma la lasciai parlare, arrivava il momento del 'Mi sento sporca'.
- Mi sento male quando penso a cosa gli stiamo facendo - sospirò avvolgendo il seno con una
magliettina bianca semitrasparente.
Bene, pensai, aveva cambiato il copione. Un momento: 'Gli stiamo facendo?' Forse non aveva
chiaro che era lei ad essere sposata, non io. Lasciai comunque che finisse il suo discorso.
- Ho preso una decisione - esclamò ancora solenne.
- Mmm - dall'oltretomba del sonno.
- Non ci possiamo più frequentare, tu ed io. - Va bene - basta che mi lasci dormire.
- Perciò, se mi vuoi bene, non chiamarmi più e non chiedermi di venire più qui - disse infilandosi
le scarpe e camminando verso la porta.
- Ok - risposi agitando la mia manina per salutarla.
- Addio, Giorgio - Ciao Katia, ci sentiamo domani - Va bene amore. - come volevasi dimostrare.
Il mondo non potrà mai cambiare finché gli uomini crederanno alle promesse delle donne. Come
immaginavo, se ne andò ma prima sistemò i panni che avevo gettato a terra per liberarmi
dell'attaccapanni e della signora Colombo.
Premurosa Katia.
Chiuse la porta senza fare rumore e mi lasciò solo a smaltire definitivamente l'eccesso
alcolico della sera precedente. Mi addormentai, di questo ne sono certo. Dormii come una
bambino per un tempo che non potrei quantificare.
So che quando riaprii gli occhi la luce del sole non irrompeva più dalle persiane ed il buio della
sera aveva ripreso il solito posto tra i miei muri.
Se vado avanti così diventerò un vampiro, pensai mettendo un piede giù dal letto.
Fissando un nuovo record mondiale di sveglia e doccia, mi ritrovai dopo solo dieci minuti
davanti alla tavola vuota con la televisione accesa. Mi venne in mente di guardare l'ora,
dopotutto potevo anche aver dormito un mese, essere stato rapito dagli ufo, o dalla signora
Colombo.
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Le sette. Perfetto, pensai, quasi l'ora dell'aperitivo con gli amici. Considerando che non
ingerivo qualcosa di solido dalla sera precedente, mi alzai per andare a prendere qualcosa dal
frigorifero.
Aprii la porta e la luce dell'elettrodomestico mi rivelò il suo essenziale stato di desolazione.
Nulla.
Non c'era niente, se escludevo due bottiglie di vino e quattro di birra. Non era la colazione dei
campioni ma un sorso di bionda germanica non mi avrebbe fatto male.
Tornai seduto davanti alla televisione con la bottiglia ghiacciata tra le mani. Questo si chiama
ottimismo: il frigo vuoto, niente da mangiare, una donna appena fuggita da te per
riabbracciare il marito cornuto e la televisione che mi parlava di una certa Compagnia delle
Indie in cui tutti i ragazzi sono belli, alti, muscolosi e felici. Ed io ho ancora il coraggio di
sopravvivere! Come negarmi il nobel per il bel pensiero?!
Perso tra la birra e il teleschermo lasciai che passassero altri venti minuti, utili a raggruppare
tutte le forze e schiarirmi il cervello. Quando fui nuovamente sulla soglia del sonno decisi di
alzare le chiappe e fare qualcosa di costruttivo: Aperitivo.
Mi dovevo vestire. Non avevo molta scelta, quasi tutti i miei indumenti erano da mia madre per
il lavaggio mensile e i quattro stracci piegati da Katia rimanevano la mia unica risorsa.
Infilai i calzoni, scelsi un paio di calzini puliti ed una maglietta che non facesse venire il mal di
testa. Vestito come un anonimo abitante della grande city mi chiusi la porta alle spalle e uscii
nel bel mezzo del mondo.
I fari delle auto rompevano il buio del mio quartiere. La giunta comunale aveva deliberato un
anno fa l'installazione dei lampioni ma le solite beghe legali e qualche denuncia per concussione
avevano bloccato il lucente progetto e così noi, abitanti di una periferia anonima e grigia,
andavamo avanti a memoria, inciampando sui marciapiedi e sbattendo il muso sugli alberi dei
giardini.
Non mi sbagliavo, la mia utilitaria finto lusso era parcheggiata proprio davanti al box della
Colombo.
Povera donna, un garage così grande e così vuoto. Pieno di ricordi, forse, come il suo
matrimonio tagliato di netto da una cirrosi epatica.
La mia piccola scheggia si mise in moto quasi subito, qualche colpo di tosse dal motore mi
ricordò che nulla è per sempre, a parte i diamanti ovviamente. Così, promettendo una tagliando
e una revisione al più presto possibile, lasciai libero lo spazio condominiale e mi fiondai nel
traffico cittadino.
Era domenica, me ne era quasi dimenticato, ma ci pensarono subito gli altri automobilisti a
ricordarmelo. Strafatti di tacchino e lasagne facevano a gara tra i sensi unici e la gimcana tra
gli autobus comunali.
Dovevo trovare un parcheggio. Già, trovare parcheggio in questa città è come sperare che
l'Inter vinca il campionato. Girai per un po', deciso finalmente ad usare la mia proverbiale
grinta per spaventare gli altri utenti della strada e farmi spazio tra un cassonetto e l'altro,
poi, preso dalla solita voglia di scappare, seguii un taxi e riuscii a trovare un posto quasi legale.
Scesi dalla macchina e mi accorsi che avevo guidato nella direzione sbagliata ed ora mi trovavo
più lontano dal bar di quanto lo fosse casa mia. Da domani uso i mezzi pubblici, promisi a me
stesso dimenticando il proposito ancora prima di finire il pensiero.
Camminavo a passi stanchi con la testa bassa, non per soggezione ma per evitare il campo
minato di bisogni sganciati dai culi arrossati dei cagnolini.
Al bar mi aspettavano i miei amici, più o meno disperati come me. Qualcuno aveva appena
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trovato una donna, qualcuno l'aveva appena persa, di solito si trattava della stessa.
Un passo dopo l'altro arrivai all'incrocio che dava sul viale principale. Dovevo attendere che il
semaforo si dipingesse di verde per lasciarmi passare, pena non la morte ma la multa del vigile
urbano che mi guardava in cagnesco dall'altro lato della strada. Lo guardai, non mi faceva
paura, dopotutto la pistola era nella fondina ed io all'occorrenza sapevo correre come
un'antilope inseguita dai leoni. I nostri sguardi si mescolarono tra i fari delle auto, per un
attimo mi parve che avesse qualcosa da dirmi e, per togliermi ogni dubbio, girai la testa
dall'altra parte. Strana cosa i sensi di colpa, creano assuefazione.
Sentii un rombo diventare sempre più forte. Non poteva che essere lui. Ne ero certo.
Infatti, dopo qualche secondo, mi sentii chiamare da una voce amica al centro della strada.
- Ehi, Mister Lunedì! Cosa ci fai in giro? - era Massimo, uno della combriccola.
Accostò il motorino truccato al mio marciapiede e lo spense. Tutta la città lo ringraziò
tornando a sturarsi le orecchie. - Ancora in giro con quel trabiccolo? - chiesi accendendomi
una sigaretta e porgendone un'altra a Massimo.
- Certo. - rispose contento togliendosi il casco e passandomi l'accendino.
- È ora di comprarti una macchina, è molto più comoda, se non fosse per i parcheggi? Accidenti a me e quando mi metto in testa di fare il maestro.
- Non è un problema comprare la macchina, il vero guaio e passare l'esame della patente - mi
spiegò dando una grande boccata di Chesterfield.
- Massimo - dissi con aria paterna - Hai trent'anni, sarebbe ora che ti mettessi a studiare.
Se mai dovessi conoscere una donna non credo che accetterebbe di venire in camporella su
quell'aggeggio. Massimo ascoltava le mie parole. Avevo sempre avuto un forte ascendente su di lui, come su
tutti gli abitanti del sottobosco di disperati che abitavano dalle mie parti.
- Hai ragione, ma piano piano ci arriverò - promise lui con aria compita - L'ultima volta ho fatto
solo sette errori. - Bravo - incoraggiarlo era l'unico modo per non farlo sentire troppo diverso.
- Stai andando al bar? - chiese.
- Già. E tu, aperitivo? - da un certo punto di vista mi faceva pena. Eravamo cresciuti insieme; o
meglio, io ero cresciuto mentre lui era rimasto lì a guardare.
- Se ci vai tu ci vengo anche io. Anche se? C'è anche Marco? - chiese facendosi scuro in viso.
- Penso di sì, ma non sarete ancora arrabbiati per quella storia, spero. - No, arrabbiati no, ma non ci parliamo più. - ammise con una punta di dispiacere.
- Questo, Massimo, si chiama essere arrabbiati. Dai vieni, non ti preoccupare, starai vicino a
me e vedrai che Marco non ti darà fastidio. - feci quella promessa guardando il sorriso del
ragazzo aprirsi per rivelare tutti i suoi denti guasti ma felici.
- Salta su - mi disse infilandosi il casco e facendomi posto sulla sella.
Guardai il vigile urbano. Non avevo molte possibilità di farla franca. Mi fissava ancora, lo
sentivo, mi odiava, chissà perché! Pregai che succedesse qualcosa che lo distraesse, che ne so,
una bomba, una rapina, un incidente. Poi, quando capii che forse ero troppo lontano dal cielo
per pregare, saltai veloce come una rana sulla sella consumata del bolide truccato.
- Tieniti forte Mister Lunedì - disse la bocca felice di Massimo prima di partire a tutto gas
per il bar.
Mister Lunedì è il soprannome con cui mi conosce la mia gente. Risale a molti anni fa e forse
sono rimasto il solo a ricordarne l'origine. Eravamo un gruppo di adolescenti disastrati fuori e
dentro. Saltavamo la scuola di nascosto per andare a giocare a biliardo, fumavamo di nascosto
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le sigarette rubate ai vecchi dei giardini pubblici, giocavamo a pallone di nascosto nelle sere
d'estate nel campo privato del signor Quilci. Facevamo tutto di nascosto e questo era forse il
bello. L'unica cosa veramente nostra, gli unici spunti per sentirci diversi da quella città che ci
cresceva attorno, erano i nostri segreti, le nostre avventure sulla nave della fantasia. Tutto
era dettato dall'istinto fresco e cattivo di un gruppo di ragazzini sporchi di sole e di fango.
Fu in quel periodo così incosciente e felice che decidemmo di fare una scommessa. I primi
pruriti sessuali grattavano le pelli ancora macchiate di latte e ognuno di noi aveva la sua
fantasia più segreta e più strana. Di solito erano divagazioni sul tema della vicina di casa, della
compagna di banco o della figlia illegittima della portiera, e tutti quegli stimoli agitavano il
sangue come non si sarebbe agitato mai più nella nostra vita. Scommettemmo di fare del sesso
vero, non immaginato, con una ragazza qualsiasi. L'importante era farlo e ovviamente portarne
le prove. Ci stringemmo la mano solennemente una domenica e lo scadere ultimo era il sabato
successivo.
Lunedì, il giorno seguente alla scommessa, arrivai al solito ritrovo con la prova eclatante ed
indiscutibile di aver fatto sesso sfrenato con una ragazza. Da quel giorno rimasi nella mente
degli altri con il nomignolo di Mister Lunedì. Nessuno ha saputo e mai nessuno saprà che la
dolce compagna dei miei primi giochi sessuali fu una mia cugina più grande, lautamente
ricompensata del disturbo con un diecimila prontamente speso nella profumeria che luccicava
in centro.
Lei non confessò mai, né tanto meno lo feci io, così la mia fama si alimentò con l'imbroglio e io
svettai in cima alle dicerie del quartiere, in cui mi destreggiavo con decine di donne
dispensando orgasmi pubescenti a destra e a manca. Poco male, se l'imbroglio non fa male a
nessuno.
Perso nei ricordi e avvinghiato alla possente pancia di Massimo mi vidi quasi schiantato sul
marciapiede del bar, dove il solito tavolino con le solite facce animate da una stupenda
insofferenza per il mondo occupava la domenica sera cercando di spazzare via la noia.
- Ciao Mister Lunedì - fecero in coro vedendomi sbucare da dietro le spalle enormi di
Massimo.
- Ciao ragazzi - salutai aiutando il mio amico centauro a sollevare il bolide per piazzare il
cavalletto rotto.
Solo alcuni salutarono Massimo, l'indifferenza è un peccato capitale, pensai guardando il viso
di Marco che fissava il nemico da dietro il suo Campari.
Ci sedemmo; Massimo si posizionò a cinque centimetri dal mio braccio togliendomi quasi
completamente la visuale della strada, luogo da cui traevamo il maggior numero di commenti
possibili sulle donne che passeggiavano abbracciate ai loro uomini, sempre più belli o più ricchi
di noi.
La compagnia era più o meno sempre la stessa. Poche facce erano arrivate e poche se ne erano
andate, il nucleo fondamentale non si era mosso di un passo, rimanendo ad arrugginire nella
nebbia tra gli inverni e le estati. E ora, sei uomini con il cervello da bambini fissavano il mondo
che scivolava tra le macchine e il traffico. - Cosa c'è di nuovo, Lunedì? - mi chiese Alberto
sorseggiando la sua vodka.
- Niente - risposi - Non c'è niente di nuovo. Ho trovato Massimo per strada e gli ho detto di
unirsi.
Ho fatto male? - Prima regola: chiedere sempre il parere degli altri per poi gustare meglio
l'ebbrezza di fare di testa propria.
- Certo che no - risposero quasi in coro. Seconda regola: dare sempre ragione a chi poi fa
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sempre di testa sua. Massimo ed io ordinammo. Per me la solita vodka sette, che di aperitivo
non ha niente, ma l'alibi reggeva, ed un Crodino per il mio povero amico astemio che ghignò alla
cameriera, convinto che lo avesse guardato un secondo in più del dovuto.
Spendere una parola per Chiara è d'obbligo. Lavora al bar da una vita, da molto tempo prima
che noi con i nostri calzoni corti facessimo la prima apparizione tra chinotti e aranciate. Era
una ragazza non bellissima ma cosciente che qualsiasi essere di sesso femminile può fare ciò
che vuole se ha a disposizione una certa dose di furbizia. Era passata tra di noi per milioni di
volte, a prendere le ordinazioni, a togliere i bicchieri, a svuotare il posacenere. Non passava
giorno in cui qualcuno di noi non si mettesse in mente che era stato osservato troppo
insistentemente dall'unica donna che ci rivolgeva la parola. Lei era ovviamente obbligata a
farlo dal suo lavoro e, inevitabilmente, dopo sogni appiccicaticci e fantasie troppo ardite,
tornavamo a considerarla solamente una cameriera, passando il sogno di seconda mano
all'amico che ci sedeva a fianco. Oggi era il turno di Massimo a giudicare dal rossore che gli
appariva sulle gote. Ognuno ha diritto al suo momento di gloria.
- Noi, invece, abbiamo una novità - annunciò Marco stando ben attento a non guardare
Massimo.
- Di cosa si tratta? - chiesi pensando che parlasse di una trasferta, di un nuovo locale da
esplorare, di una nuova donna a cui pensare.
- Presto avremo delle visite - annunciò sorridendo al suo Campari.
Arrivò la mia vodka sette, mentre Massimo dovette aspettare qualche minuto in più per il suo
Crodino. Cosa dire, anche questa giungla ha la sua legge del più forte. Dopotutto se tirassi i
conti di quel locale scoprirei che almeno metà dell'ipoteca l'ho pagata io.
Sorseggiai la mia vodka con gusto, pieno di curiosità per quello che aveva appena detto Marco.
Sembravano un po' tutti eccitati ed anche io stavo entrando a far parte di quelli che sperano.
- Di chi si tratta? - domandai mentre il mio stomaco, ricevuta la vodka, mi ricordò in un lampo
tutto quello che avevo bevuto con Katia la sera precedente.
- Di tre ragazze che abbiamo conosciuto ieri sera al Vox. Sono stupende. - confidò gonfio
d'orgoglio.
- Tre ragazze? - feci io incredulo. I miei amici stavano crescendo.
- Sì, proprio così. Alberto ed io eravamo al Vox ieri sera e le abbiamo conosciute. Ci siamo
scambiati i numeri di telefono e questo pomeriggio le abbiamo invitate qui per l'aperitivo. Capperi!
Non smettevano più di stupirmi, li lasci soli una sera...
Considerai la scena a cui stavo per assistere. Queste tre ragazze forse bellissime, i nostri
canoni sono molto diversi, sarebbero arrivate da un momento all'altro in quel posto. Fissai
l'insegna al neon del bar.
Dalla scritta 'Bar Mescal' mancavano due o tre lettere e le altre lampeggiavano quando pareva
a loro. La strada, i gas di scarico, quel profumo di merda che saliva dai tombini, i vestiti
sgualciti ed il motorino truccato di Massimo, disegnavano meglio di ogni altra cosa la nostra
vita.
Mi accesi una sigaretta sospirando.
Le tre donne forse non arrivarono mai, o forse ci videro e tornarono indietro girando i loro
tacchi alti alla moda; ma ci lasciarono, grazie al cielo, ancora qualche sogno da consumare tra
una vodka ed un Campari.
- Silenzio ragazzi - urlai sentendo gli altoparlanti del bar che iniziavano a gracchiare la loro
musica.
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Si zittirono immediatamente, sapevano che era importante.
Chiara sbucò dalla porta del bar e mi fissò per un istante, poi mi disse: - Mister Lunedì, questa
è per te - e la musica iniziò.
'La chiamavano Bocca di Rosa
metteva l'amore
metteva l'amore
La chiamavano Bocca di Rosa
Metteva l'amore sopra ogni cosa
Appena scesa nella stazione
del paesino di Sant'Ilario
tutti si accorsero
con uno sguardo
che non si trattava di un missionario'
Si ringrazia la casa discografica ed il cielo disperato che ha visto nascere e morire Fabrizio
De André. (Andrea Sperelli)
143
Un racconto al giorno. Giorno 11
Mi avvicino alle undici della sera sempre con una certa ansia; sono sul divano del soggiorno, il
televisore è spento, vicino a me un libro chiuso che negli ultimi minuti ho cercato inutilmente
di leggere; la stanza è in penombra, illuminata solo da un basso e panciuto lume, nel lettore un
CD di musica classica si srotola dolcemente.
Sul tavolino il computer portatile è già aperto, nero e sornione, mi invita a dargli il tocco
vitale. Il suo schermo mi ricorda lo specchio di Alice: pronto a promettermi un mondo
rovesciato, un Luna Park di visioni oniriche, ma tanto accattivanti da essere capaci di
penetrare talmente a fondo nell’immaginazione che finiscono per annullare tutto ciò che ci
circonda.
Mi accendo un sigaro, poi avvio la procedura di entrata in Rete, sento il mio modem che
scandaglia le profondità della notte, in lontananza risponde un altro computer. Mi ha sempre
impressionato questo gioco di cercarsi, trovarsi, riconoscersi.
Apro la chat, digito il mio Nikname - bimbonotturno - la mia password e aspetto.
Dlinn! Si apre la finestrella che da l’elenco degli amici; il suo nik è già acceso. Come ogni notte
il mio cuore ha un piccolo sobbalzo di piacere; sposto il cursore e lo richiamo.
Dlinn!
occhidiluna - ciao bimbo
bimbonotturno - ciao come stai?
occhidiluna - ti stavo aspettando sai! Mi sei mancato….tanto
bimbonotturno - ti sono mancato? Una ragazza come te non può sentire la mancanza di un
vecchio come me 
occhidiluna - scusami, ma ho passato una settimana molto infelice
bimbonotturno - mi dispiace, posso sapere perché?
occhidiluna - non lo so…e questo mi rattrista ancora di più
occhidiluna - non mi manca praticamente nulla…non so…molti mi invidiano, ma…
bimbonotturno - vuoi provare a raccontare; io so ascoltare
occhidiluna - dovrei ritenermi fortunata
occhidiluna - eppure questi attacchi di tristezza mi uccidono…..
occhidiluna - ….vorrei semplicemente non essere!
bimbonotturno - la tua sensibilità è molto forte
bimbonotturno - così come lo è la tua intelligenza…
bimbonotturno - non devi disprezzare te stessa in questo modo
occhidiluna - ho avuto tanti doni. Ma mi sento come se stessi sprecando tutto
occhidiluna - scusa…non voglio angosciarti
bimbonotturno - devi provare a guardare in modo diverso
bimbonotturno - no!
bimbonotturno - non mi angosci
bimbonotturno - sento la tua tristezza e….
bimbonotturno - e vorrei strappartela di dosso
bimbonotturno - occhi ci sei?
occhidiluna - si scusami
144
occhidiluna - mi perdo a pensare
bimbonotturno - se ti do fastidio dimmelo
occhidiluna - no!
occhidiluna - mi sono collegata sperando di incontrarti
bimbonotturno - magari sei impegnata con un’altra conversazione non ti preoccupare possiamo
sentirci un’altra sera
occhidiluna - ma non hai ricevuto l’e-mail?
bimbonotturno - no
bimbonotturno - quando l’hai mandata
occhidiluna - allora è telepatia!
occhidiluna - 20 minuti fa
bimbonotturno - ho acceso il PC da poco
bimbonotturno - stavo leggendo un romanzo
bimbonotturno - ma mi sono accorto che non riuscivo a seguire le parole scritte
bimbonotturno - così ho deciso di connettermi
bimbonotturno - assurdo vero? Però io non credo alle coincidenze
occhidiluna - 
occhidiluna - ti ho pensato spesso…sai…in questi giorni
occhidiluna - è una cosa stupida
occhidiluna - ma è così
occhidiluna - a volte credo che sia più facile aprirsi e confrontarsi con qualcuno che non si
vede nella vita di tutti i giorni
bimbonotturno - grazie per la “cosa stupida”
bimbonotturno - no! No! scherzo
bimbonotturno - hai mai pensato all’incredibile casualità delle chat
bimbonotturno - ?
occhidiluna - è un mare, incontrarsi è una scommessa
bimbonotturno - esatto
bimbonotturno - è come, però, se si affinasse un istinto a…sentire
bimbonotturno - sentire i sentimenti, le emozioni….gli stati d’animo
bimbonotturno - vaghi nel buio per giorni o mesi
bimbonotturno - poi capita un incontro che desta il tuo interesse
bimbonotturno - dietro la maschera del nik senti un’affinità elettiva
occhidiluna - ti ho persino sognato. Non darmi della matta! eravamo in barca a vela
bimbonotturno - ?? mi hai sognato ???
occhidiluna - qualcosa di te, mi ha stregato. Di solito non mi comporto in questo modo con gli
"amici virtuali". E' un po’ come se ti conoscessi, o meglio come se tu mi conoscessi, e sapessi
esattamente quello di cui ho bisogno
occhidiluna - il che è ovviamente puro egoismo da parte mia
occhidiluna - se mi fermo a pensare mi sembra assurdo, stare qui davanti ad una tastiera a
parlare con qualcuno che potrebbe non esistere
bimbonotturno - io esisto, occhi, esisto finché tu vuoi io che esista
occhidiluna - avrei potuto non incontrarti
occhidiluna - sarebbe stata la stessa la mia vita?
occhidiluna - o questo cambierà qualcosa?
bimbonotturno - dipenderà da te e da me
145
occhidiluna - magari allontanerò anche te un giorno
bimbonotturno - è un rischio che sono pronto a correre
occhidiluna - perché?
occhidiluna - io sono una sconosciuta, tu sei uno sconosciuto perché vuoi correre il rischio di
soffrire. Cosa ti spinge a condividere un dolore, una tristezza
occhidiluna - le mie angosce. Io sono solo parole scritte, quando deciderai di spegnere il
computer questi segni scompariranno
bimbonotturno - non scomparirà la tua presenza però, le tue parole non sono solo segni….sono
pensieri, azioni. Sono sensazioni
bimbonotturno - in quest’ambito, nella chat intendo, la parola scritta è l’unico ponte che
possiamo percorrere per riversare il nostro animo fuori da noi. Se si sa ascoltare, si! Insomma
se si sa leggere si possono capire molte cose.
occhidiluna - e tu cosa leggi nelle mie…..
bimbonotturno - mi ha colpito subito il tuo modo di scrivere
bimbonotturno - diverso…
bimbonotturno - composto
bimbonotturno - e certe tue parole sembravano piccoli “gridi”
occhidiluna - in verità oggi ho solo tanta voglia di piangere. Tutte le lacrime del mondo. senza
un motivo, senza un perché. Lavarmi l'anima e rinascere domani. Ma prima mi ci vorrà un pianto
colossale, con i singhiozzi, i mocciconi e tutto il resto.
occhidiluna - e so per esperienza che se non arrivo a toccare il fondo non esco fuori dalla
spirale di autolesionismo
occhidiluna - quindi litigherò con tutto il mondo, o almeno con quella fetta di gente cui frega
qualcosa di me, farò tabula rasa delle mie amicizie, e soprattutto tratterò malissimo chi mi
ama; poi mi renderò conto che sono una scema
occhidiluna - e ricomincerò tutto daccapo
occhidiluna - è come un’altalena senza fine
bimbonotturno - si può provare a cambiare
occhidiluna - già! Cambiare…, ma al momento l’unico cambiamento che mi viene in mente è
quello di scendere dall’altalena….
occhidiluna - e spegnere l’interruttore
bimbonotturno - spegnere l’interruttore?
occhidiluna - ……..SI…………
bimbonotturno - …………….
bimbonotturno bimbonotturno occhidiluna - bimbo?
bimbonotturno - sono qui
occhidiluna - ti ha dato fastidio quello che ti ho detto?
bimbonotturno - no!
bimbonotturno - vedi, occhi, in questo momento tu mi ha fatto sentire la distanza. L’ho sentita
fisicamente; come un muro spesso tra noi. Io…sto cercando di trovare il modo per….
occhidiluna - per?
bimbonotturno - …….per…..vorrei prenderti per mano e dirti che non tutto va male
bimbonotturno - che nel mondo esistono cose belle. Piccole cose a volte, ma di cui si sente la
mancanza quando le perdiamo
146
bimbonotturno - non trovo giusto che una persona….una persona come te debba soffrire nel
vuoto quando c’è tanto che può riempire la mente
occhidiluna - piccole cose? Quelle piccole cose le ho eliminate dalla mia vita; non servono se
non a soffrire di più.
occhidiluna - Io vivo solo nella mia testa, vivo dei miei pensieri
occhidiluna - ho scelto la mia intelligenza, il corpo non esiste se non per portare a spasso il
cervello. Il mio corpo mi ha procurato solo sofferenze e dolori.
occhidiluna - io, bimbo, ho il corpo pieno di cicatrici.
occhidiluna - per questo amo la chat. Mi permette di comunicare senza espormi, mi permette
di essere valutata, stimata se vuoi, o anche disprezzata solo per ciò che esce dalla mia testa.
Posso anche amare, ma amo la capacità di essere intelligente, la capacità di stimolare la mia
intelligenza. Questo mi eccita veramente.
occhidiluna - il resto è solo un peso inutile
bimbonotturno - dici?
occhidiluna - si. È da tanto che vivo così. Posso essere anche felice così; o, almeno, non sono
infelice….non sempre almeno
bimbonotturno - ma adesso stai male!
occhidiluna - un prezzo che si può pagare per evitare dolori più grandi
bimbonotturno - si occhi….forse hai ragione tu. Si può vivere comunque anche senza tante cose
bimbonotturno - si può vivere senza trovare, la mattina, al proprio fianco la persona che si
ama. Si può fare a meno del suo sorriso quando la svegli con un bacio
bimbonotturno - che cosa importa se la sera tornado distrutto e ferito nell’animo, non c’è un
seno su cui poggiare la testa e acquietare la propria ansia, fondendo il proprio respiro con
quello della persona di lei
bimbonotturno - si può vivere benissimo senza comunicare i propri pensieri anche con la sola
pressione di due mani intrecciate. Si può vivere anche senza quel senso di calda fusione che
pervade due corpi quando sono stati squassati dal piacere. Il palmo di un amante poggiato
casualmente sul corpo dell’altro per prolungare la sensazione del contatto
occhidiluna - SMETTILA!
bimbonotturno - oppure addormentarsi abbracciati. Il corpo della donna accucciato, chiuso fra
le braccia e le gambe dell’uomo. Gli occhi che si chiudono mentre una storia, un fiaba
raccontata in un sussurro, si poggia leggera tra i capelli di lei
occhidiluna - SMETTILA! SMETTILA!
bimbonotturno - hai ragione si può fare a meno di tutto questo!
bimbonotturno - ……………
occhidiluna - …….bimbo….
bimbonotturno -…………
occhidiluna - …….bimbo….
bimbonotturno - si occhi….dimmi
occhidiluna - parlami! Portami un po’ con te, cosa stai facendo adesso
bimbonotturno - sto ascoltando….musica, musica classica
occhidiluna - cosa?
bimbonotturno - Tchaicovsky. Il concerto n°1
occhidiluna - è bello?
bimbonotturno - si molto. È intenso, quasi selvaggio in certi momenti. Anche se la critica,
quando fu eseguito per la prima volta, lo accolse duramente; per me è il più grande quadro di
147
un paese… della Russia.
bimbonotturno - un quadro dipinto con un amore profondo. Fa sentire la sua maestosità, la
bellezza dei suoi paesaggi e la loro dolcezza primitiva
occhidiluna - mi piacerebbe sentirla con te
bimbonotturno - forse…ci possiamo provare!
occhidiluna -  e come? Puoi far arrivare la musica attraverso la chat?
bimbonotturno - no! Pensavo di fare un’altra cosa
bimbonotturno - vorrei provare a descriverti ciò che io sento mentre ascolto
occhidiluna - !!!!!!
bimbonotturno - prova a prendermi per mano su! Dimentica per un momento l’ambiente in cui
stai
bimbonotturno - il concerto si apre con i fiati. Sono usati quasi come tamburi, colpi ritmati
che separano il mondo reale dalla fantasia che stai per penetrare; a loro rispondono gli archi
in contrappunto
bimbonotturno - sulla vibrazione finale entra il pianoforte che ci porta in alto, in alto
bimbonotturno - davanti a noi si estende un’immensa pianura e sul fondo, al margine della
nostra visuale, la linea scura dei boschi.
bimbonotturno - la salita vorticosa del piano si ferma e l’adagio fa percepire la dolcezza delle
colline….
bimbonotturno - poi…..sotto di noi comincia a scorrere……
bimbonotturno - l’erba che è un mare di onde verde scuro, percorse da lampi di verde più
chiaro, quando vengono percosse dal vento
bimbonotturno - ecco!
bimbonotturno - la sinfonia ci adagia ai margini del bosco
bimbonotturno - entriamo nel buio della foresta
bimbonotturno - siamo sommersi dal profumo della resina e del muschio
bimbonotturno - piano
bimbonotturno - piano….
bimbonotturno - entriamo tra i pini giganteschi, scuri, imponenti, severi e le chiare betulle,
allegre e chiacchierone. Pronte a raccontare di se alla minima brezza. Il pianoforte danza e
scherza con i violini. Si rincorre tra gli alberi e le felci.
bimbonotturno - una rapida scala suonata su tutta la tastiera segue la corsa di uno scoiattolo
tra i rami. Si ferma ci guarda e riprende la sua fuga
bimbonotturno - adesso la tutta l’orchestra ci accompagna quasi in una danza su un sentiero
bimbonotturno - di colpo si apre davanti a noi una radura, il suono si allarga, percuote il
cerchio d’alberi, aumenta, ruota nei raggi di sole non più fermati dai rami frondosi
bimbonotturno - ……..un cervo maestoso al centro, immerso in pulviscolo dorato di polline alza
la testa e ci osserva serio
occhidiluna - si lo vedo! È davanti a noi!
bimbonotturno - la musica adesso comincia un nuovo ritmo e lentamente, quasi da nulla, si alza
un richiamo, che lentamente cresce facendosi più possente, più esigente
bimbonotturno - vieni! Corriamo, non lasciarmi la mano!
bimbonotturno - gli alberi si diradano, i violini si dispiegano come vele trasparenti; le note
squillanti del piano le guidano e le controllano. Le colline si alzano davanti a noi. Il sentiero di
note ci indica la più alta
bimbonotturno - saliamo! La musica è sempre più incalzante, più vibrante. Sulla cima un vecchio
148
mulino a vento semi diroccato. Ci appoggiamo ai massi che ne formano la base e guardiamo
davanti a noi…..
bimbonotturno - il sole sta tramontando…la musica è in crescendo, è come un vento che ci
colpisce alle spalle, ci romba nelle orecchie…il piano corre in avanti, gli archi lo inseguono, lo
incalzano, sottolineano le battute, quasi ne amplificano la melodia. I fiati si immettono
creando una conca sonora
bimbonotturno - ………davanti a noi, immenso, maestoso, un fiume d’argento scorre in grandi
anse tra le colline di prati e di boschi. La musica si spegne all’orizzonte, i violini si diluiscono
nel sole che scompare, le ultime battute del pianoforte sgocciolano su di noi e rimbalzano
come perle su un piano di cristallo
occhidiluna - ………….
bimbonotturno - adesso, adesso è solo silenzio….…
bimbonotturno - solo silenzio…….
occhidiluna - bimbo….vorrei essere lì con te
bimbonotturno - vorresti?
occhidiluna - si! Vorrei stringerti la mano toccarti
bimbonotturno - ma non puoi vero……..
occhidiluna - no! Non posso. Non so…..non so se esisti, se io esisto. La musica…
bimbonotturno - si?
occhidiluna - la musica l’ho sentita……l’ho vista
bimbonotturno - la musica esiste. Esiste come esistiamo noi, tu ed io; esistiamo perché il
nostro pensiero ci fa esistere. Ci creiamo, ci diamo un corpo che facciamo soffrire,
vibrare….godere e poi ancora soffrire. In questo istante siamo impalpabili come la musica, ma
come la musica parliamo al mondo. Nella nostra mente possiamo creare tutto; come in un
fantastico laboratorio di uno scienziato pazzo, noi diamo vita a piccole creature che corrono
libere nello spazio. Facciamo scorrere il sangue, in queste entità, le facciamo ridere, piangere.
Gli facciamo fare l’amore ed è la mente che sente il piacere dell’orgasmo. E questo piacere o
questo dolore si ripercuotono in un corpo lontano, riposto chissà dove
occhidiluna - il piacere…il dolore….qui hanno una valenza diversa dalla vita reale. Hanno un che
leggero, certe volte sembra che sia un altro a soffrire o a gioire. Scrivo di ciò che provo, ma
mentre scrivo osservo e mi sembra che quel particolare sentimento si attenui, si diluisca in
una realtà che non mi appartiene.
occhidiluna - ciò che provo qui, in questi interminabili appuntamenti, a volte mi sembra che
possa essere conservato, archiviato, per essere ripreso ed utilizzato in una altro incontro. Un
file con una targhetta, pronto ad essere ripescato e riciclato con un piccolo lavoro di copia e
incolla
bimbonotturno - anche con me ricicli i vecchi sentimenti?
occhidiluna - no! Non con te! non potrei mai con te
bimbonotturno - perché?
occhidiluna - ………….
bimbonotturno - perché?
occhidiluna - perché io ti……
occhidiluna - perché tu sei diverso….perché non posso fare a meno di te
bimbonotturno -  grazie
occhidiluna - tu…….sogni
bimbonotturno - anche tu sogni
149
occhidiluna - no, non credo
bimbonotturno - io so che tu sogni e i tuoi sogni sono belli
bimbonotturno - solo che non ci vuoi credere, pensi che possano essere solo sogni
occhidiluna - perché dici che i miei sogni sono belli?
bimbonotturno - perché tu non riesci a nascondere…
bimbonotturno - anche se ci provi, la bellezza dei tuoi pensieri
occhidiluna - a volte nemmeno io riesco a capire che cosa penso
occhidiluna - ma la mia intelligenza è ciò che mi permette di vivere “lontano” da tutti
occhidiluna - di sopportare il dolore, di accettarlo a volte. Gioco con lui una lunga partita a
scacchi
bimbonotturno - con il dolore o con chi te lo procura….
occhidiluna - a volte si sovrappongono le due cose. In particolare con chi mi vuole ricondurre a
un livello di mediocrità, di vuoto. A chi pensa di dominarmi col dolore
bimbonotturno - non credo che nessuno sia riuscito mai a dominarti veramente, forse lo ha
creduto o forse tu gli hai dato questa illusione, ma credo che nessuno sia mai riuscito a
penetrare il tuo nucleo. La tua matrice
occhidiluna - posso dirti una cosa?
occhidiluna - mi capita sempre più spesso di confrontare te con le altre persone con cui chatto
o che frequento
occhidiluna - quasi una pietra di paragone, non è un confronto facile per gli altri
bimbonotturno - occhi…non lo fare te ne prego
bimbonotturno - ho imparato bene a nascondere il mio lato scuro
occhidiluna - lo so
bimbonotturno - perché so come si fa….
occhidiluna - lo so bimbo, sono come te. Anche io ho dovuto imparare
bimbonotturno - tu sai che ogni tanto cado in un pozzo di autocommiserazione
occhidiluna - anche io
bimbonotturno - il fatto è che guardo me stesso come guardo gli altri e cadono gli alibi mentali
che mi creo per accettare i compromessi piccoli a grandi che faccio giorno per giorno
occhidiluna - tutti accettiamo dei compromessi. Forse tu li accetti per realizzare qualcosa in
cui credi veramente, non solo per un mero motivo di sopravvivenza o di convenienza.
occhidiluna - io credo che l’accettare, in questo caso, che non arrabbiarsi serva ad andare
avanti. Cosa ti può dare il rifiuto di un confronto con qualcuno che non capisce, se non il
ritardo o, addirittura la non realizzazione di qualcosa che, invece, può dare dei benefici alla
gente.
occhidiluna - esiste sempre un’alternativa alla stupidità
bimbonotturno - 
occhidiluna - mi fa piacere vederti sorridere
bimbonotturno - occhi credo che sia molto tardi per tutti e due….
occhidiluna - si è vero! Hai ragione
bimbonotturno - bene allora ti auguro una buone notte piena di sogni dorati
occhidiluna - anche a te bimbo buona notte
bimbonotturno - bacio
occhidiluna - bacio
occhidiluna - click
bimbonotturno - click
150
Come ogni notte, chiudo la finestra della chat con riluttanza; non so perché, lo spegnersi del
computer sembra aumentare il silenzio notturno della stanza. Il senso di sospensione nel nulla,
il senso di fusione e di totale esclusione del mondo, provata fino a pochi attimi prima,
scompare per lasciare posto a una realtà che, per i primi secondi, è difficile mettere a fuoco.
Chiudo il portatile piano, per evitare di essere spaventato dal scatto del coperchio.
Mi alzo dal divano e, dopo aver spento la luce dell’abatjour, mi avvio per la scala.
La porta dello studio è socchiusa e una sottile linea di luce ne delinea i contorni. La spingo
piano e entro nella stanza illuminata dalla lampada da tavolo.
Lei sta ancora seduta a tavolo, una mano è poggiata sulla tastiera e l’altra sfiora lo schermo
acceso del computer.
Mi avvicino e vedo che la finestra chat è ancora aperta; in alto a sinistra il nik
“bimbonotturno” vibra in un’intermittenza simile ad un battito cardiaco che si spegne
lentamente.
Le poggio una mano sulla spalla.
Si volta a guardarmi.
- È ora di andare a letto amore Mi sorride e annuisce poi riporta lo sguardo allo schermo.
- Ho sempre paura di non ritrovarlo, non so come potrei fare. Si porterebbe via i miei sogni Ha una voce da bambina mentre dice queste parole.
Le poggio le labbra sui capelli, sento il loro profumo e il calore del suo corpo, l’abbraccio in
silenzio.
Cosa avrei potuto dirle?
Che era lei a muovere i sogni che lui le faceva vivere ogni notte.
Che le fiabe, i racconti di viaggi, le lunghe conversazioni intime nascevano da un amore fatto di
pensieri, di sensazioni impalpabili, non da sguardi e carezze. Che il legame che li univa si
nutriva di sogni meravigliosamente impossibili e per questo più forti di qualsiasi grigia
possibilità quotidiana. O che, forse, solo attraverso l’inconsistente grata di quel confessionale
elettronico, la mente riesce ad essere se stessa; non ha importanza se dice una menzogna o
dice la verità. Cos’è la menzogna se non una verità troppo timida per mostrarsi.
No! Non avrei potuto dirle nulla, non ne avevo la capacità. Lui si! Lui sa come raccontare e
come dire; domani notte le parlerà ancora.
- Su amore, andiamo a dormire – (Massimo Carubelli)
151
Un racconto al giorno. Giorno 12
È la quarta volta che sposto il sedere indolenzito sul grosso masso piatto, cercando
inutilmente una posizione più comoda. È terribilmente duro e ruvido!
Faccio questi movimenti senza smettere di fissare, con sguardo allucinato, l’orizzonte di canne
giallastre che unisce l’acqua immobile delle saline al cielo azzurro metallico della Camargue.
Forza! È da un’ora che sto il quel punto del nulla! Guardo un’altra volta la strada che ho fatto:
bianca, dritta, polverosa. Poi guardo quella che dovrei ancora fare: bianca, dritta, polverosa.
Sono depresso, indolenzito, sudato e la rabbia ormai è senza controllo.
Mi rimetto in piedi buttando sulla spalla la sacca di cuoio che contiene un cambio di vestiti; al
primo bruciore per lo sfregamento della cinghia impreco contro Roberto, i suoi appuntamenti
da fumato, ma soprattutto contro la mia stupidità per avergli dato ascolto.
Solo poche ore prima stavo in un piccolo ed accogliente albergo di Arles a gustarmi la
colazione servita nel giardino interno. Fragranti croissants ripieni di marmellata, una tazzona
di caffè ed un tripudio di piante, felci ed ortensie colorate grandi come cavolfiori.
Avrei dovuto leggere nell’andatura del padrone, che mi portava una lettera, il passo
claudicante di un destino infausto e nel suo sorriso il ghigno della morte.
Avrei!
Invece l’ho ringraziato, ho aperto la busta ed ho letto quella che sarebbe stata la mia
condanna all’esilio in un buco fatto di saline semi abbandonate, canne, acqua e cielo grigio
piombo, zanzare e caldo.
La Camargue insomma.
Vieni a Saintes Maries de la mer! - c’era scritto - c’è un movimento fantastico! Molla i tuoi
monumenti e le tue abbazie, qui c’è la vita! La vita.
Mi guardo attorno, una lucertola corre tra i fili d’erba sbiaditi sul ciglio della strada, un paio
di gabbiani fanno continui giri sugli stagni e nella polvere della strada si leggono le “s” lasciate
dal passaggio di una biscia.
Un viaggio, questo nella Provenza, che avevo deciso per percorrere in senso opposto le strade
affollate dal turismo sudaticcio d’agosto. Volevo camminare tranquillamente per le strade di
Avignone, leggere le architetture mediterranee di Aix-en-Provence e godermi il tramonto
davanti al Duomo di Orange. Ma, soprattutto, volevo respirare l’aria che aveva respirato Van
Gogh. Vedere quei paesaggi che gli avevano ispirato quadri meravigliosi e vibranti di vita e di
colori.
Mentre la fame comincia a procurarmi leggeri crampi, inevitabilmente, penso alla sera prima:
seduto ad un tavolo dell’Escaladou, ed al delizioso “filet mignon à la crème” accompagnato da
un profumato rosé suggerito dal padrone, il signor Signoret. E pensare che avevo deciso di
tornarci per assaggiare la tanto decantata “Bouillabaisse”!
Certamente l’errore era stato tutto mio; nella fretta avevo capito male quale autobus dovevo
prendere ed ero salito su uno che si dirigeva verso Montpelier. Quando mi sono accorto
dell’errore ho deciso di scendere a St. Gilles per cercare un mezzo che mi portasse nella
direzione giusta. Una famiglia su un enorme camper mi ha dato un passaggio per un certo
tratto ma poi li ho dovuti lasciare perché le nostre strade si separavano.
Le riflessioni sul mio recentissimo passato mi aiutano a continuare quel rettilineo da incubo e
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quasi non mi fanno sentire il rumore di un’auto che viene dalle mie spalle.
Quando finalmente la mia mente lo registra mi volto e mi piazzo in mezzo alla strada pronto a
morire sotto le ruote piuttosto che continuare a piedi.
Lentamente mi raggiunge un vecchio furgone Citroën, uno di quelli squadrati simili alle auto
anni ’920 con un cofano corto e tozzo ed il parabrezza quasi verticale.
Il guidatore è perfettamente intonato al mezzo: anziano, con la faccia rugosa e cotta dal sole,
i capelli bianchi scompigliati, canottiera foracchiata e un po’ lurida ed una sigaretta
penzolante dalla sinistra della bocca. A giudicare dall’odore una Gitane.
Si protende verso di me e attraverso il finestrino del passeggero mi dice una sola parola
Problems?Salto su prima ancora di rispondere e quando il mezzo riprende faticosamente la marcia gli
espongo la situazione.
La sua risposta mi quasi mi uccide.
Saintes Maries sta dalla parte opposta, noi adesso ci stiamo dirigendo verso Aigues Mortes.
Non riesco ad ammirare la bellezza dell’antica lingua provenzale, quello che mi colpisce è la
parola “morte”.
Decido di risolvere la questione nel modo più semplice: mi trovo un albergo, mi faccio una
prolungata doccia, una cena magari a base di pesce e domani noleggio un’auto per tornare alla
civiltà.
L’uomo mi fissa un attimo, tiene un occhio semi chiuso per il fumo della sigaretta, poi riporta
lo sguardo alla strada e dice - Rien d’hotels ici - il silenzio è diventato di piombo. Dopo una
lunga riflessione aggiunge - Il y a le Peintre au Phare de la Gacholle - dice come se dicesse
albergo Miramare, anzi non un pittore ma “il” Pittore. Il suo tono è tale da farmi capire che
non devo più parlare, lo ringrazio e chiudo gli occhi, intorpidito dal caldo e dal sonno.
A risvegliarmi è il suono straziante dei freni ed il contraccolpo della fermata brusca.
Il mio salvatore mi indica qualcosa fuori dal finestrino dicendo - Le phare - ed aspetta che io
scenda. Afferrato il mio sacco esco dal furgone e guardo verso il punto indicatomi. In cima ad
una rupe sul mare c’è una costruzione possente, certamente una antica torre di avvistamento
dei pirati saraceni, come se ne trovano tante lungo le coste francesi, italiane e spagnole;
ampliata rispetto al disegno originale, tutta dipinta di bianco e sovrastata dalla lanterna di un
faro di segnalazione Quando mi volto per ringraziare mi accorgo che il vecchio mezzo si è già
rimesso in moto lasciandomi solo ai piedi del sentiero che porta all’edificio.
Busso ad una piccola porta dipinta di azzurro ai piedi della torre, lo faccio per quasi dieci
minuti; sto per allontanarmi con l’intenzione di girare attorno alla costruzione in cerca di
qualcuno, ma sento una voce con l’accento strascicato del midì - Jariveee - con buona pace per
il resto del verbo. L’uomo che mi viene ad aprire è più o meno sulla settantina, i capelli bianchi
sono folti e lunghi con un accenno di riga in mezzo alla testa, gli occhi sono di un bellissimo
azzurro intenso circondati da tante rughe che suggeriscono la loro propensione al sorriso, ha
zigomi molto pronunciati ed una barba lunga di tre o quattro giorni, il mento molto forte ed
allungato ha una profonda fossetta al centro. Gli occhi e la fossetta sono ciò che attira
immediatamente la mia attenzione.
Sto per parlare, ma lui mi precede - Problemi vero? È sempre così. Quando qualcuno si perde
in questa landa desolata finisce davanti alla mia porta. Come i pezzi di legno portati dalle
correnti marine si arenano sempre nello stesso punto! Entrate prego Lo seguo nel piccolo vestibolo quasi buio dopo il chiarore abbacinante dell’esterno, alla parete
di fronte c’è un attaccapanni di legno a cui sono appesi una giacca di velluto ed un
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impermeabile da pescatore norvegese nero con relativo cappello a tese larghe. Butto la sacca
sul pavimento vicino ad un paio di grossi stivali di gomma e seguo il mio ospite su per una
stretta scala che segue il perimetro curvo del muro, dopo un’infinità di gradini rotti e consunti
dall’uso arriviamo ad una grande stanza illuminata da un finestrone fortemente strombato. Il
pavimento è di cotto vecchio, un po’ sconnesso ma lucido, di fronte alla scala c’è una parete
che certamente divide la pianta circolare della torre lungo il suo diametro; sulla parete si
aprono un enorme camino ed una porta, dalla stanza parte un’altra scala che prima porta ad un
soppalco di grandi travi di legno scuro e poi prosegue scomparendo nell’alto soffitto a vele.
L’arredo è costituito da un tavolo sormontato da una lastra di marmo e quattro sedie
impagliate, un fornello su un lungo ripiano la cui base è coperta da un’incerata a quadretti, una
credenza provenzale con la vetrina colorata e un vecchio frigorifero di cui non si legge più la
marca; vicino al camino un divano ed una poltrona ricoperti da una stoffa a piccoli disegni
floreali. Ciò che, però, cattura la mia attenzione è l’enorme quantità di quadri piccoli e grandi
appesi alle pareti, non c’è un metro di muro libero e sono tutti paesaggi. Paesaggi marini, canali
fra intrichi di canne, barche da pesca in secca e reti appese ad asciugare, vedute e scorci di
città, di paesi, strade di vecchi villaggi e viottoli che serpeggiano nella campagna, ponti, fiumi,
boschi e campi arati, albe, tramonti e notturni. In molti compaiono figure umane, personaggi
che popolano quei riquadri di vita; piccoli, visti in lontananza, sono accennati con colpi esatti di
pennello e vibrano pieni di movimento.
- Penso che si vorrà dare una rinfrescata dopo tutto quel caldo - la voce del vecchio mi aiuta a
distogliere gli occhi dal quel caleidoscopio - Si grazie - e lo seguo verso la porta. Entriamo in
una piccola stanza quadrata le cui pareti sono costituite da armadi; ci sono altre due porte:
una davanti a quella da cui sono appena entrato e l’altra sulla mia destra. Lui mi indica
quest’ultima dicendomi - Troverà tutto il necessario per lavarsi, quando ha finito torni che
prepariamo la cena. Ah! L’acqua sporca la può buttare dalla finestra - Dentro trovo una vecchia
vasca da bagno smaltata e con i piedi a forma di zampa di leone, un pitale ed una bacinella
poggiata su un supporto di ferro dipinto di azzurro. Un piccolo specchio ovale e alcuni
asciugamani appesi ad un chiodo. Alla base del supporto c’è una bella brocca di ceramica,
dipinta con grandi rose, piena d’acqua, sulla parete di fondo una piccola finestrella quadrata.
Dopo essermi lavato ritorno nella stanza del camino e lo vedo trafficare tra il tavolo e i
fornelli - Le piace il coniglio in fricassea? - ci metto un minuto a tradurre, dal suo francese
molto accentato, il piatto che ha intenzione di cucinare: le lapin en fricassèe. E’ una
caratteristica della Francia meridionale mangiarsi parte dei verbi di una frase. Comunque sia,
la fame mi afferra lo stomaco di colpo - La ringrazio! Mi piace! Si certo mi piace molto rispondo dopo aver deglutito un paio di volte.
Lì c’è un bicchierino di Pastis freddo per lei - dice indicandomi un piccolo bicchiere di vetro
spesso, pieno di un liquido lattiginoso - Si sieda e mi racconti la sua storia.
Mi siedo al tavolo e mentre cucina gli racconto quanto mi è successo sorseggiando la bevanda
all’anice. Smette per un attimo di affettare la cipolla e sorridendo mi dice - Non si preoccupi
sono in molti a perdersi in questo dedalo di strade e le indicazioni non aiutano. Adesso
pensiamo a riempire lo stomaco, poi passerà la notte sul divano e domani l’accompagnerò ad
Arles; tanto ci dovevo andare per fare un po’ di acquisti - si volta verso i fornelli per
controllare come procede la rosolatura del coniglio - Il vero segreto nel cucinare questo tipo
di carne sta tutto nella rosolatura - parla, mentre lavora, quasi a se stesso - Deve dorare
dolcemente con un fuoco né alto, né basso. Vivace insomma! Quando comincia a dorare si sala.
Mai prima! Altrimenti il povero animale si secca e non è in grado di assorbire i sapori del
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condimento. Dopo una salatura decente si dà una leggera spolverata di pepe. A questo punto
inizia il lavoro vero. Si aggiunge la cipolla affettata molto sottile ed uno, non più di due,
spicchi di aglio schiacciati. Poi, quando la cipolla comincia ad essere trasparente ed ingiallire,
si versa del vino bianco. Un bicchiere. Poco per volta in modo che il suo profumo penetri nel
coniglio e contemporaneamente faccia macerare la cipolla. Solo alla fine di questa operazione
si versa il brodo, una tazza e mezza - e mi mostra una tazza azzurra su cui è dipinto un
paperotto - Si porta il brodo ad ebollizione e poi si abbassa la fiamma coprendo la padella. Mai
distrarsi però, si deve girare continuamente. Ecco fatto! Adesso apparecchiamo la tavola Mi offro di aiutarlo e lui indica la credenza - Lì troverà tutto - Prendo un paio di piatti, due
bicchieri di vetro azzurro e in un cassetto trovo le posate. Il vecchio tira fuori da una borsa
di tela una baguette e la taglia a grosse fette, mettendole in un cestino di vimini al centro
della tavola assieme ad un piattino col burro insaporito alle erbe, per ultimo porta in tavola una
bottiglia di vino rosso che ha tirato fuori da uno dei ripiani bassi della credenza.
Perfetto! Il brodo si è asciugato. Ecco vede come la cipolla si è sciolta bene, adesso il tocco
dell’artista! - nella stessa tazza dove prima c’era il brodo, apre due uova e le sbatte
rapidamente; poi prende un limone e lo spreme - Questo è il momento in cui bisogna essere
rapidi e decisi. Prima si versa il limone e si alza la fiamma in modo che il succo si consumi per
metà. Appena consumato si deve versare l’uovo sbattuto, spegnere il fuoco e girare il tutto
rapidamente. Ça va! - esclama - a tavola! Consumiamo il pasto in silenzio mentre, fuori, la luce del giorno comincia a tingersi di rosso. Ad
un certo punto l’uomo poggia la forchetta e mi dice che deve fare un piccolo lavoro, se voglio
posso accompagnarlo. Certo - rispondo - e lo seguo su per la scala che porta al piano superiore.
Passando per il soppalco vedo che è un studio di pittura: un grande cavalletto verticale
scaffali pieni di fogli e libri, un tavolo ingombro di colori, vasetti pieni di pennelli, matite e
pastelli, in un angolo una poltrona di cuoio piena di protuberanze su cui è buttato un grosso
plaid scozzese. Continuiamo la salita penetrando in un cunicolo ricavato nello spessore del
muro malamente illuminato da piccole feritoie a gola di lupo. Arriviamo alla terrazza su cui è
stata costruita la lanterna del faro. Appena entrati, il padrone di casa comincia ad armeggiare
con interruttori e pomelli neri.
Tanto per dire qualcosa io gli chiedo come mai continua a far funzionare il faro dal momento
che, oggi, tutte le imbarcazioni sono dotate di sistemi di navigazione satellitare, radar e
sonar. Senza smettere il suo lavoro mi risponde che è vero, oggi non c’è più bisogno dei fari,
ma lui l’accende perché c’è sempre qualcuno che potrebbe desiderare di ritrovare la strada
persa tanto tempo prima. In un primo tempo penso di non aver capito per via della lingua, poi
mi accorgo che la risposta è proprio quella “qualcuno che potrebbe desiderare di ritrovare la
strada persa tanto tempo prima”. Qualcosa in quella frase sveglia la mia attenzione sullo
strano personaggio di cui sono ospite. Forse è proprio questa nuova sensibilità che al ritorno,
nella discesa della scala angusta mi fa scoprire una nicchia che prima non avevo notato. Mi
avvicino per vedere cosa contiene e scorgo il contorno di un quadro, ma la penombra è troppo
fitta così prendo dalla tasca l’accendino e alla luce della fiammella riesco a vedere il soggetto.
La figura di una donna, volto e spalle in un primo piano di tre quarti. Faccio scorrere lo Zippo
davanti all’immagine per scoprirne i particolari: il ritratto emerge da una nebbia verde scura in
cui si intravedono parti di paesaggi lontani come frammenti di ricordi, indossa una camicia
azzurra che si legge solo grazie alle pieghe che sembrano emettere una leggera luminescenza,
la pelle è scura, mediterranea, la faccia è piegata leggermente verso lo spettatore e la testa è
un po’ inclinata verso la spalla sinistra dandole un’espressione da bambina. Ma l’impressione si
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ferma qui perché il volto è quello di una donna matura. La faccia è illuminata da un taglio
diagonale di luce calda e solare, quasi provenga da due stecche di una serranda mal chiusa, che
fa emettere ai capelli corti lampi ramati; l’ovale è irregolare, il naso è piccolo e dritto e la
bocca è morbida e leggermente aperta in un sorriso appena accennato, la fronte ampia e un po’
bombata si intravede sotto una rada frangetta. La fiammella dell’accendino si agita in un
refolo d’aria e illumina gli occhi.
Sono grandi, molto grandi e scurissimi, due frammenti di nulla che ti guardano e da cui non
riesci a staccare lo sguardo. Il movimento della fiamma fa vibrare il dipinto dandogli una
sensazione di vitalità, tanto impressionante, che mi fa fare un passo indietro. In questo
spostamento mi sembra di essere seguito da quegli occhi; so bene che tutto è dovuto alla
centralità dello sguardo, ma mi fa sentire ugualmente inquieto.
Spengo l’accendino e la nicchia ritorna nell’oscurità, ma adesso sembra che nascosta nella
penombra ci sia una creatura viva che respira piano e scruta il mondo in silenzio.
Mi affretto a scendere nella grande stanza dove il pittore mi ha preceduto. La tavola è già
sparecchiata, i piatti sono in una grande bacinella di plastica piena d’acqua; noto che il plaid,
che stava nello studio sulla poltrona di pelle, adesso è piegato sul divano. Lui sta infilando un
cuscino dentro una federa bianca. Appena finita questa operazione si siede sulla poltrona Vedrà che starà comodo e dormirà benissimo, il divano è largo ed abbastanza lungo - poi
guarda la mia faccia e sembra leggermi nella mente - Ha visto il quadro? Si lo ha visto e
adesso vuole sapere perché non ci sono altri ritratti ma solo paesaggi - si alza e va verso il
camino. Dal ripiano, fatto con una vecchia trave annerita dal fumo, prende una bottiglia
panciuta e due piccoli bicchieri simili a quello del Pastis. Me ne porge uno e lo riempie di un
liquore ambrato, ripete l’operazione con l’altro e poi si risiede poggiando la bottiglia vicino ai
suoi piedi.
Noi vecchi dormiamo poco, è come se cercassimo di prolungare la vita non cedendo al sonno.
Se vuole possiamo parlare un po’; a me fa piacere, non sono in molti a venirmi a trovare - fa
una pausa, mi sorride e poi continua - Forse vuole sapere del ritratto. Certo! L’ho visto dal suo
sguardo sa! Però credo che per poter parlare di quel quadro si debba, prima, parlare di cosa si
vede o cosa si pensa di vedere quando si dipinge qualcosa.
Con i paesaggi la faccenda è facile, ci può attirare il colore, l’atmosfera, gli effetti
prospettici. Non importa quanto l’opera finita sia attinente alla realtà perché essa stessa
diventa realtà. Non esiste più un termine di paragone; passato quell’attimo di luce, quel
determinato giorno di una determinata stagione, quel particolare paesaggio non esiste più, ne
esiste un altro diverso che nulla ha che fare con ciò che si è dipinto. Il vecchio paesaggio
ormai vive solo nel contenuto del quadro. Ma quando decidiamo di trascrivere sulla tela un
volto, in particolare un volto di donna, noi cerchiamo di dipingere una sensazione, un
sentimento, un insieme di elementi che determinano quella complessità che chiamiamo essere
umano. Il modello però, a differenza del paesaggio, continua ad esistere e certamente
continua a ripercorrere quella frazione di tempo in cui ha espresso le sensazioni che ci hanno
colpito. E nel momento in cui il pittore poggia il pennello sulla tela, non può prescindere da ciò
che sente per questa persona, non può imprimere nel colore e nelle linee qualcosa che è al di
fuori di lui e del suo spirito. Il problema è: cosa realmente vede in quello che sarà il soggetto
del quadro!
Io sono giunto alla conclusione che non si debba mai provare a dipingere il volto della donna
che si ama e non ci si debba mai innamorare della donna che si vuole di ritrarre. Ma come si fa
a chiudere la propria mente ed i propri sentimenti all’umanità che ci circonda e come facciamo
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a smettere di cercare l’amore che abbiamo sempre desiderato, così come lo abbiamo sempre
immaginato Il vecchio per un attimo resta in silenzio con lo sguardo voltato verso la finestra e verso la
notte che preme contro i vetri. Alla fine annuisce, forse ad una voce che solo lui ha sentito, si
versa un altro po’ di liquore nel bicchiere e mi passa la bottiglia. Poi riprende a parlare quasi
sottovoce.
- Un giorno qualcuno chiese al vostro Petrarca come poteva continuare ad amare Laura ormai
diventata vecchia; come era possibile che questa donna, diversa da quella che gli aveva
incendiato il cuore in gioventù, potesse ancora essere fonte di ispirazione amorosa? Petrarca
rispose con un esempio: un arco lancia un freccia e questa freccia vi provoca una ferita
profonda, poi la corda dell’arco si rompe. Forse per questo la ferita che esso vi ha procurato è
meno dolorosa? Se un giorno una donna irrompe nella mia vita e provoca l’amore, può il tempo,
il silenzio, la lontananza far morire quelle sensazioni e quei motivi per cui è nato l’amore?
So bene, mio giovane amico, che tutto questo è letteratura, ma io sono un vecchio solo e forse
un po’ pazzo. Il tempo non mi manca e i pensieri e le riflessioni arrivano da soli a trovarmi; si
siedono dove è seduto lei e mi tengono compagnia nelle notti invernali di vento e pioggia. Si
scaldano le mani vicino al camino e conversano tranquillamente con me.
Mi permetta, dunque, di tornare al problema accennato prima: cosa realmente un uomo
innamorato vede nel soggetto dei suoi sentimenti?
Noi tocchiamo la donna che amiamo, la accarezziamo, le parliamo, mangiamo e dormiamo con
lei, facciamo l'amore, certo! Ma tutto questo non ci fa capire cosa c’è sotto la pelle, le ossa ed
il sangue che pulsa, cosa si nasconde nei suoi pensieri e nei suoi ricordi. Perché è allegra o
triste, perché una notte è piena di passione e un giorno non ti rivolge al parola. Perché, in
definitiva, è lei che noi amiamo e non un’altra? Nessuno riesce a tollerare gli angoli bui e così
la mente crea un’immagine propria; le dà motivazioni, capacità, difetti, intellettualità così
come noi speriamo che sia o, meglio ancora, come desideriamo che sia! E se questa mente, poi,
è addestrata alla pittura usa la sua conoscenza del corpo umano per mettere nel movimento
dei muscoli, nel pulsare di una vena sulla tempia, nella luminosità degli occhi quelle parole e
quei pensieri che non abbiamo mai detto e mai sentito.
Dopo aver creato questo collage di elementi positivi, puntellati qua e là da qualche piccola cosa
negativa per umanizzarla un po’, lo sovrapponiamo alla persona che ci sta davanti e le facciamo
vivere una vita parallela.
Il quadro, a questo punto, è pronto.
I colori si sdraieranno da soli sulla tela oppure l’otturatore della machina fotografica scatterà
senza aiuto alcuno.
Ciò che noi abbiamo raffigurato è l’amore; il nostro personale concetto d’amore.
I suoi occhi ci seguiranno sempre in perenne adorazione, le sue labbra saranno sempre pronte
a dischiudersi per dirci: ti amo.
La freccia ha aperto la nostra carne.
Ma nel momento in cui la luce cambia, appare un’altra persona, un’altra ancora e poi un’altra!
Capisce amico mio è sempre la stessa persona che si stringe fra le braccia, ma è anche qualcun
altro indipendente, sconosciuto, alieno.
Noi però continuiamo ad amare chi abbiamo ritratto perché in quello abbiamo riposto tutto il
nostro sentimento!
E vi rimaniamo attaccati con tutta la nostra forza, terrorizzati dall’ignoto che ci circondaMi guarda fisso negli occhi, la mano stringe forte il piccolo bicchiere. Sento il mare in
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lontananza ed un cane che abbia, sento gli scricchiolii dell’antica abitazione in cui mi trovo e
aspetto.
- Alla fine, proprio come due naufraghi, cominciamo ad andare alla deriva, l’uno lontano
dall’altra, in un mare di silenzio - riprende in un sussurro - E col passare del tempo si finisce
per cercare di vedere nel quadro ciò che non abbiamo visto nella realtà: i nostri errori e la
nostra cecità. La rabbia cede il posto alla delusione e si accetta quel sentimento umiliante che
è la pietà per non dover provare odio.
E continuiamo a chiederci chi abbiamo amato veramente.
Perché non mi chiede il motivo per cui non distruggo il quadro? Credo che sappia già la
risposta! Un ritratto, col tempo, acquista una sua vita. Accumula in se tutti i pensieri di chi lo
guarda, tutti i dolori ed i sogni. Tutti i rimpianti. E li trattiene, forse liberando lo spettatore
dal suo carico di tristezza. Come potrei mai distruggere qualcosa che si è conquistato il diritto
a vivere, permettendo a me di vivere.
Mi creda mio giovane italiano, mi creda, è meglio dipingere i paesaggi Si alza lentamente e si avvia verso la finestra; mi sembra che la sua andatura, adesso sia più
incerta. Fuori sta sorgendo la luna, gigantesca, la sua luce entra nella grande stanza
ricoprendo tutto d’argento.
- C’è luna piena, vuol dire che ci sarà l’alta marea. Bene! Domani, all’alba, possiamo andare a
cercare i granchi e i gamberi che si lascia sempre dietro, sulla spiaggia, quando si ritira. Che
ne dice, magari prima di andare ad Arles possiamo farci un’ottima bouillabaisse di molluschi!
Ho anche un buon Chateau bianco dell’interno che mi ha regalato un amico. (Massimo Carubelli)
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Un racconto al giorno. Giorno 13
In una scatola. Ma ci può stare una vita dentro una scatola? Possono rimanere chiuse e taciute
emozioni tanto forti dietro le righe di un vecchio diario? Si, a quanto pare si. Una bella
scatola, riposta dentro ad un vecchio mobile in cantina, tutta ricoperta di disegni dai tenui
colori, alberelli e casette di un mondo incantato. All’interno un quaderno con un’etichetta
bianca sopra, c’è scritto Aspettando te…. Alcune foto di un giovane ragazzo e di mia madre
accanto a lui. Alla mia nascita la mamma era sola, lo ho sempre saputo, ma ha parlato così poco
di mio padre! Per caso un diario, chiuso in una scatola magica, di quando lei era incinta e
aspettava me. In un attimo tutte le mie curiosità sarebbero state soddisfatte, tutti i miei
pensieri avrebbero avuto un’origine precisa. Inizio a sfogliarlo e a leggerlo, la mamma scriveva,
con parole scrupolose, di me, di lei, e di quello che avrebbe dovuto essere mio padre. Era il
quattordici luglio quando ha scoperto la mia esistenza e ne era infinitamente felice,
nonostante i suoi vent’anni. Mi rendo conto che lei si sentiva molto sola, non aveva nessun
appoggio: la solitudine crea una disperazione senza rimedio, peccato che la maggior parte della
gente viva in una muta depressione. Sembrava che lei e mio padre mi avessero cercata, che
ambedue mi volessero, ma tra le pagine del diario mi accorgo che il problema era solo suo. I
suoi non la volevano, mentre i genitori di mio padre non volevano me. Scriveva sul diario
bagnandolo di lacrime amare, ma ogni giorno mi diceva ti amo. Così facendo le sembrava di
parlare con me e si sentiva subito meglio. Povera mamma, senza una parola… Ti porto a fare un
giretto in bicicletta, perché tu possa vedere quanto la natura sia meravigliosamente bella, ma
anche crudele; come il mondo sia infinito, voglio tu possa vedere le cose più belle oggi,
attraverso i miei occhi. Anche se siamo soli, bambino mio, noi due nel mondo, dobbiamo
sperare nelle cose migliori, e sorridere, e credere che sarà davvero come noi vorremmo!
Parlava di un silenzio che uccide l’anima, come un odore forte e profondo che si insinua nelle
viscere e puzza di amaro, di acido e di morte. Raccontava delle sue ecografie da sola, di
com’era felice quando i dottori dicevano che stavo bene, di quanta gioia provava nel vedere i
miei occhi, le mie piccole dita e di come mi vedeva bellissima. Le difficoltà da affrontare
erano tantissime e come unico supporto trovava sfogo scrivendo di getto le sue paure, i suoi
problemi e le sue disillusioni. Si sentiva morire, stava soffocando se stessa lentamente. Le
sembrava che tutte le ingiurie delle persone, anche quelle a lei molto care, fossero come terra
su di lei, e si sentiva seppellire. La sua anima vagava come fosse uno spettro, senza voce.
Voleva aggrapparsi ad un raggio di sole per superare anche questo inverno e poter sorridere la
prossima primavera, con me, il suo fiore. Il mondo è il giardino dell’universo, dove l’uomo è il
fiore profumato più bello. Tu sei il mio urlo alla vita, scriveva, in certi momenti l’amore è come
la nota malinconica di una passata canzone, a cui sono legati tanti ricordi, tutti soli, come me.
Parlava della pioggia che piangeva con lei, in quell’inverno inoltrato penetrando dappertutto,
nelle ossa, nell’anima e aveva freddo, aveva bisogno del calore della vita e del focolare
dell’amore. Il suo mondo si era perduto tra i suoi sogni e le sembrava di vivere una realtà che
non era la sua. Aveva rinunciato all’università, al lavoro solo per avere me, ma voleva qualcosa
di più, una famiglia, una vita serena anche per me, come spetta di diritto a tutti i bambini.
Sperava di non vedere mai riflessa nei miei occhi quella luce di tenerezza che luccicava in
quelli di mio padre. Ma i miei occhi sono grandi come quelli della mamma, nei giorni di sole si
intravede lo smeraldo del mare, il verde della speranza, proprio come nei suoi. Sono solo una
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stramaledetta stupida innamorata del padre del mio bambino. Rammentava le prime nausee
che le annunciavano la mia presenza, era così contenta di avermi, anche nei momenti in cui il
mondo le franava addosso. Piccolo cuore mio, ho constatato che il disagio della vita è presente
nei consapevoli e che la felicità esiste nei momenti in cui la realtà è verità, senza inibizioni e
limitazioni. Aveva voglia di un po’ di mondo, di un po’ di sole, di un pezzo di cielo tutto suo su
cui far volare la fantasia. Aveva bisogno d’amore, d’affetto, anche di una sola carezza, era
stanca di riscaldarsi al tepore di una coperta, voleva il presente calore di mio padre per me e
per lei. Immersa in un mare di ricordi malinconici affrontava con il cuore colmo di una
tremenda sofferenza il Natale, regalami la gioia, diceva. In un’altra pagina del diario
raccontava di come una sera l’aveva supplicato di abbracciarla, ne aveva bisogno per trarre
forza, ma lui impassibile, stava a guardare il suo pianto disperato senza fare e dire nulla; ha
pianto per ore, quando bastava un solo istante per consolarla. Faccio fatica a continuare a
leggere, un nodo alla gola mi assale senza sfogo. Ora capisco quei messaggi che mi mandava con
lo sguardo, ci sono sentimenti che si trasmettono solo con gli occhi, perché sono lo specchio
dell’anima. I fogli stanno per finire, bimba mia, papà ci abbandona. Credevo ci volesse bene e
che noi due fossimo le cose più importanti della sua vita, ma era tutto uno sbaglio. Papà non ci
ama più. In aprile, ero già nata. Continua con l’ultimo scritto, ancora dolente continua. E’ da
tanto che non prendo in mano questo abbozzo di dispiaceri che insistono implacabili. Sei qui in
braccio a me, bimba mia, sei così bella, hai un’espressione così dolce da spezzare l’anima, sei
così piccola e indifesa! Cara, sei la mia vita, ti amo sopra ogni cosa, sei la mia sorpresa nei tuoi
piccoli sorrisi, nel tuo sguardo ancora incerto, sei il dolore di quando non mangi e stai male, sei
il mio cuore che soffre se soffri, la mia anima che ride se ridi. Mi addolora guardarti così
mentre dormi, con la tua bocchina aperta e pensare che non sono stata capace di darti un
padre, ma tu devi sorridere alla vita, perché hai il sole del futuro che ti abbraccia. Tua madre.
Viveva credendo fermamente nella speranza e in un roseo futuro che poi si è avverato. Mi ha
dato tutta se stessa, tutta la sua vita con grande amore. Non c’è stato momento, nonostante il
diluvio di amarezze, dolori ed umiliazioni subiti, in cui lei non mi abbia detto o scritto che mi
amava e che mi voleva. E’ stato l’ultimo dono d’amore quel vecchio diario chiuso in cantina; sono
certa che lei, dall’alto del cielo, mi ha dato il coraggio per affrontare quel triste passato,
illuminandomi coi suoi ricordi, per capire i miei incompiuti. Risento il suo sorriso, il suo caldo
abbraccio nel cuore. Grazie mamma, per avermi dato la vita accanto a te sola, ma
completamente colma d’amore come non mai. Da quando sei nata non c’è stato momento in cui
io mi sia sentita sola, la tua piccola anima mi fa tanta compagnia. Tu sei il fiore che ha
profumato, riscaldato, cullato ed amato tutta la mia vita. Non sono più sola, perché ora io ho
te. (Gloria Venturini)
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Un racconto al giorno. Giorno 14
Un treno.
(Olio su carta)
1. Sondrio
Parla al cellulare. Glielo stanno giusto dicendo, per oggi non verranno ad installargli il
caminetto. Ma è felice di avere almeno qualcosa da fare. Ha sempre amato parlare al telefono,
vorrebbe ricevere 3 o 4 chiamate all'ora. Ma col lavoro che fa di telefonate gliene arrivano
una, forse due, ogni mesetto.
Traduce libri. Libri dal russo. Nuovi scrittori. Qualcuno la chiama avanguardia. Ancora non
capisce perché abbia voluto studiare proprio questo. Ogni tanto se lo chiede, ma vorrebbe
chiederlo a sua moglie. L'ha conosciuta là. 50 chilometri a sud di Pietroburgo, in un paesino di
cinquanta anime.
Adesso è un mese che non la sente, da quando lei è scappata così, con due valigie ed un gatto.
In casa gli ha lasciato quasi tutto, anche i suoi quadri. Lei dipinge, dipinge animali in mezzo agli
uomini. Cani in ufficio, scimmie su un banco di scuola o giraffe in un campo da calcio. Da
ragazzina lavorava in un albergo, ma adorava leggere in mezzo alla neve. Ha sempre amato il
freddo.
Lui in Italia per la prima volta l'ha portata a Venezia. Ma c'era l'acqua alta e aveva giusto un
paio di mocassini. Hanno passato 10 giorni a fare l'amore. Ma ora sarà almeno un anno che non
le vede neanche un braccio.
Qualche giorno fa è uscito che era notte, ed è andato con una prostituta. Le ha chiesto come
si chiamasse. Lei gli ha risposto che era tenuta a dargli soltanto ciò per cui era pagata. Soldi
ne ha sempre spesi pochissimi, usa ancora la macchina che gli ha comprato suo padre dopo la
laurea. Una ritmo blu.
Adesso sta molto male, il padre. Potrebbe campare altri mille anni ma non lo riconosce più.
Ogni tanto capita anche a lui, di non riconoscersi, e si chiede se non sia una cosa ereditaria.
Allora si guarda allo specchio, e pensa all'unica volta che guardandosi si è sentito davvero
bello.
Il giorno del suo matrimonio. Portava la cravatta che già aveva portato il padre. Si era
svegliato così presto che per trovare la sveglia ha ribaltato la foto della madre sul comodino.
Quel giorno è arrivato in chiesa un'ora prima, alla radio ancora si parlava dei mondiali ma lui
guardava un bambino, seduto su un marciapiede. Era sporco, e sorrideva. Si è sistemato il
colletto, ha controllato di non avere nulla in tasca ed è sceso. Proprio come adesso. Aspetta
che si apra, poi scende. Si guarda in giro e scompare sulle scale mobili.
2. Centrale
Non era bella, ma sapeva sempre come sembrarlo. Si era fatta crescere i capelli quando tutti
le avevano suggerito di tagliarseli. Un po' per caso, un po' perché si divertiva da morire a fare
l'opposto di quello che le dicevano. Ha perso tre lavori in questa maniera. Lavorava in uno
studio legale, ma volevano costringerla a dare più del dovuto. Lei se n'è andata ma ha lasciato
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una sua foto, forse la più bella, sulla scrivania del capo.
Credeva di essersi innamorata, due anni fa. Ad una festa, lui era l'unico che non le avesse
rivolto uno sguardo. Aveva i capelli cortissimi e neri come il carbone. Non l'ha mai più rivisto,
se non in qualche sogno, quando viveva ancora a Roma.
Una notte si è svegliata e credeva che lui fosse lì. Invece era tutto come sempre. Stava in un
monolocale, l'aveva riempito di blu: l'unico colore che le piacesse davvero. Le ricordava il
mare, il mare di notte. Da piccola non ci era mai stata ma l'aveva sempre cercato. Lo amava,
ma non voleva viverci. Le cose troppo grandi che non poteva capire la spaventavano un po'.
Ogni tanto aveva paura di non essere capitata nel posto giusto. Si stupiva per prima di come
fosse riuscita a non cambiare mai idea. Pensando giocava ad arrotolarsi i capelli, così lisci che
gli elastici cadevano quando se li legava. Ne aveva mille a casa, ma non li usava mai. Da ragazza
glieli regalavano le amiche, o meglio, l'amica. L'unica con cui andasse davvero d'accordo.
Ma ora sta in America, ricerca qualche cosa sul codice genetico. Vive a Houston ed ha 3 figli.
Li ha visti in foto, due biondi e uno bruno. Ha una casa tutta di legno e una coupè rossa.
Chissà com'è pulita, pensa, guardando la parete del vagone. C'è scritto panda. Ci fa caso
raccogliendo la borsa. Poi sorride ai riflessi del vetro, si spinge indietro i capelli e scende giù.
Guarda davanti a sé e scompare sulle scale mobili.
3. Repubblica
Leggeva Gogol', "Le anime morte" e sembrava davvero divertito. Un po' perché davvero lo
faceva sorridere, un po' perché si chiedeva come avesse fatto a non leggere più un libro da
almeno trent'anni. Era il suo primo giorno di pensione. Amava pensare che avrebbe avuto
davanti un mondo. A casa dipingeva paesaggi ma non aveva mai viaggiato. Aveva una casa sul
lago, ma la usava quasi soltanto il nipote, per portarci gli amici. E qualche ragazza.
Era stato in Svizzera una volta, a Locarno. Si era dimenticato la macchina fotografica ed è
tornato a casa con un centinaio di cartoline. Le ha ancora tutte lì. Qualcuna attaccata al frigo,
qualcuna alla credenza, altre dentro una scatola di scarpe con le lettere ingiallite di sua
moglie, anche quelle del militare. Ogni tanto le legge e si risponde in testa, pensando che lei lo
ascolti da lassù.
Ha passato giornate intere ad immaginarsela, quando lavorava all'ufficio oggetti smarriti. Si
chiedeva se lei, anche lì, avesse qualche fiore da curare. Era la sua passione. Sul balcone ha
ancora gerani ovunque, petunie, ortensie, viole e ciclamini. E un vaso di rose che le aveva
regalato il figlio. Credeva che sarebbero morte senza tutte quelle cure. Poi si è accorto che
bastava innaffiarle, lo faceva ogni giorno tornando a casa. Accendeva la tivù e si preparava
qualcosa, ogni tanto ordinava la cena dai cinesi, ma arrivava sempre troppo calda, o troppo
fredda.
Il libro che teneva in mano lo aveva letto il figlio al liceo, assieme ad un'altra tonnellata di
carta che era sempre rimasta in camera sua. Il nipote ci ha giocato un po' ma in breve si è
accorto che i russi non facevano per lui. Preferiva le avventure, e continuano a piacergli. Fa il
medico in Africa, ogni tanto telefona. Ha comprato al nonno un computer per potergli scrivere
e-mail ma è sempre stato spento. La tastiera ha ancora il cellophane attorno.
Vorrebbe stare ancora ore a leggere ma guarda l'orologio e segue per un po' la lancetta dei
secondi. Poi si attacca ad un paletto, fa forza e si tira su. Infila in tasca il libro, rilegato
azzurro, e si scuote un po' il cappotto che si è appena sporcato. E' vernice nera, andrà via, si
dice. Andrà via.
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La porta si apre e scende. Abbassa un po' gli occhi e scompare sulle scale mobili.
4. Turati
Dalle spalle le pendeva un vecchio scialle, rosa e blu. Con dei bei fiori stampati. Lo ripiegava
ogni mezz'ora, sventolandolo ad aprirlo, per riassestarselo con calma. Quasi a stirarlo con le
dita, lunghe e sottili, con la pazienza di una mamma.
Da bambina aveva un'arpa, ci giocava da sua nonna quando viveva in campagna. Voleva che le
insegnasse qualcosa ma era sempre troppo stanca. Lei invece amava correre. Correre sotto la
pioggia. Faceva chilometri. Dicevano che sarebbe andata forte, la prima volta che l'hanno
messa su un tartan. Ma era Luglio, e sotto il sole non riusciva a fare un passo.
Un giorno ha lasciato la scuola e ha preso l'aereo. E' partita per Dublino ed è tornata con un
figlio e una medaglia. D'argento. Ma casa della nonna non c'era più. L'ha venduta, le han detto.
E' una galleria d'arte adesso. In camera sua c'era un enorme ritratto, di un gabbiano con una
zampa ferita.
Ha vissuto un po' in città, dalla sorella del parroco. Una casa di due piani con una ventina di
letti. Poi hanno iniziato a farle un sacco di domande, a venirla a trovare spesso. Alla fine le han
detto che il bambino avrebbe dovuto andarsene. Stare con loro. Una notte sono venuti a
prenderselo e non l'ha più visto.
Lei ha preso le sue cose ed è andata con una carovana. Erano Rom. L'uomo che l'ha ospitata
aveva un'Audi senza il sedile dietro. Lei ci ha dormito. Hanno viaggiato per sei giorni, ogni
tanto si davano il cambio al volante. Poi la porta si è aperta. Lei ha imparato a cucinare.
Comprava piselli e fagioli, ogni tanto pure i ceci. Ogni volta ne teneva uno per sé. Se lo
metteva in tasca, nella giacca nera. Diceva che un giorno li avrebbe dati a suo figlio. Uno per
ogni pianto che non aveva ascoltato.
Ora raccoglie monetine agli angoli. Quello che le danno. Le piace fermarsi fuori dai negozi,
dove mettono la musica. Si siede e aspetta. Poi si alza, si ripiega lo scialle, sventolandolo ad
aprirlo, per riassestarselo con calma. Proprio come adesso.
Mette una mano in tasca e tintinna. Poi scende. Fa per contare e scompare sulle scale mobili.
5. Monte Napoleone
Ha iniziato con dei semplici roller. Glieli ha regalati la nonna ai suoi 11 anni. Giocava in una pista
un po' fuori dal centro. Usava un bastone e una pallina da tennis. Poi si è comprato la sua prima
mazza ed ha sotterrato il suo bastone là a due passi. Un suo amico ha trovato un puck un
giorno. Rosso fuoco. Passava giornate intere in pista, anche da solo. Anche soltanto seduto a
guardarlo. Per poi alzarsi e sentire che sarebbe andato davvero dove voleva farlo andare.
Tirarlo con tutta la forza che aveva in corpo. Distruggere il plexiglass che recinta la pista. Con
un colpo. Questa era la sua sfida, e diceva a tutti che ce l'avrebbe fatta. Quando gli altri
ragazzi sognavano San Siro o qualche set di Hollywood lui voleva soltanto il ghiaccio. Il
ghiaccio di una pista di Hockey, di quelle come si vedono nei videogiochi. Si era disegnato una
maglietta su di un cartone colorato. L'aveva appesa in camera, sopra il letto di suo fratello che
tanto a casa non ci tornava mai.
Poi le magliette le ha viste davvero. E' entrato al palazzetto la prima volta, pagandosi il
biglietto coi soldi della cresima. La partita non l'ha vista. Nemmeno un minuto. Voleva soltanto
vedere il ghiaccio. E sentire che cosa avesse da dirgli.
163
Amava cadere. Cadere e guardarsi intorno, perché gli altri vedessero che non aveva paura.
Quando ha detto al padre che voleva comprarsi dei veri pattini voleva soltanto sentire cosa si
prova a buttarsi a terra e lasciare che sia il ghiaccio a decidere per te.
E il ghiaccio per lui ha deciso che in sette mesi di allenamenti, sarebbe diventato il migliore.
Tanto che nessuno ci avrebbe mai creduto. Giocava con un cappellino al contrario, sotto il
caschetto. Tutte le firme dei suoi amici, glielo hanno regalato alla sua prima partita nell'under
17. Sembrava di essere in un film.
Un giorno ha pianto. Ha tenuto il puck in mano per ore mentre lo portavano in ospedale. Si è
distorto una caviglia e credeva che il ghiaccio si fosse stufato di lui. Invece ha ricominciato,
ore di fisioterapia e palestra. Ci ha messo un anno ma è tornato in pista. Con una firma in più
sul cappello. Suo fratello, che non vedeva da così tanto tempo che da sotto non l'ha neanche
riconosciuto.
Adesso quel cappello ce l'ha in mano. Non ha avuto il coraggio di toglierselo neanche ieri,
quando è stato chiamato in federazione. Non capiva perché. Temeva una squalifica, un
rimprovero. Qualcosa. E' uscito con una borsa blu ed un biglietto aereo in mano. Nazionale
under 21. Parte per Oslo, la settimana prossima. Lo stringe a sé, poi se lo mette su,
sistemandosi il colletto della tuta. You're as cold as ice…
Sta tornando a quella pista un po' fuori dal centro. Quella dove cercava il ghiaccio senza
accorgersi che era il ghiaccio a cercarlo. Cercherà il suo vecchio bastone. Vuole partire con
del plexiglass in borsa. Stringerlo e sentire che ci sono sogni di cui non si può avere paura. Il
ghiaccio. Il ghiaccio.
Chissà che effetto fa cadere adesso. Ci pensa e raccoglie quella borsa blu. Poi scende. Guarda
in alto e scompare sulle scale mobili.
6. Duomo
Quelle calze le piacciono da impazzire. Le ha notate a Londra, in un negozietto a Poland St. e
non se l'è fatte scappare. In Italia non ne aveva mai viste di così. Nemmeno quando torna, ogni
tre mesi più o meno, e fa il tour di tutti i negozi che conosce. Quelli che frequentava da
ragazzina, con le sue amiche, se decidevano di tagliare la scuola. Adesso per darsi un po' di
vacanza deve smollare col college, studia ad Oxford ed ha una camera soltanto per sé, da
quando la sua compagna di stanza è tornata in Giappone.
In bacheca ha appeso un sacco di foto. La più grande è quella di sua sorella. Vive da qualche
parte vicino a Napoli, con un tizio che ha incontrato in vacanza. Lui aveva un mobilificio.
Vendeva divani e sedie, poi le cose hanno iniziato ad andar male. Adesso preferisce sedersi al
bar. Ma sono anni che non la vede. L'ultima volta si sposava lo zio. Cantavano un sacco di
canzoni quel giorno.
Ora invece è lei a cantare. Ad Oxford tutti la chiamano Cherry. Credevano fosse inglese, con
quei capelli rossi e quella coda alta che non cambia dall'asilo, ormai. Faceva la cameriera per
pagarsi un po' le spese, ma non le è mai bastato. Ha scoperto che in Inghilterra adorano
l'Italia. Adesso canta vecchie romanze napoletane, con un gruppo jazz, tedesco per metà. Un
giorno ha deciso che si sarebbe fatta un segno sulla borsa per ogni persona che gli avrebbero
presentato. In un anno l'ha riempita di nero.
Ha frequentato un ragazzo del Congo, uno che suonava per strada ma si era fatto un bel
gruzzolo col crack. Poi ha conosciuto uno che lavora a Londra da un po' ma che è nato a
Trieste. Fa l'assicuratore e lei si è subito fidata. Ha una specie di loft a due passi da Regent
164
St. Il padre gestiva un ristorante là, specialità pesce. Poi l'ha venduto e ha comprato una
grande barca a vela. Del mare conosce soltanto i gamberetti, lei. Li adora. Trova sempre un
modo nuovo per cucinarglieli. E' sempre lei a cucinare qualcosa là.
Ma non sa se diventare una donna di casa. Lui le ha chiesto di sposarlo, ieri. All'aeroporto. Ha
scaricato i bagagli dalla Volvo e l'ha guardata negli occhi. Lei non sapeva, non sa. Vorrebbe
fuggire, andarsene. Ma in fondo non vede l'ora di tornare in quel loft a guardare la gente che
passa. Aprire la porta e reinfilarsi i lacci degli anfibi. Dargli un bacio e correre giù. Proprio
come adesso. Solo che adesso lui non c'è.
Da un calcetto a terra, è ancora fango inglese, pensa. Passa una mano sulla coda e la fa
scorrere giù, giù. Fino alla fine.
Poi scende. Gli occhi a un cartellone. C'è ancora qualcuno che scrive lettere al mondo? Si ma
chi pensi le legga? Si chiede. Poi si mette una mano in tasca. Riparte e scompare sulle scale
mobili.
7. Massori
Comprava il Corriere ogni giorno. Dava un'occhiata al titolo e si sedeva. Poi prendeva una
vecchia biro, di quelle che regalano ai supermercati, di uno strano nero brillante che da
lontano pareva d'oro. Si infilava il cappuccio nella tasca del cappotto, affianco a un pacchetto
di sigarette lì da chissà quanto. Fumava soltanto quando fuori pioveva, senza l'ultimo ombrello
che aveva perso due anni prima, ad una mostra.
Tracciava i contorni della testata, poi partiva a disegnare punti. Tutti i punti che gli venissero
in mente. Punti. Da quando era un bambino, ha sempre amato i punti. Nessuno può misurare un
punto. Eppure sono così importanti, pensava. Li incastrava e li faceva scorrere come treni
attorno alle lettere. Fra una A ed una M, un punto. Corre così in fretta che nessuno ha mai
avuto la pazienza di stargli dietro.
Ma lui di pazienza ne aveva all'infinito. Ogni giorno faceva colazione al bar. Un caffè senza
zucchero e una Brioche alla crema. Poi tornava a casa e si sedeva per terra, nel suo studio. Un
vecchio capannone tutto vetrate. Se l'era costruito con suo padre, quando ha iniziato a
lavorare. Era il suo lavoro, costruire. Costruiva mosaici. Per grandi palazzi o per fondazioni
culturali. Aveva milioni di tessere di vetro. Le ritagliava quando faceva sera e non poteva più
lavorare. Non aveva lampade nel suo studio. Un mosaico è come uno specchio, diceva. Ma può
riflettere soltanto la luce del sole.
E proprio il sole era la sua passione. Aveva imparato a leggere l'ora, soltanto dall'ombra della
quercia che aveva davanti alla finestra. Il suo orologio era fermo da secoli, alle 15.25. Ogni
mattina si alzava e faceva una foto all'alba. Proprio mentre sorgeva. Poi le portava a sviluppare
e le raccoglieva in album enormi, come raccoglitori di ufficio. Ne portava sempre uno con sé.
Lo mostrava a chiunque gli dicesse che i giorni sono tutti uguali.
Ogni anno prendeva l'aereo e accompagnava un suo mosaico da qualche parte. Venivano con due
camion, lo dividevano in due parti uguali e lo portavano via. Non aveva mai fotografato nulla di
suo, è il sole a dargli vita, diceva. Il sole. Look up in the sky recognize it's sunshine.. Un giorno
un giornalista ha deciso di fargli un catalogo. Ma lui si è rifiutato. A chi vuoi che interessi?
Chiedeva. Ma sempre più spesso qualcuno gli telefonava e gli proponeva un lavoro nuovo, lui
sorrideva e metteva giù. Non voleva che si parlasse di lui, ma era diventato sempre più
richiesto. Un giorno sul Corriere l'hanno messo in terza pagina, ma come sempre non l'ha
neanche aperto. Dopo averlo riempito di punti lo ripiegava e si sistemava la sciarpa che
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portava anche in primavera. Poi si alzava, sempre qualche secondo prima che il treno si
fermasse. Proprio come adesso.
Scende, sta un attimo fermo e si guarda intorno. Poi va verso una panchina, guarda i suoi punti
per l'ultima volta e li lascia lì. Devono correre, correre da soli. Si volta, riparte e scompare
sulle scale mobili.
8. Crocetta
Teneva aperto un libro d'arte sul velluto dei pantaloni, uno di quei libri tutti lucidi che aveva
recuperato un po' in giro per l'Europa, nei lunghi pomeriggi in cui non faceva che passeggiare,
passeggiare e disegnare. Kandinskij. Una coppia a cavallo, e le luci di Mosca andavano a
braccetto coi neon su cui puntava gli occhi prima di cambiare pagina ogni volta. Aveva le
scarpe allacciate in un grosso nodo e giocava a slacciarsele, una con l'altra, solo con i piedi.
Come faceva da bambina, mentre si dava ai compiti con la testa china sul tavolo che aveva
trasformato in una scrivania.
Non si era mai sentita brutta, ma non sopportava di guardarsi allo specchio. Diceva che gli
occhi la tradivano, che gli altri ci leggevano sempre qualcosa di diverso. O forse ogni tanto era
lei a confondersi, a pensare di essersi tradita. Si era innamorata una volta soltanto.
Una volta soltanto ma ci aveva messo degli anni a capirlo. Un po' perché non ci credeva, un po'
perché non sapeva se volesse crederci o no. Diceva, beh, capiterà a tutti prima o poi no? Erano
passati anni ormai. Eppure ogni tanto ricominciava a pensarci e a porsi tutte quelle domande a
cui allora la risposta era sempre e soltanto una,così semplice. Ti stai sbagliando.
Ma poi non aveva il coraggio di parlarne con nessuno. Temeva che qualcuno le dicesse che non
avrebbe avuto alcun senso. Innamorarsi di una persona che conosci da così poco. Una persona
che ha già il cuore impegnato chissà dove. Una persona così tanto diversa da te. Ma
soprattutto. Temeva che qualcuno le dicesse, no. Non ha senso innamorarsi di una persona, se
questa persona è la tua migliore amica.
Eppure a lei sembrava che per una volta gli occhi non potessero tradirla. Era bella, si. Aveva il
sorriso di chi è in corsa e ha preso il ritmo. Ogni tanto si fermava. Ed era proprio in quei
momenti che si accorgeva di amarla. Poi, l'ultimo giorno di scuola del terzo anno le ha scritto
un biglietto ed è scomparsa. E' partita subito. Ha finito la scuola in Australia. Là suo padre
aveva un amico d'infanzia, è stata lei a chiederglielo. Ancora non sa se sia stata la scelta
migliore, ogni volta che ci pensa le torna in mente suo nonno. Il passato è passato, diceva.
Banale, si. Però sono le ultime parole che le ha detto, prima di morire.
Non l'ha mai più rivista. Forse sapeva dove avrebbe potuto andarla a cercare. Sapeva dove, ma
non perché. In fondo sarebbe stato soltanto farsi del male, e perché poi? Aveva soltanto una
sua foto, scattata in gita al liceo. Erano sedute su una scalinata, sorridevano con una bottiglia
di birra in mano. Era stata male, e da quel giorno beve soltanto succhi di frutta. Somebody
told me that this planet was small…
I suoi libroni patinati li tiene tutti in una mensola, ha una bacheca sotto. Una bacheca dove
tiene le lettere a cui deve ricordarsi di rispondere. La sera, si siede davanti al suo computer e
mette un po' di musica. Di solito Jazz, oppure qualcosina di classica. Magari qualche pianista di
quelli coi capelli sugli occhi, quelli che ogni tanto, quando le dita vanno giù pesanti, si danno uno
scossone all'indietro e riportano le ciocche a posto.
Perché anche lei vorrebbe darsela una scossa. Vorrebbe fermarsi e guardare tutti gli altri
senza essere vista. Vorrebbe giocarsi l'identità. Le carte dell'orgoglio contro il titolo troppo
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noto. Quello di diversa. Ma diversa da chi?
Le viene da dirselo, poi chiude il libro. Beh, per oggi tocca scendere. Si alza e si riassesta le
braghe. Poi fa una corsetta alla porta, si è già fermato. Salta giù e si infila il libro nella borsa.
Poi si passa una mano nei capelli, corti e duri come tanti piccoli spaghi. Riparte e scompare
sulle scale mobili.
9. Porta Romana
Teneva stretto in mano un piccolo berretto di lana. Azzurro, con un grande fiore ricamato.
Una margherita. Giocava facendo scorrere il dito su ogni petalo, come accarezzandolo. Lo
tastava e lo tirava un po'. Era abbastanza resistente, si. Sorrideva e lo stringeva a sé, alzando
gli occhi a pubblicità a cui non avrebbe mai fatto caso.
L'aveva cucito lui, con le sue mani. Usava l'ago da quando era soltanto un ragazzino, ma
soltanto in carcere ha imparato ad usarlo per cucire. Un anno. E' rimasto un anno in una cella
tutta verde, di un verdino da ospedale. Il suo compagno di cella aveva una barba lunghissima.
Veniva dall'Algeria, gli aveva raccontato tutta la sua vita. Aveva un figlio, in Francia. Non lo
vedeva da quasi sei anni. Poteva anche non esserci più.
Lui sorrideva e si sentiva fortunato. Aveva un figlio anche lui, sapeva che c'era. Un mese prima
era arrivata una lettera. Prima di aprirla se l'è tenuta una notte sul petto. Ogni tanto la alzava
e la metteva a riflesso con la luna, trafitta dal ferro delle sbarre. Era lei, pensava. Era lei. Poi
l'ha aperta con le unghie e l'ha letta tutta di un fiato, sputando via con gli occhi la polvere che
si era lasciato cadere addosso. Una bic rossa, comprata apposta per lui. E le sue parole che
scivolavano sulle righe di un vecchio quaderno di scuola. Con quelle "e" lunghissime e quei
puntini di sospensione che non finivano più.
Lei parlava così, con tante pause. E tanti punti di domanda, che spesso era lui a metterle
perché lei non avrebbe mai avuto il coraggio di farlo. Temeva che soffrisse, che si
preoccupasse. Lei, diceva, avrebbe potuto cavarsela da sola. Tranquillo. Per sei mesi non era
andata a trovarlo, neanche un'occhiata. Poi è riuscita a scrivergli, anche se sua madre non è
mai stata d'accordo.
Sarà da lei, pensa, dalla madre. Starà cambiando un pannolino o scaldando un biberon.
Sarà sdraiato, pensa, sdraiato sul suo letto con un libro. O la gazzetta che arrivava ogni
giorno, del giorno dopo. E invece lui sorride, sulle sue scarpe da calcetto che han comprato
insieme. Vuole suonare il campanello e dirle che era tutto solo un brutto sogno. Dirle che gli
hanno aperto e ha detto addio alle sue pareti verdi. Che. Che vuole soltanto darle un bacio, e
stringere la mano a quello strano bambolotto. Ciao, io sono il tuo papà! Daddy's here, and I
ain't going nowhere baby...
Suona bene papà! Papà! Si gratta un po' il mento rasato perfetto. Poi scende. Tira per l'ultima
volta il berretto e lo infila nel tascone dei pantaloni. Papà! Poi riprende il passo e scompare
sulle scale mobili.
10. Lodi
La chiamavano cicogna. Le classiche cattiverie da studenti, è vero, ma ogni tanto veniva
proprio da chiedersi cosa aspettasse a aprire le ali e volare via. Leggera com'era, forse,
sarebbe finita chissà dove, un isola deserta da qualche parte in qualche oceano. O un piccolo
pezzetto di terra in qualche posto del nord, dove metter su il suo berrettone di pelo e i suoi
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guanti caldissimi.
E invece era come se vivesse in grecia, circondata da uomini barbuti che passano giornate
intere a parlare e parlare. Anassimene e Anassimandro. Pitagora e Protagora. Socrate e
Platone. Aristotele e Zenone. Sempre lì, costretta da qualche caso del destino ad insegnare
filosofia alla bellezza di cinque classi, tutte e cinque del medesimo terzo anno.
Che poi, lei questi uomini barbuti scolpiti solo nella pietra, li aveva forse amati più di quanto
avesse amato un qualunque altro uomo in carne ed ossa. Usciva con un ragazzo, ai tempi del
liceo. Lui era biondo e capellone, con una risata che si era studiato davanti alla TV. Voleva fare
Fonzie. Diceva ehi a tutti. Ma soltanto lei gli aveva risposto, lo aiutava anche a farsi i compiti.
Un giorno lui si è messo in testa che voleva andarsene in America. Ha messo tutto ciò che
aveva in un borsone da militare del fratello ed è partito.
Lei è tornata al De Anima. Si è letta nel suo lettone praticamente tutto ciò che ha trovato di
Aristotele. Avvolta in quelle coperte enormi, che la madre gli sistemava ogni mattina. Gli
piaceva arrivare a scuola almeno mezz'ora prima, con la bicicletta che usava il padre quando
faceva il postino. La legava sempre ad una specie di inferriata a cui i bambini giocavano a
tirare calci, perché qualcuno aveva detto che sarebbe venuta giù. Invece era lì da almeno
trent'anni, ed ogni tanto era la bici a prendersi dei bei scossoni. Ma lei tornava e la tirava su
sorridendo.
Anche adesso sorride. Ogni volta che qualche ragazzo la saluta e le chiede qualcosa. Ogni volta
che qualcuno alza la mano e le risponde. Anche quando deve urlare sorride. Alza un po' il
braccio e poi batte sul tavolo, ma senza. Rumore. Poi si ricompone e ricomincia con i suoi
uomini barbuti. Guardando fisso nel bel mezzo della classe, perché tanto sono le parole a
dargli gli occhi. E' questo che i barbuti le hanno insegnato.
Quando l'hanno vista a scuola per la prima volta qualcuno diceva che era come se avessero
preso tanti pezzi a caso. Poi l'avessero montata. Ma con qualche centimetro qua e là che ha
preso il volo, con qualche pezzo un po' più lungo. E qualcuno un po' più corto. Lei lo sapeva.
Sapeva che da bambini c'era sempre stato qualcuno pronto a ridere. E sapeva soprattutto che
i bambini non sono poi così diversi dai grandi.
Ma sapeva anche che in fondo i suoi uomini con la barba erano un po' proprio come lei.
Qualcuno non li capiva. Qualcuno non li poteva capire. Qualcuno non li voleva capire. Ci pensava
ogni volta che si toglieva gli occhiali e stava un po' ferma a guardare la classe che piano piano
andava sfuocando. Ecco, diceva che tutto in fondo era un po' così. Bastava un secondo per
perderlo di vista.
Ma poi ricominciava a parlare. E a sorridere senza che nessuno le avesse mai chiesto di farlo.
Soltanto così. Prendeva la sua bici e tornava a casa, dove la madre ancora ogni tanto le
rifaceva il letto. O le sfilava qualche libro da sotto le braccia, quando si addormentava ancora
con la luce accesa e con la serranda su. Da quel balcone al dodicesimo piano.
Torna a riprendersela ora, a riprendersi quella bici che qualcuno questa volta a preso a calci al
posto dell'inferriata. Sono bambini, pensa. Chi. Non lo è?
Si rimette su il berrettone di pelo e i guanti caldissimi. Poi si guarda a terra, quasi a
controllare di essere davvero in piedi. La porta si apre e lei è sotto con un passo. Sorride. Poi
raccoglie un volantino a terra. Ryanair. Riparte e scompare sulle scale mobili.
11. Brenta
Aveva ai piedi una grossa bandiera arrotolata, di un rosso che un tempo doveva essere stato
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acceso. Negli anni si era un po' lasciata andare ma ci teneva davvero tanto a quel pezzettone
di tela. Gliel'ha regalata il nonno, era la sua, quando è venuto a trovarlo alla festa di leva.
Qualcuno ha tentato di alzargli le mani quel giorno, ma lui se l'è tenuta stretta. Con
quell'orgoglio di chi fa qualcosa senza sapere bene perché, ma sapendo che è la cosa giusta. La
teneva appesa al suo armadio, quello dove stipava i cappotti e le vecchie camicie che piano
piano sono passate di moda. Ma lei è sempre rimasta lì. Lo ha visto crescere. Il giorno che i
suoi sono partiti è rimasto a fissarla per ore. Siamo io e te, diceva. Io e te. Lei lo ha visto
quando ha finito di scrivere il suo primo libro. Lo ha visto quando ha fatto la prima volta
l'amore. Ogni tanto la prendeva e la portava con sé da qualche parte. Manifestazioni.
Collettivi. Scioperi e qualsiasi posto in cui quel pezzo di tela avrebbe potuto parlare per lui.
Non ha mai perso un'occasione. Qualche suo vecchio amico gli dava del pazzo, diceva, sei
grande, trovati un lavoro. Lui si è iscritto all'università ed è andato fuori corso prima ancora
che capisse cosa un corso fosse. Passava le giornate in biblioteca, e si guadagnava da vivere
dando lezioni d'Italiano e Latino a qualche studente del liceo. Ogni mattina prendeva la sua
vecchia bici e passava a metter volantini fuori dalle scuole. Lo conoscevano un po' tutti ormai.
Johnny, così lo chiamava qualcuno di quelli più grandi, perché somigliava a un qualche
personaggio di un qualche film. Con quei riccioli biondissimi e quegli occhi di ghiaccio.
Lui sorrideva, sorrideva e salutava. Credevano spacciasse. Un giorno lo hanno fermato dei
carabinieri, gli hanno svuotato lo zaino e hanno trovato soltanto libri. Documenti? 26 anni.
Trovati un lavoro, coglione. Così gli han detto. Tutti uguali, siete. Tutti uguali.
Eppure lui si sentiva diverso. Anche se non sapeva poi bene chi fossero gli uguali e chi i diversi.
Sapeva soltanto che a lui la vita piaceva così. Con la sua bici, il suo eskimo, i suoi vecchi
mocassini e quel piccolo appartamento pieno di libri.
Aveva conosciuto una ragazza a una riunione. La più bella che avesse mai visto. Ma non era mai
riuscito a dirle nulla più di un come va. La incontrava ogni martedì, quando prendeva la metro e
andava dall'altra parte della città. Lei. Era l'unica cosa che avesse davvero temuto di veder
sparire in tutta la sua vita. Non ha senso, diceva. No. Stringeva la sua bandiera e le chiedeva,
scusa, per te ce l'ha qualche senso?
E lei sapeva rispondergli. Perché era il simbolo di qualcosa che aveva passato una vita intera a
cercare. Senza sapere se volesse proprio trovarlo o il bello stesse proprio lì. Cercare. Correre
e cercare. Oppure soltanto camminare, o andare in bicicletta sfidando l'inverno. Come aveva
sempre fatto. Guardava la sua bandiera e le diceva grazie.
Ma oggi ha deciso. Si è svegliato in piena notte che gli sembrava che qualcuno lo stesse
prendendo a pugni. Invece era lei. L'aveva soltanto appoggiata. E lei era venuta giù, con tanto
di asta, proprio dritta sulla sua fronte. Lui si è alzato, si è preparato un the verde e ha tirato
su la serranda. I can feel the city breathin'... ha acceso il vecchio giradischi e ha messo su i
Black Star. Poi si è seduto sul balcone ed ha iniziato a ridere, ridere, ridere. Ha aspettato
l'alba. Era l'ultima cosa che aveva deciso di aspettare.
Oggi è martedì. Ha preso la sua bici fino alla stazione e l'ha legata a un palo pieno di adesivi.
Ce n'è ancora uno del suo primo libro. Era poco più che un opuscolo, ma l'aveva fatto girare
per tutta la città. Adesso si alza e tiene stretta la sua bandiera. Qualcuno lo sta puntando. Ma
lui continua a sorridere.
Guarda negli occhi un ragazzino con uno zaino pieno da scoppiare. Poi gli fa un cenno e scende.
Oggi è il suo giorno. Oggi. Mette un piede a terra e ride. Poi fa due passi e ricomincia. Ridere
e ridere. Ehi, ehi, ma io chi sono? Chiede alla bandiera. Ma questa volta non aspetta una
risposta e parte spedito. Si volta un'ultima volta e scompare sulle scale mobili.
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12. Corvetto
Non è possibile! Capitava ormai due volte ogni giorno che quel portatile si spegnesse così,
senza nemmeno una botta, un suono, nulla. Toccavi un tasto e andava tutto via. E lei ogni volta
sapeva di non poterci fare niente. Di solito si staccava un orecchino e ci giocava da anello. Mi
scarico un po', pensava di dire se qualcuno glielo avesse chiesto. Ma poi nessuno ci faceva
nemmeno caso e tutto ricominciava come prima.
Il suo primo giretto in borsa l'ha fatto a 9 anni. Suo padre lavorava là, anche se non è che
fosse proprio un pezzo grosso. Faceva le pulizie. Quando tutti se la filavano e quei grossi
schermi, che non erano ancora computer, restavano lì, immobili, a aspettare che venisse un po'
di polvere a abbracciarli e a dare loro un po' di carezze. Forse anche loro hanno un cuore, così
si diceva ogni volta che quel dannato XP si metteva a nanna da solo. Era l'unico modo per
convincersi che scaraventarlo a terra non sarebbe stata la risposta migliore. Che poi in fondo
lei non se ne accorgeva ma sapeva farci proprio di tutto lì sopra. Persino qualche giochetto di
grafica.
Aveva iniziato a lavorare così, per caso. Perché suo padre conosceva un po' tutti ed era quasi
una mascotte. Col suo metro e quarantadue e il basco tutti i giorni. A tutte le ore. All'inizio
pensavano che avrebbe dato di che ridere in fretta. Una ragazza coi computer, ehi, cosa vuoi
che faccia? Poi si è scoperto che, forse si, piano piano, con un ritmo tutto suo, lo stesso di
tutto ciò che aveva fatto nei suoi 29, ma non lasciava mai una mezza virgola al caso. Non le
sfuggiva nulla. Un salterello in su, uno piccolissimo in giù, di un'azioncina. E subito sapeva come
far saltare, lei, le sue dita per non perderla di vista. Niente di enorme e clamoroso. Si
muoveva sulle mezze misure. Quelle che tutti ignorano e un po' a tutti poi vanno addosso. Così
ogni giorno. Ogni giorno col suo profumo.
Perché cambiava sempre boccetta, più di quanto si cambiasse d'abito che, è vero, non era
certo il suo forte. Non abbinava i colori, ma non riusciva a uscir di casa senza un profumo che
non sentisse suo. Suo. Si colorava di profumo. Qualcuno se lo creava lei, in casa, con alcool ed
essenze che le portavano le amiche, da qualche parte del mondo. Aveva due grandi amiche,
ancora delle superiori. Erano inseparabili. Quando tagliavano scuola andavano sempre per
vetrine a cercare boccette. Una sognava di diventare modella. L'altra un medico famoso.
Lei invece ha sempre soltanto sognato di trovarsi un lavoro che la facesse sorridere, come suo
padre. Sapeva che non capita spesso di uscire alle 7 con il sorriso in fronte, ma voleva che
fosse così, qualsiasi cosa le toccasse fare. Qualcuno la chiamava quotidianità. Per lei era
semplicemente quel che aveva sempre sentito. Non un obbligo, nemmeno una scelta.
Semplicemente così, si diceva, questa è la mia vita.
Viveva ancora col papà, in un appartamento non molto più grande dell'ufficio dove l'avevano
promossa. Ogni sera tornava a casa, si toglieva quei tristi tailleur a cui era quasi costretta, e
si metteva su una tuta fra tutte. Poi una fascia in fronte, un paio di guanti se serviva e via, si
metteva a correre per un'ora almeno, ogni sera prima di cena. Tornava, una doccia, e si infilava
sotto le coperte. Spegnendo la luce del comodino che illuminava soltanto qualche vecchio
romanzo francese e una fotografia di un bambino biondo che sorride.
Oggi non vede l'ora. E' un giorno esattamente uguale a tutti gli altri, ma non vede l'ora di
tornare, togliersi via tutto e correre. Correre. Chiude il computer con mano esperta. Poi il
suono metallico della valigia che si chiude. Stacca sui tacchi e fa un piccolo balzo per superare
uno zaino poggiato per terra. Poi le porte si aprono e scende. Si riassesta la gonna. Porta un
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polso fin sotto il naso e inspira. Vaniglia. Si guarda avanti soddisfatta. Poi riparte e scompare
sulle scale mobili.
13. Porto di mare
Le aveva scritto una lettera. Sapeva che le lettere non le scrive più nessuno, è vero. Ma
gliel'aveva scritta lo stesso, con quella stilografica che aveva recuperato chissà dove, a cui si
era affezionato talmente tanto da non lasciarla mai sola. In qualche tasca, o in quel vecchio
zaino blu che aveva sempre sulle spalle. Gli chiedevano sempre che cosa ci portasse. Oggi
avrebbe risposto. Niente, niente, tranquilli. E' soltanto un cuore.
Aveva strappato un foglio da un'agenda, quella dove scriveva i testi delle sue canzoni,
incorniciati da qualche foto, appunti e numeri di telefono dimenticati il giorno stesso. Data 2
di febbraio. Si era seduto su una panchina appiccicosa di pioggia, col suo cappuccio su e col
walkman spento, una volta tanto. Era lei la sua musica. Il più potente dei beat che avesse mai
potuto sognare. Uno di quei beat da cui non sai mai cosa aspettarti. Un beat che ad ogni
battuta tira fuori un loop diverso. Quel beat che ti obbliga in freestyle anche quando hai mille
testi pronti. E lui di testi pronti credeva di averne così tanti che ogni tanto si chiedeva chi
glielo facesse fare. Poi lei arrivava, una o due volte a settimana, non di più. Con quelle scarpe
rosse che avrebbe riconosciuto dall'altra parte del mondo. E nei suoi occhi scopriva ogni volta
un suono diverso. Ogni volta qualcosa di nuovo per cui perdere la testa. Era difficile, si. Perché
non è da tutti avere sempre qualcosa da inventarsi, avere sempre una nuova carta da giocare.
Ma fino all'ultimo, all'ultimo, sentiva che ci sarebbe riuscito. E invece il tempo passava e quei
mille suoni piano piano iniziavano a confonderlo. Quel rullante secco che dava il ritmo ai suoi
pensieri andava sempre più forte. Talmente forte che una sera l'ha fermata e ha tirato fuori
tutte quelle voci troppo basse, quasi sussurri, di cui nessuno avrebbe potuto accorgersi.
L'orchestra si è fermata. Ha suonato un piccolo triangolo. Il piccolo triangolo di quelle mille
piccole parole che nei grandi discorsi e nelle grandi passioni lasciamo sempre correre via, come
se nulla fosse.
Ma è durato poco. Un suo sguardo, è bastato un suo sguardo, perché il piccolo triangolo si
mettesse a correre. Correre via spaventato. Sotto la pioggia dei rimorsi che non si ferma mai.
Quasi vergogna. Vergogna che un piccolo strumento si sia permesso di fermare un'orchestra
per dire la sua.
Poi. E' venuto il silenzio. Il silenzio delle domeniche d'inverno in cui tutto sembra immobile.
Quel silenzio che solo un bacio riesce a colmare. Quello che spegne i fuochi ma gioca a
soffiare sulle ceneri per tenerle accese.
Soltanto così. Una mattina lei gli ha mandato uno di quei messaggi troppo scottanti per essere
tenuti in memoria. Ma troppo importanti per essere cancellati. Lui. Lui ha capito. Era giunto il
momento di suonare per quel piccolo triangolo. Il momento di correre dalla sua orchestra. E
dimostrargli che tante volte le rose possono nascere pure fra le crepe dell'asfalto.
Per questo ha lasciato camera sua. Ha lasciato il sole timido di questo pomeriggio riflettersi
su quel letto dove credeva fossero le lacrime a risolvere tutto. Ha lasciato i suoi libri, i suoi
mille dischi sparsi sulla scrivania, neri come le notti senza stelle in cui tocca inventarsi tutto.
E si è inventato di uscire. Uscire, prendere in mano quella penna e dirle che qualcuno ha
inventato la musica proprio per questo. Perché una nota da sola non è nulla.
Negli occhi ha la luce di un pianto che non uscirà. Nelle mani un futuro con cui sa che dovrà
fare a pugni. In spalla uno zaino, che si sistema per uscire e fare un passo in giù non appena la
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porta si apre.
Lei gli chiederà: perché mi guardi così? Lui ha sempre tirato fuori tutte le parole del mondo.
Ma questa volta le dirà. Soltanto.
Perché ti amo.
Sorride, si ferma e si rimette gli occhiali. Poi riparte e scompare sulle scale mobili.
I woke up this morning, feeling brand new.. and I jumped up, feeling ma highs, and ma lows in
ma soul, and ma goals...
Tutto questo dedicato a tutti quei passi falsi che mi hanno insegnato ad amare le strade, a
tutti quei volti su cui ho visto i miei stessi occhi, a tutti quelli con la testa rivolta all'insù, a
chi aspetta da una vita e a chi si illude di avere già trovato tutto; a mia madre, la persona che
più mi ha dato senza mai chiedere in cambio per tutte quelle volte che avrei voluto dirle anche
soltanto che le voglio bene; è dedicato ai miei dubbi, alle mie paure e ai miei rimorsi, è
dedicato ai perché che non si trovano e a quelli che conosciamo come le nostre tasche. Alle
mie due scuole. A Fedor e Alberto, Franz e MDJ+. Dedicato agli angoli che mi conoscono, alla
mia città e ai suoi lampioni. Dedicato alla mia finestra e alla linea gialla, a tutti quelli che hanno
passato metà della propria vita ad un finestrino del 30. Dedicato a chi lascia tracce di sé, al
nero inferno dei marker e alle montana che non ti abbandonano. Dedicato all'hip hop e alla sua
forza, dedicato alla musica che mi accompagna e a tutti i suoi figli. Dedicato a chi mi capisce e
a chi no, a chi sa di non riuscire a farlo eppure in fondo mi vuole bene, a chi mi illude e delude,
a chi mi ha dato forza soltanto coi suoi occhi. Alla persona che più ho amato e a tutte le sue
incertezze. Stampato un fuoco un grosso non importa nel cuore, anche se stona con tutto.
Dedicato ai miei amici, a quelli con cui passo ore a parlare e a quelli che saluto soltanto.
Dedicato. Dedicato in fondo, in fondo dedicato soprattutto a me. Diego.
Colonna sonora:
The Roots, Things fall apart
Rachmaninov, Piano Concerto No.2 in C Minor, op.18
Aleksandr Skrjabin, Le poeme de l'extase
Dj Krush, Zen
Falsalarma, La misiva
Mos Def & Talib Kweli, Black Star
IAM, L'ècole du micro d'argent
Common, Like water for chocolate
Frederic Chopin, Nocturnes
Supervirzi Korporation, Zonastretta
The Roots, Illadelph Halflife
Mobb deep, Hell on Hearth
Talib Kweli, Quality
Dj Krush, Milight
Chet Baker, In Paris (Barclay Sessions, 1955/56)
Common, Electric Circus
Reflection Eternal, Train of Thought
E semplicemente il rumore di una statale, gli urli dei miei, la mia vicina al telefono con vari
ragazzi, il bip bip di un telefono che ogni tanto tintinna e i beat che saranno di Destino. (Diego
Fornero)
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Un racconto al giorno. Giorno 15
Un bus stracarico di uomini, avvolti nei loro turbanti, arrancava per una strada impervia della
regione del Kashmir indiano. I poveretti erano stipati dentro un malandato veicolo ed alcuni
sedevano pure sul tetto. Ad una curva, le ruote slittarono sulla fanghiglia ed il conduttore
perse il controllo del mezzo. Si udì il sibilo dei freni, poi uno sferragliare meccanico.
Al di sotto della strada, un burrone scendeva verso le rive del lago Dahl.
Impennandosi di fianco, il bus si capovolse ed iniziò a precipitare in quella scarpata.
Urla, gente schizzata fuori, rumori raccapriccianti. Poi niente. Solo un silenzio di morte,
interrotto ogni tanto da qualche esile lamento.
Con la sua jeep, in quel momento, si trovava a passare il tenente italiano Mauro Bei, del gruppo
Osservatori delle Nazioni Unite.
Era un ufficiale di carriera e s’era arruolato nell’ONU per allontanarsi dal reggimento ove
prestava servizio e soprattutto da Gianni, suo amico di sempre.
Quanta invidia, quanta acrimonia avevano rovinato la loro solidarietà!
Facevano entrambi lo stesso mestiere di militari abituati alla disciplina, al senso del dovere.
Ma la rivalità e il desiderio di primeggiare sono come l’acqua che, prima o poi, corrode i ponti.
Ed avevano corroso i loro rapporti. Adesso Mauro era sereno, lontano migliaia di chilometri e
sempre a contatto con della gente completamente diversa da quella che aveva mai conosciuto.
Gente povera, ma dalle antiche tradizioni, che il progresso aveva scalfito appena. Gente dallo
sguardo dolce e rassegnato.
Con il suo gruppo di ufficiali Osservatori, viveva lavorando molto spesso alla radio, da cui
comunicava, in lingua inglese, tutto ciò che poteva aiutare a mantenere la pace tra due popoli
fratelli, ma divisi da due religioni diverse, in quel lembo del mondo, in quella terra tormentata
sulla linea del "cessate il fuoco" tra l’India e il Pakistan. Nei giorni di riposo, aveva viaggiato
ed aveva conosciuto posti incantevoli. Aveva fatto esperienze nuove ed aveva iniziato ad
abituarsi alle usanze, al cibo, alla lingua di quelle persone.
Che paesaggi affascinanti! Nei suoi occhi, quanti monumenti antichi che affondavano le loro
radici nel cuore dell’umanità!
Aveva preso ad amare quei luoghi, a scoprirli sempre con rinnovato piacere.
Gli ufficiali alloggiavano molto spesso case galleggianti sul fiume Dahl. In quel periodo, Mauro
occupava una house-boat, insieme ad alcuni colleghi.
Ricevevano ospiti importanti e avevano a servizio un personale costituito da Kashmiri di
nazionalità indiana, ma di fede musulmana e cuore pakistano.
Settimanalmente, un piccolo aereo da trasporto canadese, atterrando nel vicino aeroporto,
depositava per loro tante varie ed abbondanti derrate alimentari ed ogni altro genere di
necessità.
Una sera, erano arrivati da Srinigar degli uomini anziani e gli ufficiali li avevano invitati a cena.
Mentre mangiavano, uno dei più vecchi aveva cominciato a narrare una antica leggenda del
Kashmir. “Quando guardi le stelle” aveva detto “e in una di loro intravedi una persona cara, ma
non ne sei sicuro a causa della distanza, volgi lo sguardo dalla tua house- boat verso le acque
del lago Dahl. Se quella persona ti vuol bene, la vedrai rispecchiare nelle sue dolcissime acque.”
Così nelle notti successive, Mauro cominciò a guardare gli astri stando seduto sul terrazzino
della sua casa galleggiante.
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I riflessi della luna sulle sponde del lago creavano un’atmosfera irreale, di sogno. In
lontananza, s’intravedevano le ombre di alcune antiche pagode, gli alberi stagliavano contro il
cielo le loro fronde come tante braccia protese in preghiera.
Sarà stata la suggestione o quel paesaggio da fiaba, ma il tenente aveva proprio l’impressione
di scorgere, nelle stelle, il viso di Gianni.
Con quel ragazzo aveva condiviso tutta una vita! Erano stati amici per la pelle, confidenti,
complici in tante avventure.
Poi il lavoro li aveva divisi, ma l’amicizia è dura a morire quando si cresce, si studia, si gioca
assieme. Gianni! Ricordava le risate, i divertimenti, gli scherzi.
Ancora nessuno dei due aveva trovato la ragazza adatta cui vincolare la propria libertà. In
vero ci avevano provato spesso, ma con scarsi risultati.
Mauro aveva conosciuto suor Priscilla, in una Missione cattolica, un po’ scuola un po’ ospedale.
Faceva parte della congregazione fondata da Madre Teresa di Calcutta.
Era una oscura suorina, ma santa anche lei. Giovane, alta e slanciata, sempre sorridente e
pronta a sacrificarsi per i suoi poveri. Proveniva dall’Italia come lui e l’aveva subito
affascinato con i suoi occhi di un azzurro intenso. Alla dogana, suor Priscilla contrabbandava
oggetti utili per i suoi assistiti.
L’aveva scoperta un giorno mentre diceva che, nel pacco ricevuto, c’era solo Holy Mary.
L’aveva ammirata per il suo coraggio e ne era divenuto complice.
Adesso, quando poteva, s’industriava per aiutarla nel suo lavoro d’assistenza ai poveri e agli
ammalati.
Quindi, il senso della sua vita aveva acquistato un valore diverso. Si sentiva utile e
soddisfatto.
Quando rivedeva la suora, il cuore subiva un arresto. La guardava estasiato. Avrebbe voluto
curare quelle mani tutte sciupate da umili lavori.
Nelle stelle, sul lago Dahl, vedeva il volto soave di Priscilla, ma se si volgeva alle acque, non lo
vedeva riflettersi. E sapeva bene il perché.
Il suo era un amore impossibile!
Una volta alla dogana, s’era accorto che la suora s’era messa nei guai.
Era prontamente intervenuto e si era fatto garante per lei, in qualità di ufficiale delle Nazioni
Unite. “Grazie tenente,” gli aveva detto in seguito “non scorderò mai la sua bontà!”
Quegli occhi che lo guardavano erano più azzurri di ogni cielo azzurro.
Non l’aveva più rivista da parecchi giorni e sapeva che era andata a soccorrere un gruppo di
disperati senza tetto, che volevano trovare rifugio in qualche luogo.
La jeep dell’ONU, guidata da un caporale indiano, procedeva celermente lungo la strada che
costeggiava il lago, quando era avvenuto il disastro.
Mauro, a poche centinaia di metri, aveva assistito all’incidente. Ordinò di frenare ed all’istante
balzò giù dall’auto. Si affacciò sull’orlo della scarpata e scorse uno spettacolo tremendo.
Un fumo denso si alzava dal bus ridotto in rottami e corpi inerti e lacerati erano sparsi
ovunque. Si precipitò giù nel burrone per dare aiuto ai malcapitati e ai sopravvissuti. D’un
tratto, si sentì chiamare: “Tenente! Venga mi aiuti!”
Si volse e dietro un grosso sasso, vide suor Priscilla china, accanto ad un moribondo.
“Sorella! Lei qua! Oh per carità, come sta, cosa si è fatta?”
La sua voce era allarmata, ansiosa.
“Mi aiuti a trasportare questo poveretto. Vede, è ancora vivo, bisogna portarlo all’ospedale. Ce
ne saranno altri. Chiami soccorso alla radio. La prego!”
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“Sì, ma lei come si sente, può alzarsi?”
“Io sono illesa. Il buon Dio mi ha protetta, ma dobbiamo darci da fare per tutti gli altri.”
Era ricoperta di polvere ed aveva l’abito talare strappato, ma si alzò repentinamente.
Mauro s’avvicinò al ferito e, con sua enorme meraviglia, ravvisò in quel viso agonizzante
un’incredibile rassomiglianza. I capelli lisci e neri incorniciavano un viso bruno assai bello. Era
un viso molto simile a quello di Gianni.
Com’è strana la vita! Non era lui, ma lo ricordava in maniera straordinaria.
Non pensava più a Priscilla, guardava il ferito come inebetito.
“Tenente! Presto! Non bisogna perdere tempo!”
Se lo caricò sulle spalle e cominciò la salita della scarpata con quel peso non indifferente.
Arrancava e ad ogni passo che compiva, aveva l’impressione d’avere una montagna addosso e
questo perché doveva procedere in salita.
Quando era disceso non s’era accorto di quanto fosse ripida.
Il caldo era terribile e riusciva a stento a respirare per la fatica.
La suora gli stava dietro e cercava d’aiutarlo in qualche modo.
Quando finalmente arrivò stremato alla jeep, adagiò sui sedili il ferito che si lamentò e
pronunciò qualche parola sconnessa.
La voce! La stessa voce di Gianni!
Doveva essere proprio vero quell’antico adagio secondo cui, nel mondo, siamo in sette ad
essere quasi identici. Mauro accese la radio e cominciò a chiedere soccorso ai suoi colleghi
designando il punto preciso dell’incidente. Di lì a breve sarebbero sopraggiunti in forze per
recare aiuto ai sopravvissuti.
La suora si sedette accanto a lui e s’avviarono verso il più vicino ospedale.
Quando vi arrivarono, compresero che per quel poveraccio vi erano poche speranze.
Fu praticato ogni intervento necessario e suor Priscilla gli restò sempre accanto per alleviargli
le sofferenze. “Come ti chiami? Hai famiglia?” gli aveva chiesto.
“Mohamed,” aveva detto in un bisbiglio.
Aveva lo sterno e lo stomaco fracassato.
S’era lamentato in preda a dolori atroci e lei gli aveva stretta la mano, gli aveva bagnato la
fronte, lo aveva carezzato, aveva fatto tutto il possibile per non farlo soffrire troppo. Aveva
finanche chiesto che gli somministrassero della morfina.
Mauro non s’era mai allontanato ed aveva profondamente ammirato lo spirito d’abnegazione di
quella donna. Suor Priscilla aveva un unico scopo nella vita: servire gli altri. In specie gli ultimi
degli ultimi, i sofferenti e i moribondi.
Mohamed aveva esalato l’ultimo respiro e lei l’aveva aiutato a morire in pace.
Che impressine però! Era stato un po’ come veder morire il suo Gianni.
Dopo qualche ora, erano sopraggiunte le station wagon dell’ONU che recavano gli altri feriti, e
i giornalisti locali che chiedevano notizie sull’incidente. Gli avevano domandato come si
chiamasse, ma non aveva voluto rispondere. Aveva fatto ritorno alla sua house-boat,
accompagnato solo da una grande tristezza.
Il giorno dopo, come anonimo Osservatore delle Nazioni Unite, aveva provato l’intima
soddisfazione di leggere, sul giornale locale, di un ufficiale italiano che aveva soccorso invano
il fu Mohamed.
Il lago Dahl continuava a rispecchiare un volto: il volto di Gianni.
La malinconia aveva cominciato ad aleggiare sul sorriso di Mauro.
Ma un giorno, “segno di quella Provvidenza Divina che tutto vede e che consola”, come diceva
175
un grande scrittore, una telefonata gli giunse da lontano: “Hallo Sir. A call from Italy. Hold
the line.”
“Pronto, sono il tenente De Cesari. Sono Gianni De Cesari e vorrei parlare con il tenente Bei.”
La sua voce!
D’un tratto, Mauro ricordò quando al liceo avevano studiato Aristotele che, interrogato su
cosa fosse un amico, aveva risposto che è un’anima che vive in due corpi.
“Sono io! Gianni sono Mauro!”
Le due voci attraversavano L’Asia e L’Europa, ma in quel momento erano vicinissime poiché i
cuori battevano all’unisono. “Ehi scemo! Come va!?”
Per un corpo ammalato occorre il medico, ma per l’anima ci vuole l’amico. E si sentiva già
meglio. “Gianni dove sei? Come stai?”
“Sto bene, ma mi va di rivederti. Senti, siccome da domani sono in ferie, ho pensato che potrei
venire come turista in Kashmir. Che ne pensi?”
Come comportarsi con gli amici? Semplice: come vorremmo che loro si comportassero con noi!
E Gianni stava facendo proprio come lui avrebbe voluto.
Che eccitazione! Quanta gioia inespressa!
“Quando arrivi, a che ora, dove, con quale volo? Dove atterri?” Era una raffica di domande
convulse. “Ah ah ah ah ah. Arrivo domani l’altro a Srinigar. Verrai a prendermi?”
“Ci puoi giurare.” (Gabriella Cuscinà)
176
Un racconto al giorno. Giorno 16
Come mi era solito fare mi alzai dal mio soffice letto per spalancare le finestre e respirare la
fresca aria mattutina; iniziava così un altro stancante giorno estivo d’agosto.
Annoiata dalla routine quotidiana era giunta finalmente sera e dopo aver consumato insieme ai
miei genitori la cena, mi ero recata nella mia stanza in soffitta. L’ambiente da me creato era
confortevole, i colori giocavano tra caldi e freddi: i mobili verdi, le tende e la luce rosa, il
pavimento grigio, mi sentivo rilassata e protetta quando un qualcosa di straordinario, magico e
favoloso mi accadde! Iniziai ad udire strani cigolii di porte e quando chiamai i miei genitori,
questi non mi risposero, la paura a quel punto iniziò a diffondersi nella mia mente, sentivo il
gelo impadronirsi senza timore della mia schiena e ad un tratto la mia attenzione capitò su un
libro mai visto inserito nella libreria. Subito mi diressi a leggere quel libro che non avevo mai
visto prima di quel momento, lo afferrai e la mia mente fu in un attimo percorsa da immagini
assurde e indicibili, il brivido di prima ricominciò a percorrermi la schiena e sempre più
incuriosita lo aprii. Le pagine invecchiate profumavano di gelsomino e sembrava che ad ogni
foglio voltato suonassero dei campanelli in lontananza, la scrittura ad inchiostro nero era
svanita e riuscii a leggere soltanto le prime righe. Quello che lessi mi sconcertò, io amavo
scrivere e quello che era scritto su quell’antico libro era come se lo avessi scritto io, la stessa
tecnica, lo stesso sentimento, la stessa mano che scriveva con lo stesso amore. Mi pietrificai.
Richiusi quel libro senza un titolo sbattendolo fortemente e dalle pagine uscì una polvere
profumata di gelsomino, sentii le campane in lontananza e poi senza che me ne accorgessi
svenni. Al mio risveglio sentivo ancora quelle campanelle e quell’inebriante profumo ma quel
luogo non era la mia rassicurante camera ma un immenso giardino circondato da gelsomini e di
fianco a me una ragazza dai biondi riccioli, la carnagione chiarissima, grandi occhi verdi, con
abiti sontuosamente eleganti: aveva un’ ampia gonna tutta pizzettata e sopra una fine
giacchetta color oro che riprendeva i ricami della gonna. Principalmente si notavano i suoi
occhi buoni e dolci e la sua docile presenza ma ciò che mi colpi mi colpì era il braccialetto con
due campanellini che aveva al polso. Ero troppo frastornata perché capissi quale mistica
faccenda era accaduta, la ragazza dai biondi ricci mi fece bere e così mi ripresi, balzai in piedi
ancora impaurita e cercai di fuggire. Intorno a me soltanto alte mura ricoperte di bianchi e
profumati gelsomini, mi resi conto che non avevo via di scampo e così, mi accasciai sul prato
iniziando a piangere. La ragazza dai riccioli biondi era rimasta ad osservarmi senza batter
ciglio mentre io mi disperavo, lei aveva un’aria serena e rilassata, i suoi occhi continuavano ad
osservarmi imperterriti senza nessun timore e, quando mi sedetti, si accostò a me, mi si mise
di fronte e mi tese la mano, fu allora che le sentii pronunciare le prime parole: aveva una
candida e limpida voce, sembrava essere perfetta. Nel tendermi quella fragile mano mi disse:
"Ciao, ti stavo aspettando, finalmente sei tornata". Come potevano essere vere le sue parole,
io non avevo mai visto quel posto e, soprattutto, non avevo mai visto lei! Sembrava dalle sue
calde parole che io fossi d’abitudine ai suoi occhi e che quel posto così irreale e straordinario
facesse parte da sempre della mia vita. Ero sempre più sconcertata ma ora non avevo più
paura, mi sentivo rilassata e sicura, forse era per la presenza di quella ragazza, per il suo
ordinato aspetto e per quelle mura così alte. D’un tratto udii dei passi avvicinarsi velocemente
verso di me e ai miei occhi apparve un’alta e magra figura maschile. Indossava un completo con
la giacca perfettamente pieghettata, aveva sugli occhi un paio di pregiatissimi occhiali da vista
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e le scarpe erano state appena lucidate. Il volto, a dispetto dei modi, era freddo e rugoso, gli
occhi esprimevano un fortissimo senso d’egoismo e civetteria, ma anche lui, come la ragazza,
mi guardò con aria familiare e mi parlò garbatamente: " Ha fatto prima del previsto, la
attendevamo per domani, ma è indifferente quando arriva è pur sempre a casa sua, il padrone
la attende trepidante in casa, su! Si sbrighi non c’è altro tempo da perdere, si deve anche
cambiare!" Dopo che quell’uomo ebbe finito di pronunciare quelle bizzarre parole molte più
domande di prima affollavano la mia mente. Chi era costui? Perché mi parlava come se mi
conoscesse da anni? Chi era il padrone? Perché mi aspettavano? ma soprattutto, dove e
com’ero in quel posto? Non riuscivo a capacitarmi, nessun nesso logico poteva spiegare la
faccenda e in quel momento poi, anche se spinta da molta curiosità a trovare le risposte a
quelle mie mille domande, avrei soltanto voluto tornare alla mia noiosissima routine quotidiana.
Avevo sempre sognato di vivere emozionanti avventure, piene di mistero e intrighi e capitava
qualche volta che mi perdevo sognando magici posti e principi azzurri, ma tentai non poche
volte di chiudere gli occhi e poi riaprirli per vedere se era tutto un sogno da me inventato ma
più riaprivo gli occhi e più mi ritrovavo in quell’immenso giardino con quella strana ragazza e
quell’inquietante signore!! Non capivo, non mi capacitavo, non riuscivo in nessun modo a
comprendere tutto quello che mi era e che mi stava accadendo, ma molto più mi spaventava
quello che stava per capitarmi! Anche se ero ancora un po’ impaurita ripresi le forze, mi alzai
lentamente e guardai negli occhi quella ragazza, dovevo pur fare o dire qualcosa e così dopo
tutti quegli eventi riuscii a balbettare delle semplici domande: "Ma voi chi siete, e io chi
sono?". La ragazza e il signore mi guardarono con gli occhi spalancati e poi scoppiarono in una
fragorosa risata; "Signorina Isabella cosa va vaneggiando, è sicura che durante il viaggio di
ritorno da Edimburgo non le sia successo niente?". Preferii rimanere in silenzio, senza
rispondere ma adesso si erano aggiunte altre domande alle mie precedenti, una soprattutto mi
tormentava adesso chi era Isabella il quale nome avevano attribuito a me?-. Li seguii in
silenzio assoluto mentre non facevo altro che guardarmi intorno in quello che diventava
sempre più un posto bellissimo e affascinante. Man mano che camminavamo si iniziava ad
intravedere un grande palazzo in stile ottocentesco finemente elaborato, dalle mura color
crema con bordature marroni scure, ad ogni angolo poi, vi erano delle statuette e sulla
facciata frontale si erigeva un gigante portone tutto scolpito. Il signore da poco conosciuto
salì velocemente le scale per accedere al portone e, con una sola spinta, lo spalancò. Lo
spettacolo che si presentò davanti ai miei occhi fu straordinario: i pavimenti erano lucidi tanto
che ci si poteva riflettere al passare, i mobili interamente in legno erano intagliati con cura e
gli oggetti erano d’argento anch’essi tutti lucidati perfettamente. Tutto l’edificio era
illuminato da milioni di lampadari e lampade tranne l’ultimo piano, ma ci feci poco caso. La
stanza che vidi per prima doveva essere un salone poiché era piena di tavoli e divani dalla
copertura in pizzo verde accuratamente ricamata e poi su ogni tavolo e mobile vi era un
vasetto con il gelsomino, tutta la casa inebriava di quel buon odore e io, sempre più stupita,
rimasi in silenzio ad ammirare ciò che mi circondava. Intanto il signore mi invitò a salire le
scale. Esse erano di marmo ed erano ricoperte da un lunghissimo tappeto rosso che giungeva
sino alla porta d’ingresso, c’erano tantissime scale e molti piani, ma noi ci fermammo al
secondo dove si aprivano più di venti porte.
A quel punto il signore mi disse: "Su vada, che non si ricorda dove si trova la stanza della
biblioteca?". Ero ancora stupita dalla casa e a quella domanda mi sconcertò, per risposta feci
cenno di no con la testa e cautamente il signore alzò il braccio e con il dito ben teso mi indicò
una porta. Non sapevo cosa dovevo fare e allora rimasi immobile nel punto in cui ci eravamo
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fermati e il signore riprese a parlarmi: "Su vada, il padrone la sta aspettando con impazienza!"
Decisi così di muovermi e di scoprire chi era questo padrone. Anche se intimorita mi avvicinai
lentamente alla porta indicatami dal signore, posai la mano sulla maniglia ma poi fui colta da un
brivido di freddo e voltai il viso verso il signore e la ragazza, i quali mi fecero cenno di
entrare. Timidamente spinsi la porta: questa era socchiusa e si sentì cigolare, non avevo paura,
anzi, mi sentivo rassicurata pur mantenendo sempre una certa repulsione per tutto quello che
mi poteva accadere. Entrai con passi delicati nella stanza. L’ambiente era illuminato solamente
da una lampada ad olio ma si poteva notare distintamente tutto ciò che vi era dentro, fu una
grande sorpresa quello che vidi: era una stanza grandissima, il soffitto era altissimo e le mura
erano un’immensa biblioteca, dal pavimento al soffitto non c’erano altro che libri di ogni
spessore e genere, per me era stupendo, avevo sempre sognato di possedere così tanti libri.
Mi accostai velocemente ad una di quelle pareti, avevo gli occhi spalancati e la bocca aperta e
così iniziai a leggere alcuni titoli. D’un tratto una tuonante voce spezzò il silenzio che regnava
in quell’atmosfera: "Ti piace questa stanza?" Subito quella voce colse la mia attenzione,
proveniva da un angolo della stanza che non avevo notato entrando. C’era un grande camino che
sfavillava di fiamme rosse e davanti a questo una grande poltrona ricamata di pizzo verde,
come i divani del salone, di fianco un tavolinetto con sopra tre o quattro libri. L’uomo che
aveva parlato si trovava seduto sulla poltrona e mi dovetti avvicinare per poterlo vedere
distintamente. La lampada illuminò quel signore vestito molto elegantemente: aveva una
camicia di pizzo bianca, e una giacca nera; in una mano teneva una tazza piena di profumato
caffè, aveva gli occhiali, i capelli grigi e i baffi arricciati, un po’ come quelli del Far West, il
volto era asciutto come il corpo, aveva poche rughe, le uniche si trovavano vicino alla bocca
che si accentuavano quando rideva, lo sguardo cupo e serio, come perso; però quando mi
avvicinai i suoi occhi si illuminarono. Bevve un po’ di caffè e poi posò delicatamente la tazza sul
tavolinetto, scostò gli occhiali e dopo averli richiusi li infilò nel taschino interno della giacca.
Tutti i suoi movimenti erano pacati e a rilento, adesso lo sguardo era più sereno e accennò un
sorriso, così gli si accentuarono le poche rughe che aveva intorno alla bocca. Poi mi parlò con
un tono tranquillo e rilassante, il suo discorso fu lungo ma non noioso, mi chiarì molte delle
mille domande che mi ero posta: "Non essere rigida, rilassati e siediti qui di fronte a me così
potremmo parlare". Mentre pronunciava quelle poche parole mi indicò una poltrona uguale alla
sua e io mi sedetti senza fare un fiato. Ora stavo bene, l’aria del camino mi riscaldava e
l’aspetto di quell’uomo dai grandi baffi mi tranquillizzava; prima di riprendere a parlarmi prese
dal tavolinetto un campanello e lo fece vibrare, giunse in tutta fretta il signore di prima che,
senza guardarmi, dopo essere entrato, si posizionò davanti a quell’uomo e con un inchino
chiese: "Cosa desidera padrone"
"Suvvia Adolf non mi chiamare padrone, fa preparare dalla cuoca una succulenta cena
all’italiana". Detto ciò il signore uscì richiudendo piano la porta e se ne andò. Senza pensarci
due volte iniziai a tempestare di domande quell’uomo seduto davanti a me:"Come una cena
all’italiana? Perché non siamo in Italia? Dove siamo? E poi chi è lei, e quel signore? Che faccio
qui io, voglio solo tornare a casa mia. La prego mi aiuti!".
"Stai calma ora ti dirò tutto ma tu non ti devi preoccupare, qui non ti succederà nulla". E così
iniziò a spiegarmi quello che era accaduto e che doveva ancora accadere: "Innanzitutto ora sei
in Inghilterra precisamente in una villa vicino Londra e io ne sono il proprietario. Il signore che
hai visto poco fa è il maggiordomo e un caro amico di famiglia e la bambina che sicuramente ti
è venuta incontro è Clara è orfana di due miei amici e allora l’ho presa in casa con me quindi è
mia figlia!". Lo interruppi bruscamente: "Ma che centro io con questo e poi, perché sembrano
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conoscermi così bene?". "Fammi finire di spiegare. Loro ti conoscono molto bene perché tu fai
parte di questa famiglia da sempre, lo so che non puoi capire in questo momento ma è così, tu
sei qui perché mio figlio ha bisogno di te, lui ha perso la sua anima e un mio carissimo amico
Jaques, che presto conoscerai ti ha portato qui perché sei l’unica che può salvare mio figlio.
Non ti preoccupare per i tuoi genitori lì nel tuo secolo c’è una perfetta copia di te, è tutto
apposto." "Ma come è possibile, io continuo a non capire" ribattei energicamente. "Lo so che
ora sei confusa e spaventata ma qui ti sentirai a casa, io sarò sempre qui con te, prima
riuscirai nello scopo e prima potrai tornare a casa tua. Stasera a tavola non ti preoccupare
delle domande di Clara risponderò io e domani sera poi verrà data una festa per il tuo ritorno,
ma ora andiamo che la cena è pronta." Molte mie domande si erano sciolte ma se ne erano
formate altre che non riuscivo a togliermi dalla testa e soprattutto una mi tormentava: quale
mai poteva essere la mia missione in quel luogo, salvare forse il figlio del padrone? Ma perché,
da cosa, come e chi era il figlio del padrone? Sicuramente lo avrei incontrato a cena e poi da lì
avrei trovato le risposte sul da farsi. Uscimmo insieme dalla magnifica stanza della biblioteca
e scendemmo le scale. Il padrone mi parlò ancora mi diede altre istruzioni: "Sii gentile con
Clara è una ragazza molto sensibile, a proposito, io mi chiamo Carl ed è così che mi potrai
chiamare, e ricordati tu sei Isabella. Nessun’altro siamo d’accordo?"
"Si Carl, ma potrei sapere qualcosa di più sulla mia missione, su chi è suo figlio, stasera lo
vedremo a cena?". Trasalì, la mia domanda impertinente lo aveva turbato nel più profondo
tanto che abbassò lo sguardo e non mi rispose. Giungemmo nel salone di prima; uno dei tanti
tavoli era stato apparecchiato con una tovaglia beige di puro pizzo, le posate d’argento
facevano risaltare i vari bicchieri di cristallo, i piatti erano di porcellana francese e le candele
illuminavano insieme ai lampadari i vari cibi sparsi per il tavolo.
Rimasi abbagliata da tale bellezza, incantata, mi fermai ad osservare come fosse normale per
Carl e Clara tutto quello poiché giunti al tavolo il padrone si sedette con normalità a
capotavola ed io invece, rimasi in piedi come se aspettassi un invito che non ci mise molto ad
arrivare. Fu Carl ad invitarmi ad accomodarmi, un po’ mi sentivo a casa, sul tavolo c’erano molti
piatti italiani che profumavano di squisitezza.
Spostai la sedia e mi accomodai, paurosa nel rovinare qualcosa aspettai che ad iniziare fossero
i padroni di casa ma poi, mangiai senza timore. C’era un gran silenzio nella sala, nessuno
pronunciava una parola, fu Clara quando arrivammo al dolce a rompere quel secco silenzio:
"Sembra che tu non ti trovi bene Isabella qui con noi, c’è qualcosa che ti turba, è da quando
sei arrivata che ti comporti in modo strano, non mi hai detto nulla del tuo viaggio, me lo hai
portato il regalo che ti avevo chiesto?". A rispondergli non fui io ma suo padre che mi
precedette velocemente: "Non fare troppe domande Clara, non vedi che Isabella è stanca
dalle fatiche del viaggio. Parlerete, se lei vorrà, domani e per il regalo non avere pretese,
sicuramente sarà nella valigia. Non è così?" disse rivolgendosi a me "Si, è proprio così" risposi
io insicura e così la discussione si chiuse brevemente. Ora mi ponevo meno domande avevo
compreso che per avere delle risposte dovevo attendere alcuni giorni e comportarmi come se
fossi una di famiglia. Finito, anche la squisita torta di mele ci alzammo e il maggiordomo mi si
accostò e mi disse che mi avrebbe accompagnato nelle mie stanze. Ero molto stanca e le
troppe domande che mi ponevo mi avevano stravolto; salimmo al terzo piano e mi si spalancò
davanti un illuminatissima stanza: c’era, come nelle favole, un letto a baldacchino con un
copriletto rosa e grandi cuscini sopra, di fronte al letto c’era un grande specchio dalle
rifiniture intarsiate in legno e poi un comò con sopra più di cento profumi e trucchi, la stanza
aveva persino un bagno interno, le mattonelle erano tra il rosa e il marrone, c’era un ampia
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vasca e tantissimi asciugamani. Sembrava di vivere in un sogno uno di quei miei tanti sogni.
Aprii il gigante armadio accostato alla parete dipinta di bianco e davanti a me c’erano forse
mille vestiti tipici dell’ottocento dalle ampie gonne e i pizzi ripiegati. Non sapevo cosa dire e
non mi ero neanche accorta che il maggiordomo era uscito richiudendo la porta dietro di sé. Mi
tuffai sul letto e vi trovai sopra una valigia, capii all’istante che era il mio bagaglio, cioè quello
di Isabella che era ritornata da Edimburgo. La aprii e vi trovai oltre ai vestiti un pacchetto
abbastanza grande, sicuramente era il regalo per Clara e quindi non osai aprirlo. Mentre ero
indaffarata a sistemare i vestiti che erano nel bagaglio qualcuno bussò alla porta: "E’
permesso!" "Si avanti, puoi entrare". Entrò Clara, sul suo volto c’era uno sfavillante sorriso,
aveva la vivace fantasia di una fanciulla serena, spensierata, ingenua, un animo profondo e
teneramente femminile, un' intelligenza molto lucida e acuta. Mi era simpatica e dovevo
considerarla come una amica poiché il padrone mi aveva detto che noi eravamo molto unite. Si
avvicinò con sicurezza a me che ero sdraiata sul letto e anche lei vi ci si sedette con armonia.
Con gli occhi vispi si guardava intorno come se cercasse qualcosa e io capii. "Vuoi il tuo regalo
Clara?" le dissi con dolcezza "Si, ma soprattutto voglio che mi racconti qualcosa del tuo
viaggio". Presi la confezione che avevo trovato nella valigia e gliela posi, subito la afferrò con
impazienza e la scartò: ne uscì una meravigliosa bambola di porcellana e con gli occhi lucidi si
rivolse a me: "E’ proprio come la volevo, è più bella persino dell’ultima che mi hai riportato
dall’altro viaggio in Danimarca. Grazie infinite, ma ora mi devi raccontare". Compresi al volo
che Isabella, cioè io, viaggiavo molto e che Clara avesse perciò un ampia collezione di bambole;
per accontentarla iniziai a parlarle del mio viaggio Le parole mi uscirono senza che io le
comandassi e dopo un lungo discorso di narrazione ci addormentammo entrambe. Si fece
presto mattino e Adolf entrò nella mia stanza e spalancò l’immensa tenda blu che copriva
l’ampia vetrata, il sole inondò la stanza e io e Clara ci svegliammo. "Signorina Clara che ci fa lei
qui!" Clara fece un grande sbadiglio e con molta calma, e ancora insonnolita, rispose al
maggiordomo: "Adolf non ti arrabbiare è che ieri sera Isabella mi ha raccontato del suo
viaggio e avendo fatto tardi senza accorgercene ci siamo addormentate."
"Va bene ma ora preparatevi che sono già le dieci e dovete andare in città, stamane." Così
dicendo uscì dalla stanza e Clara, salutandomi, fece altrettanto.
Quella mattina sarei dovuta andare con Clara in città e quindi avrei potuto comprendere
meglio il posto in cui mi trovavo, era forse la Londra del 1800? Dopo essermi sistemata aprii
l’armadio e presi il primo vestito che la mia mano incontrò: era un semplice abito rosa con un
grande fiocco dietro la schiena color lilla che riprendeva i bordi delle maniche e del colletto.
In testa poi avrei accostato un cappellino di paglia con il fiocco ugualmente lilla. Appena mi fui
sistemata scesi e trovai Clara e Carl già seduti al tavolo che gustavano un fumante caffè con
dei profumatissimi biscotti al cioccolato. Mi sedetti e Carl mi chiese subito:"Tutto bene
Isabella? Ti senti più rilassata?" "Si tutto a posto ora sto meglio eppure avrei ancora delle
domande da farti Carl."
"Me le farai più tardi, stamattina tu e Clara andrete in giro per la città magari a vedere
qualche bella vetrina in centro!". Annuii per rispetto e intinsi il mio biscotto nel caffè.
Consumai in fretta la mia colazione e con Clara infilammo i capotti e uscimmo dal palazzo.
Davanti alla porta c’era una carrozza, si proprio quelle trainate dai cavalli e con le grandi ruote
e il cocchiere, mi sentivo un po’ come Cenerentola solamente che a differenza di come ce le
immaginavamo noi nel 2002 le carrozze erano davvero scomode. Ad ogni buca saltavi e inoltre
le uniche aperture erano coperte dalle tendine. Montammo sulla carrozza e questa partì alla
volta della città di Londra. Quando la carrozza si fermò intorno a noi si sentirono tanti rumori,
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aprii velocemente lo sportello e saltai giù. Le strade erano piene di negozi dalle insegne in
legno, c’era un viavai di gente frenetico, le donne rincorrevano i bambini e gli uomini erano
fermi in svariati gruppi a discutere d’affari. Le carrozze sfrecciavano facendosi largo tra la
folla, i ristoranti erano impazziti e ovunque mi girassi ero circondata da imponenti edifici tutti
finemente architettati. Ero stupita, meravigliata, scioccata, non mi rimanevano parole da
pronunciare a Clara che mi disse di muovermi e di non rimanere impalata in mezzo alla strada:
"Isabella, vieni qui, guarda questo vestito in questa vetrina sembra confezionato apposta per
te, papà mi ha detto che ti devi comprare il vestito per la festa di stasera." "Si, adesso
arrivo." ingoiai lo stupore e corsi verso la vetrina dove si trovava Clara. Anche lì rimasi
abbagliata, Clara aveva ottimi gusti il vestito nella vetrina era davvero stupendo. Così
entrammo e lo comprammo. Dopo quell’acquisto ne facemmo molti altri e tra passeggiate e
risate per il pranzo ci fermammo in un ristorante a mangiare. "Vedrai stasera Isabella che
bella festa che ha organizzato per te papà. Ha invitato più di cinquecento persone tutte
venute per vederti. Infondo tu non ti sei mai fermata tanto ma è vero che non ripartirai
presto?." Clara intraprese il discorso ma le sue parole mi fecero intendere benissimo che mi
sarei trattenuta lì per molto tempo ancora e a quel punto sentii una forte nostalgia di casa,
della mia stanza ben arredata, dei miei genitori e del mio tempo. Chiusi gli occhi, le lacrime
stavano per sgorgare dai miei occhi amaramente ma mi trattenei per non insospettire Clara
che intanto proseguiva a parlarmi. Non la ascoltavo, la mia mente era altrove ma di certo non
la interruppi. Finimmo velocemente di pranzare e dopo altri acquisti la carrozza tornò a
penderci. Per il viaggio di ritorno rimasi in assoluto silenzio ma Clara molto educatamente
capendo che non stavo bene non mi chiese nulla, rimase anche lei in silenzio. Quando entrammo
nella sala questa non era più come la avevamo lasciata: era suntuosamente addobbata, tutti i
tavoli erano apparecchiati e i cibi erano già sui tavoli, i vasi di gelsomino si erano triplicati,
l’argenteria risplendeva più che mai e le luci erano state tutte accese. Tutto questo era per
me? Come presa da un atto di follia buttai il mio cappotto per terra e corsi nella biblioteca
sicura di trovare il padrone e fu così. Entrata sbattei violentemente la porta e con il fiatone
ma con voce sicura dissi: "Io non voglio una festa, voglio solamente tornare a casa, mi faccia
tornare immediatamente a casa mia!" il signor Carl mi guardò in modo comprensivo e con tutta
la dolcezza che possedeva mi abbracciò e mi rispose in modo pacato: "Lo so che tu vuoi
solamente tornare alla tua casa ed è anche giusto ma non puoi farlo se prima non porti a
termine il tuo compito." Non comprendendo nulla ma senza replicare scoppiai in un pianto di
sfogo tra le possenti braccia del signor Carl. Poi mi asciugai le lacrime mi feci forza e uscii
dalla stanza. Mi diressi alla mia dove c’era già pronta Clara: "Sono venuta a darti una mano per
prepararti, stasera devi essere stupenda!" Mi lasciai curare dalle sue gentili mani e in poco
tempo ero pronta. Molte carrozze in pompa magna giunsero davanti al grande portone
spalancato e si affrettarono ad entrare, la gente si accomodò nell’immensa sala e ben presto
giunsero gli altri, quando furono tutti io e Clara uscimmo dalla mia stanza e lei mi precedette
per le scale. Tutti mi attendevano e Clara entusiasta mi annunciò con fervore: "Gentilissimi
signori e Carissime signore ecco a voi Isabella!" mi affrettai ad avvicinarmi alle scale e tutti
mi guardarono stupiti. Il vestito che avevo comprato mi scendeva delicatamente sulle spalle
era color avana con svariati risvolti di pizzo bianco.
La gonna era ampiamente pompata, le maniche avevano oltre a infiniti strati di pizzo anche
degli eleganti fiocchetti, avevo un mantello molto ampio con tante scriminature e fiocchi
bianchi, al collo avevo una raffinatissima collana di perle abbinata ai lunghi orecchini, i capelli
in parte erano raccolti e in parte scendevano sulle spalle lucenti riccioli mori, ai quali erano
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appesi fiori di gelsomino, avevo un trucco leggerissimo. Per le scale mi venne incontro Carl che
mi sussurrò all’orecchio: "Sei davvero bellissima, tutti ti ammirano, ricorda di salutare
cordialmente e con un inchino." Appena finii di scendere le scale Carl mi lasciò il braccio e
mentre feci un inchino dissi con tono e atteggiamento soave:"Vi ringrazio di essere venuti alla
mia festa." Appena finii di pronunciare quelle parole, iniziò un formicolare di voci bassissime
che commentavano ciò che era accaduto. Di colpo le dame e i gentiluomini mi accerchiarono e
iniziarono quest’ultimi a baciarmi la mano e le dame a chiedermi i miei segreti di bellezza. "E
brava la mia Clara, Isabella è bellissima e tutto grazie a te." Disse Carl alla ragazza mentre io
mi perdevo tra ringraziamenti e chiacchiere. Dopo un po’ gli animi si calmarono e qualcuno si
allontanò per gustare gli squisiti cibi preparati dalla cuoca. Frettolosamente raggiunsi Carl e
Clara che facevano gli onori di casa, subito gli domandai: "Ma tutta questa gente non mi
conosce?" "No, è la prima volta che ti presenti in pubblico ma hai già fatto colpo." L’orchestra
assunta dal signor Carl intonò un leggiadro valzer e Carl tendendomi la mano mi chiese:
"Isabella posso avere l’onore di aprire le danze con te?" annuii porgendogli la mano e anche se
non avevo mai ballato seriamente con qualcuno il valzer mi lasciai trasportare dalla musica che
inondò con pacatezza la sala, tutti gli ospiti crearono un varco lasciandoci lo spazio per ballare
e a poco a poco gli invitati si unirono. Tutto assomigliava sempre più a una straordinaria favola
che forse sarebbe finita presto. Quando i musicisti conclusero si levò un fragoroso applauso e
con un inchino io e Carl ci allontanammo tra i complimenti. Intanto la musica riprese e gli ospiti
continuarono a ballare, Carl si allontanò dirigendosi verso un gruppetto di signori che mentre
gustavano il brandy discutevano sugli ultimi avvenimenti della borsa e Clara fu invitata da un
gentiluomo a ballare: "Isabella che ne dici lo faccio questo ballo?"
"Ma certo cosa aspetti li devi ballare tutti" la incoraggiai e così si getto nella mischia che
elegantemente danzava. Mentre mi riprendevo da tutte quelle sorprese e bevevo dell’ottimo
champagne francese, un ragazzo in alta uniforme mi si avvicinò. Molti amici di Carl erano degli
ufficiali dell’esercito e della marina ed erano stati invitati prima di tutti a quella festa. Il
ragazzo che mi si accostò era un ufficiale della marina, era molto giovane ma con un innato
fascino conquistatore infatti mi fu molto gradita la sua presenza: "Sono molto onorato di
averla conosciuta signorina Isabella, mi permetta di presentarmi sono Alen ufficiale della
marina militare." Si prolungò baciandomi la mano da me porta. "Anche io sono molto onorata
della sua presenza ufficiale, posso esserle utile?"
"Volentieri bellissima Isabella vorrei scambiare due chiacchiere con lei, sempre se a lei non
dispiace." "Mio caro non c’é bisogno che mi chieda il permesso per rivolgermi parola." Ribattei
lusingata e con le guance arrossate. "Tanto già l’ha fatto -proseguii- ma me ne fa molto
piacere, ero stanca delle dame che mi continuavano a chiedere consigli di bellezza."
"Se fossi stato una donna ti avrei assillata anche io, la tua bellezza è straordinaria, mi abbagli
mentre mi illumina gli occhi!"
"Adesso ti prego smettila se no mi farai arrossire, e poi ti sembrerò più brutta"
"Questo sarà impossibile poiché saresti bella in qualsiasi modo e io sento già di amarti."
Quelle parole mi raggelarono ci conoscevamo da due minuti era assurdo ciò che mi aveva
appena detto, ma la freddezza con cui lo disse mi fece supporre che c’era un fine, uno scopo
ben preciso al suo essere così disinvolto. Carl infatti era in affari con lui me lo aveva
accennato poco prima ma non gli diedi così troppa importanza. Ora invece era fondamentale,
ma mentre riflettevo su tutto questo Alen proseguì a parlare: "Tu mi hai illuminato è stato un
colpo di fulmine, ehhhh……. Che ne dici se ci sposassimo, magari domani stesso". Ma come
poteva mai propormi una cosa simile, ero indignata e furiosa tanto che gli voltai le spalle senza
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parlare e mi accinsi ad avvicinarmi a Carl. Alen furibondo mi afferrò per il braccio e
gridandomi dietro: "Ma dove credi di andare tanto succederà proprio così, vedrai!" La gente in
sala si voltò immediatamente per impicciarsi di che cosa stava succedendo e sempre più
imbarazzata tolsi violentemente il braccio dalla mano di Alen e scappai su per i piani superiori.
Anche Carl e Clara si erano voltati per osservare la scena e dovettero far qualcosa prima che
scoppiassero i pettegolezzi su un qualcosa di inesistente. "Gentilissimi signori e signore non è
successo nulla solo un piccolo disguido ma prego riprendiamo le danze." Si affrettò a dire Carl
in pieno imbarazzo. E così i musicisti ripresero a suonare e gli invitati a ballare compresa Clara
che era presa dal suo galantuomo e Carl continuò a dialogare con gli altri uomini. Io furente mi
ero avventata su per le scale e correndo sempre più su inciampai nell’ampio tulle, avevo la
caviglia dolorante e per di più avevo strappato un pezzettino del meraviglioso abito che
indossavo. Non mi ero accorta di essere giunta al quarto piano, quel piano che era tutto buio e
che sia Carl che Adolf mi avevano vietato di visitare. Ora che c’ero la curiosità si impadronì
della mia mente e non volevo far altro che osservare tutto ciò che ve ne faceva parte. Mi ero
già dimenticata dell’arrabbiatura e mi sollevai dalle scale su cui ero caduta, la caviglia non mi
faceva più male e i miei occhi cercavano un qualcosa che illuminasse i corridoi. Scorsi tra le
tenebre che circolavano in quel piano una fiaccola e con l’accendino che avevo sempre
appresso, quello che mi ero portata dal mio tempo, l’accesi. Era praticamente uguale agli altri
piani anch’esso era ben lucidato, con il lungo tappeto rosso per terra ma a differenza degli
altri piani le tende erano nere e c’era un’unica porta. Se lo avessi notato in un tempo in cui non
avevo addosso tutta quella curiosità, quel luogo mi avrebbe fatto venire i brividi anche con il
solo pensiero, ma adesso non avevo per niente paura sentivo solamente la necessità di entrare
in quell’unica stanza. La porta, a dispetto delle altre, non aveva intarsi era una semplicissima,
qualsiasi, insignificante porta ma celava però il mistero di quella casa. Sospinsi con tutte le
mie forze quella porta che nell’aprirsi non fece nessun cigolio. All’interno tutto era buio e il
grande finestrone che vi si trovava dentro era spalancato poiché si sentiva un gelido freddo.
La stanza che illuminai con la fiaccola poco prima trovata era tutta a soqquadro, tutti i mobili
rovinati erano capovolti per terra, grandi panni neri li ricoprivano e in ogni angolo vi era
polvere e ragnatele. In quel momento provai paura ma non di cosa ci potesse essere oltre a
quello, ma per il semplice senso di ribrezzo e di gelo che aleggiava in quella stanza. Facendomi
largo tra i mobili, giunsi nei pressi della finestra che per l’appunto era spalancata, d’un tratto
una forte ventata entrò nella stanza ma, mi feci coraggio, e andai più avanti. Accostato ad un
tavolinetto e in piedi c’era qualcuno, la luna illuminava la stanza e un’altra ventata spense la
fiaccola. La paura mi prese e sussultai. La persona che si trovava lì mi sentì e si voltò di scatto
come se già fosse indignata. Davanti a me, di scatto, si era voltato un ragazzo alto e magro,
aveva una bocca carnosa e rossa, i capelli arruffati, un profilo perfetto, due occhi grandi e
verdi come il mistero. Ma il suo sguardo così profondo e cupo mi trafissero, sembravano due
punte di ghiaccio acuminate che si conficcassero nei nervi percorsi da correnti infuocate. Le
bandiere delle torri cigolavano, era come se il tempo muovesse rumorosamente il suo
spaventoso ed eterno ingranaggio e il vecchio anno stesse per rotolare cupo come un gran peso
giù nell’oscuro baratro infinito. Non fece un fiato, ma il suo scatto e il suo sguardo di gelida
morte mi terrorizzarono. Mi cadde la fiaccola per terra e accecata dalla paura corsi via
sbattendo la porta e gridando aiuto. Corsi a perdifiato giù per le scale gridando aiuto a
squarciagola, giunta nella grande sala urlai: "E’ la morte, c’è la morte." I miei occhi terrorizzati
fecero impaurire molti che anzi che scoppiare in una sonora risata mi chiesero di più.
Si precipitò Carl con semplici parole a concludere la festa e ad invitare tutti fra mille
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vociferare a tornare nelle proprie case. Così tutti fecero ciò che il padrone di casa aveva
ordinato, infilarono i cappotti e saliti sulle carrozze sfrecciarono in diverse direzioni. Quando
tutti furono usciti dalla casa il grande portone si richiuse e la quiete immersa nella mia paura
tornarono a regnare. "Adolf accompagna Clara nelle sue stanze e fa si che vi ci rimanga." "Si
padrone come lei ordina."
"Ma papà io voglio sapere cosa ha visto Isabella anche io voglio andare al quarto piano!" Per la
prima volta sentii urlare il signor Carl: "Clara ubbidisci, vai a letto." E Clara ubbidì, salì
guardando sempre indietro le scale e arrivata al secondo piano entrò nella sua stanza. Le
cameriere avevano subito iniziato a pulire la sala e io mi ero sdraiata sul divano mentre la
paura di ciò che avevo visto faceva scendere profonde lacrime sul mio viso. Carl mi si avvicinò
e tenendomi stretta la mano mi parlò tra i singhiozzi: "Ora sai, ora hai visto la mia infinita
sofferenza."
Riprendendomi lentamente e fra i singhiozzi, mi tirai su e seduta rigidamente sul divano mi
rivolsi con voce sempre più tremante a Carl: "Cos’era quello, non poteva essere un ragazzo- mi
si tolse il fiato e con voce più alta ripresi- è un mostro!!"
"No, no, Isabella non gridare, non è un mostro è quello che rimane di mio figlio!" in quel
momento i suoi occhi furono pervasi da un dolore troppo profondo da cercare di interpretare
e il mio cuore si gonfiò di pace. Nel vedere come si poteva sentire Carl avevo sentito nel petto
esplodermi lo stesso e impresumibile malore. Il dolore allora incominciò a espandersi al posto
dell’odore di gelsomino e le mie palpebre si fecero sempre più pesanti finché non mi
addormentai. Carl mi resse ancora per un po’ la mano poi la lasciò e mi coprì con una soffice
coperta. Dagli immensi finestroni s’irradiava una luce cristallina e calda. Il suo tepore mi
svegliò e di fronte a me Carl con Clara. Era già mattina, mi ero ripresa dalla sera precedente e
Clara con una fumante tazza di caffè in mano mi parlò: "Papà mi ha detto che ieri avevi la
febbre e quindi hai avuto delle allucinazioni, ma ora stai meglio non è così? Su bevi questa è
per te!" Così dicendo mi pose fra le mani con delicatezza la tazza, io stavo per dirle la verità
ma guardando gli occhi di Carl tacqui.
"Ora che stai bene Isabella vatti a preparare che così facciamo una passeggiata e parliamo"
"Dolcissima Isabella io non verrò perché vado con una mia amica in città, non ti dispiace
perché se è così disdico tutto."
"No, Clara vai tranquilla io ora sto bene, ci vedremo per la cena." Così dicendo alla fragile
Clara mi alzai e andai nella mia camera a prepararmi. Però mentre salivo quei gradini mi sentii
pungere da quegli gelidi occhi che si impossessarono per un attimo della mia perduta mente. Fu
per un attimo poi mi ripresi, in poco tempo ero pronta ma non feci a tempo a salutare Clara.
Giù in sala mi aspettava Carl già con il cappotto indosso, mi aiutò ad infilare il mio e ci
avviammo all’interno della tenuta. Non feci un fiato ne un respiro, Carl intenerito e con lo
sguardo rattristato della prima volta in cui lo vidi mi disse: "Lo so, non puoi capire, avrei
dovuto dirtelo prima, sono stato uno sciocco ma solo tu puoi fare qualcosa." Mi fermai di colpo
e risposi: "Non ho parole per esprimere quello che sento e quello che ho visto ma adesso voglio
sapere tutto ciò che devo sapere". Ero sicura, decisa, forte, forte più che mai e pronta ad
affrontare tutto. Carl rafforzato dal mio temperamento, si fermò anche lui e mi chiarì:
"L’unico che può spiegarti tutto è il mio amico Jaques, verrà oggi pomeriggio."
"Comprendo" soggiunsi e poi tacqui. Rimanemmo in silenzio per tutta la mattinata in cui non
facemmo altro che passeggiare per la gigante tenuta. Anche per il pranzo nessuno dei due
parlò e l’unica allegra della casa, Clara, era assente, sarebbe ritornata per l’ora di cena.
Attendevo trepidante l’arrivo dell’amico di Carl ma a mia volta non ero pronta per scoprire
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cosa mi attendeva per i seguenti giorni o forse per i seguenti mesi. Appena finii di mangiare
quel poco che ero riuscita ad ingerire mi alzai dal tavolo: "Posso andare nella biblioteca Carl?"
Domandai tutta contenta. "Ma certo Isabella questa è casa tua e puoi fare come credi."
"Grazie, con permesso." Riposi accuratamente il tovagliolo sul tavolo e dopo aver messo a
posto la sedia mi accinsi a salire le scale. Intanto anche Carl si era alzato e con la pipa accesa
si accomodò su uno dei tanti divani della sala.
Raggiunsi la biblioteca e vi entrai, era ancora più bella ora le tende erano spalancate e la luce
filtrava giocando allegramente con le ombre. Mi sentii protetta e poi tutti quei libri mi
facevano sognare. Incominciai a leggere tutti i titoli che volevo e magari a leggere qualche
passo, tutti i libri erano meravigliosi passavano dal classico alla letteratura ottocentesca, a
quella medievale.
Presi frettolosamente più di cinquanta libri, li posai sul tappeto e iniziai a leggerli, ma a metà
lettura mi sdraiai e mi addormentai sognando le mie solite fantastiche avventure. Ma tra i bei
sogni se ne insinuò uno orribile che mi fece gridare e mi svegliai. Carl mi raggiunse in fretta e
quando spalancò la porta mi trovò sul tappeto immersa fra i libri: "Isabella tutto bene, cos’era
quel grido?"
"Mi spiace di averti disturbato ma ho fatto un brutto sogno, mi sono addormentata mentre
leggevo-poi guardai il casino che avevo combinato- adesso metto tutto in ordine."
"Non ti preoccupare ci penseranno le domestiche scendi che è arrivato Jaques."
Era arrivato, mi scrollai immediatamente di dosso i libri, mi alzai e con le mani mi diedi una
stirata al vestito che si era tutto rovinato, in me si facevano sempre più vive le immagini di
quel ragazzo e mi sentivo mancare il fiato, per questo ero contenta della visita di quell’uomo,
l’unico che avrebbe svelato il mistero. Scesi di corsa le scale e mi precipitai nella sala dove
Carl stava parlando con l’uomo del mistero così da me soprannominato. Si voltò e mi apparve di
fronte un uomo più o meno dell’età di Carl, con una lunga e folta barba bianca, i baffi, e i
capelli lunghi, sembrava un po’ il mago Merlino tanto descritto nelle favole e infatti si
occupava di arti magiche. Appena mi vide mi corse incontro come illuminato e disse
compiacente: "Ecco la salvezza, dal futuro devi essere tu Isabella o come ti chiami." Annuii di
si, quell’uomo mi metteva allegria e serenità aveva la faccia arrotondata la bocca sorridente e
lo sguardo di una persona onesta. Carl allora ci invitò ad accomodarci su uno dei divani e dopo
averlo fatto Jaques impostò la voce e incominciò a parlare.
"Ebbene desideri subito che io ti racconti tutto, vero?"
"Si, tutto dall’inizio alla fine!" Esclamai felice ma allo stesso tempo attenta.
"E’ giusto partire dal principio, sono stato io a portarti qui dal tuo tempo perché le mie
sensazioni mi hanno rivelato che sei l’unica che può salvare il figlio del mio amico."
"Jaques è una specie di mago sa fare cose straordinarie, ma è buonissimo." Disse Carl
intrufolandosi nel racconto. "Carl ti prego non mi interrompere- riprese Jaques - come stavo
dicendo ti ho portato qui con una specie di incantesimo difficilissimo ed è giusto, è
obbligatorio, che tu sappia cosa è successo al ragazzo per poterlo aiutare." Si spicciò al barba
e poi riprendendo fiato continuò mentre io lo guardavo sbalordita.
"Tu qui da noi hai dei poteri magici ma poco influenti mentre nel tuo tempo sei una ragazza
normale."
"Io ho dei poteri magici - balbettai- e quali?"
"Cose di poco conto bambina, ma ora torniamo a noi." Ero attonita le mie orecchie non
potevano credere a ciò che avevano sentito ma fui scossa da una gomitata di Carl e tornai a
seguire il discorso.
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"Non molto tempo fa anzi no, il figlio di Carl era legatissimo al suo migliore amico Andriu che
passava le intere giornate con lui soprattutto dopo la morte della moglie di Carl e quindi la
madre di suo figlio. Già dopo quella terribile esperienza il giovine era caduto in una profonda
depressione e durante una passeggiata a cavallo all’interno della tenuta accadde tutto. sospirò e poi continuò - erano andati a cavallo e Andriu pronunciò una frase fuori luogo, disse
“Tua madre era proprio brava a cavalcare ma tu non sei come lei.” Così dicendo il ragazzo si
era procurato un forte litigio con l’amico, cioè il figlio di Carl, e mentre discutevano
animatamente, il ragazzo spinse l’amico e questo cadde in un dirupo molto profondo da cui non
uscì vivo. Fu giudicato dalla corte innocente ma lui si sentiva il colpevole di quella assurda
perdita."
Ero scossa, quella storia avrebbe fatto del male a chiunque ma dal finale compresi che la
spiegazione non era terminata e stringendo i risvolti delle maniche a pugno dissi: "La prego
continui a raccontare."
"Hai perfettamente ragione la storia non è finita anzi inizia da qui, ed è da qui che devi stare
molto attenta ma non ti spaventare al pronunciare delle mie parole cara ragazza. La perdita
della madre e del suo migliore amico unite avevano gettato in disperazione il ragazzo alla quale
si era aggiunta il senso di colpevolizzazione verso se stesso, non ce la faceva più, la notte non
dormiva, non riusciva a studiare e alle volte gli mancava il respiro così all’insaputa di Carl si
rivolse a un finto mago, un ciarlatano, per chiedergli una pozione che gli facesse dimenticare il
dolore per quegli avvenimenti, ma al posto di dargli quello che gli aveva chiesto gli diede
un’altra pozione."
"E questo cosa ha comportato, suvvia parli." Lo incitai freneticamente per sapere ciò che era
avvenuto.
"Ebbene la pozione al posto di levargli il dolore per quell’avvenimento, gli ha tolto tutto, non
può provare nulla né amore né odio, non è nessuno, non esprime nulla, niente lo aggrada niente
lo rallegra, non mangia neanche più perché tanto non può capire se gli piace o meno, non è
neppure un essere umano, è il nulla, l’oscuro, la morte!" Le sue parole, ciò che avevo visto, il
racconto mi alzai di scatto in piedi e con le lacrime agli occhi urlai: "No! Io non lo posso salvare
è un mostro, è la morte in persona"
Corsi via, tutto ciò che vedevo mi terrorizzava, entrai nella mia stanza e mi gettai sul letto.
Strinsi forte al mio petto il cuscino e piangendo ripensavo a ciò che avevo udito. Non capivo
come potesse continuare a vivere senza riuscire a provare le emozioni che ogni giorno popolano
i nostri respiri, i raggi della luce, era stato costretto a rinunciare alle gioie che ci reca anche
il profumo di un fiore, ai dolori che ci può portare anche un semplice graffio magari del nostro
cucciolo adorato. Infinitamente era disperso in un’ombra di pura congettura. Non riuscivo
proprio a credere cosa mi sarebbe successo ora che avrei dovuto riprendermi e costatare di
persona come potesse essere quel ragazzo immensamente solo senza la sua anima. Perché era
questo che non aveva, un’anima.
Giù nel salone, intanto, Carl e Jaques avevano ripreso il discorso.
"Mio caro Carl la ragazza ha già visto tuo figlio o ancora si può ritenere salva."
"Lo ha soltanto visto di sfuggita purtroppo e tutti stavano per venirlo a sapere ma
stranamente non la ha attaccata." "Mi auguro che ce la faccia nella missione è l’unica che può
aiutarlo, ora devo lasciarti fammi sapere al più presto." "Grazie infinite Jaques per il tuo
supporto ti contatterò quando ci saranno novità." E così dicendo il signore Jaques se ne andò
con il cuore gonfio di speranza. Rimasi nella mia stanza per tutto il resto del giorno anche
quando tornò Clara che appena arrivata corse nella mia camera con tutte le compre che aveva
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fatto. Entrò senza bussare, spalancando la grande porta: "Isabella, Isabella guarda quanti
begli acquisti ho fatto." Disse gettando sul letto dove mi trovavo più di venti scatole.
"Ho comprato anche qualcosa per te." Si gettò sul letto e iniziò a rovistare fra le scatole e poi
tirò fuori da una di queste una scatolina più piccola: "Dai scartalo, è un pensierino." Mi disse
porgendomi la scatoletta, dentro vi erano due braccialetti identici con su scritto Isabella e
Clara. Prese quello con scritto Clara e me lo mise al polso. Era un pensiero stupendo e
incominciavo ad affezionarmici. Poi io gli misi quello con scritto Isabella e riprendendosi tutti i
pacchi se ne andò contenta. Non scesi per la cena anche se Clara con i suoi gesti bene o male
un po’ di serenità me la aveva messa addosso; rimasi in silenzio sul mio letto osservando fuori
dalla finestra. Verso sera dopo cena si scatenò un violento temporale e man mano suscitava in
me la curiosità che la sera prima mi aveva fatto scoprire il mistero della casa. I tuoni non mi
spaventavano e i lampi mi rendevano più forte. Uscii silenziosamente dalla mia stanza e
salendo le scale arrivai al quarto piano, il piano proibito. Stava accadendo come la sera
precedente, tutto uguale, era solo che in quel momento ad illuminare il corridoio c’erano i lampi
e non una fiaccola. Mi ritrovai potente davanti alla porta la spinsi ed entrai, tutto era uguale la
finestra era spalancata e il ragazzo era in piedi di fianco al tavolinetto, si voltò di scatto e
ancora per la seconda volta i suo occhi mi gettarono il terrore. Nella maschera della vita
terrena spesso lo spirito interiore osserva con occhi luminosi attraverso la maschera ma quel
ragazzo……….. non lo aveva uno spirito!!
Spaventata, inorridita non riuscii a guardarlo negli occhi e scappai urlando: "Non ce la faccio,
non ci riuscirò mai, lui è un mostro!" Accorse in fretta Carl che mi prese tra le sue braccia e
mi portò nella biblioteca dove stava, per non svegliare Clara. Non mi fece domande mi posò
sulla poltrona di fronte alla sua e prendendo un libro a caso della libreria, incominciò a
leggermelo. Tremavo ma non dal freddo ma dalla paura di quello che vivevo. Le calde parole di
Carl e il caminetto mi riscaldarono e a poco a poco mi addormentai con lo sguardo cupo di chi
non sapeva come riuscire sopravvivere.
Infatti era troppo grande quel peso su di me, io non ce la avrei mai fatta a salvare un ragazzo
che mi terrorizzava, se proprio dovevo farlo, e lo dovevo fare, lo potevo, lo potevo fare, in
fondo, se lui si fosse salvato io sarei potuta tornare alla mia casa che in quel momento mi
mancava da impazzire. Non mi avvicinai al quel piano per due giorni in cui però il solo pensiero
mi tormentava, ma involontariamente ci giunsi. Mi stavo impegnando ad aiutare le domestiche a
spicciare la casa per le pulizie settimanali e con Clara ci divertivamo un mondo a sporcarci
mentre pulivamo. Carl ci guardava contento e con la speranza che un giorno avrei accettato la
mia missione. Pulendo il corrimano delle scale giunsi al piano proibito, non me ne accorsi, ma
quando vidi dove mi trovavo, mi colse un senso di paura e malinconia, voltai le spalle, stavo per
scendere quando la caduta di un oggetto mi fece sobbalzare. Mi voltai ma trovai la porta
chiusa ciò stava ad indicare che l’oggetto era caduto all’interno della stanza. Mi feci coraggio
e con il pensiero che ero io la più forte sospinsi la porta. Ora la stanza che mi si presentava
non era più cupa la finestra come al solito aperta faceva entrare la luce del giorno presi così a
togliere dai mobili i teli neri che li ricoprivano, i mobili erano tutti impolverati ma sembravano
nuovi, come appena comprati. Mi feci più avanti e scorsi come per normalità il ragazzo in piedi
vicino al tavolinetto che appena mi sentì respirare si voltò, ancora prima di guardarlo mi voltai
e corsi via, ma inciampai e caddi. Il respiro mi si fece più veloce e sentii avvicinarsi quel
ragazzo, degli strani brividi mi percorsero la schiena e il ragazzo mi passò vicino senza
neanche fermarsi e si diresse ad un pianoforte, l’unico mobile scoperto, si sedette e iniziò a
suonare. Sembrava come se non mi avesse notata o forse non gli importava nulla che io fossi lì,
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mi stavo per rialzare e andarmene ma la sua musica mi trascinò. Erano piccole note appoggiate
delicatamente su degli spartiti leggeri come il vento, possenti come la pioggia e dolci come
l’amore che la sua musica esprimeva. Il suono soave mi entrò nella mente e risuonava senza
ostacoli con pieno possesso del cuore. Immensi cieli stellati e mari tempestosi popolavano
quella stanza dove il vento faceva vibrare le gote. Mi alzai e rimasi immobile ad ascoltare la
grandezza di quell’arte che quel ragazzo sapeva raccontare come se fosse parte dell’anima che
non aveva. Poesia, profumo della musica, batteva incessante il tempo che sembrava essersi
fermato a giocare a festa nella stanza rasserenata dal sole mattutino. Era bravissimo e non mi
sarei mai stancata di ascoltare la sua musica, ci distolse da quell' aleggio di fantasie una
domestica che mi era venuta a cercare per avvertirmi che il pranzo era in tavola, entrò nella
stanza che non aveva mai visto ma quando il ragazzo la sentì arrivare balzò in piedi mi guardò
con il suo sguardo terrificante di morte e poi con una voce che metteva i brividi urlò: "Fuori,
via di qua o vi uccido, via!" Il modo in cui lo disse mi fece tremare e spaventata con la
domestica corsi fuori dalla stanza. Perché tutto ad un tratto si era trasformato nel mostro
che era, fino a poco prima quando nella stanza c’ero io aveva suonato con una straordinaria
bravura era forse per l’arrivo della domestica che si era spaventato? Ora mi rendevo conto
che lo potevo aiutare, che ce la avrei fatta, io gli avrei ridonato la sua anima. Però non capivo
perché si era così arrabbiato per l’arrivo della domestica infondo mi aveva fatto rimanere.
Durante il pranzo interpellai Carl: "Come mai io posso stare nella sua stanza senza che lui si
alteri ma se arrivano altri si infuria?" Domandai esplicitamente.
"Ha capito che tu lo puoi aiutare ma non vuole nessun altro." Soggiunse lui senza tanto
dilungarsi. "Posso almeno sapere di chi parlate tu e papà?" Chiese incuriosita la piccola Clara e
io non seppi cosa rispondergli fu Carl come al solito a prendere le redini del discorso: "Ma di
nessuno Clara un vecchio amico, ora mangia." "Comunque volevo solo avvertirti Isabella che
oggi pomeriggio non ci sarò vado a lezione di piano e poi esco con Francesca la mia amica."
"Non ti devi preoccupare Clara sono io che ti dedico poco tempo ma domani se tu vorrai mi
serve il tuo aiuto." "Ma certo tutto quello che vuoi, di che cosa si tratta?" Mi guardò raggiante
in attesa della risposta. "Non posso dirti nulla lo saprai domani mattina."
"E dai Isabella dicci cos’è tutto questo segreto." Accorse a dire Carl incuriosito.
"No, non insistete ho una grande idea ma la saprete domani mattina; adesso con permesso,
devo andare ho delle cose da sbrigare." E così dicendo mi alzai dal tavolo e me ne andai di
corsa su per le scale lasciando Carl e Clara che si guardavano con lo sguardo e l’espressione di
chi non aveva capito nulla!! Un’idea mi frullava per i sensi e pensai che sarebbe riuscita alla
grande ma prima dovevo fare qualche cos’altro. Mi munii di un vasetto con il gelsomino e uno
straccio per spolverare e con tutto il buono umore che avevo nel sangue mi diressi nel piano
proibito e aprii la porta. Entrando alzai la voce e dissi: "Allora mentre io risistemo tu suoni la
tua musica per me va bene?" Mi riferivo al ragazzo ma non ebbi il coraggio di guardarlo negli
occhi. Lui comprese al volo si posizionò sul seggiolino e iniziò a suonare. La sua musica era
serena e allegra anche se lui forse non se ne rendeva conto, intanto io spolveravo i mobili e i
quadri; quando ebbi finito posai il vasetto con il gelsomino sul tavolinetto e mi sedetti per
terra. Dalla finestra entrava una fresca brezza pomeridiana, era quasi il tramonto. D’un tratto
il ragazzo smise di suonare ed io mi raggelai, avevo ancora timore dei suoi gelidi occhi. Chiuse
delicatamente il piano e mi si diresse vicino. Io avevo lo sguardo abbassato non ce la facevo
proprio a guardarlo ma non mi mossi da dove mi trovavo. Lo lasciai sedere per terra di fronte
a me e, senza guardarlo in volto, lo sentii pronunciare le prime parole: "Mia madre adorava i
gelsomini, grazie." Le sue parole e la sua voce mi colmarono il cuore di una gioia surreale non
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sembravano senza emozione ne fredde e distaccate, ma calde come se giungessero dall’abisso
del suo più profondo amore. Alzai lentamente lo sguardo. Spiragli di candida luce illuminavano
il suo volto che ora mi appariva diverso, non più senz’anima. I suoi grandi occhi verdi erano
pieni di qualcosa che voleva uscire senza freni ma che non ce la faceva da solo, aveva bisogno
di una spinta per farsi spuntare le ali della libertà. In quel momento così magico e fantastico i
rumori si perdevano nel cielo arrossato, il silenzio pungente come una spina e il dolore
possente come una pietra erigevano un piedistallo fatto di speranze e amore allo stato più
puro quello senza limiti ne confini. Alzò delicatamente la sua mano e la mia involontariamente
raggiunse la sua erano strette da un filo che nemmeno il fato poteva spezzare o rodere era
quell’amore senza ostacoli a nascere lentamente in noi. I suoi occhi ora erano la mia vita, la mia
libertà ora come non mai nella storia io potevo, dovevo e volevo salvarlo dal male che non
provava. "Lascia che io ti chiami per nome." Gli dissi balbettando.
"Alessandro." Mi rispose semplicemente e ci lasciammo ad osservare quello spettacolare
tramonto.
Il suo sguardo rimaneva per me un ostacolo insormontabile che avrei dovuto a tutti i costi
superare per poterlo aiutare, avevo già fatto un grande passo avanti ma quello che avevo
organizzato per il giorno seguente lo avrebbe dovuto indurre a liberarsi del suo sguardo così
terrificante e lo avrebbe soprattutto dovuto aiutare a ritrovare i suoi sentimenti ma non andò
come credevo. Mi svegliai di buon ora quella mattina ma, come al solito, Carl e Clara già si
trovavano nel salone quando scesi. Avevo uno sguardo raggiante e solare, sprizzavo allegria a
volontà e mi sentivo insopportabilmente serena. Non dissi una parola, mi sedetti al tavolo ed
iniziai a consumare la mia squisita colazione.
"Isabella finalmente ti vedo di buon umore e il tuo sorriso stamane è straordinariamente
bello." Si affrettò a dire Clara vedendomi.
"Niente sono solo contenta ma il bello sta ancora per venire. Vi ricordate quello che mi avete
chiesto ieri sera, cosa avevo per la mente? Beh stamattina lo scoprire."
"Isabella di certo non ti capisco, cosa vuoi dirci di così speciale?" Mi chiese sempre più
incuriosito Carl. "Non fate altre domande tra poco saprete, vi prego solo di recarvi in giardino
appena finito di fare colazione." Si affrettarono a mangiare e rincorrendosi andarono nel
grande giardino della tenuta. Io anche mi accinsi a finire di fare colazione e appena terminato
il tutto, mi alzai lasciando tutto in disordine e mi affrettai a salire le scale. Arrivai fino al
quarto piano e di corsa spalancai la porta. Come sempre Alessandro era in piedi di fianco al
tavolinetto, lo afferrai sotto braccio e con tutta la volontà che mi scorreva nel sangue gli
dissi: "Andiamo, corri ho una sorpresa per te. Spero che ti piaccia!" E lo trascinai correndo giù
per le scale. Lui non batté ciglio finché non giungemmo nel giardino della tenuta. Si guardò
attorno impaurito come un piccolo pulcino indifeso, sentivo il suo cuore avvicendarsi nel
battere e il respiro diventargli più veloce e consistente. Clara alla vista di quel ragazzo gridò
entusiasta: "Era questa la sorpresa Isabella? Ma chi è? - e poi rivolgendosi a lui- lo sai che sei
davvero carino?" Le domande forse impertinenti della ragazza lo invasero e sfilò la mano dalla
mio braccio con cattiveria. Carl era rimasto immobile completamente allibito, per la prima
volta dopo troppi anni suo figlio era uscito dalla sua stanza e lo aveva rivisto. Non riusciva a
trovare le parole per poter dichiarargli tutto il suo amore e riuscì a balbettare dopo un bel po’
poche parole: "Figlio mio………." Disse spalancando le sue braccia e con le lacrime agli occhi. Ma
Alessandro rimase imperterrito, con lo sguardo assente e nessuna smorfia di amore suscitò in
lui quella vista. Carl avrebbe tanto voluto abbracciarlo e stringerlo forte al cuore, i suoi occhi
lacrimavano di felicità e le sue mani tremavano dalla voglia di poter tornare a vivere
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serenamente con suo figlio. Mi aspettavo, e ne ero convinta, che quell’incontro avrebbe
suscitato l’amore nello spirito di Alessandro ma purtroppo lo fece solo intristire ancora di più.
"Papà, come figlio mio! Ma che cosa dici?" Chiese Clara sbigottita dalle parole del papà, ma
nulla, tanto meno le sue parole, avrebbero distolto Carl da quel momento di assoluta
commozione e ritrovo. La reazione di Alessandro ci lasciò tutti impietriti come se ci si fosse
frantumato davanti un sogno irreale. Dopo le parole del padre rimase per qualche secondo in
silenzio ma poi urlò: "Vi odio, vi detesto, nessuno sarà mai come me!" Le sue parole furono
pronunciate con un disprezzo e un odio che ci fecero gioire dal nostro canto poiché anche se
non aveva provato amore almeno aveva sentito qualcosa bruciargli dentro. Finì di pronunciare
quelle parole e poi corse dentro la casa, su per le scale e poi sbattendo la porta della sua
stanza vi si chiuse dentro a chiave.
"Aspetta!" Gli gridai rincorrendolo, come aveva potuto rovinare tutto, distruggere il sogno di
suo padre che tanto lo amava, io, si, era vero non potevo essere come lui. Giunsi al piano
proibito ma trovai la porta chiusa, provai ad aprirla ma i miei sforzi furono in vani. Attaccata
nel più profondo dell’anima scaraventai i miei pugni sulla gigante porta strepitando:
"Alessandro apri questa dannata porta. Aprimi immediatamente!" Non ricevetti risposta e mi
lasciai lentamente scivolare lungo la porta sedendomi con le gambe rannicchiate addosso ad
essa. Nel giardino Carl era rimasto impietrito e il dolore se ne era impossessato arduamente.
Appena Alessandro scappò via cadde con le ginocchia a terra lasciandosi trasportare in
un’atroce depressione, lacrimava di dolore. Clara non aveva compreso nulla e vedendo il padre
in quello stato si mise vicino a lui e lo abbracciò teneramente: "Papà, mio adoratissimo papà,
non piangere in questo modo perché se tu piangi il mio cuore lacrima con te!" Carl scoppiò in
singhiozzi stringendo fra le sue braccia la figlia che intanto lo accarezzava con tenerezza. Io
appoggiata alla porta mi lasciai travolgere dalle lacrime che scendevano libere senza ordine sul
mio volto bagnandomi le mani. Piansi per molto e proprio mentre piangevo Alessandro si
accostò alla porta dal lato interno e poggiò la mano su di essa, dall’altro lato io la sentivo
scivolare sulla mia schiena e la poggiai anch’io. Ora le nostre mani erano congiunte in un eterno
vortice. Mi parlò con la voce tremante: "Non voglio essere come sono. Io non potrò mai essere
come voi, sono un orribile mostro, non un uomo poiché sono senza l’anima, io sono eternamente
dannato." Le sue parole mi strinsero forte. Non era vero ciò che aveva appena pronunciato,
poteva essere come noi, lui un cuore ce lo aveva. Non riuscivo a salvarlo, le mie idee erano
fasulle, io mi sentivo rapire quando stavo con lui, la poesia e la musica erano in me quando
accanto avevo la sua presenza, mi raggiungeva un raggio da un magnifico passato da una vita
creata sulle fragili colonne delle parole di cristallo che semplicemente si espandevano nella più
totale facilità di amore. Io lo amavo. Lo amavo contro volontà, per il suo gelo, per la sua
magnificenza nel suonare, per i suoi profondi occhi verdi, perché era così che noi volevamo. Lo
amavo e non me ne rendevo conto. Distante da noi anni luce c’era il mondo della realtà e io in
quel mondo e in questo non mi potevo innamorare di nessuno perché ben presto lo avrei dovuto
lasciare.
La mattina seguente a tavola per la colazione Carl non si vide e Clara con tutta la malinconia
che provava mi chiese: "Isabella per favore va da papà appena finito, dopo ieri non sono
riuscita a vederlo si è rinchiuso nella biblioteca e non è uscito. Mi ha detto tutto, Alessandro
è suo figlio e lui ti è grato per quello che hai fatto, anche se il ragazzo ha reagito male, ti
prego va da lui!" L’espressione con cui Clara mi chiese quella cosa mi fece rabbugliare, al posto
di far contento il padrone gli avevo recato solo un grande dispiacere. Mi accinsi ad andare
nella sala della biblioteca e giunta davanti alla porta, bussai. Non ricevetti risposta e
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preoccupata entrai senza permesso. Lo trovai con lo sguardo perso nel vuoto seduto sulla sua
poltrona preferita.
"Carl perdonami io non volevo farti del male!" Esclamai abbassando lo sguardo.
Carl alzò il suo sguardo e con gli occhi pieni d’amore mi rispose: "Isabella mia guardami, non
devi nemmeno pensare che io ti debba perdonare, tu hai fatto tanto e perdonami tu se sono
così cupo, ma pensavo a mia moglie e al mio piccolo Alessandro."
"E che cosa state ricordando?"
"Sto ricordando quando mia moglie era ancora in vita e giocava allegramente nel parco della
tenuta con suo figlio. Com’era bella sai. Alessandro ha ripreso tutto da lei, le labbra carnose,
gli occhi verdi e profondi e la passione per la musica. Hai sentito come suona mio figlio?"
"Oh! Si, la sua musica mi ha lasciato senza parole per descriverla."
"Sai quando Alessandro è uscito dal portone mi è sembrato di rivedere mia moglie e mi è
mancato il respiro."
"Non pensavo che potesse reagire in quel modo, ma perché vedendola ha fatto così?"
"Devi sapere una cosa che non ti ho detto, prima che lo dichiarassero innocente io stesso lo
avevo accusato dell’omicidio del suo migliore amico e lui da quel momento mi ha detestato, non
mi può vedere." La rabbia mentre gli sentivo pronunciare quelle parole accresceva in me e gli
dissi furente: "Ma come ha potuto pensare che suo figlio fosse colpevole, lei non lo doveva
neppure pensare." Lo stavo accusando, senza neanche averlo fatto finire di parlare ma ciò che
aveva detto era assurdo, un padre non avrebbe mai dubitato di suo figlio.
"Hai ragione Isabella sono io il vero mostro!" E così dicendo si coprì il volto con le mani in
segno di vergogna. Ormai ciò che aveva fatto apparteneva al passato e poi si era reso conto di
aver sbagliato. Mi prese la compassione e la pena, e con parole dolci gli dissi: "Ora non deve più
pensare a quello che ha fatto, suo figlio ha bisogno di lei, gli dia tempo e la saprà perdonare."
Lo confortai rassicurandolo.
"Comunque ieri anche se non mi ha dimostrato amore ha provato qualcosa non è vero?"
"Sì, ne sono convinta anche io, basta avere pazienza e ritroverà ciò che ha perso."
Carl mi baciò la fronte e uscì dalla stanza dicendo che sarebbe andato a fare una passeggiata
a cavallo con Clara per parlare un po’ con lei di quanto era avvenuto ieri e mi lasciò lì sola. In
quella grande stanza mi tornò dopo tanto tempo la nostalgia per la mia piccola stanzetta e per
la mia famiglia, non potevo immaginare che anche se alle volte litigavamo avrei sofferto se mi
fossi allontanata da loro. Ero assorta tra le mie fantasie e mi distolsi da quel momento di
riflessione solo perché sentii una presenza dietro di me, non avevo sentito aprire la porta né
attraversare la stanza. Mi voltai con cautela e mi ritrovai davanti Alessandro, non lo avevo mai
guardato bene ed ora, che lo avevo così vicino, mi appariva nella sua inimmaginabile bellezza.
Fece una strana smorfia, sembrava un sorriso, e il mio cuore si colmò di enfasi. Non lo avevo
mai visto sorridere ed era davvero magnifico, il cuore mi batteva all’impazzata e potevo
sentire il suo respiro planare delicatamente sul mio petto. Petali dorati volteggiavano nella
stanza che sfavillava di luci. Mi sentii tremendamente in imbarazzo e per non farglielo capire
gli scivolai lentamente di fianco e mi allontanai: "Non ti avevo sentito entrare!" Esclamai. Non
mi rispose e intanto io gesticolavo nel tentare di prendere un libro.
"Leggimi una storia." Mi disse accomodandosi sulla poltrona di suo padre e così mi venne
un’idea. Presi un libro a caso ma non lessi quello che veramente vi era scritto lessi ciò che
volevo dirgli: "C’era tanti anni fa un ragazzo che per una serie di circostanze, dopo la tragica
morte della madre e la sfortunata scomparsa del migliore amico fece una pazzia, prese una
pozione per curare il dolore interiore che provava, ma il mago a cui si rivolse gliene diede una
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sbagliata. Oltre ha togliergli il dolore gli tolse qualsiasi altro sentimento, compreso l’amore. alzai per un attimo lo sguardo e notai che gli occhi di Alessandro si stavano raggelando ma
proseguii imperterrita.- Il ragazzo era diventato un mostro, incarnava la morte, era
perdutamente dannato. Una ragazza tentò di salvarlo ma lui anche quando rivide il padre non
provò nulla, non era nessuno, il gelo faceva parte del suo spirito, perduto per l’eternità." Avevo
pronunciato quelle parole con tale freddezza d’animo che Alessandro indignato si alzò e con un
gesto furioso mi strappò dalle mani il libro e lo gettò nel camino che era acceso. Lo lasciò
bruciare con odio.
"Sta zitta, zitta tu sei il mostro io ti odio, che tu sia dannata!" Pronunciò quelle parole con un
forte disprezzo e ne rimasi trafitta e sminuita.
"Zitto tu - gridai- sei tu il mostro, come hai potuto trattare così tuo padre! Rimarrai per
sempre nulla e io ti odio con tutte le mie forze!" Gli gridai contro.
"Nooooooooooooo!" Cadde a terra in lacrime, e il suo gesto ma soprattutto i suoi occhi
piangevano finalmente. Ora poteva essere qualcuno. Gli corsi incontro e lo presi fra le mie
braccia, ci stringemmo forte, non era più un’anima vagante in cerca di giustizia ora,
finalmente, era un essere umano. I nostri sguardi si incontrarono, le nostre mani si sfiorarono
e nacque in noi la certezza che esistesse il puro amore, quello sconfinato. Continuai ad
accarezzargli dolcemente i capelli, il fuoco nel camino oramai si era spento ma intorno a noi
esisteva solo quella nuvola di estasi infinita. Il petto strepitava dalla gioia di essersi trovati
insieme in un cielo irraggiungibile. Mi allontanai immediatamente adesso non avevo più paura
dei suoi occhi ma paura di quello che provavo e cercavo così di reprimerlo per poi non dover
cedere alle sofferenze della delusione di partire. Lo lasciai solo in quella grande stanza e mi
allontanai con tale indifferenza che Alessandro ne rimase agghiacciato. Uscii in tutta fretta
dalla stanza e correndo giù nel salone, poiché si era fatta ora di cena, incrociai Adolf che mi
avvertì: "Signorina Isabella come al solito la cercavamo: la cena è servita."
"Sto andando Adolf." Giunsi a tavola e cercai di sfoggiare un sorriso per evitare le domande
indiscrete di Clara che invece era più solare del solito.
"Isabella starsera io e papà andiamo a parlare con Alessandro, ci accompagni?"
"Ecco, vedi, insomma Clara non sto molto bene, penso che appena finito di mangiare andrò in
camera mia a riposare, tutto qua."
"Nulla di grave mi auguro?" Si affrettò ad aggiungere Carl che dopo aver parlato con Clara nel
pomeriggio aveva riacquistato il buono umore e la tranquillità di chi prima o poi avrebbe
ottenuto ciò per cui tanto lottava. "Nulla, soltanto un po’ di stanchezza dovuta agli ultimi
eventi." Mentivo non ero per nulla stanca avevo solo bisogno di riflettere su i miei sentimenti,
su quello che in quel momento tanto reprimevo. Concludemmo la cena molto in fretta, non
mangiammo neppure il dolce e appena terminai di desinare ci alzammo tutti e ci accingemmo a
salire le scale insieme. Io mi fermai al terzo piano dove si trovava la mia camera e Carl e Clara
continuarono a salire. Appena entrai mi gettai sul letto e lasciai che il mio sguardo si perdesse
nel soffitto osservando le ombre prodotte dalla lampada ad olio poggiata sul comodino. Avevo
ripreso a farmi domande ma questa volta erano degli atroci dubbi che si divertivano ad
innalzare delle barriere ai miei sentimenti per Alessandro. Mentre io mi assillavo in quella
marea Carl e Clara erano giunti davanti alla porta del piano proibito e vi erano entrati.
Trovarono il ragazzo allo stesso punto con il suo raggelante sguardo perso fuori dalla finestra,
che come al solito era spalancata. Non si accorse del loro arrivo e quando li scorse Clara prese
in mano le redini del discorso che il padre voleva fargli: "Ti prego facci parlare prima di
infuriarti." Chiese Clara con la sua aria da fragile e innocente ragazza ed Alessandro non
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seppe resistergli ed accennò con la testa un traballante si. A quel punto Carl dopo una piccola
spinta di Clara che si era tirata indietro, fece qualche passo avanti verso il figlio: "Mio
Alessandro lo so che tu non vuoi neanche vedermi -disse con la voce tremante- ma lascia che io
ti spieghi." Alessandro si agitò e indietreggiò andando a sbattere contro una scrivania e per
cui si fermò.
I suoi occhi continuavano ad essere freddi e insignificanti aveva paura molta più di quella che
immaginava, di ricordare quel passato che ora lo stava per abbandonare. "Non sono degno di
parlarti, io ti ho accusato ingiustamente, tu non hai ucciso nessuno." Le parole del padre
fecero riaffiorare i ricordi del suo passato e soprattutto del momento in cui avvenne quel
tragico incidente, il volto gli era diventato paonazzo e dagli occhi gli fuoriuscivano fiamme
incandescenti. Il sentimento della rabbia ritornò a vivere in lui e con un gesto d’ira fuggì
scaraventando a terra tutto quello che ostacolava il suo andare, compresa Clara che era
rimasta immobile poco più in là del padre e a vedere quella scena il suo mite carattere la aveva
portata alla commozione più interna.
"Non scappare Alessandro!" Gridò Carl sporgendosi dalle scale, e quelle parole mi fecero
tornare alla realtà. Aprii di scatto la porta e mi affacciai anche io dalle scale, guardai in alto e
vidi Carl, poi il mio sguardo si diresse verso il basso e vidi scappare qualcuno.
"Corri Isabella, fermalo!" Non c’era bisogno che me lo dicesse corsi in fretta tutte le scale,
giunta nel salone mi infilai velocemente il cappotto e uscii lasciando spalancato il portone. Vidi
allontanarsi una carrozza e presunsi che fosse quella con dentro Alessandro e senza riflettere
chiamai a gran voce l’altra carrozza e dopo essere salita al volo, gridai al cocchiere: "Presto
insegua l’altra carrozza!" Impartito l’ordine il cocchiere diede una forte cinghiata ai cavalli
che presero a galoppare nel più in fretta possibile. In quei momenti non avevo neanche avuto il
tempo per capire cosa era avvenuto, avevo fatto ciò che dovevo fare, ora l’importante era
riuscire a raggiungere Alessandro per poterci parlare. Le carrozze frenarono violentemente e
scesi di corsa dalla vettura, lo stesso aveva fatto Alessandro e fuggì nella buia città. Eravamo
giunti a Londra, tutto era deserto e buio, non c’era neppure un bar, o un pub aperto. Non c’era
altro che buio e desolazione, non sembrava la città frenetica che era di giorno. Perdendomi in
quelle osservazioni avevo perso di vista Alessandro che per sfuggirmi si era introdotto in un
serpentinato vialetto. Per fortuna avevo visto quale e così lo seguii. Sembrava essersi
volatilizzato, non c’era più, il vialetto era vuoto. Lo avevo perso ed ora cosa avrebbe fatto?. Il
cocchiere mi invitò a risalire sulla carrozza e a tornare a casa, ma io non potevo lasciarlo solo,
lo dovevo assolutamente trovare. Così rifiutai l’offerta del gentile signore e iniziai a
camminare solitaria per al città completamente buia. Lo avevo cercato per ore ed ore ma le
mie ricerche non erano andate a buon fine. Si erano già fatte le tre e le mie palpebre si
facevano sempre più pesanti. Avevo troppo sonno per proseguire le ricerche e così mi
appoggiai su una panchina. Non potevo arrendermi lo dovevo trovare e riportare a casa, ma
soprattutto lo volevo ritrovare avevo una tremenda paura che gli fosse accaduto qualcosa.
Stavo quasi per addormentarmi quando sentii la frenata di una carrozza capitarmi davanti.
Balzai in piedi impaurita e spalancai gli occhi. La carrozza si era fermata proprio davanti a me
e si era aperto lo sportello. Scese Alen ubriaco, barcollava a destra e a sinistra, non riusciva
neanche a reggersi in piedi. Mi sentii tremare le gambe, la notte mi aveva messo suggestione
ed ora mi ritrovavo sola con quel ragazzo violento, ubriaco ma soprattutto con cui avevo avuto
non una felice esperienza. Come mi aspettavo si diresse verso di me appena mi vide e io
intanto indietreggiavo impaurita.
"Che fai scappi, amore mio."
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"Vattene non lo vedi che sei ubriaco, che vuoi da me?" Dissi determinata.
"Ma che vuoi che voglia. Sono venuto a chiederti in sposa, allora che fai accetti!" Disse
ridendo.
"Ma non ci penso proprio!" Gli risposi alzando il tono della voce.
"Non vuoi con le buone - poi la sua voce divenne cattiva- lo farai con le cattive!!" Mentre
pronunciava quelle parole si era avvicinato e con forza mi afferrò il braccio torcendomelo
dietro la schiena.
"Lasciami mi fai male, ho detto lasciami!" Gridai mentre mi faceva male. Non tentennava nel
lasciarmi e più passava il tempo e più mi stringeva il braccio: "Allora è si o no!" Mi ripeté
digrignando i denti e con la voce più rauca. "NO! È no!" strillai. Mi stava facendo davvero male
e alla mia risposta mi trascinò verso la carrozza. Non ce la facevo a resistergli e mi
abbandonai alla sua violenza. Mi stava per far salire quando qualcuno lo afferrò per il colletto
della divisa da dietro e lo scaraventò a terra. Era Alessandro. Mi aveva sentito gridare e
appena aveva riconosciuto la mia voce era accorso.
Sentiva il mio richiamo sussurrargli nella mente, non provava nulla eppure il mio richiamo lo
aveva scosso. Caddi per terra e mi iniziai a strofinare il braccio che ancora mi dolorava. Anche
Alen era stato sbattuto a terra e Alessandro gli era salito sopra. Si incominciarono a prendere
a pugni. Lottarono con violenza e mi spaventai da morire quando vidi del sangue scorrere. Alen
era svenuto ed Alessandro credeva di averlo ucciso. Incominciò a strepitare ad osservarsi le
mani e a lasciarsi prendere dalla sua mostruosità: "L’ho fatto ancora, l’ho ucciso!!" Disse non
credendo a ciò che vedeva. Accorsi vicino ad Alen dove Alessandro gli era in piedi di fianco.
Poggiai la mia mano sul cuore e poi controllai il respiro di Alen, era vivo: "E’ vivo respira, stai
tranquillo!" Dissi rivolgendomi a lui con tutta la tranquillità che riuscii a trovare in quel
drammatico momento. Il suo cuore riprese a battere con regolarità e i suoi occhi che si erano
rabbugliati aggrovigliandosi sulle immagini del passato, si distesero. Montammo di corsa sulla
carrozza di Alen, insieme lo alzammo e lo caricammo sul sedile davanti al nostro: tutto con la
più tremenda e insopportabile freddezza di chi non voleva ammettere il peggio e lo
accompagnammo all’ospedale. "Su presto corra all’ospedale." Strepitai in crisi al cocchiere che
oramai era rimasto pietrificato e senza parole alle immagini che gli si erano avvicendate
davanti agli occhi raggelati. Entrai solo io nell’ospedale e dovetti chiamare un infermiere per
farmi aiutare a scaricare il corpo a peso morto di Alen dalla carrozza. Lo portarono d’urgenza
in sala operatoria pensando al peggio e in quegli attimi in cui tutto ciò avveniva, il mio unico
pensiero non era per Alen o per me che avevo assistito ad un omicidio ma semplicemente e con
sconcerto era per Alessandro; cosa mai gli avrei potuto dire se il suo tremendo passato fosse
riuscito ad evadere dalla prigione di insensibilità che lo circondava e si era scaraventato nel
suo e nel mio presente? Mentre cercavo la risposta passeggiando per i vari corridoi i medici mi
vennero in contro, con il loro solito camice bianco e la camminata da intellettuali si erano
affrettati a dirmi che stava benone e si era anche risvegliato e così tornai sulla carrozza dove
mi attendeva Alessandro. Appena gli dissi la diagnosi si poggiò sulle mie gambe e rimase i
silenzio. Avevo visto nei suoi occhi il male del suo passato che poteva riproporglisi davanti. Se
fosse stato così non ce la avrebbe più fatta ma per fortuna quella notte era da dimenticare,
da aggregare ad uno di quei tanti ricordi, scordati. Giunti a casa, scesi dalla carrozza e
Alessandro senza alzare lo sguardo mi disse: "Non voglio entrare lì dentro, resta qui con me."
Non gli risposi, tanto aveva già capito, restai con lui. Passeggiammo sotto la luna e i respiri
degli aliti di vento per la tenuta ci abbracciavano. Nessuno dei due parlò, ciò che era avvenuto
non aveva bisogno di parole, Alessandro mi aveva salvata ma allo stesso tempo lui non era
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felice di ciò che aveva fatto, aveva avuto paura di commettere lo stesso errore ancora per una
volta. Il tempo trascorse frettoloso e appena vidimo spuntare i primi raggi di luce rientrammo
nella casa. Poi ognuno si divise ed andò nelle proprie camere, senza parlare, senza respirare,
senza essersi amati. Entrai nella mia stanza senza voltarmi a vedere Alessandro che si
accingeva a salire gli altri gradini, e dopo essermi messa sotto le coperte tra il tepore del
giorno e la sonnolenza accumulata in quella notte, mi addormentai. Alessandro non aveva chiuso
occhio, aveva riflettuto sulle tante parole che gli avevo detto e sui sentimenti che finalmente
aveva riacquistato, capì che gliene mancava uno solo e che per ritrovarlo doveva fare
determinate cose. Aveva ancora da ritrovare: l’amore. Appena giorno, e dopo aver riflettuto,
spalancò la porta della sua camera, e corse di sotto, nel salone; ancora non c’era nessuno e
allora si era diretto nella sala della biblioteca. Carl come al solito era seduto sulla sua
poltrona, il camino si era spento e lui si era addormentato aspettando il mio ritorno, con suo
figlio la sera addietro. Sentì aprirsi la porta e si svegliò. Appena si voltò per notare chi era
entrato, i suoi occhi si folgorarono. Era suo figlio: "Alessandro che ci fai qui?" Era riuscito
appena a pronunciare.
"Papà, ecco……… ti volevo……… solo…… chiedere di perdonarmi." Disse Alessandro con l’amore
che stava sbocciando in lui. "Ma, tu, cosa, ecco………." Carl colto dalla gioia più immensa non
riuscì neanche a pronunciare delle parole sensate. Si alzò e corse incontro al figlio che fu
accolto tra le braccia paterne. Il calore emanato dal cuore di Carl gli fece riaffiorare anche il
ricordo della madre che lo cullava sempre d’estate fuori in giardino tra l’odore dei gelsomini.
Finalmente ora quel profumo gli faceva piacere. Era da poco che mi ero addormentata, o forse
a me sembrava così, quando Adolf entrò sbattendo la porta e dirigendosi di corsa alla tenda
l’aveva spalancata: "ISABELLA, Isabella, si è fatto giorno!"
"Lo so Adolf che è giorno ma io voglio dormire, chiudi al tenda, ti prego."
"Ma che ha capito, che dice, corra, faccia come gli dico, corra in salone. Come sono felice!"
Finì per concludere correndo fuori per la stanza e lasciando la porta spalancata. Non avevo
capito nulla però Adolf non lo avevo mai visto e sentito più felice di quella mattina. Poi mi
aveva chiamato per nome, non con il solito lei, inoltre aveva lasciato tutto all’aria senza fare il
suo rigoroso ordine tedesco.
Capii che era accaduto qualcosa di fantastico, e senza prepararmi, in vestaglia e ciabatte,
scesi correndo nel salone. Mi fermai agli ultimi gradini, senza interrompere l’atmosfera che
vibrava in quella stanza come se fosse una campana di cristallo, fragile da maneggiare. I miei
occhi forse non avevano visto bene o forse ancora sognavo, tanto che me li stropicciai. Al
solito tavolo per la colazione, oltre a Carl seduto a capotavola e a Clara al mio posto si era
accomodato Alessandro, non potevo vedere i suoi occhi ma sentivo le loro risate innalzarsi
come un canto al cielo. Sul volto di Carl le rughe erano scomparse per la gioia, su quello di
Clara l’espressione di fanciulla indifesa si era tramutata in quella di una donna ormai matura, e
io? Ora il problema ero io, dopo quello che avevo visto la mia missione si era conclusa, non
avevo più motivi per rimanere lì. L’affetto paterno di Carl mi aveva sempre fatto sentire
protetta, la dolcezza di Clara mi avevano sempre fatto sentire amata e coccolata, e
Alessandro, ecco, Alessandro mi aveva fatto credere in me, mi aveva fatto sentire forte e
importante ed essenziale per qualcuno. Ma c’era dell’altro. Ora tornare a casa non era più il
mio desiderio, ora io volevo restare là con loro, con quella che era diventata la mia famiglia.
Carl mi aveva vista sui gradini e mi aveva detto: "Vieni qui Isabella ti dobbiamo dire qualcosa."
Quando sentirono che ero lì ad osservarli, le loro risate si erano bruscamente interrotte e i
loro volti tornarono a scurirsi. Mi avvicinai al tavolo: "Che cosa sono queste facce a lutto,
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dovreste essere finalmente sereni, ora." Dissi sforzandomi di essere allegra e contenta per
loro più che mai. Ma capirono benissimo che ero triste e il motivo era comune a tutti: la mia
imminente partenza.
"Isabella, siediti con noi per fare colazione tutti insieme per l’ultima volta." Mi disse Clara
spostando in fuori la sedia di fianco alla sua. E così feci nel massimo silenzio. Quel mio silenzio
celava le lacrime che quella sera avrei versato. Alessandro aveva il capo chino e fu Carl per
spezzare quella catena di silenzi a parlare.
"Grazie a te Isabella ho ritrovato mio figlio ed anche se era questa la tua missione io ti amo
come una figlia e non come uno strumento di salvezza. Qui tutti ti amano anche se in modo
diverso, anche Adolf, sai! Stasera ci sarà l’ultimo ballo in tuo onore e voglio che tu ti senta a
casa, perché anche questa è la tua casa."
"Grazie per avermi donato una famiglia serena." Soggiunse Clara per terminare. Quelle lacrime
che tanto avevo celato, scorrevano limpide e senza ostacoli nel mio cuore, nelle mie viscere più
profonde. Mi attraversavano senza che nessuno le asciugasse. Ma fuori non lacrimavo, dovevo
essere forte e invincibile, e poi dovevo anche essere contenta, sarei tornata dai miei genitori,
nella mia stanza e alla mia noiosissima routine quotidiana. Mi alzai brutalmente dalla sedia e
corsi nella mia camera. Sbattei la porta e mi accasciai accostata ad essa. Sentivo dall’altro
lato il respiro e il calore di Alessandro, che mi aveva seguito, le nostre mani come un tempo più
addietro si unirono di nuovo e sentii che non dovevo aver paura di amarlo e di guardarlo negli
occhi, dovevo vivere quelle ore che mi separavano dal mio ritorno a casa. Mi alzai da terra e
corsi a prepararmi, fui pronta in pochissimo tempo, spalancai la porta e scesi di sotto. Avrei
passato la giornata con le persone a cui ora, come non mai, adesso volevo bene. Giunta in salone
trovai solo Carl e Clara ancora al tavolo a parlare: "Su Clara infilati il cappotto che dobbiamo
andare in città a comprare l’abito per stasera!"
Gli dissi con un sorriso solare. Clara senza ribattere si alzò, baciò il padre sulla fronte, si
infilò il cappotto e poi concluse rivolgendosi a Carl: "Papà saremo di ritorno per il primo
pomeriggio!" Uscimmo, contente e allegre dal palazzo e montammo sulla carrozza. Non notai
ma Alessandro ci guardava dal suo balcone al quarto piano, voleva dirmi addio senza soffrire.
Appena arrivati a Londra, Clara corse alla solita vetrina, da lei tanto amata e io rimasi ad
osservare le cose che tanto mi avevano sbalordito il primo giorno. Non sembrava essere
cambiato nulla: le mamme rincorrevano i piccoli, gli uomini in gruppetti parlavano di affari, i
ristoranti davano fuori e le carrozze sfrecciavano facendosi largo tra i passanti. Clara mi
chiamò: "Corri Isabella, guarda questo vestito." Non avevo dubbi, il vestito era stupendo, non
sbagliava proprio mai, entrammo e lo acquistammo. Stavo facendo esattamente quello che
avevo fatto il primo giorno, solo che questa volta lo facevo all’indietro. Non mi feci prendere
dalla malinconia e con Clara ci demmo alla pazza gioia degli acquisti. Per pranzo ci fermammo al
solito ristorante e iniziai una conversazione con la mia adorata amica, alla conclusione del
pasto, tra risa e schiamazzi le dissi: "Clara ti prego, prenditi cura di Carl e Alessandro. Sono
importantissimi, tienili stetti più che puoi. Amali come sai fare tu."
Clara mi guardò con tenerezza e poi mi rispose: "Non ti preoccupare li terrò d’occhio io, ma tu
non mi lasciare." Clara sapeva che sarei dovuta ripartire e che non sarei più tornata, eppure mi
supplicava come se dipendesse da me la partenza.
"Sarei dovuta partire lo stesso, o tra un mese o un anno, il distacco fa male comunque." Clara
tacque e ce ne tornammo a casa. Entrata nel salone, lasciai tutti i pacchi su un divano che era
già stato preparato per la festa e corsi in cucina. C’erano tutte le cuoche, le domestiche e i
maggiordomi, compreso Adolf.
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"Che ci fate ancora qui, non ve lo hanno comunicato, siete tutti invitati alla mia festa, vi voglio
vedere tutti stasera di là in salone, andatevi a preparare!" Esclamai. Tutti si guardarono l’un
l’altro con un punto interrogativo stampato sul volto e fu Adolf a parlare: "Che aspettiamo,
siamo stati invitati dalla padrona, andiamoci a cambiare!" Gettarono i grembiuli per terra e
corsero nelle proprie stanze a cambiarsi. Si era fatto tardi e così prima di andarmi a
preparare andai nella stanza della biblioteca. Sospinsi la porta che era accostata e rivedere
quella magnificenza mi fece sobbalzare il cuore. Tra poco avrei lasciato quella casa e quella
stanza che tanto amavo. I libri, il camino, quelle pareti così ampie e alte, tra poco non le avrei
più riviste. Ora le lacrime scendevano lievi e amare sul volto. Carl era seduto sulla sua poltrona
e senza che io me ne accorgessi mi stava osservando: "Rimarrà tutto nel tuo cuore, tutto nella
tua mente. Non dimenticherai questa stanza e per ricordartela guarda che ho fatto per te?"
Disse estraendo dal taschino interno della sua elegantissima giacca nera un foglietto. Mi
avvicinai e lo presi, era un disegno della stanza, era bellissimo. Ora le lacrime si fecero più
forti e Carl si alzò in piedi e mi abbracciò. Come avrei mai potuto dimenticare il suo
abbraccio? Non potevo farlo, era per me troppo essenziale, lo avrei conservato in me per
sempre. Era arrivato il tempo in cui mi dovevo preparare. Andai mentre mi asciugavo le lacrime
nella mia stanza, dove trovai Clara pronta per darmi una mano. Come la prima volta mi lasciai
curare dalle sue mani e quando fui pronta uscimmo per recarci nel salone. Tutto era stupendo
e le persone si erano triplicate, c’era anche tutta la servitù, Adolf, Jaques e Alen. Tutti erano
lì per darmi l’addio e un po’ mi sentii mancare il respiro. Clara mi diede la mano e giunti all’inizio
delle scale me la lasciò e corse di sotto.
"Come per la prima volta gentilissimi signori e carissime signore, ecco a voi: Isabella!." Lo disse
con la stessa gioia e io mi avvicinai alle scale. Ero bella, davvero; l’abito era cambiato però.
L’abito che indossavo, aveva una manica scoperta, l’altra arrivava a tre quarti e alla fine aveva
del pizzo. Sotto al seno c’era una grande cinta e per il busto il corpetto calava aderente. La
gonna non era pompata ma ugualmente larga e scendeva giù con delicatezza ed eleganza. Al
termine vi era un gran tulle che riprendeva i ricami della manica, sul pezzo della spalla
scoperta era appuntato un rametto di gelsomino, avevo il ventaglio abbinato, la collana di perle
con gli orecchini e avevo raccolto i capelli lasciando cadere qualche ricciolo moro. Scesi con
eleganza e maestria quella scala. Ma non venne Carl a prendermi e quando scesi al posto di
venirmi incontro gli invitati si fecero avanti uno ad uno e mi salutarono, chi baciandomi la
mano, chi stringendomela solo mentre le dame fecero un gran inchino. Era tutto così diverso e
ormai sentivo i loro calorosi saluti allontanarsi sempre di più. Il cuore riprese a lacrimare e
man a mano salutavo tutti coloro a cui mi ci ero affezionata con tanta facilità.
Arrivò il momento della servitù e li abbracciai tutti con amore, ringraziai la cuoca, che
piangeva a dirotto, per i suoi squisiti piatti italiani ma poi giunse Adolf: "Signorina Isabella io
la devo solo che ringraziare, abbia tanta cura di lei e mi riservi un posto nel suo cuore!"
"Adolf, io non ti dimenticherò facilmente ma ricordati di non sgridare troppo Clara, ti voglio
bene!" E dicendo queste parole scoppiai a piangere, Adolf intanto si allontanò per far venire
avanti Jaques: "Isabella cosa vuoi che faccia, che ti tolga i ricordi di questa esperienza?"
"No, no ti prego non lo fare, lo so che soffrirò ma voglio che rimanga tutto com’è. Addio e
grazie di tutto." "Non mi ringraziare sono io che ti ringrazio, ma ora va se no farai tardi!" Così
dicendo mi si tolse davanti e davanti a me fece un regale inchino proprio Alen: "Sono stato
cattivo ma non mi scordare ugualmente, siamo d’accordo?" "D’accordo, caso mai tu non ti
dimenticare di me." Balbettai fra i singhiozzi e facendo cenno di si con la testa anche Alen se
ne andò insieme con gli altri e io mi ritrovai davanti Clara che piangeva: "Clara noi abbiamo già
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parlato, fa la brava e sii forte. Non ti scordare." Le dissi stringendole il polso e indicando il
braccialetto che ci eravamo scambiate.
"Isabella, io……."
"Va Clara, va ora." Disse Carl abbracciando la ragazza e Clara ubbidì. Ora di fronte a me c’era
Carl, non mi uscivano parole, solo forti singhiozzi di amarezza. Non c’erano bisogno di parole
già ci eravamo detti tutto, mi abbracciò e poi velocemente si aggregò agli altri. I miei occhi
videro un ragazzo di spalle che si voltò di scatto, era Alessandro. Lo guardai finalmente nei
suoi profondi occhi verdi, non c’era più morte, ne odio, ora c’era l’infinito amore puro. Mi si
avvicinò con passo leggero, estrasse dalla tasca un fazzoletto bianco con le sue iniziali, e mi
asciugò delicatamente le lacrime che ora non cessavano più di sgorgare. L’orchestra ingaggiata
dal signor Carl intonò il valzer e io e Alessandro incominciammo a danzare con leggiadria
assoluta. Vibrava nell’aria il profumo di gelsomino: "Isabella, ci rivedremo molto presto, ma
devi sapere una cosa, io ti amo, e non te lo ho mai detto, ti amo da quando sei entrata nella mia
stanza buia." Ora le mie lacrime erano felicità non potevo aver paura di amarlo, lui lo sapeva io
ero sua nell’anima più profonda.
"Io ti amo." Gli risposi semplicemente. Il suo ricordo sarebbe vissuto in me per sempre oltre il
tempo. L’odore di gelsomino si fece più forte e il braccialetto di Clara stava vibrando poiché
sentii le campanelle. Il valzer risuonava incessante, tutto mi roteava volteggiando
smisuratamente nelle tempie.
"Eliana, Eliana ma ti vuoi svegliare è davvero tardi!" Cos’era mai quella voce, riaprii all’istante
gli occhi e vidi mia madre. Non era possibile stavo sognando, ma tutto rimaneva uguale, ero
nella mia accogliente stanza riscaldata dai raggi del sole. Non c’era il letto a baldacchino né
Adolf a spalancare le tende.
"Ma in che anno sono?"
"Tesoro mio ma è l’agosto del 2002, che dici, hai per caso la febbre?" Non potevo crederci, lì
il tempo si era fermato, ero alla mattina seguente al mio svenimento. Corsi a piedi scalzi a
guardare nella libreria se c’era il libro antico, ma di lui nessuna traccia. Non potevo credere di
aver sognato tutto, qualcosa doveva pur essere accaduta!!! Mi sentii un bozzo nelle tasche del
pigiama, andai a vedere ed estrassi un fazzoletto. Non era un fazzoletto qualsiasi, c’erano le
iniziali di Alessandro, allora non avevo sognato tutto. Tutto quello che ricordavo era vero e non
uno di quei miei sogni inventati. Corsi giù per le scale e aprendo il cancello mi gettai fuori sulla
strada del mio complesso residenziale. Non era il giardino della tenuta, non c’erano le alte
mura ricoperte dai gelsomini, né Clara di fianco a me. C’era un camion di traslochi proprio di
fronte alla casa accanto alla mia. Era stata disabitata fino ad allora e qualcuno finalmente
l’aveva acquistata. Mi impicciai immediatamente, mi avvicinai al portone d’entrata e ne uscirono
fuori Carl e Clara. O forse non erano loro, o si? Non capivo nulla, le loro fisionomie erano
identiche.
"Buongiorno io sono Stella la tua nuova vicina, e questo è mio padre Carlo."
"Molto lieto di conoscerti vicina." Mi disse tendendomi la mano.
"Ma io vi conosco, io vi conosco!" Gli dissi con aria sbalordita ed enigmatica.
"Impossibile, prima abitavamo molto lontani, ci devi aver scambiati per qualcun altro." Senza
che la ragazza potesse finire la frase uscì dalla casa un ragazzo, era Alessandro, ne ero
sicura, era lui. Non potevo essermi sbagliata anche questa volta. Mi diressi verso di lui
ignorando tutti gli altri.
"Piacere io sono Alessandro, il fratello di Stella, quella ragazza là, che sicuramente hai già
conosciuto. Ti è venuta incontro, vero?" Mi disse porgendomi la mano e io fui in grado di
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balbettare semplicemente: "Incredibile, Alessandro tu qui, con me."
"Vedo che hai ritrovato il mio fazzoletto, o per meglio dire lo hai conservato." Continuò
avvicinandomi all’orecchio e prendendo il fazzoletto che stringevo fra le mani.
"Ma allora sei venuto…….,sei tornato." Non mi fece neanche concludere la frase: "Sono venuto
per stare con te mi ha fatto arrivare Jaques, ma non parliamone adesso ora pensiamo al
presente. Il tuo ricordo in me per sempre, ricordi?" "Si ricordo, ma ora è diverso, ora sei tu in
me per sempre." Dissi io.
"Per sempre." Rispose lui. Era qui in un nuovo mondo, con l’anima che avrebbe ceduto solo a me,
in una parentesi di amore puro infinita. Mi arrendevo per sempre alla nostra implacabile voglia
di amarci. (shead)
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Un racconto al giorno. Giorno 17
UHUHUHUHUHU!!! La sirena della nave passeggeri si ripercuote nell’aria quasi immobile della
mattina di luglio mentre supera la bocca del porto di Cagliari; da lontano risponde l’abbaiare da
foca della piccola imbarcazione nera e bianca che le viene incontro portando il pilota che dovrà
sovrintendere alla manovra di attracco. Seduto su una panchina del ponte di prua guardo la
città che lentamente mi viene incontro; leggo le linee dei palazzi bianchi sul porto e
l’arrampicarsi delle case del quartiere “Marina” fino ai bastioni del Castello che sovrasta tutto
con la sua fredda efficienza di costruzione militare.
Ho sempre paragonato questa città ad Algeri.
Il suo biancore riflesso sulle acque verdi del porto e la sagoma nettamente ritagliata contro il
cielo blu cobalto, privo di nuvole, mi fa pensare all’avamposto di un grande continente fatto di
sabbia e di avventure. L’odore di salmastro, pesce e spezie del quartiere del porto arrivano
fino alla nave e io li assaporo mischiati al profumo delle lozioni solari che i turisti ansiosi di
vacanza si stanno spalmando addosso.
Guardo i miei compagni di viaggio e mi diverto ad osservare il cambiamento che avviene sempre
nella gente quando parte per le vacanze. Cambia tutto: il modo di vestire che diventa un mix
tra l’abbigliamento da giovane esploratore e il richiamo alla disponibilità sessuale; il modo di
guardare che ostenta una curiosità alla Livingston anche per un negozio di bacinelle di
plastica; il modo di parlare che da posato e, magari, riflessivo si riempie di gridolini ed
esclamazioni urlate, di risate per tutto e su tutto, di doppi sensi ammiccanti.
E, come faccio sempre, quando mi trovo in mezzo alla folla, in modo quasi automatico, cerco
con gli occhi mio figlio.
Lo vedo appoggiato al parapetto, sta guardando verso terra. Mi soffermo sulla sua figura
sottile e delicata, sulla posizione leggermente indolente che assume quando è soprappensiero.
Ha il mio Panama sulla testa - Dai papà! Solo per questa volta - e la tesa larga gli ombreggia il
volto fino alla bocca.
Le labbra sono piegate in un leggero sorriso.
Ancora una volta sento il desiderio di scrutargli dentro la mente, percepire le emozioni, le
sensazioni che prova, i ricordi passati e i desideri futuri che la sua adolescenza comincia a
comporre.
E ancora una volta mi vergogno di questo impulso. Ma quanto è difficile riuscire a fermare e
cambiare il senso di ciò cui si pensa. Un’immagine o un ricordo può sviluppare, con rapidità,
un’incredibile quanto inaspettata quantità di correlazioni che finiscono per portarci lontano
dall’origine delle nostre riflessioni. Come Ulisse in una perpetua odissea, vaghiamo tra un
ricordo e l’altro cercando di tenere negli occhi l’immagine di Itaca; ma l’immagine finisce per
diluirsi inesorabilmente nei riflessi violenti del mare che stiamo attraversando.
Questa volta le onde della mente mi buttano sulla spiaggia di un’isola che mi intimorisce, ma
che sempre più spesso, negli ultimi anni, è diventata meta dei miei viaggi.
Penso a mio padre.
Mi porto alle labbra il bicchiere di plastica col caffè ormai freddo, mentre la sua immagine si
dilata nei miei pensieri.
Sento cambiare il ritmo dei giganteschi motori della nave.
Sento parole e immagini di un qualche passato che mi scoppiano dentro come tanti piccoli
201
mortaretti.
Quando l’essere umano scoprì la potenza della matematica si accorse che tutto poteva essere
ricondotto ad essa. Non solo le scienze esatte o la ricerca dei fenomeni naturali; ma anche le
espressioni artistiche, il frutto della fantasia e della creatività come la musica, la pittura o la
poesia. Un individuo da cosa è determinato? Quali equazioni possono descrivere la sua
essenza?
La sua altezza muta col tempo, come la sua voce, i suoi pensieri, il suo modo di esistere, di
vivere. Tutto questo può essere canalizzato in calcoli di possibilità; ma l’immagine di una
persona nella mente altrui da che cosa è composto? Se ci soffermiamo su questo, ci
accorgiamo che la conoscenza di chi ci sta vicino, delle figure che compongono il nostro mondo,
è data solo da brevi momenti di contatto. Da attimi in cui abbiamo avuto il tempo, l’occasione
o, forse, la voglia di osservare e sentire veramente.
Come una casa non è composta solo da mattoni e da cemento, ma da innumerevoli oggetti
accumulati negli anni che formano un’atmosfera che solo quell’abitazione ha e nessun’altra;
così un individuo, per gli altri, è un collage di azioni. È un ricordo continuo.
Questo ricordo vive e respira, paga le tasse, va a fare la spesa, piange, urla o parla. Frasi
dette, conversazioni, scorci di esistenza gli scorrono nelle vene al posto del sangue e lo
tengono dritto, come la gommapiuma dà corpo ad un peluche. Un peluche ben vivo nella mente
del bambino che lo possiede.
Allora quali ricordi o quali sensazioni animano la figura di mio padre?
Mio figlio si volta a guardarmi, incrocia il mio sguardo e mi fa un piccolo cenno con la mano; non
un saluto, solo un segnale della sua presenza, una distratta forma di rassicurazione.
Cerco di rivedere mio padre negli anni, in diverse situazioni. I ricordi più chiari sono quelli
dell’adolescenza. Lo vedo quando insieme andammo a ritirare la nuova auto; una millecento
bianca; un salto qualitativo rispetto alla vecchia seicento simbolo del benessere italiano del
dopo guerra.
Metto a fuoco quell’immagine e mi rendo conto che non vedo un uomo giovane ma una persona
già anziana con le tempie brizzolate e qualche ruga. Faccio scorrere avanti ed indietro tutti i
fotogrammi che lo ritraggono in frammenti della mia vita e mi rendo conto che la sua forma
fisica non varia, è congelato ad un’età approssimativa tra i 50 e i 60 anni ed è questo uomo che
mi appare in tempi diversi. Cambio io, cambia la scena, o l’umore del momento, cambiano i
personaggi di contorno, ma lui è sempre uguale.
Mi accorgo che la sua presenza nella mia vita intellettuale è iniziata con la mia maturità e
cerco di capire se altrettanto avverrà con mio figlio. Forse l’accettazione della figura paterna
è come una lenta assimilazione che avviene in modo quasi inconsapevole. Una sorta di
mitridatismo psicologico che ci permette di sconfiggere il veleno della gelosia per la madre, il
senso di autorità oppressiva, il timore dei giudizi e il crollo del mito di grandezza.
La fase dell’odio.
Chiudo gli occhi per isolarmi completamente dal carosello di rumori e movimento e cerco di
concentrarmi su questo pensiero.
Si! Certamente un ragazzo comincia a detestare il padre, a disprezzarlo quando si accorge che
non rassomiglia per nulla all’immagine di eroe senza macchia e senza paura coltivata in tutta
l’infanzia. La prima giovinezza non è incline a prendere in esame le sfumature, le tinte tenui
del coraggio quotidiano, delle piccole rinunce e dalla muta determinazione a difendere ciò che
è giusto per la propria coscienza. No! Vede solo l’azione gloriosa contrapposta alla mediocrità
piccolo borghese. Ed il senso di colpa per questi sentimenti negativi porta ad un inevitabile
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stato di conflitto.
È il momento in cui i miti, i leaders entrano in noi felici di riempire il vuoto creato. Milioni di
generazioni di adolescenti, nelle varie epoche, hanno cercato disperatamente di trovare un
simbolo capace di contenere il loro smisurato desiderio di gratificazione e la loro immensa
paura del buio.
Ma proprio in questa fase inizia l’assimilazione del padre. I gesti ripetuti, i tic, una particolare
espressione o una determinata reazione. Come un ectoplasma che comincia a prendere forma,
il genitore rivive nel figlio; prende possesso del suo corpo e dolcemente ne guida la mente.
Quasi senza accorgersene il ragazzo cita il padre, magari aggiungendo parole o frasi del tipo:
il vecchio, oppure, quello stronzo di mio padre.
Un tema deve avere un inizio, un corpo, una fine.
Eravamo nello studio, mio padre ed io, e mi stavo preparando all’esame d'integrazione al liceo
artistico. Mobili di noce, scuri ed armati di zampe di leone con tanto di unghie, pelle sullo
schienale delle sedie e libri.
Tanti libri.
Quante volte ho rivisto quella stanza nella mia mente.
Papà, sai, io non ricordo il tema che mi avevi dato da fare. Ricordo che era di fantasia.
Aspettavo in silenzio che tu lo leggessi, spiavo la tua matita rossa e blu che correva sulla
pagina, il cuore si fermava ad ogni sua sosta e riprendeva a battere se ripartiva senza ferire il
mio componimento.
Alla fine il giudizio.
Fu positivo e nella discussione che ne seguì mi parlasti dell’inizio, del corpo, della fine. Ma
aggiungesti qualcosa, un segreto o, se preferisci, un trucco - Se riesci ad aver chiaro come
iniziare e come concludere il resto verrà da solo. La cosa più complicata è la chiusura, la
conclusione, perché è quella che determina il valore ed il senso del lavoro.
Neanche adesso so perché quella frase, detta fra tante e tanto tempo fa, scavò un solco nel
mio pensiero. Si istallò facendosi largo tra tutti i richiami e le distrazioni della mia caotica età
adolescenziale, entrò in me assieme ai rumori che provenivano dalla cucina e all’odore della
cena quasi pronta. Si accucciò come un grosso gatto soddisfatto d’aver trovato, alla fine, una
comoda poltrona dove sonnecchiare tranquillamente.
Però so che cominciai ad applicare la logica dell’inizio e della fine a qualsiasi lavoro
intellettuale mi accingessi a fare.
Un quadro, un progetto architettonico, uno scritto, una critica, l’analisi di un artista, un film,
una musica, un’operazione industriale.
In tutto e sempre ho cercato la chiave di inizio e, subito dopo, ho costruito la parola fine. Ho
addestrato la mia mente a sezionare gli eventi per poi ricollocarli nel giusto ordine, nella
sintesi assoluta.
Esisterà una mia frase, un’azione, qualcosa che mio figlio si porterà dentro. Che lo aiuti a
risolvere i compiti che la vita gli proporrà?
Apro gli occhi e vedo che il paesaggio sta ruotando intorno mentre la nave si avvicina al molo.
Sento lo schiocco delle gomene che vengono tese. Il suono delle diverse conversazioni, i
richiami, l’agitazione dell’arrivo bruciano in un camino di una notte invernale, una notte di un
Natale così vicino eppure così indefinito nel tempo.
Tu mi parli di tua moglie, di mia madre.
Per la prima volta usi i verbi al passato parlando di lei. Forse per l’unica volta.
Mi parli di quando l’hai conosciuta e di un episodio legato ad un’altra donna.
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Mi parli di una scelta che non sapevi di fare, ma che fu definitiva e di una madre che non ho
mai conosciuto, diversa da quella che abbracciavo e che ho pianto.
Io ascoltavo e ti sentivo per la prima volta non da figlio ma da padre.
Ascoltavo il tuo tono di scusa, di timore.
C’erano in quelle frasi le parole mai dette e mai osate.
Non riuscivo a guardarti, non per un senso di vergogna o d'imbarazzo, ma perché sentivo
sempre più forte il senso di similitudine e di appartenenza e non volevo che la tua voce
provenisse da un punto esterno a me.
Gli uomini vivono nel silenzio; le parole suonano secche, sbriciolate quando devono comunicare i
pensieri, i ricordi nascosti, quando si vogliono far scivolare giù dalla china della genealogia. Noi
siamo eternamente esterni all’atto di nascita, non abbiamo cordoni che ci leghino e non
immettiamo la vita nei nostri figli col nostro sangue e col latte. Siamo i vicini di casa; un volto
noto, ma di cui si ignorano i pensieri, le abitudini, tutto.
Per milioni di generazioni abbiamo lottato contro questa forma di condanna decretata dalla
natura.
Lottiamo contro la morte totale dell’oblio.
Il nostro istinto di conservazione ha finito per creare una rete, un sorta di tela di ragno che
cattura la nostra prole proprio quando questa è convinta di essere fuori da qualsiasi forma di
controllo paterno. Imprimiamo nei figli un codice a tempo che comincia a fendere il muro che
divide le generazioni nel momento in cui queste pensano di aver acquistato l’autonomia ed il
senso di distanza si fa più forte.
Durante la “Pesach” - la Pasqua ebraica - nella cena rituale - la “sedèr”- che si consuma
all’uscita dalla sinagoga, dopo il sorgere delle stelle, si recita l’Haggadah. Non si può definire
una preghiera ma un raccontare ed un raccontarsi; i bambini fanno delle domande ed il
capofamiglia risponde ricordando le origini del popolo ebreo e la fuga dall’Egitto.
Abramo generò Isacco
Isacco generò Giacobbe
Giacobbe generò Giuseppe
Giuseppe generò Mosè.
Non dimenticare figlio mio.
Nel bene o nel male il figlio torna ad essere il padre, comunque ed in qualunque caso.
Nell’amore e nell’odio, nel rispetto e nel disprezzo.
Tutti noi recitiamo un’eterna Haggadah e, al di fuori di ciò che possono essere i geni ed il
DNA, imprimiamo nei nostri figli un messaggio spirituale.
Noi siamo, insieme, i nostri figli ed i nostri padri.
Noi siamo il Karma dei nostri figli ed il Karma è Karma; vicino o lontano, noto od ignoto, odiato
o amato egli è inesorabilmente in noi. Possiamo rifiutarlo, scacciarlo. Possiamo decidere che
non ci appartiene, che siamo diversi, migliori magari; ma lui starà lì vicino a noi, un compagno di
viaggio che tenacemente ci affiancherà per il resto della vita.
-Papà abbiamo attraccato! La gente sta scendendo. Dai che dobbiamo ritirare la macchina dal
garage, non vedo l’ora di essere a casa del nonno! Chissà se ha preso la salsiccia fresca!Guardo il mio ragazzo, mi alzo e lui mi prende per mano. Mentre l’ascensore ci porta nella stiva
della nave mi viene in mente un verso del poeta inglese John Keats in che parla dei ricordi:
E non lasciate che essi scompaiano
così come un tenue filo di fumo
si annulla nel chiarore della luna.
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No papà! non raccontare, io comincio a sapere.
Non ci sono parole non dette tra noi. Ci siamo detti tutto, sempre, senza bisogno di dire.
Sento nella mia mano la mano piccola e liscia di mio figlio, la stringo leggermente e lui risponde
alla stretta senza neppure guardarmi.
Un gesto leggero, quasi inavvertibile. Ma è il nostro modo di lottare per l’immortalità.
Mentre lentamente guido la macchina sul molo alla luce quasi accecante del sole estivo sorrido
al pensiero di un mio lontanissimo nipote che, magari su un pianeta vicino alla costellazione di
Orione, potrebbe, un giorno, dire a suo figlio - Un tema deve avere un inizio, un corpo, una
fine. Se riesci ad aver chiaro come iniziare e come concludere, il resto verrà da solo.
(Massimo Carubelli)
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Un racconto al giorno. Giorno 18
Capitolo I
Stava così, seduto da solo di fronte al molo, seduto sull'acqua, mentre i suoi amici lo
prendevano in giro e non potevano perché sull'acqua non è che scivola tutto, niente passa
inosservato.
Comunque era stanco di non aver fatto nulla quel giorno, stanco d'esser stanco, così si mise a
canticchiare una canzone che aveva sentito alla radio che parlava d'amori lontani e stanchezze
presenti e di alberi di natale di pezza che nessuno pensa più alla festa e ai sentimenti ma solo
a comprare i regali e quindi pensa solo ai sentimenti degli altri sentendosi felice di aver
regalato qualcosa, reso felice qualcuno, speso un po' di soldi.
Gli amici attorno a lui ridevano e cantavano silenziosi una canzone sui treni persi e sulle
coincidenze della vita, delle scelte delle persone che nascono dal caso e dalla personalità di
ognuno e si trasformano inconsapevolmente in scelte forti di vita, diventano nuove strade e
nuove coincidenze e nuovi incidenti stradali (ma senza airbag) e nuovi morti per la strada che
viene definita killer ma che invece sta ferma là, poverina, e non uccide proprio nessuno.
Mentre gli altri cantavano lui sentiva la canzone e nel frattempo sentiva l'acqua che gli
bagnava ormai già la schiena e le caviglie del pantalone e del pianoforte, si sentiva felice tra la
gente e i violini, senza motivo, ma in una città che lui non conosceva. La borsa che aveva a
tracolla non si era ancora bagnata, quindi poté tirare fuori delle fotografie che aveva
conservato da quando era piccolo, foto del teatro, della sua classe, di viaggi con gli amici che
ora lo guardavano affondare, foto verdi, un libro di storia, non aveva voglia di alzarsi perché il
libro non gli diceva niente, il libro.
Era fermo lì e sembrava dormire.
Capitolo II
Si mise a dormire davvero mentre affondava e si trovò in treno che leggeva un racconto di un
suo amico, insieme alla ragazza che rideva e guardava fuori dal finestrino, il paesaggio
scorreva veloce e lui aveva voglia di pensare ad alcune canzoni un po' naïf che gli avevano
insegnato dei suoi amici. Sarebbe tornato a casa, avrebbe iniziato a mangiare di nuovo aiutato
da sua madre che l'avrebbe imboccato e gli avrebbe lavato anche i piatti e piedi.
E stava tornando davvero a casa dalla città in cui dovrebbe studiare e in cui dovrebbe
consegnare il piano di studi e in cui viene pagato per divertirsi, anche con i suoi compagni
d'appartamento e con i suoi amici e con tutti quelli che incontra per strada vicino alle piazze.
"Arriverò fino in fondo almeno con questo treno?"-si chiese, ma non si rispose, sapeva già che
di solito arriva in fondo solo quando lo guidano, fino alla fine di un percorso, e che altrimenti si
sarebbe fermato a metà senza lasciare il punto in fondo a questa frase
Solo il treno sarebbe arrivato a destinazione, credeva, ma ripeteva nella mente questo
pensiero che lo faceva sprofondare nello sconforto e non gli lasciava aperto nessuno spiraglio
per ragionare e per capire cosa ci stava a fare in quel treno. Naturalmente stava ritornando
solo a casa, ma questo gli sfuggiva.
206
Capitolo III
Si accese una sigaretta, diede un bacio sulla guancia alla sua ragazza, iniziò a leggere un libro.
Preambolo alle istruzioni per caricare l'orologio
(Capitolo IV)
Pensa a questo: quando ti regalano un orologio, ti regalano un piccolo inferno fiorito, una
catena di rose, una cella d'aria. Non ti danno soltanto l'orologio, tanti, tanti auguri e speriamo
che duri perché è di buona marca, svizzero o con ancora di rubini; non ti regalano soltanto
questo minuscolo scalpellino che ti legherai al polso e che andrà a spasso con te. Ti regalano non lo sanno, il terribile è che non lo sanno -, ti regalano un altro frammento fragile di te
stesso, qualcosa che è tuo ma che non è il tuo corpo, che devi legare al tuo corpo con il suo
cinghino simile ad un braccetto disperatamente legato al tuo polso. Ti regalano la necessità di
continuare a caricarlo tutti i giorni, l'obbligo di caricarlo se vuoi che continui ad essere un
orologio; ti regalano l'ossessione di controllare l'ora esatta nelle vetrine dei gioiellieri, alla
radio, al telefono. Ti regalano la paura di perderlo, che te lo rubino, che ti cada per terra e
che si rompa. Ti regalano la sua marca, e la certezza che è una marca migliore delle altre, ti
regalano la tendenza a fare il confronto fra il tuo orologio e gli altri orologi. Non ti regalano
un orologio, sei tu che sei regalato, sei il regalo per il compleanno dell'orologio.
Capitolo V
Spense la sigaretta nel posacenere vicino al sedile.
Naturalmente, dopo aver letto il "Preambolo..." non continuò il libro, lo lasciò a metà, si fermò
li in quel punto. Il libro aveva detto tutto: esattamente ciò che egli pensava dei regali, e
capitava nel momento giusto visto che quel treno lo stava portando verso le feste, verso la
casa (casa sua) in cui non solo aveva sempre festeggiato il natale, ma soprattutto verso la casa
(sempre casa sua) in cui si festeggia natale.
Non ne conosceva altre, non aveva intenzione di conoscerne altre e non ce n'era motivo: era
casa sua e li ci sarebbe stato chi gli voleva bene davvero e cioè la sua famiglia che tra urla e
incomprensioni continuava a volergli bene, ed anzi con mille sacrifici gli rivolgeva un sacco
d'attenzioni.
Oppure era solamente una scusa perché non riusciva a capire neppure che regalo voleva, ed
ora aveva trovato delle parole (di qualcun altro) per esprimere la sua incertezza
mascherandola come scelta. "Mi farò una doccia, ora "- fu l'unico pensiero che riuscì ad
esprimere nella sua mente.
Capitolo VI
Non gli riusciva facile esprimersi e soprattutto capirsi, solitamente si rifugiava nei giudizi
estetici e niente più, non riusciva ad essere riflessivo come voleva, non riusciva ad essere
obiettivo, si fermava a definire le cose le persone le situazioni "belle" o "brutte", niente di
più.
"Mah..." era la risposta solita, e forse era meglio rispondere mah...,piuttosto che incasellare le
sensazioni provenienti dal mondo esterno con le parole che qualcuno gli aveva insegnato, e che
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a lui sembravano senza significato.
Aprì il pacchetto dei chewing gum e ne infilò uno in bocca.
Mangiava solo gomme da masticare da ormai due giorni: era vero quello che gli dicevano gli
amici e cioè che stava dimagrendo e si stava chiudendo dietro qualche muro. Ma questo muro
lui diceva di non volerlo, che era il risultato di tutto il tempo che passava da solo e che non
sapeva come impiegare veramente, e per quanto riguardava il dimagrire, era la sensazione dei
crampi alla pancia che lo faceva stare bene e lo faceva mangiare poco, sempre meno, durante
la giornata. Non erano i sensi di colpa o la voglia di attirare l'attenzione, era solo che non ne
aveva voglia, che si sentiva troppo abbondante o di troppo, o cose di questo genere.
Capitolo VII
Si accese una sigaretta e sapeva che era già la decima della giornata: stava fumando troppo e
impuzzolendo la carrozza del treno in cui stava viaggiando e che gli teneva compagnia con il
suo suono regolare più della sua ragazza che gli sedeva accanto e che ogni tanto lo guardava
stanca o gli poneva qualche domanda cui lui non sapeva -come al solito- dare risposta.
La conosceva bene ormai -ne era certo-, o almeno era certo che non riusciva più a pensare
senza di lei, che i suoi pensieri perdevano consistenza e nessi logici, di essere completamente
senza nulla e vuoto appena lei girava lo sguardo o diceva che doveva andare. Era bella e ben
sapeva quanto lui fosse affascinato dai suoi lati e dalle facce che riusciva ad avere nelle
diverse situazioni, e il modo forte in cui si adattava alle circostanze dopo un attimo di
sconforto. Le diverse facce da cittadina, da ragazza semplicissima, da bambina, da donna
forte, da figlia più giovane attaccata alla sua famiglia, non facevano altro che aumentare il suo
fascino a dismisura.
Lui la guardò prima girando appena lo sguardo, poi si voltò con la testa, poi ruotò con tutto il
corpo rivolto verso di lei, si accorse che erano in due nel vagone, e un insieme confuso nei suoi
occhi miopi di facce e modi di parlare e di diverse suonerie di cellulari. Poi c'era il finestrino e
il paesaggio monocromo che lo aiutava a perdersi nei pensieri senza fine.
Le diede un altro bacio sulla fronte, e cercò di capire quali fossero i suoi pensieri in quel
momento.
Era sempre cosi che faceva: ogni giorno si alzava con l'umore diverso dal giorno prima, magari
influenzato dal sogno che aveva fatto quella notte, e cancellava così tutto ciò che era
successo fino ad allora. Cercava di capire a che punto si erano visti l'ultima volta, cosa s'erano
detti, che atmosfera c'era e da cosa era stata creata, da quale parola era stata inquinata.
Già, perché c'era sempre qualcosa che lo turbava e che gli faceva cambiare umore, non aveva
alcun controllo sui suoi sentimenti e di conseguenza non capiva molto di sé e di ciò che
succedeva attorno, e quando prendeva un impegno o si poneva un obiettivo, non lo portava a
termine. Anzi se ne dimenticava il giorno dopo.
Con lei, grazieadio, non era cosi perché riusciva a fargli capire cosa pensava, cosa non andava,
cosa succedeva intorno... un salvagente che gli indicava una strada da seguire, soprattutto con
le lettere che gli scriveva e con gli sguardi che gli regalava ogni giorno e con le parole che gli
diceva e con le risate improvvise che lo lasciavano spiazzato e gli mettevano voglia di ridere
senza motivo. Ma gli riusciva di ridere solo a messa.
Le voleva bene e anche molto di più, la voleva, la voleva tutta per sé, le voleva parlare per
giornimesi, la voleva solo guardare, la voleva accanto sempre o almeno quando si svegliava
avrebbe voluto che fosse vicina e anche mentre camminava da solo in quella città con i palazzi
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come scenografia, la nebbia in primo piano ed il mare sullo sfondo. Sempre, però.
Capitolo VIII
Era ora di pensare ai suoi amici, a quelli che voleva chiamare la sera quand'era stanco della
giornata, a quelli con cui voleva andare a prendere un caffè la domenica mattina, quelli con cui
voleva condividere tutto, quelli che voleva chiamare amici.
C'era uno di loro con cui aveva fatto uno dei viaggi e non aveva portato niente a casa, se non un
preambolo della solita depressione autunno-inverno, avevano scattato delle fotografie ed
avevano visto alcune cittadine in giro per la Sicilia ed avevano fatto i bagni al mare, ma erano
rimasti per lo più chiusi in casa senza neanche parlare per tutto il giorno. Là un poco s'erano
persi, si erano dimenticati persino del capodanno, ma non sapevano ancora cosa sarebbe
potuto accadere e come si sarebbero potuti riunire.
L'importante era che lo volessero e questo fece sì che ciò che volevano accadesse... era uno
dei pochi con cui valesse la pena condividere tutto, anche se faceva l'intellettuale un giorno e
il diplomatico il giornodopo e il cinico il giornodopoancora (e non gli riusciva un granché) e
l'amico ancor più che fraterno l'indomani... e tra un po' offrirà da bere.
Poi c'era uno di loro che manteneva ancora la faccina da bravo gufodiligentino un po' Flanders,
ma che iniziava ad abbandonare la crosta da 9inpagella e diventava pian piano cinico e
tagliente, sempre più il preferito per i caffè della domenica, e che dopo aver scelto una tra le
cinque rimaneva li a contemplarla per mesi senza far trasparire molto. Con Pietro resisteva il
ricordo periodo degli anni seduti in primo banco, del viaggio a Lourdes e della sua tenda kaki,
dell'Inghilterra e delle tende verdi, della Spagna e delle tende canadesi e delle magliette
bianche, tra un po' Marco (e non solo) gli offrirà da bere.
E uno di loro che conosceva tutti i suoi lati, anche quelli decisi che lui non mostrava mai
davanti a tutti, con cui aveva fatto a botte da quando era piccolo, come quando era bambino,
come quando era sereno, che sapeva quante volte era scappato di casa o non era andato a
scuola e si era rifugiato da qualche parte, che aveva condiviso ogni momento con lui, pure la
prima sigaretta, e con cui andava sempre in giro, che studiava persino meno di lui, che ormai
era come lui o lo era sempre stato.
Uno di loro, non si sapeva perché, era un po' di tempo che offriva da bere a tutti. Aveva le
idee molto chiare ed ogni sua frase sembrava una dichiarazione d'intenti. Non la sua barba,
ma ogni parte di lui era forte e salda e tuttadunpezzo, senza distrazioni ma creante in ogni
momento, passione per la musica per la poesia per la letteratura per il vino incredibile, aveva
un forte ascen-dente perché incredibilmente dirigeva ovunque lo sguardo avendo presente un
punto di partenza saldissimo. Gli piaceva il buon umore e la musica incredibile (incredibile), ma
suonava la chitarra acustica come una motosega... Era meglio per il venerdì sera che per la
domenica mattina, almeno c'era tempo il sabato mattina per riprendersi.
E c'era uno di loro delle cicche sotto la luna e delle giornate lunghissime e dei ritrovi in cheba
e delle giornate che passava in silenzio o lo chiamava. E non avrebbe mai offerto da bere, lo
sapevano tutti.
E uno di loro delle canzoni di dieci anni prima, dell'esempio incrollabile
E c'era una di loro (che stava cambiando ma lui non sapeva come e non lo voleva sapere) e lui
voleva ancora solo passare a trovarla in bicicletta a casa sua ogni giorno e ascoltarla per
giorni.
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Capitolo IX
E dopo aver ripensato ai suoi amici si sentiva stanco e voleva dormire o forse soltanto avrebbe
voluto che il treno deragliasse o che qualcuno pensasse al posto suo, giusto per risparmiargli la
fatica di pensare, dato che non si sentiva più nel momento di slancio in cui tutto gli riusciva
facile e in cui la confusione lasciava spazio ad una sensazione simile all'orgoglio.
Ma non aveva mai avuto orgoglio. Improvvisamente si senti confuso riguardo i sentimenti,
confuso sulle risposte da dare alle domande senza forma che gli rimbalzavano nella mente.
l'unica cosa che riusciva a fare senza dispendio di grandi energie e senza fatica era scrivere:
si sarebbe semplicemente fermato quando voleva. Senza neppure tanta voglia iniziò:
dovrebbe far freddo
che già siamo d'inverno
E tira vento, si ma il sole
scalda e splende la terra
E rido così senza motivo
per la prima volta oggi,
a guardare e ascoltare
il mare e la gente imbottita
Non aveva più voglia di scrivere. Non mise neanche il punto, tanto era svogliato e di cattivo
umore. Pensava alla mattina dopo che si sarebbe svegliato presto e contro voglia per
consegnare qualche foglio a qualcuno di più stanco di lui -se era possibile che al mondo ci fosse
qualcuno più stanco di com'era allora-.
Capitolo X
Un'altra sigaretta sarebbe stata troppo per i suoi polmoni e per chi lo circondava. Se ne
infischiò e prese l'accendino. Era un bell'accendino di quelli da mille lire o poco più, blu
luminoso, e lui ci era particolarmente legato perché l'aveva preso due anni prima in un paesino
vicino alle montagne, dove era rimasto per due ore e dove sarebbe iniziato tutto (o dove tutto
avrebbe preso forma).
E non sapeva che in quel campeggio era successo di tutto, ignorava qualcosa che, se fosse
giunta al suo orecchio, lo avrebbe reso instabile per mesi. Altro che bel ricordo di quelle due
ore e di quel viaggio... "Oh dear, what can I do, baby's in black and I'm feelin' blue, tell me
oh, what can I do?" Si mise a cantare sottovoce ed il buonumore ritornò a scorrere in lui cosi
come se n'era andato. era ritornato e l'aveva rimesso in una posizione di equilibrio. equilibrio
fin troppo fragile, per essere mantenuto, al primo filo di vento sarebbe stato spazzato via.
Decise di muoversi dal ritornello alla prima strofa: "I think of her, but she thinks only of him,
I know it's only a whim, she thinks of him"... ma sapeva bene che non era la prima strofa e si
mise cosi a pensare di scrivere lui qualcosa che ritenesse degno d'esser cantato, una canzone
di cui avrebbe ricordato qual'è il ritornello e quale la prima strofa -almeno-. Ma non ci riuscì.
Voleva silenzio, ora. Niente più binari, niente più racconti sulle giornate passate il giorno
prima.
La testa la sentiva pesante e gli sbadigli si facevano frequenti, e la sveglia suonò e lui si
ritrovo li nel posto da cui era partito: seduto nell'acqua davanti al molo.
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Capitolo XI
Era di nuovo seduto nell'acqua, sveglio come non lo era mai stato, di nuovo seduto sospeso
sulla superficie dell'acqua; ma ora era notte, tutto buio e neanche le luci blu del porto a
rischiarare un poco l'aria attorno. Si accorse che gli amici erano spariti, che se n'erano andati
via silenziosamente mentre dormiva (per non svegliarlo o approfittando del fatto che
dormiva?).
L'importante era che tutto si fosse risolto, era di nuovo fermo immobile nel posto in cui era
prima, non poteva preoccuparsi di nulla ed ancor meno del suo taglio di capelli. Aveva ancora le
fotografie tra le mani e le canzoni dei prati verdi in mente, non poteva riaddormentarsi.
Si sentiva sensibile come non mai, anzi credeva che nessuno mai avrebbe potuto esserlo più di
lui, ma pensò che era solo egoista e cretino. voleva porsi degli obiettivi con cui verificarsi e
poter basare su quelli i propri passi obiettivi validi per cui percorrere la strada fino in fondo.
L'unica cosa che gli passava per la mente era una voce dolce che gli diceva di riaddormentarsi
e di seguire ciò che sentiva. (Vinz Pn)
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Un racconto al giorno. Giorno 19
Se il professore
ti mette di malumore
non prendertela con il Creatore,
se poi qualcuno ti detesta,
tu sospira ed abbassa la testa,
perché meglio perdonare
piuttosto che bestemmiare
LA TWENTY ATLANTIS CENTURY PRESENTA:
THE COCK CHICKEN PROJECT
“ EDIZIONE STRAORDINARIA!! Strage di polli in un pollaio alla periferia nord di Udine, u’
stronzi durante la notte sono entrati nel suddetto pollaio ed hanno assassinato senza pietà
alcuna tutte le galline, tra cui due conigli bianchi, EDIZIONE STRAORDINARIA!!!
Rettifico: il coniglio orribilmente assassinato assieme alle galline è uno solo, per tanto, l’unico
coniglio superstite sta ancor oggi facendo gli scongiuri, toccandosi anzi grattandosi in quel
posto.”
Già, questo il mistero: com’è che tutti gli altri animali sono morti, e lui, questo coniglio, l’unico
superstite?
Non sarà per caso lui il colpevole omicida, il diabolico assassino, il mostro del pollaio?
Ma a questo punto, il giallo si infittisce, perché nel serraglio maledetto c’erano anche un gallo
ed un’anitra che di nome faceva WC, scomparsi, di questi animali non si riesce a trovare
traccia: Se invece gli assassini fossero loro?
Il delitto è servito signore e signori: Chi sarà stato il colpevole, l’autore della strage il coniglio
bianco, oppure...La diabolica copia formata dall’anitra e dal gallo?
Come Diabolik in compagnia con Eva Kant?
Oppure visto che si tratta di animali, Gambadilegno con Trudy?
Orsù, facciamo una rapida indagine, partiamo così dall’indiziato numero uno, il coniglio che
durante la notte ha fatto scempio delle galline, del gallo, dell’anitra e dell’altro coniglio suo
compagno, forse perché tra i due era nato un litigio, poi ha occultato i corpi dell’anitra e del
gallo senza però ricordarsi di fare lo stesso con gli altri corpi.
Ma restano gli indiziati numero due, il gallo e l’anitra che durante la notte in preda ad un
attacco di follia o forse anche di gelosia, hanno ammazzato tutti, risparmiando quell’unico
coniglio che forse in quel momento si trovava rintanato nella tana,o forse perché era loro
complice, poi i due sono fuggiti, facendo così perdere le loro tracce.
Come risolvere questo ingarbugliato mistero?
Comunque per il momento potete televotare: chi tra i due indiziati, secondo l’opinione del
gentile pubblico è il colpevole della strage?
Ebbene sì, potete emettere il vostro verdetto, oppure se vogliamo la vostra opinione,
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chiamando il seguente numero telefonico: 166.66.06 (Cinque Euro al minuto, più I.V.A. alla
risposta).
Comunque in nostro aiuto sono venuti gli operatori del Grande Bastardo, e di SurvUdine
(Sopravvivere a Udine), con le loro potenti telecamere.
Questi geniali operatori hanno inventato grazie al geniale aiuto di uno scienziato esperto in
essoterismo ed occultismo, nonché artefice dei seguenti articoli comparsi sui maggiori
quotidiani nazionali: ELVIS SI E’ REINCARNATO NEL MIO GATTO. ME NE SONO
ACCORTO GUARDANDOLO NEGLI OCCHI!! Oppure: LA VACCA DEL CONTADINO CHE
ABITA NELLA FATTORIA VICINO A CASA MIA, E’ UN’ALIENA PROVENIENTE DA
SATURNO!!, una telecamera retro visiva, cioè capace di riprendere scene accadute molte sere
prima.
Ecco, mi dicono che una di queste telecamere è stata appena installata dai tecnici di
SurvUdine all’interno del pollaio della strage, fra un attimo sapremo, ed anche voi da casa
saprete cosa diavolo è successo in quella tragica serata di due sere fa.
Ecco, stanno per partire le immagini, buon divertimento.
“ Ci sono i Pop Corn?”
“ Si.”
“ Anche le patatine?”
“ Anche.”
“ La Coca Cola?”
“ No, quella no.”
“ Cristo, lo sapete bene che non riesco a sopportare la visione di un film senza la Coca Cola!”
“ Va bene una birra? Ne siamo pieni, siamo ben forniti di birra.”
“ No, voglio la Coca Cola, almeno due lattine, uffa!”
“ Sembra tutto tranquillo nel serraglio ,nonostante la luce dei riflettori i polli stanno
dormendo.”
“ Ma come? Stanno dormendo a testa in giù!”
“ Già è vero, forse perché abbiamo montato la telecamera all’incontrario.”
“ Cos’è stato??”
“ Cos’è stato cosa?”
“ Quel rumore che ho appena sentito, come di qualcuno che si avvicina al recinto.”
“ Cristo, alla galline sta venendo la Pelle d’oca.”
“ Stanno per aprire la porta del serraglio...”
“ Oddio, stanno entrando do...Sono dei ragazzi...Guardate, hanno dei grossi bastoni in mano!”
“ Si stanno scagliando sulle galline...Ho Dio, faranno una strage!”
“ Hanno già compiuto la strage, queste immagini che stiamo per vedere in questo momento,
sono prese dal passato, sono accadute alcune sere fa.”
“ Già è vero, devo ricordarmi di continuare la cura di fosforo che mi ha prescritto il dottore.”
“ Guardate, sangue e piume da tutte le parti!”
“ Il mio cuore...Quali tragiche scene deve sopportare...Svengo!”
“ ODDIO!! Quello, che cos’è quello!!”
“ Cosa?”
“ Uno dei conigli è disteso a terra con le zampe aperte...”
“ Ed allora? Cosa c’è di tanto strano?”
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“Ma lo stanno violentando!”
“ davvero? Aspetta, vedo se riesco ad ingrandire il particolare...”
“ allora?”
“ Niente da fare, troppo piccolo, sono al massimo dello Zoom.”
“ Che scandalo...CHE SCANDALO!!”
“ Guardate, l’altro coniglio è riuscito a rifugiarsi nella sua tana sotto terra.”
“ ecco come ha fatto a sopravvivere.”
“ Ma le galline potevano fare lo stesso anche loro, così si salvavano.”
“ Oddio le telecamere, si sono accorti delle telecamere.”
“ Si sono accorti che li stiamo spiando? Com’è possibile?”
“ Non lo so, guarda qualcuno sta mettendo una mano sull’obiettivo di una telecamera, non si
riesce a vedere più niente, in compenso si riesce a leggere la sua lunga linea della vita.”
“ E che cosa dice?”
“ Passerà vent’anni rinchiuso in un carcere, per strage di polli.”
“ Ma allora abbiamo scoperto il colpevole, il giallo é risolto.”
“ In teoria si, se riuscissimo a vederlo in faccia.”
“ Hai capito...Stronzo? LEVA IMMEDIATAMENTE QUELLE TUE SUDICIE MANI DA
ASSASSINO DALLA TELECAMERA, HAI CAPITO??”
“ Inutile, non si riesce a vedere più niente, anzi addirittura hanno staccato i cavi dell’audio.
Non si sente più niente...”
“ Oddio.. Vuoi forse dire che ci hanno scoperti...ODDIO...JOSÉ, DOVE SCAPPI??”
“ In bagno, me la sto facendo addosso dalla paura!!”
“ Ma...E la telecamera? A chi la lasci?”
“ Arrangiati (PRRRRUTTT) Ora devo proprio scappare, mi scappa!”
“ Mamma che puzza!!”
Primo piano del muso del coniglio in lacrime.
Il tutto liberamente tradotto dal conigliesco:
“ Sono rimasto solo, ho tanta paura, ho tanto freddo, chi mi aiuterà? Dio mio, ma che cos’è
questa puzza... Vuoi vedere che sono io che me la sono fatta addosso, ho paura, finirà che mi
troveranno, ammazzeranno anche il sottoscritto, chiedo perdono a tutti...Ma in questo
momento me la sto proprio facendo sotto. CIAO!!”
Ed ora dopo questi fatti tragici, un po' di pubblicità:
“Carissime vittime, benvenuti a questa tele vendita, dove io mi arricchisco con i vostri soldi, e
voi v’ impoverite, ma così è la vita: i furbi vincono sempre, ed io modestamente, ebbene sì, lo
ammetto, lo confesso, faccio parte della grande famiglia dei furbi.
Oggi siamo qui per presentarvi l’ultimo ritrovato nel campo della telefonia mobile quindi vi
presentiamo il nuovo Pannasonic, un telefono cellulare da grandi prestazioni, Tri Band, E-Mail,
chiamata mediante comando vocale, allarme sveglia, allarme nucleare,ed in più pensate che
ogni mattina vi può preparare un buon cappuccino con la panna, per questo motivo si chiama
Pannasonic.
Naturalmente il NUOVO PANNASONIC può essere vostro alla somma di soli Tre (Mila) di
Euro pagabili anche a rate al cinquanta per cento di interessi.
Un vero affare, almeno per quanto riguarda il sottoscritto.
214
MA IN PIU’ vogliamo farvi un regalo: se acquisterete il NUOVO PANNASONIC, facendo una
donazione alla nostra dita di soli cinquanta (Mila) in contanti, vi faremo un regalo: una
confezione del magico profumo da noi fabbricato: il MAGIC PUSS 300!
Il nostro favoloso profumo alle sarde, adatto per tutte le donne che abitano a Comacchio, dal
valore di sole sei milioni, può essere vostro, gratis, se acquisterete numero uno modello di
telefono cellulare NUOVO PANNASONIC, che VI ricordo può farvi il cappuccino con la panna
ogni mattina, ed eseguendo un versamento sul nostro Conto corrente postale di Euro Cinquanta
a favore della nostra ditta, altrimenti non riusciamo a pagare lo stipendio ai nostri operai,
anche se siamo in soli quattro gatti.
Quindi contiamo su di voi gentili telespettatori, ed ora via con le telefonate.”
Voce rauca al telefono:
“ Pronto?”
“ Chi parla.”
“ Matilde di Udine.”
“ Matilde di Udine? Mi dica, quanti anni hai?”
“ Novantanove anni!”
“ Novantanove anni? Troppi, non possiamo venderle il Nuovo Pannasonic, ci dispiace!”
“ Ma come? Io ho la pensione sociale.”
“ Si, come no, ma ha anche novantanove anni, ancora uno e ne compie cento, poi chi ci assicura
che poi non crepa improvvisamente? Anzi scommetto che ha appena fatto l’acquisto di una
barra da tenere da qualche parte in casa, magari sotto il letto, in attesa del grande trapasso.”
“ Ma come si permette, io ho lavorato tutta la vita sa?”
“ Si, come no, anche il sottoscritto ha lavorato, e sta tuttora lavorando e quindi di
conseguenza lavorerà tutta la vita, cosa crede di averlo fatto solo lei? Lasciamo perdere va,
che dalla regia mi dicono che c’è altra gente in linea.”
“ No, io voglio il Nuovo Pannasonic!”
“ Guardi, la smetta, oppure sarò costretto ad agire così: per accelerare la sua dipartita le
mando a casa, completamente gratis si capisce, il nostro infallibile KILLER AZIENDALE!!”
“ Bene gentili telespettatori, mentre aspettiamo che quella vecchiaccia di Udine si decida a
riagganciare il suo telefono, per lasciarci fare il nostro lavoro in santa pace, senza cosi
continuare a romperci le...meglio censurare, non vorrei sembrare volgare, quindi continuerò a
parlarvi del nostro nuovo, infallibile inimitabile: NUOVO PANNASONIC, illustrandovi qui in
diretta il suo speciale funzionamento, cioè come questa meraviglia della tecnica moderna vi
può ogni mattina preparare un buon cappuccino con la panna.
Ma un attimo mi dicono che c’è un’altra telefonata: pronto, con chi parlo?”
“ Toni!”
“ Toni da dove?”
“ Sono il marito della Matilde da Udine.”
“ Ci dica, ha chiamato per avere informazioni sulle insuperabili capacita, sulle innumerevoli
funzioni del NUOVO PANNASONIC, oppure ci ha chiamato perché abbiamo mandato a quel
paese sua moglie?”
“ Sa quanto me ne importa a me di mia moglie, di quella lì, siamo anche divorziati.”
“ Bravo, così si fa, era proprio una rompi...”
“ Volevo solo sapere se il NUOVO PANNASONIC fa anche la cioccolata con la panna?”
215
“ No, ci dispiace, solo il cappuccino.”
“ Non è giusto però, io protesto!”
“ Protesti pure, a me personalmente la cioccolata fa schifo.”
“ Comunque le volevo anche ringraziare per come ha trattato la Matilde.”
“ Di nulla grazie, dovere.”
“ Bene dove ero rimasto, ah si, dovevo illustrarvi come il nostro NUOVO PANNASONIC, ogni
mattina riesce a prepararvi un buon cappuccino con la panna caldo, prima di svegliarvi.
Allora, la sera prima di coricavi, dovete digitare con la tastiera del NUOVO PANNASONIC, il
numero del centro servizi bar, a sole due Euro al minuto, poi lo mettete con l’antenna in giù
dentro ad una tazza, poi andate pure a dormire e lasciatelo pure lì per tutta la notte.
Al mattino, sarete risvegliati dall’intenso profumo di un cappuccino dolce, solo la bolletta che
vi verrà recapitata a casa dalla vostra compagnia telefonica, sarà un po' amara.” (Francesco
Ambrosi)
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Un racconto al giorno. Giorno 20
Servono tre racconti, a volte, per far addormentare i bambini....
uno... MEMORIE DI UN ALIENO
E’ strano come in certi momenti tutta la tua vita riesca a passarti davanti all’occhio.
Forse non proprio tutta, ma solo quella frazione che ti ha portato ad essere quello che sei; di
solito sono errori, cose di cui ti penti, che avresti fatto in un altro modo, e ti trovi a
desiderare di avere una seconda possibilità, perché adesso ti sembra possibile. Adesso a un
minuto alla fine della tua vita, ti sembra possibile, concreta e tangibile la possibilità di poter
diventare un essere migliore.
Ma il tuo tempo è scaduto e l’unica speranza che ti rimane è quella di far tesoro delle peggiori
azioni che hai commesso, per non ripeterle la prossima volta... sempre che ci sia una prossima
volta.
Rivedo i miei genitori, rivivo il loro amore. Amore che forse non mi sono mai meritato.
Tutto, tutto quello che vorrei avere la possibilità di rivivere in modo diverso, è iniziato il
giorno in cui mi diplomai...
“Chip”, mi disse la mamma, “lo sai che non versiamo in condizioni economiche invidiabili. Quindi,
non abbiamo potuto mantenere la tradizione di regalarti per questo giorno speciale la galassia
che tanto desideravi. Però, ci sarebbe il pianeta Aseter...”.
Conoscevo la situazione drammatica delle nostre finanze, tutta via ero rimasto un po’ deluso.
Io le promesse le mantengo sempre, loro no.
Tuttavia accettai il loro dono e dopo neanche 2 anni luce, mi trasferii nella mia nuova dimora.
Forse avevo giudicato troppo in fretta i miei, il pianeta era davvero bello, piccolo, intimo e
soprattutto tutto e solo mio.
I primi tempi furono davvero superlativi. Potevo fare tutto ciò che volevo, senza sentire i
rimproveri di nessuno, ma presto la noia prese il sopravvento.
Io, solo e sempre io!
Certo, telefonavo alla mamma, papà passava a trovarmi, ma mi sentivo molto solo lo stesso.
I pianeti vicino al mio erano disabitati, se finivo lo zucchero dovevo montare sulla macchina a
reazione nucleare e percorrere più di due costellazioni, due e mezzo per la precisione, prima
di trovare un pianeta abitato.
Non ero io che abitavo fuori mano, è che nello spazio c’è così tanto spazio che è veramente
difficile avere dei dirimpettai.
Soffrivo di una solitudine cosmica.
Dovevo trovare una soluzione.
Avevo sentito di un tizio che riusciva a penetrare i sogni di chiunque e con loro viveva
fantastiche avventure.
Io non avevo quella capacità straordinaria, ma iniziavo ad avere un’idea di come potevo
risolvere il mio problema.
Sapevo che in un pianeta lontano dal mio di almeno 14352 galassie esistevano degli esseri, gli
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uomini, che non credevano alla vita su altri pianeti - non tutti almeno - , avrei potuto lavorare
in incognito.
Così comprai tutti i Cd-Rom che trattavano l’argomento e cominciai a studiare i comportamenti
umani, affascinato e sconvolto da tanta stupidità!
Sembrava facile introdursi tra loro, ma c’era un grosso problema da risolvere: il mio aspetto.
Ero verde, con un solo occhio e due grosse antenne sulla testa sproporzionata.
Ritenevo impossibile vivere tra di loro, si sarebbero sicuramente accorti della differenza tra
di noi, non avevo dubbi in proposito!
La popolazione era quella giusta, io dovevo solo stendere un piano efficace per avere un po’ di
compagnia.
La risposta arrivò in sogno, un po’ influenzato, forse, dal personaggio che mi aveva ispirato.
L’unico modo per non stare più da solo sul mio pianeta non era trasferirmi personalmente, ma
trasferire loro.
E se non volevano?
Non gli avrei chiesto il permesso!!!
Iniziai con questo piano, senza sapere bene cosa fare.
Per prima cosa decisi di fare un sopralluogo, per capire un po’ come vivevano quelle strane
creature. Per dieci giorni consecutivi montai sulla mia macchina a reazione nucleare e osservai
gli uomini, prendendo appunti e studiandoli a casa.
Capii subito che i bersagli più facili sarebbero stati i bambini.
Iniziò così la mia carriera di rapitore, il Cavaliere Verde che rapiva e poi riconsegnava alle
famiglie i pargoli.
La cosa stravagante era che questi bimbi non si stupivano affatto del mio aspetto, in realtà
vedendo i loro giochi nelle camerette capivo bene anche il perché. Io ero decisamente più
bello dei loro pupazzi, nonostante il mio occhio singolo e la mia pelle verde.
Fu così che conobbi Laura, una bimba dagli occhioni azzurri e i capelli biondi. Mi raccontò
favole meravigliose che io non conoscevo. Stava bene con me, ma dopo un po’ iniziò a chiedere
della mamma.
Ogni giorno era sempre più triste e io sempre più nervoso, infine la riportai a casa sua, ma io
non tornai sul mio pianeta con le mani palmate vuote.
Tornò con me Riccardo che mi parlò degli orchetti, dei troll, delle epopee fantasy. Il genere
non era quello che più mi attraeva, ma il suo entusiasmo era contagioso. Era sempre così
allegro e pieno di iniziative, cosa decisamente in contrasto con il mio carattere. Lo riportai a
casa per la disperazione, la solitudine era terribile, ma molto meglio del sovraccarico emotivo.
Mi sembrava di aver risolto totalmente il mio problema, ma alla fine di ogni incontro i miei
giovani ospiti volevano tornare a casa loro.
Nessuno voleva stare con me. Era questa la realtà.
Rapii mille e più bambini, ma il finale si ripeteva sempre e io mi sentivo disperato. Talvolta
alcuni di loro si ricordavano di me e mi scrivevano lunghe letterine colme d’affetto, ma io ero
comunque destinato a stare solo.
218
Fu durante uno dei miei giri di ricognizione sulla terra, mentre meditavo un nuovo rapimento
che scoprii di avere un cuore.
Non volevo rapire più nessun bambino, loro dovevano stare a casa con i loro genitori e io sarei
rimasto solo con il loro ricordo.
Passai a salutare tutti i miei giovani amici.
Mi abbracciarono e mi baciarono tutti.
Quando andai da Riccardo, lui mi diede una letterina.
“Leggila quando sarai arrivato a casa, e rispondimi se ti è possibile!”.
Fu il nostro ultimo incontro, avvenuto non più di tardi di due giorni fa.
Appena arrivato a casa aprii la busta. La lettera era scritta in stampatello da un bambino che
non conosce ancora bene la differenza tra le lettere:
Caro Chip,
grazie per avermi portato via con te. Sono stato bene, ti voglio bene.
Ieri ho sentito la mamma piangere, io sono corso da lei e mi ha detto che è troppo tardi, che
ora è finito tutto.
Non ho capito bene, ma diceva qualcosa sul sole, che si spegne.
Puoi aiutarmi tu a capire?
Un bacio
Richi.
Non avevo capito bene il suo discorso, forse perché anche lui non lo aveva capito affatto, ma
mi misi subito il collegamento con la base stellare dell’energia gratuita.
“Sì, signor Chip, il sole si spegnerà tra 36 ore.” fu la risposta alle mie domande.
“Scusi colonnello, se la disturbo ancora, ma la popolazione della terra?”.
“La terra morirà con tutti i suoi abitanti.” e interruppe il collegamento.
I miei bambini moriranno?
Non riuscivo a cancellare questa domanda dal mio cuore, guardavo il mio pianeta e mi spremevo
le meningi per trovare una soluzione...
Avevo la risposta, dopo qualche ora, avevo la risposta.
Andai a trovare i miei genitori, li baciai e dissi loro che mi sarei trasferito in un altro posto e
che non sarei più tornato.
Mamma piangeva, papà aveva le lacrime agli occhi.
“Papà,” gli chiesi “mi presti il tuo trasportatore planetario?”.
“Certo, Chip, ma sei veramente convinto?”.
“Sì papà, grazie di tutto a tutti e due!”.
Agganciai il mio pianeta al gancio traino del trasportatore di papà e iniziai il mio viaggio.
Raggiunsi in fretta il sole.
Programmai il trasportatore in modo che tornasse dai miei genitori evitando buchi neri e
meteoriti e misi una lettera sul sedile, dove spiegavo a loro il motivo della mia scelta e il mio
vero obiettivo.
Poi salii sulla mia macchina a reazione nucleare e mi allontanai dal mio pianeta.
219
Quando lo vidi piccolo piccolo, ingranai la marcia e mi precipitai a velocità supersonica verso di
esso.
E adesso sono qui, a poche decine di metri dal mio pianeta e procedo con una velocità al limite
delle capacità della mia vettura.
Tra poco ci sarà lo schianto, spero solo che funzioni e che ripari al male che ho fatto a tutti
quelli che amavo.
Ciao!
Un esplosione e la vettura di Chip si perse nel suo pianeta in fiamme.
E fu così, che per amore, nacque un nuovo sole! (Paola Budassi)
...due...
Giorgetto e l'albero
Giorgio, per gli amici Giorgetto, era un ragazzino vivace, fantasioso ma un po' sfaticatello. Non
andava volentieri a scuola, considerandola come un luogo in cui gli insegnanti chiedono ai
ragazzi cose che gli stessi professori già sanno. Era inutile rimproverarlo e tantomeno
convincerlo; se doveva proprio andarci, lo faceva per scambiare quattro chiacchiere con gli
amici o per divertirsi a disegnare o meglio, a sfigurare i volti dei professori. Che discolo!
Un giorno nel quale aveva marinato la scuola gli capitò un'avventura incredibile.
Mentre sgranocchiava golosamente delle squisite noccioline e dei voluminosi pop-corn, si
sedette in una panchina del parco dove spesso andava quando non metteva piede a scuola.
Pensava fra sé:"che bello starsene qui seduti all'aria aperta, senza libri di storia o di
aritmetica! Poverini i miei compagni: non sono ancora riusciti a rendersi conto della gravità
della situazione.Ma arriverà un giorno...". Mentre bisbigliava queste parole, Giorgetto udì una
voce amica, che proveniva da dietro la panchina: "Verrà un giorno in cui ti deciderai ad
imparare qualcosa dai libri di scuola". " Chi ha parlato?" sussultò Giorgetto " qui intorno non
c'è nessuno, oltre a me e a questo vecchio albero...". " Alt!Albero sì, ma vecchio no davvero: ho
appena 11 anni" rispose la voce. Era proprio l'albero a parlare, ma Giorgetto, non capendo chi
fosse l'interlocutore, balbettò: "11 anni! La mia stessa età; sei davvero tu a parlare?".
"Andiamo con calma. Come vedi sono un albero bello e robusto, modestamente" disse l'albero
con orgoglio socchiudendo gli occhi."Parlo perché Madre Natura ha deciso di farmi questo
dono". Giorgetto allora, resosi conto che si era imbattuto in un albero parlante, disse:" Che
cosa vuoi da me?" " Bè, proprio niente, stavo solo ascoltando le tue parole, che non ritengo
giuste. Come ho ben capito il fatto in questione è la scuola e la poca voglia che tu hai di
frequentarla". Giorgetto ribatté: " Albero, non mi dire che anche tu la pensi come gli altri:
siete tutti strani...". " No Giorgetto, sei tu che sei diverso da tutti. Ma ti capisco; non è che
sia così invogliante la scuola, ma penso che ci si vada per imparare, altrimenti perché credi che
sia stato costruito un edificio simile? Per inserirci i professori con gli alunni?". Giorgetto
ribatté:" Bè, non la penso proprio come te, ma in un certo senso non so il motivo... ma è inutile
conoscerlo, tanto poi che si risolverebbe? Io per esempio, ho provato ad andare di seguito per
ben 3 giorni a scuola ( che sacrificio!) ma ho notato che la professoressa continuava a
ripetermi la parola ASINO e insistentemente scriveva sul mio quaderno un mucchio di
220
cerchietti...". L'albero, che fino a quel momento era rimasto pensieroso, sorrise e così rispose:
"Quei cerchietti sono il frutto del tuo non fruttuoso impegno. Scommetto che tu a casa non
scrivi e non leggi mai. Per esempio, sai scrivere il tuo nome?" Giorgetto imbarazzato fece no
con il capo ed arrossì come nella mela che era appesa ad un ramo dell'albero, il quale
amichevolmente consigliò al ragazzo di cominciare a chiedersi che cosa farà da grande. "Hai
deciso che mestiere svolgerai? No suppongo. Lo credo bene. Anche se decidessi di fare
l'idraulico, mestiere che con la scuola non ha alcuna attinenza, dovresti per forza scrivere il
conto da far pagare al tuo cliente. Cosa gli diresti?" Giorgetto disse sottovoce:" Direi che
deve pagarmi una cifra pari al costo dei pop-corn con le noccioline..." L'albero scoppiò in una
sonora risata e riuscì a dire:" Bè, non penso proprio che ti capirebbe! Non credi sia meglio
imparare a contare? Vedi come ti servirebbe? Inoltre, anche se dovessi scrivere una lettera,
un telegramma o qualsiasi altra cosa, non puoi cavartela con le sole parole che sai scrivere:
POP-CORN e NOCCIOLINE!". Giorgetto rifletté a lungo; non aveva mai pensato a quanto gli
aveva fatto notare l'albero, il quale continuò dicendo: " Ah! Caro mio, quanto vorrei essere
anch'io un umano e poter camminare, imparare. Fossi in te, non ci penserei due volte a tornare
a scuola: pensa ai vantaggi che ne potrei avere..." Giorgetto, ormai convinto, disse: " Caro
albero, non so come ringraziarti dei tuoi buoni consigli. Senza il tuo aiuto non avrei capito
l'importanza dell'istruzione scolastica. Ti auguro tanta salute e prosperità a te e ... alle tue
mele!". I due risero felici e Giorgetto da quel giorno smise di marinare la scuola, anzi, divenne
il più bravo e diligente della classe. La sua più grande gioia fu quella di vedere sul suo quaderno
dei bellissimi" 10 e lode": ricordava le parole dell'albero e , per ringraziarlo, andava ad
innaffiarlo ogni giorno, anche nei più caldi giorni d'estate. (Simona Rogani)
...tre...
CHI CI STA SCRIVENDO E CHI CI LEGGERA'
"Lo sai?" disse ad un certo punto Baby Orsettino.
"Cosa?" rispose Orsetta la Bimba.
"Niente... beh, stavo pensando che tra un paio di settimane è la notte di Lorénz'Orsetto."
"E' vero, che bello. Lo sai che lo scorso anno l'ho passata dentro l'Altra Estate."
"Non lo sapevo, però in effetti non ti avevo vista. Ma sai, lo scorso anno ha piovuto e gli
Orsetti Celesti hanno ritirato le stelle."
"Quasi, quasi sono stata fortunata... e poi, visto che non avrei comunque potuto godermi lo
spettacolo delle stelle cadenti ho scritto una favola."
"Una favola? Tu? E di cosa parla?"
"Di chi ci sta scrivendo e di chi ci leggerà."
"E chi sono questi due signori?"
"Lui... (qui devo stare attenta pensava)... lui è, beh non vorrei mi togliesse la parola se faccio
considerazioni troppo azzardate. A lui piace scrivere per essere letto. Non so se gli interessa
realmente di noi, ma io spero che un po' ci creda, in noi, altrimenti potremmo scomparire, se
lui lo volesse, così come ci ha creato. Sai, ho scritto questa favola anche per esorcizzare
questo timore. In fondo, adesso una parte di lui esiste perché io l'ho inventata e, avendola
inventata io, lui non può distruggerla e ho inventato anche la parte in cui lui ci ha creato."
"E l'altro signore della tua favola?"
"L'altro è in realtà un'altra (anche qui devo stare attenta, pensava)... lei è, beh non vorrei che
poi ci credesse troppo e si facesse influenzare dalle mie considerazioni, soprattutto se troppo
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azzardate. A lei piace leggere ciò che lui scrive. Non so se gli interessa realmente di noi,
sembra quasi che voglia leggerci attraverso, per arrivare a scoprire l'anima di chi ci ha
scritto. Quando ci legge noi diventiamo invisibili e, se va avanti così, potremmo scomparire.
Sai, ho scritto questa favola anche per impedirle di arrivare a tanto. In fondo, se io ho
inventato una parte di lui, io, per lei, non potrò mai scomparire del tutto."
"E tutto questo cosa c'entra con la notte di Lorénz'Orsetto?"
"C'entra, perché se tu non avessi cominciato a parlare, questa favola non sarebbe mai esistita
e tu non saresti mai stato creato."
"Cioè?"
"Lo sai!" disse allora Orsetta la Bimba.
"Cosa?" rispose Baby Orsettino.
"Niente... beh, stavo pensando che tra un paio di settimane è la notte di Lorénz'Orsetto"
(Franco Zarpellon)
...buona notte...
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Un racconto al giorno. Giorno 21
Quando il dottor Deckett mi aveva proposto quel viaggio pazzesco nel mondo della morte
grazie alla realtà virtuale e a quel maledetto microchip infilato nella testa avevo accettato,
spinto dall’adrenalina che aveva riempito il mio corpo. Ma adesso…. Mi aveva spiegato per ore
la sua teoria sulla morte, il mito di Hela dimorante in un universo autocreato in costante
contatto con substrati del nostro mondo. Attraverso porte di collegamento utilizzate al
termine della nostra esistenza, la nostra energia arrivava al punto di non-ritorno e veniva
riutilizzata. E Deckett aveva teorizzato che attraverso stimoli particolari era possibile per un
essere vivente passare una di queste porte e ritornare indietro, dopo aver visitato l'universo
confinante con il nostro dove risiede la morte. La possibilità di attraversare i vari universi
paralleli che ci circondano canalizzando le varie energie in essi presenti poteva essere
applicata anche alla mente di un individuo attraverso una adeguata stimolazione dei suoi organi
sensoriali. E questa stimolazione era la realtà virtuale, cioè tutta una serie di sensazioni
artificiali imposte tramite sofisticate apparecchiature. Proponendo ad un essere vivente tutte
le sensazioni raccolte dal computer relativamente al momento della morte, la mente sarebbe
stata costretta a trasferirsi come pura energia oltre la porta del nostro piano esistenziale.
Probabilmente erano tutti pazzi. Secondo loro era possibile che io mi tramutassi in energia,
che viaggiassi fino all'altro mondo e tornassi indietro, magari con un autografo di sorella
morte. Il tutto facendomi convincere da una maledetta macchina che ero passato a miglior
vita.
"Scusatemi - avevo detto -ma una cosa che non capisco è come sia possibile far credere alla
mia mente che il mio corpo stia morendo. La mie capacità cognitive, qualunque stimolo arrivi,
troverebbero sempre un'autodifesa per non rischiare di farmi impazzire. A meno che..."
"A meno che la morte illusoria non arrivi nel momento del sonno profondo. In quel breve
attimo sospeso fra REM e stato di veglia, la sua mente non sarà in grado di valutare la
differenza fra stimoli indotti e realtà e non potrà realizzare concrete difese, accettando di
fatto il concetto della morte e comportandosi come siano certi farà, cioè proiettando sé
stessa oltre il confine.. - rispose uno degli assistenti - Inoltre non dimentichi che nel nostro io
profondo la morte non ha alcunché di spaventoso, ma è registrata come naturale conseguenza
alla vita. Quindi viene affrontata e presentata alla mente senza il blocco della razionalità."
"Cioè sarei colto nel sonno da un malore improvviso, senza possibilità di reazione. Ma quali
sarebbero le sensazioni che riceverei dalle apparecchiature?"
"Inizialmente quelle di un virtuale blocco cardiaco, con mancato afflusso di sangue al cervello
immediatamente seguente. Seguirà un rapido abbassamento della pressione e della
temperatura corporea, fino alla cessazione di tutte le funzioni vitali. A questo punto la sua
mente deciderà che la sua esistenza terrena è finita; tutto questo accadrà nello spazio di 11
secondi e qualche decimo, senza nessuna reale conseguenza per lei sul piano fisico. Il
microchip che le impianteremo memorizzerà e successivamente riavvierà ogni sua funzione
vitale.”
Deckett concluse poi che la morte intesa come entità non poteva accorgersi di me, in quanto la
mia energia non sarebbe stata staccata dal corpo conservando una struttura non riutilizzabile
in quanto incompatibile con l'universo parallelo dove sarei entrato. Averi potuto osservare,
senza che la mia presenza venisse percepita in un mondo dove effettivamente non potevo
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esistere. Quindi nessun pericolo.
Mi aveva parlato per altre ore di costanti temporali, misurazioni energometriche, flussi
energetici senza che io capissi nulla o quasi, per poi mostrarmi orgoglioso un lettino pieno di
aggeggi da fantascienza e un microchip, lo stesso che adesso era ben piantato dentro la mia
testa collegato a chissà quali terminali nervosi.
“Ti abbiamo scelto - disse Deckett - sulla base di tue caratteristiche personali, fra un
campione di oltre 100000 persone. Penso tu possa esserne orgoglioso!”
E avevo accettato, spinto più da quella frase che inebriava il mio narcisismo patologico che da
un piacere effettivo sulla possibilità di scambiare quattro chiacchiere con la morte. Mi
avevano preparato per giorni, analizzato, misurato, sezionato la mia psiche in ogni dettaglio,
insultato perché a volte osavo chiedere chiarimenti su tutto quello che stava per succedere.
Mi ripetevano solo quella frase: “Dopo, niente sarà più come prima, per te e per il mondo
intero.”
Ora, sdraiato sul lettino, aspettavo il gran salto nel sonno e nell'universo che mi aspettava.
Guardavo il fumo della sigaretta salire a lente spire verso il soffitto dove, con un ultimo
rapidissimo guizzo della sua esistenza, finiva ingoiato dalla griglia di aerazione. Platone
probabilmente avrebbe filosofeggiato sulla somiglianza del comportamento di quel fumo con la
vita degli esseri umani, ma ai suoi tempi non esistevano né tabacco né impianti di aspirazione.
Beh, se l'era cavata lo stesso abbastanza bene, arrangiandosi con quello che aveva... Mi veniva
da ridere pensando a quanto lui, Socrate e compagnia mi avrebbero invidiato sapendo a cosa
stavo probabilmente andando incontro. Io, sconosciuto medio-pensatore, davanti a quello che
loro avevano teorizzato a prezzo di meningi distrutte dalla fatica! Probabilmente se avessero
intuito che un giorno una maledetta macchina sarebbe stata in grado di spiegare il senso
dell'esistenza al posto loro, si sarebbero dati a tutt'altra attività...
Cibernetica batte filosofia mille a zero... la vittoria dei microchips sui neuroni, dei circuiti
elettronici sul pensiero, della memoria elettronica sul cuore e sulle emozioni; il definitivo
innalzamento dell'uomo al grado di macchina intelligente, la consacrazione dell'amore come
prodotto di correnti elettrostatiche... Stavo per scrivere la parola fine a millenni di rincorse
mentali e voli pindarici; tra qualche ora sarei tornato con in mano la Definitiva Verità, la storia
avrebbe cancellato da sé stessa tutte le precedenti interpretazioni sul grande mistero della
vita e della morte. Ero un pioniere, stavo aprendo la strada al collegamento fra i due piani
esistenziali della vita umana: il prima e il dopo. Ma stranamente non riuscivo a sentirmi
quell'eroe senza macchia e senza paura che da sempre cercavo di essere e che secondo
l'interpretazione di me stesso doveva portarmi ad un senso di euforia e di forza illimitato.
Avevo invece la quasi sensazione di essere un vecchio guardone con la bava alla bocca, intento
a forare il retro di una cabina balneare dove da lì a poco sarebbe giunta a cambiarsi una
ragazzina quindicenne. Sentivo il mio occhio appoggiarsi al legno della parete, frugare l'interno
per cercare il miglior punto di osservazione; avvertivo la mia mano rugosa scendere a toccare
freneticamente un sesso che non poteva più rispondere, e i battiti del mio cuore aumentare
freneticamente all'ingresso sulla scena dell'adolescente. Mi sembrava di vederla, i lunghi
capelli corvini sulla schiena perfetta, sfilarsi il costume e restare nuda davanti alla mia vista
rapace. Provavo odio profondo verso quel pezzo della mia carne che solo in tutto il corpo non
provava brividi, e ancora la mia mano che lo scavava disperatamente senza risultato, sempre
più forte, sempre più angosciata.
Poi, un urlo acutissimo...
Subito dopo, il buio totale.
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Camminavo su quel piccolo sentiero senza sapere come ero finito lì. Ero certo di essere stato
a casa mia poco prima, con un cd di Mozart infilato nel piatto e un bicchiere di vodka. Non
riuscivo a capire, a riconoscere quei posti. Possibile che mi fossi ubriacato a tal punto da
uscire e camminare per ore? Poi, improvvisamente, intravidi una figura a qualche centinaio di
metri da me. Cominciai a chiamare a gran voce: " Ehi, amico! Ho bisogno di una mano! Mi puoi
indicare la strada per Coolfield? Devo essermi perso."
Nessuna risposta, neppure un movimento verso la mia direzione.
O era completamente sordo, o profondamente maleducato.
Urlai ancora più forte, con lo stesso risultato. Lo sconosciuto continuava la sua strada senza
degnarmi di alcuna attenzione. Gli corsi incontro, sempre chiamando a voce alta e sempre
senza risposta. Arrivato a pochi metri da lui vidi un uomo molto anziano, con i capelli
bianchissimi, il volto pieno di rughe e un paio di stupiti occhi azzurrissimi che guardavano
tutto attorno. Incrociò lo sguardo su di me, ma la cosa lo lasciò totalmente indifferente come
i miei richiami.
Mi piazzai davanti a lui e con la massima gentilezza cercai di parlargli. Niente, non mi
rispondeva e neppure mi guardava, eppure non pareva affatto un alienato. Lo afferrai per un
braccio, senza riuscire a spostarlo di un millimetro. Continuava a camminare osservando tutto
attorno come se si trovasse in un'altro mondo e trascinandomi con sé. Non riuscivo a fermare
il suo passo lento ma continuo neppure con tutte le mie forze! Era come se per lui non
esistessi, come se fossi un fantasma perso nell'inutile tentativo di manifestare la sua
presenza. Lo lasciai e lui continuò la sua strada. Caddi in ginocchio, vidi la sua figura diventare
sempre più piccola e poi sparire fra gli alberi. Il sole era sempre immobile nel suo punto
iniziale.
Completamente frastornato, ripresi il sentiero. Non avevo paura, ma solo un enorme stupore
per qualcosa che non riuscivo a spiegarmi. Provai a cercare il mio ultimo ricordo del mondo
"civile", ma tutto quello che mi veniva alla mente era un vecchio guardone che spiava una
ragazzina cambiarsi nella cabina di uno stabilimento balneare. Scena che non avevo mai visto
davvero. C'era anche qualcos'altro, che però non riuscivo a focalizzare: una specie di lungo
corridoio asettico che percorrevo fino ad arrivare ad una porta che si apriva con una chiave
elettronica, ma tutto era così confuso... Non trovavo nessuna spiegazione logica: non stavo
sognando, quindi ero in preda a qualche potentissimo allucinogeno oppure... ero finito da
qualche parte che non esisteva sulla terra. Non c'era nessun punto d'osservazione che
potesse tenere il sole fermo per così tanto tempo, né un novantenne umano che le mie forze
non fossero in grado di trattenere. Eppure non provavo nessun timore, neppure l'ombra di una
pur piccola tensione. Potevo solo continuare a camminare, anche se ero certo che la strada
sembrava ma non era la stessa che avevo percorso fino al ruscello.
Avevo letto qualcosa in passato sulla teoria degli universi paralleli, ipotesi suggestiva per
spiegare il mistero del triangolo delle Bermuda, ma più che un cumulo di teorie senza
fondamenti non avevo trovato. C'era anche qualcos'altro che avevo letto sui diversi piani
esistenziali, scritto da un cervellone dell'informatica che si chiamava... Deckett, se ricordavo
bene. Strano, mi sembrava molto familiare ma ero certo di non averlo mai conosciuto
personalmente. E comunque quello che mi stava succedendo era realtà e non le pagine di un
libro fagocitato in un momento di relax. Una realtà che avrebbe potuto farmi impazzire, se
non trovavo una spiegazione rapidamente. Certamente qualcosa era successo, ma non riuscivo a
trovare il punto d'inizio a questa storia. Tutti i miei ricordi erano intatti, le mie donne, il mio
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lavoro; era il tempo che aveva perduto ogni dimensione e dilatava a dismisura le mie giornate
passate. Conoscevo la mia età, eppure non riuscivo a collocare in una logica temporale la festa
di compleanno che i miei amici mi avevano preparato l'ultima volta. Potevano essere passati
mille anni... o forse doveva ancora arrivare. Un qualcosa legato al tempo poteva spiegare il sole
che non si muoveva, ma era tutto talmente pazzesco che rischiavo di perdere la ragione. E poi,
come c'ero finito dentro, se di buco temporale si trattava?
Mi ero appena sdraiato sull'erba, quando alla brezza sottile si accompagnò una voce lontana.
Era una specie di canto, dolcissimo e triste, una nenia in una lingua che non conoscevo. Mi alzai
di scatto, cercando di individuarne la provenienza. Poco più lontano c'era una piccola boscaglia,
stupendamente stagliata su un roccione di marmo rosa; il canto sembrava provenire dal suo
interno. Cominciai a camminare nella sua direzione; man mano che mi avvicinavo la voce
diventava sempre più chiara e sempre più bella. I toni erano delicati, eppure sembravano
riempire tutto attorno. Mi feci largo fra i rami degli alberi, e cominciai a intravedere un
piccolo laghetto dalle acque azzurro cielo. Lì, seduta sulla riva, una figura femminile esilissima,
vestita con un lungo abito nero. Era lei che cantava, con il vento che scompigliava fluenti
capelli corvini e il volto rivolto verso l'acqua. Mi avvicinai, in preda ad un'emozione
incontrollabile. Sentivo il cuore battere velocissimo e le vene pulsare prepotentemente, al
punto che dovetti sedermi su una roccia a pochi metri da lei. La donna continuava a cantare,
era a piedi nudi e le sue braccia ogni tanto si alzavano come per invocare il cielo. Ero ansioso di
vedere il suo viso, ma non volevo spaventarla. Non sapevo dove mi trovavo, ma sarei stato
comunque per lei uno sconosciuto apparso all'improvviso.
Non so per quanto rimasi lì, immobile, ad ascoltare la sua voce cantare in quella lingua
misteriosa. Certamente molte ore, forse giorni, anche se il tempo avevo ormai capito non
avere nessun valore in quel mondo irreale.
Poi il canto cessò, l'eco continuò ancora a lungo a trascinarlo per la valle; la donna immerse le
mani nel lago per poi passarsele sul viso. Infine si voltò, guardandomi senza sorpresa, e il suo
sguardo sconvolse completamente quel che ancora di razionale possedevo. Era incredibilmente
bella, la perfezione oltre la perfezione, con due grigi e grandissimi occhi che sembravano
possedere la forza stessa dell'universo. Le labbra rosse e delicate si aprirono in un sorriso,
mostrando una fila bianchissima di denti perfetti. Tutto quel che di meraviglioso c'era al
mondo era trasmutato in quell'essere stupendo; non avevo mai visto o creduto possibile
l'esistenza di una tale bellezza.
"Non spaventarti - balbettai confuso - non voglio farti del male. Mi ero perduto nel parco ed
ho sentito la tua voce, così l'ho seguita e sono arrivato da te."
La sua risata era bella quanto lei, e risuonò a lungo fra gli alberi.
"Spaventarmi? Tu? Arthur, hai appena detto una cosa che mai avrei pensato di poter udire da
un uomo! E non posso dire che non mi faccia piacere, sono abituata a ben altre accoglienze..."
"Come fai a sapere il mio nome? Io sono certo di non averti mai vista, purtroppo!"
Ancora la risata argentina, prima della sua risposta.
"Conosco molte cose di te oltre il tuo nome, e non è vero che non mi hai mai conosciuta. Tempo
fa, anzi, mi hai scacciato mentre ero vicinissima a te, ma non puoi ricordartene; nessuno
potrebbe farlo. Ti assicuro però che non eri troppo felice di avermi incontrata. Ma ora vieni
con me, voglio farti un regalo prezioso."
"Ti sbagli, non potrei mai dimenticare di averti già vista. Ma ti prego, vorrei sapere il tuo nome
e dove mi trovo. - le dissi avvicinandomi - Sai, poco fa ho incontrato un uomo anziano che mi ha
trattato come un fantasma, anzi per lui forse lo ero davvero. E vorrei tu mi aiutassi a capire
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come mi sia stato possibile arrivare in un posto come questo."
"Puoi chiamarmi come più ti piace, gli uomini mi hanno dato migliaia di nomi e tutti erano quello
giusto. Ma non chiedermi nulla adesso, capirai presto tutto quello che desideri sapere.
Andiamo!"
Camminavo accanto a lei. Tutti i rumori del bosco si erano zittiti per incanto, il silenzio era
assoluto e quella donna bellissima non parlava e non mi guardava mai. Fianco a fianco
percorrevamo boschi di betulle, prati pieni di piante sconosciute e di strani funghi
coloratissimi. Avevo rinunciato a cercare di comprendere, potevo solo adattarmi a quel
mistero che mi avvolgeva senza cercare di penetrarlo. Lei ogni tanto si chinava verso un fiore
dalla testa reclinata, lo accarezzava dolcemente e subito i petali sembravano riprendere forza
e splendore. Allora sorrideva e riprendeva il cammino, mentre io mi voltavo a guardare quella
specie di miracolo oltre ogni comprensione. Avevo ormai varcato la soglia dello stupore e
semplicemente prendevo atto di quel che succedeva, certo che non avrei potuto capire nulla se
non mi fosse stato permesso. Lei sembrava la padrona, la dea di quel mondo di favola, io un
ospite arrivato per caso e accolto per cortesia.
Avvertivo dei brividi percorrere il corpo, ed erano la sola sensazione fisica che provavo. Non
sentivo il terreno sotto i piedi, non sentivo la brezza che mi passava sul viso; ero come
completamente anestetizzato, solo il pensiero mi dava coscienza. E proprio questo pensiero ad
un certo punto bloccò i miei passi, esplodendo in un'idea che dovevo aver represso con tutte le
mie forze: non ero più in vita! Ecco la spiegazione a tutto... Afferrai la donna per le spalle, la
voltai verso di me e per attimi che non finivano mai il mio sguardo incrociò il suo. Poi scivolai
lentamente verso terra, finendo in ginocchio con le mani aggrappate al vestito della mia guida
e con il viso appoggiato sul suo grembo. Ancora lunghi momenti, poi cominciai a piangere
sempre più forte e scosso da tremiti violenti presi a battere i pugni sull'erba. Infine cominciai
a scavare la terra con le unghie, passandomela sul volto e sul collo, riempiendomene la bocca,
confondendola con le lacrime. Strisciai verso i piedi della donna, ne afferrai le caviglie e
alzando lo sguardo verso di lei mormorai: "Come è successo, e chi sei tu?"
Non ebbi risposta, neppure un cenno da quel volto che ora sembrava di pietra. Un furore
incontrollabile mi salì fino al cervello; balzai in piedi e comincia a colpire quella donna con
tutte le forze che avevo. Vedevo i miei pugni abbattersi su di lei, i miei calci feroci affondare
in quel fragile corpo, ma senza risultato. Assorbiva tutto senza neppure muoversi. Non avevo
l'impressione di colpire un muro, ma piuttosto qualcosa dove la mia energia scaricava
completamente sé stessa. Continuavo a colpire senza risultato piangendo disperato, urlando
come un pazzo; ad ogni colpo mi sentivo sempre più debole, sempre più indifeso. Poi crollai a
terra carponi con la testa in fiamme, vomitando su un cespuglio di rovi.
"Non devi convincere me di essere vivo, ma te stesso. E' sempre stato il dramma di voi uomini
accorgersi completamente del dono prezioso che possedete solo nel momento che svanisce. disse dolcemente la donna posando le mani sulla mia testa - Chissà quando capirete che l'inizio
e la fine sono la stessa cosa, che la prova è riuscire a fare al primo il dono dell'altra. Ma
rassicurati, se questo ti è tanto necessario. Non sei morto e sei qui solo per imparare che io
non merito tanta disperazione..."
"Perdonami, non volevo farti del male - sussurrai - ma ho paura. Paura di quello che vedo, che
sento, di ciò che tu fai. Non so cosa mi sia successo, ne cosa ancora capiterà, e sono solo un
uomo... aiutami, ti prego..."
"Solo un uomo... - fu la risposta della donna accompagnata da un sorriso tristissimo - Non sai
quanto sia importante essere un uomo. Tu non conosci la solitudine vera dei millenni, la
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disperazione del vuoto che può accompagnare l'universo, il dolore del niente. Provi terrore se
per un breve attimo non avverti il calore delle tue mani senza sapere il prezzo del freddo
eterno, e ribellione se qualcosa ti impedisce di avvertire il vento sulla pelle. Ma dovrai
imparare in fretta cosa sia davvero la tua esistenza, se vorrai portare a compimento il tuo
viaggio. Questo è il mio mondo; io ti ho permesso di entrarci per un breve attimo e potrai
conservarne il ricordo nei tuoi giorni futuri, se davvero vorrai. Ma non dimenticare neppure
per un attimo quello che sei, o niente e nessuno potrà aiutarti a ritornare indietro. Hai
accettato da uomo di venire da me, non smettere neppure per un istante di credere in quello
che sei."
Annichilito, guardavo quegli occhi grigi scintillare di luce, quel sorriso fatto di tristezza
palpabile. Ricordavo tutto, adesso: Deckett e la sua pazzesca teoria, il viaggio virtuale in una
dimensione sconosciuta, la mia voglia e la paura di partire. Ero davvero lì, o meglio la mia
mente era lì mentre il mio corpo credeva di essere morto sul tavolo di un laboratorio
sperimentale. E davanti a me c'era lei, il terrore di tutti gli esseri viventi che mi stava
parlando... "Tu sei Hela, la morte... E' pazzesco... sono nel tuo mondo.... lo avevo sempre
immaginato freddo e buio, senza alcuno sprazzo di vita... questo sembra invece un meraviglioso
giardino incantato..."
Puoi chiamarmi Hela se vuoi, o Thanatos, o in tutti gli altri modi che conosci. Non è importante
il mio nome, ma ciò che io sono. L'universo dove vivo dall'inizio dei tempi è questo, ma può
anche essere milioni di volte diverso. Guarda sempre oltre le apparenze se vuoi imparare; un
fiore può nascondere un mostro terribile e viceversa, e questo non dipende da me né dal
Creatore. Sono le tue emozioni che costruiscono immagini, e dalle tue emozioni dipende ciò che
vedi. Ma ora ti prego, riprendiamo il cammino. Avremo tempo per parlare."
Ero tranquillo, adesso, mentre camminavo fianco a fianco con la morte. Pensavo a tutti i pittori
che avevano dipinto l'ultimo viaggio in un'atmosfera buia, piena di alberi secchi e di angoscia.
Pensavo a quel poeta inglese che raccontava di terribili intemperie affrontate senza alcun
abito addosso, con le piaghe aperte dalle spine disseminate nel percorso. Invece non c'era
alcun terrore in questo mondo, ma solo una grande pace. E lei, lei che non aveva alcun nome
portava sulle spalle il peso di tutta la disperazione degli uomini che avvicinava. Lacrime, dolore,
rabbia... tutto diventava tristezza e dolcezza infinite nell'essere più solo che mai avessi
incontrato. Il suo terribile compito meritava grande rispetto, non certamente l'orrore
smisurato che solo il suo apparire in lontananza provocava. Quante cose avrei voluto chiederle,
ma sapevo che non avrebbe mai risposto. Potevo unicamente guardare ed imparare, solo
cercare di capire. Hela si allontanò, lasciandomi solo e stupito davanti ad uno spettacolo
meraviglioso. Onde gigantesche che si fermavano sulla spiaggia a pochi metri da me, piene di
spuma ricamata d'argento dalla luce della luna. Mi sembrava di essere parte di quel movimento
eterno, volavo in alto per poi ricadere e ricominciare. Un'euforia senza limiti riempiva tutto il
mio essere, mentre centinaia di albatros sfrecciavano su di me silenziosi. Mi rovesciai nella
sabbia, le stelle sfondavano gli occhi nutrendo la mia anima. Dovunque guardassi la natura mi
regalava un pezzo di sé stessa, diventava la mia amante senza pretendere nulla. Dov'ero?
Veramente quello che vedevo apparteneva ad un universo mai visitato prima? O forse era
l'inconscio a darmi immagini che desideravo mentre una macchina sollecitava la mia fantasia?
Mi avvicinai all'acqua, ricevendo su tutto il corpo una spruzzata leggera portata dal vento; non
poteva essere un'illusione quella tiepida carezza... Mi spogliai completamente cominciando a
giocare con il mare, correndo sulla sabbia e urlando di gioia. Attorno a me la scogliera
altissima mostrava piccole grotte dove l'acqua arrivava da canali sottomarini e finiva la sua
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corsa, dividendosi in infinite parti che poi si ricomponevano per ricominciare nuovamente, per
sempre.
Dio mio, come potevi essere così immenso? Non mi avevi lasciato solo neppure per un istante
senza che mai io riuscissi a vederti, nella presunzione di potermi bastare.
Mi rotolavo sulla sabbia come un bambino, pazzo di felicità e di speranza, poi finalmente mi
fermai, ansimante, abbracciato ad un grosso tronco arrivato da chissà dove per raccogliermi.
Sentivo per la prima volta nella mia vita che nulla era inutile, che io davvero esistevo perché
così doveva essere. Migliaia di ricordi si sovrapponevano mentre seduto sulla sabbia guardavo
il mare scorrere. Era incredibile tutta quella ressa di volti che appariva dentro la mia mente, e
soprattutto incredibile era la consapevolezza che ad ognuno di loro era legata parte della mia
vita. Non ero mai stato così lucido, così interamente "dentro" me stesso. Chi era il poeta che
aveva detto: "... sono un grumo di sangue estirpato da tenaglie roventi..."? Un italiano, forse...
Aveva ragione, per capire davvero occorreva morire... Quante donne avevo avuto... Storie di
una notte piena di passione, o lunghe e tormentate finite in noia ed.. Quanto male avevo fatto,
mio Dio, quante lacrime mi ero lasciato dietro alle spalle. Perfido come un demonio non mi
bastava un corpo... No, io volevo l'anima delle mie compagne e poi la schiacciavo in un angolo
buio Ora, nel mondo di Hela, ero costretto a guardare e vedevo un uomo solo su una strada
piena di errori, un uomo che non era un cavaliere antico ma solo un gretto mendicante, un ladro
di emozioni...
La mia intelligenza era una prostituta che vantava la sua verginità di giorno e di notte vendeva
sé stessa negli angoli bui per due soldi da chiunque lo volesse. Mi ricordavo tutto. Tutta la mia
vita scorreva come un fiume traboccante dagli argini, con le acque piene di rifiuti, ed io non
potevo arrestarne la corsa. Episodi cancellati che rivelavano quanto io ero solo un piccolo,
inutile uomo tutto volto a stupire sé stesso mi afferravano la gola e stringevano senza pietà,
la stessa che non avevo mai avuto per nessuno. Mio Dio, questo portava la morte. Trovarsi
davanti a sé stessi senza nessuna possibilità di difendersi. Forse tutti lo sapevamo, e per
questo ne avevamo tanto terrore...
Non potersi mentire, non potersi più nascondere...
E mille volte peggiore era la pena da scontare per chi come me non aveva fatto altro che
giudicare il mondo e Dio stesso. Era un dolore allucinante quello che saliva dalla bocca dello
stomaco e scardinava la testa, mentre una specie di spada fiammeggiante mi si piantava
lentamente negli occhi.
Cominciai a correre urlando, cercando qualcuno che mi aiutasse. Ma eravamo solo io e il mare,
il mare che non poteva accorgersi di me. Completamente nudo mi gettai nell'acqua,
cominciando a lottare come un pazzo contro quelle onde altissime e fra la nebbia che era
scesa improvvisa.
Cento volte affondai, cento volta tornai a galla senza fiato. Pieno di terrore.
Poi, una spinta tremenda mi lanciò a riva scagliandomi sulla sabbia, dove restai immobile con lo
sguardo sul cielo. Ero passato dalla gioia al dolore, entrambi alla massima intensità possibile, in
pochi istanti. Ne ero uscito provatissimo, ma con un grande desiderio di ricominciare la mia
vita. Avevo voglia di equilibrio, di serenità. Di tenere una donna per mano e camminare con lei
per le strade di Coolfield, magari con un figlio da portare sulle spalle. Volevo amici da trattare
con rispetto, senza sentirmi mai superiore a loro. E volevo parlare di Hengel con quella rossa
insegnante di filosofia che mi aveva invitato a casa sua. Potevo ancora farcela! Potevo vivere
da uomo fra gli uomini, accettando tutto quello che di me non sopportavo. Anch'io ero debole,
anch'io avevo paura, anch'io ero come tutti gli altri. Ed ora avevo finalmente capito che vivere
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significava essere sé stessi, sempre e comunque. Non serviva a niente essere grandi uomini,
bastava vivere senza rifiutare nulla.
Ma soprattutto, avevo capito cosa davvero era l'amore...
"Non ti sei comportato male, ho visto milioni di uomini davanti a sé stessi, oltre il Guardiano
della Soglia, perdersi nello spazio. Ora non sono più neppure in grado di riconoscersi come
anime, e solo Dio potrà un giorno richiamarli". Mi voltai, Hela stava sorridendo. Scoppiò a
ridere al mio tentativo di coprirmi il corpo nudo con le mani. "Non ti preoccupare, non ho
intenzione di sedurti. Il sesso non fa parte delle mie competenze..."
Anch'io sorrisi, alzandomi in piedi.
"E' stato terribile e meraviglioso insieme. Non so come ringraziarti per questo regalo, Hela."
"Basterà che quando verrò a trovarti tu mi accolga senza paura, dandomi la mano. Questo solo
desidero dagli uomini, non il loro terrore che non merito. Vedi, io sono un sogno di Dio. Nel
settimo giorno della creazione, il suo giorno di riposo, dalla sua onnipotenza uscì l'immagine
che non aveva ancora trovato per l'universo, quella dell'equilibrio. Si era stancato moltissimo
nel cercare la maniera di lasciare agli uomini il libero arbitrio, sapendo che non ci poteva
essere giustizia negli esseri imperfetti. Sapeva che nel suo mondo doveva esistere anche il
male, la sopraffazione, l'odio, l'inganno, e che non poteva porci rimedio se non imprigionando
gli uomini, cosa che non voleva fare. Così nacqui io, mentre dormiva sognando il tuo mondo in
perfetta stabilità. E quando si risvegliò, si accorse che tutto era completo. Io, Arthur,
rappresento la giustizia assoluta, perché non ho padroni. E quando colpisco è perché così deve
essere, perché così l'equilibrio del creato vuole. So che non puoi capire quando vedi bimbi
morire e vecchi crudeli continuare ad esistere, ma questa è una parte che non devo essere io a
spiegarti. Credi, però, perché la fede è la sola cosa che non puoi mai permetterti di perdere."
Affascinato guardavo quella splendida creatura immobile fra i fischi del vento, il suo mistero
impenetrabile così semplice e così vero. Così vicina a Dio, così parte di Lui.
"Non ti dimenticherò mai, Hela, non scorderò chi sei veramente. E so finalmente cosa devo
fare, so dov'e la verità." Mi avvicinai, l'abbracciai forte. Nei suoi splendidi occhi, c'era
qualcosa che sembrava assomigliare ad una lacrima...
La luce era terribile. Una specie di palla di fuoco alla quale le palpebre chiuse non potevano
opporsi. Poi cominciai a sentire delle voci sempre più distinte.
"Staccate tutti i contatti con il terminale, attenzione alle ventose nella zona cranica."
"Ritmo cardiaco stabile, nessuna alterazione nel diagramma cerebrale."
"Tra pochi istanti sarà completamente sveglio, iniettate la soluzione di sali minerali."
"Temperatura 35,8°, pressione 75 - 125. Tutti i valori si stanno assestando sulla normalità. Ph
sanguigno regolare, tutto OK."
Socchiusi gli occhi, comincia a intravedere il volto di Deckett chino su di me. Sorrisi. Poi
apparvero gli assitenti e molte altre persone. Sentivo le membra piene di scariche elettriche,
cominciai a muovere lentamente il collo in senso rotatorio.
"Bentornato, ma non parlare adesso- disse Deckett che si era aggiunto al mio capezzale dobbiamo prima farti una serie completa di esami, poi ti daremo un blando stimolante."
La sua mano si era infilata nella mia, distintamente la sentivo tremare.
"Per la miseria - mormorai con la bocca completamente impastata - mi sembra di aver dormito
500 anni."
"Esattamente sei rimasto incosciente per 2 ore, 24 minuti e 26 secondi, ma hai dormito nella
maniera più profonda che mai essere umano abbia provato. Credo che avrai dei problemi per
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qualche tempo a riposarti completamente con le normali 6 ore di sonno - rispose ridacchiando
- probabilmente anche la tua attività sessuale ne risentirà un po'."
"Io ho visto..."
Mi interruppe immediatamente, mettendomi una mano sulla bocca.
"Non devi parlare adesso, prima dobbiamo essere certi che tu abbia superato completamente
lo shock fisico e mentale.
Dopo ci racconterai del tuo viaggio, avremo tutto il tempo."
Mi caricarono su una barella e mi spinsero per un lungo corridoio fino ad una stanza dove mi
aspettava una schiera di personaggi in camice bianco. Mi fecero numerosi prelievi e
cominciarono a massaggiarmi completamente. Pian piano ritornavo padrone del mio corpo,
anche le punte delle dita ora rispondevano quasi immediatamente ai miei comandi.
"Tutto a posto, lei è perfettamente sano. Probabilmente si sentirà un po’ imbambolato per
qualche ora, e potrebbe avvertire ronzii e cali di vista istantanei. Sono fenomeni normali per
chi ha dormito così profondamente come lei. Ora la riportiamo nella sua stanza; cerchi di
concentrarsi e di riprendere confidenza con il mondo. Presto tornerà come nuovo."
Mi scaricarono elegantemente sul letto dopo avermi iniettato un liquido denso color marrone.
Ero già lucidissimo, ricordavo ogni cosa.
E soprattutto ero "diverso", con una nuova consapevolezza di me stesso.
Davvero era capitato , non si trattava di un sogno. Quel viaggio incredibile e pazzesco aveva
avuto successo.
Da oggi il mondo assumeva una nuova forma, ed io sarei stato il pioniere del cambiamento.
Presto anche il mondo della morte, non più terreno inesplorato e misterioso, sarebbe
diventato fonte di studio nelle università di tutto il mondo. E la filosofia avrebbe lasciato
spazio alle teorie matematiche.
Eppure...
Avrei dovuto essere pieno di esaltazione, invece c'era qualcosa... qualcosa che mi disturbava.
Rivedevo il viso di Hela, ma soprattutto quella lacrima luccicare nei suoi occhi. L'ultima
immagine di lei, prima del ritorno nel mio mondo.
L'interfono trillò, riportandomi al presente.
Dopo qualche istante la porta si aprì e comparvero tutti i responsabili del laboratorio e altri
che non avevo mai visto. Tutti lì, a pendere dalle mie labbra. Tutti ad aspettare il racconto
della mia esperienza, per gettare Hela in pasto al mondo.
Solo Deckett era stranamente lontano, con il volto pallido se ne stava rintanato su una
poltrona a qualche metro dal grande tavolo nero e lucido dove eravamo seduti. La voce mi uscì
da sola. Senza che fossi in grado di controllarla. "Signori, mi dispiace ma non è successo nulla.
Non ricordo assolutamente niente, se non una specie di sogno vagamente erotico. Non sono
certo andato nel mondo della morte come pensavate."
Il mormorio crebbe a dismisura, fino a diventare un ammasso di voci urlanti.
"Non è possibile, cercate di concentrarvi, tutto ha funzionato perfettamente. L'illusione della
morte che vi abbiamo fornito era perfetta nei minimi dettagli."
"Ne sono certo - risposi - solo che non ho incontrato niente che assomigliasse a mondi
misteriosi. Vi ripeto, nessuno è venuto a visitarmi oniricamente. Nessuno”
"Forse siete ancora confuso , magari non siete ancora in grado di ricordare..."
"No, mi dispiace, ne sono certissimo.”
"4 milioni di dollari, 4 milioni di dollari - cominciò a urlare un tipo in giacca e cravatta vicino
all’infarto - soldi buttati per nulla. Non avremo mai più fondi da destinare alle ricerche sulla
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realtà virtuale."
Poi, voltandosi verso Deckett che aveva intanto ritrovato colore e presenza : "Dottor
Gooswell, lei ha scelto questo mentecatto dicendomi che era l'elemento più indicato per
questo esperimento. Cosa mi dice?"
"Le assicuro che tutti i parametri indicano e indicheranno sempre lui come perfetto per
realizzare la nostra ricerca. Può controllare in qualsiasi momento i dati. Penso invece che
abbiamo creduto in qualcosa di irrealizzabile, ma valeva la pena tentare. Comunque non si
preoccupi per le spiegazioni che dovrà dare al fondo governativo, sono abituati ai fallimenti. Io
sono perfettamente a conoscenza di tutti i dettagli di un progetto spaziale da 85 milioni di
dollari andato completamente perduto e per il quale nessuno ha battuto ciglio. Inoltre questo
centro è troppo importante perché qualcuno lo metta in discussione. Ci penserò io a sistemare
ogni cosa a Washington."
Cominciò a volare qualche insulto, qualcuno non fu troppo tenero nei miei riguardi ma evitai
accuratamente di reagire. In fondo li stavo derubando di qualcosa che per loro era stato la
vita stessa. Ma non potevo permettere che Hela e il suo mondo diventassero oggetto di
vivisezioni cibernetiche e di viaggi turistici di ricconi annoiati. La sola cosa che potevo fare
era conservare il segreto su quella incredibile esperienza e cercare di darne qualcosa agli
altri. Ma far invadere quel mondo arcano... no, non era possibile. Non era giusto. Il sogno di
Dio, il settimo giorno della creazione, doveva restare un mistero fino all'ultimo attimo di ogni
essere umano. Dio poteva decidere se e quando aprire le porte, non certamente Arthur Zane.
Mi alzai e uscii dalla sala, mentre tutti si accapigliavano ferocemente. Tutti meno Deckett. Lui
mi seguì, mi raggiunse e prese sottobraccio.
"Ho avuto paura, anzi terrore che tu parlassi. Di aver sbagliato a sceglierti. Ma dimmi, è
davvero così bella come l'ho sempre immaginata?"
Lo guardai. Quel vecchio professore aveva capito tutto, molto prima di me.
"Bella? Molto di più, Alex. Lei e il suo mondo sono qualcosa di inimmaginabile. Talmente
perfetti da... uccidere."
Scoppiammo a ridere, abbracciandoci forte.
"Andiamo nella tua stanza, Arthur. Voglio sapere tutto. E non devi tralasciare neanche un
particolare, tutto quello che la riguarda voglio saperlo in questa vita. Credo di averlo meritato,
dopo tanti anni d'amore."
Ci allontanammo lungo il corridoio, mentre dalla sala le urla dei "traditi" sfondavano le mura. Il
giorno dopo avrebbero estratto il microchip e tutto sarebbe finito nell’archivio delle
operazioni fallite, solo io e Deckett conoscevamo la verità. Per sempre. (Guglielmo Giusti)
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Un racconto al giorno. Giorno 22
Un giorno, agli inizi dei tempi, Dio ed il Diavolo vollero fare una scommessa, quanto un loro
emissario sarebbe riuscito a resistere in un deserto.
“ Io scommetto quanto vuoi,” fa il Diavolo, “ Che i tuoi angeli non potrebbero resistere più di
un mese in un deserto.”
“ Un mese? Accetto la scommessa, ognuno di noi due abbandonerà un suo emissario nel bel
mezzo del deserto.”
“ Va bene qualsiasi deserto?”
“ Basta che non ci sia nulla nelle vicinanze, come per esempio un centro abitato da umani.”
Il Diavolo a questo punto accettò la scommessa.
Dio prese un suo angelo e lo abbandonò nel bel mezzo del deserto africano.
Il Diavolo invece, che pensava di saperne una più di se stesso, abbandonò un suo demone tra i
desolati ghiacci del Polo Nord.
“ Qui c’è deserto, ma nello stesso tempo c’è anche molta acqua, il mio emissario non avrà
difficoltà a passare qui un mese, penso di avere la vittoria in pugno.”
Dopo un mese, Dio ed il Diavolo si incontrano di nuovo.
“ Andiamo pure a vedere chi di noi due ha vinto quella scommessa.” Fa il diavolo.
I due scendono sul deserto africano, e trovano l’angelo che strisciando per terra sfinito, tutto
disidratato, mormora:
“ Acqua...Datemi dell’acqua...”
“ Non mi sembra in gran forma il tuo angelo.”
“ Vedremo il tuo emissario allora.”
I due allora si dirigono al Polo Nord.
Lì trovano il demone, che trascinandosi disperatamente per terra, mormora:
“ Fuoco...Datemi del fuoco....Ve ne prego!”
Subito dopo, Dio tornò nel suo celeste palazzo, si diresse verso il suo ufficio, quando un
angelo, con il numero di matricola 117, si presentò al suo cospetto dicendo:
“ Signor direttore, abbiamo un piccolo problema!”
“ Che genere di problema?”
“ Il prototipo di primo uomo che abbiamo creato come abitante del pianeta Terra....Quel tale
che abbiamo chiamato Adamo, ha chiesto se potiamo...”
“ Potiamo?”
“ Dal verbo potere: Io poto, tu poti, egli pota, noi potiamo voi potate essi potono...”
“ Si dice possiamo, non potiamo, te lo dico io che sono il Verbo vivente: IN PRINCIPIO ERA IL
VERBO, POI VENNE IL COMPLEMENTO OGGETTO!!”
“ Scusate, volevo dire che ha chiesto se possiamo, creargli una compagna... una donna.”
“ Una donna??” Tuonò Dio meravigliato,“ Cosa sarebbe mai una donna?”
“ E proprio quello che ci siamo chiesti tutti...signore, abbiamo controllato anche negli elenchi
delle creature appena create, e sotto la voce che inizia per don, abbiamo donnola, per fare un
esempio...Ma un essere che si chiami donna,per il momento non esiste, non lo abbiamo ancora
creato.”
Dio si distese più comodamente sulla sua poltrona, quindi accendendosi una sigaretta chiese:
233
“ Allora? Dove sta il problema?”
“ Il tale...Adamo insomma...”
“ Si chiama Adamo Insomma?”
“ Ma no signore, si chiama solamente Adamo...Comunque stavo dicendo, che questo tizio di
nome Adamo, pur di vedere realizzata la sua richiesta, ha già sacrificato una ventina di poveri
animali indifesi.”
“ Cosa!!” Esclamò Dio impallidendo e sobbalzando in piedi dalla poltrona.
“ Proprio così Signore...Per fare un esempio animali come l’unicorno sono già estinti...Signore.”
Dio rimase per qualche attimo a guardare l’angelo negli occhi, il quale si sentì subito penetrare
da quello sguardo gelido, ed abbassando gli occhi chiese:
“ Cosa possiamo fare Signore? Lo inceneriamo?”
“ Abbiamo fatto tanta fatica per creare gli animali che ora popolano il pianeta Terra, ed ora
uno stupido omuncolo li uccide, li sacrifica, li sta immolando, solo per vedere realizzato un suo
desiderio? MA DOVE SIAMO ARRIVATI?”
“ Proprio così signore...Ma non si arrabbi con noi...La prego.”
“ Ricordate per esempio quando abbiamo creato i primi volatili?”
“ Si Signore, avevamo provato con un coniglio, mi sembra di ricordare.”
“ Si, era il coniglio, lo avevamo scelto tra tutti gli animali proprio perché aveva quelle orecchie
lunghe...Ma fu un autentico disastro.”
“ Infatti, quando lo abbiamo messo in aria per volare, abbiamo provato col fargli sventolare le
orecchie....Ma niente da fare, questo precipitava sempre, ed andava a sfracellarsi sul terreno
sottostante.”
“ Allora, io che sono Dio ho detto: Proviamo a fargli ruotare le orecchie come se fossero le
pale di un elicottero.“
“ Così infatti abbiamo provato, anche se non abbiamo mai capito cosa fosse un elicottero, ma
le orecchie della povera bestia gli si attorcigliavano, con grande fastidio.”
“ Così abbiamo dovuto lasciar perdere, sospendere tutti gli esperimenti col coniglio, e creare
gli animali volanti dal nulla....Come gli uccelli per esempio.”
“ E la cosa ha funzionato...Signore, ma ora che facciamo? Basta un suo ordine perché un
fulmine parta alla volta di Adamo e lo incenerisca, lo abbiamo già pronto...Signore.”
Dio rimase per un attimo a contemplare con un sorriso lucente l’angelo, l’aver vinto la
scommessa con il diavolo lo aveva messo di buon umore almeno per quel giorno.
La luce emessa da Dio era talmente forte, che l’angelo si mise un paio di occhiali da sole sugli
occhi.
“ Ma perché voi angeli mi dovete sempre dipingere come un essere crudele, un vendicativo,
un’Attila, un Nerone, non riesco proprio a capire il motivo, io sono un Dio giusto.”
“ A parte quando si tratta di pagarci lo stipendio.”
“ COSA??”
“ Stavo scherzando...Signore.”
“ Anche a Lucifero piaceva scherzare, anzi era un gran burlone, era arrivato addirittura ad
infilare un petardo fumogeno sotto la mia poltrona...Ora si trova a spalare carbone negli
infuocati gironi infernali.”
“ Troppo buono...Signore.”
“ Troppo buono si...Quindi niente incenerimenti per questa volta.”
“ Sara fatta...”
“ Ed ora? Chi è questa Sara che s’è fatta?”
234
“ Volevo dire sarà fatta....Cioè quello che ha appena detto sarà fatto.”
“ Piuttosto, tornando al discorso riguardante quel tipo che si trova sulla Terra...Quel tale,
Adamo, perché non accontentarlo?”
“ Ma signore, noi non sappiamo nemmeno cosa sia una donna, non è nel progetto.”
“ Ed allora inseriamola no? Sarà una nuova creatura da creare.”
“ Ma ci sono dei problemi tecnici.”
“ Problemi tecnici? di che tipo?”
“ Per esempio abbiamo terminato il fango speciale con cui plasmare le creature, lo abbiamo
usato tutto per creare i volatili.”
“ Tutto?”
“ Signore...!”
“ Proprio tutto lo avete usato?”
“ Ebbene, forse no, una manciata c’è rimasta, ma con quella al massimo possiamo creare solo
una gamba della nuova creatura.”
“ Che problemi ci sono? Si crea e si da vita ad una gamba soltanto.”
“ Ma il problema e che Adamo non sarà per niente soddisfatto, lui vuole una creatura più ricca
di dettagli.”
“ Insomma Adamo...Dettagli, ma io quello lo incenerisco, la mia infinita bontà sta giungendo al
limite.”
“ Ci sarebbe un modo per salvare capra e cavoli, soprattutto la capra perché si trova già sulla
pietra sacrificale.
“ Per i cavoli invece...più niente da fare, ieri pomeriggio Adamo s’è fatto un ottimo stufato, lo
so perché il suo profumo saliva fino qui...”
“ Nulla si nasconde al vostro sguardo....Signore.”
“...E mi sono auto- invitato a cena ieri sera proprio da Adamo, sai com’è, sono vegetariano io,
ma comunque lo sai benissimo che io sono onnipresente.”
“ Si, proprio come il Grande Fratello.”
“ Comunque? Stavi dicendo?”
“ Ci sarebbe, in via sperimentale s’intende, la possibilità di creare una nuova creatura
utilizzando pezzi di ricambio presi da un’altra appena creata.”
“ Davvero? Chi ha avuto questa idea memorabile?”
“ Un angelo di nome Frankestain.”
“ Fattegli avere una promozione, ad Arcangelo.”
“ sarà fatto... signore.”
L’angelo si fermò un attimo per prendersi l’appunto sull’ordine divino appena ricevuto:
RICORDARSI di PROMUOVERE FRANKESTAIN DA SEMPLICE ANGELO, AD ARCANGELO.
Dio attese un momento, circa dieci mesi di tempo terrestre, poi tornò a chiedere rivolto
all’angelo:
“ Allora? Posso avere dettagli?”
“ di tagli ce ne saranno tanti.”Rispose tranquillamente l’angelo continuando a scrivere.
“ Dettagli, ho detto DETTAGLI!!” Tuonò Dio.
“ Mi scusi Signore...Non avevo capito: comunque l’idea è la seguente, prelevare un pezzo del
corpo di adamo, ridurlo in fango speciale mediante esperimenti genetici, e con quello plasmare
la nuova creatura. Si pensava ad un braccio.”
“ No, non mi piace, il progetto è bocciato!”
“ Ma perché Signore?”
235
“ Adamo il monco, non c’è lo vedo proprio, e poi senza un braccio è antiestetico: niente da
fare.”
“ Ma allora...Potremo utilizzare un dente...Le va bene un dente?”
“ Troppo piccolo, ne verrebbe fuori una creatura nana, Adamo sarebbe costretto a restare
curvo sulla schiena, e la scoliosi....No, non ne parliamo.”
L’angelo non sapeva proprio dove sbattere la testa, anche perché le pareti erano composte da
nubi.
“ Un’unghia? Magari del piede destro? No?”
“ Perché non utilizzare una costola?”
“ Una costola...Signore?”
“ Ma si, Adamo non se ne accorgerà neanche, orsù quindi levategli una costola: FATELO
SUBITO!”
“ Con o senza anestesia signore?”
“ Ma senza naturalmente, siamo o non siamo uomini duri? Che non si piegano al dolore?”
In quel momento dalla Terra si levò un grido agghiacciante.
L’angelo: “ Bene signore, operazione eseguita con successo.”
“ Si, ma non so perché mi fischiano le orecchie: dimmi un numero.”
“ Uno...Signore?”
“ Uno? Vediamo con questo numero mi viene in mente solo una persona: Adamo.”
“ Comunque stiamo già plasmando la nuova creatura, presto sarà bene che formata,
soprattutto bella formata, anzi ben formata.”
“ Sono contento di sentirtelo dire, ogni cosa che qui viene creata dev’essere perfetta.”
“ Sarà fatta la vostra volontà...Signore, ma siamo sicuri poi che ad Adamo le piacerà?”
”Faremo così, se la nuova creatura non dovesse piacere ad Adamo, siamo sempre in tempo a
distruggerla.”
Nel frattempo Adamo giaceva in preda a dolori lancinanti nella sua caverna, si teneva una mano
premuta sul corpo, all’altezza del punto dove un tempo si trovava una costola, ed intanto
pensava:
“ Se trovo chi mi ha combinato questo scherzo del cavolo....Lo prendo a bastonate.”
Era così in preda a questi pensieri, ed accecato dal dolore, da non accorgersi della presenza
del signore:
“ Adamo, come va tutto bene?”
“ Cosa vuoi vecchio mio,ho un terribile dolore alle costole, stavo tranquillamente dormendo
quando improvvisamente ho sentito un terribile dolore, mi sono svegliato e....Guarda pure!”
Adamo scoprì una lunga ferita suturata da poco.
Dio facendo finta di niente si mise a fischiettare un motivetto, soprattutto dopo aver dato
uno sguardo alla clava che si trovava ai piedi del giaciglio.
“ Ma a proposito, cosa siete venuto a fare da queste parti?”
“ Sono venuto a vedere come stavi, ed a portarti un mio personale omaggio.”
Detto questo, Dio fece entrare nella caverna una nuova creatura, che si muoveva camminando
su due lunghe zampe e con tanto di fiocchettino rosso sulla testa.
Adamo rimase allibito alla vista di quell’essere:
“ Ma che cos’è quella cosa?”
“ Ma la nuova creatura naturalmente, l’abbiamo battezzata donna come tu volevi ha anche la
verginità come certificato di garanzia”
236
“ Ma no, io la donna non me l’immaginavo così, allora non mi sono spiegato bene.”
“ Non ti sei spiegato bene?”
“ La donna, doveva avere una proboscide ed essere piccola e pelosa come un gatto, questa
invece non mi piace, è piena di difetti!”
“ Difetti??”
“ Ma si, per fare un esempio: cosa sono questi rigonfiamenti che ha sul petto?”
“ Ce lo siamo domandato anche noi lassù, ma poi ci siamo decisi di chiamarlo seno, o se
preferisci tette.”
“ E poi a questa creatura le manca un pezzo...”Dice Adamo abbassando un po' gli occhi.
“ E stato perché non avevamo abbastanza materiale per crearglielo.”
“ E va bene, anzi non va per niente bene, quest’essere non mi piace, non lo voglio, mi dispiace!”
A quelle parole, l’ira di Dio esplose in tutta la sua potenza, l’intero globo terrestre fu
sconquassato da una potente scossa sismica, si racconta che fu proprio a causa di quel
terremoto che scomparve l’antica civiltà di Atlantide.
Adamo tutto spaventato si appoggiò ad una parete della caverna, mentre la voce di Dio
tuonava:
“ MA COME? UNO SI DEVE FARE LETTERALMENTE IN DUE PER ACCONTENTARE UN
AMICO, PER POI SENTIRSI DIRE CHE E’ STATO TUTTO INUTILE??”
Fuori lampeggiò per qualche minuto, anche se era sereno.
“ E va bene.”
“ Si, l’abbiamo chiamato proprio Eva, come hai fatto ad indovinare?”
“ Ma quale Eva, io ho detto e va bene, cioè va bene la prendo, me la tengo, così almeno faccio
buon viso a cattivo gioco, che poi dicendoci la verità: quello strano gonfiore che ha sul petto
che avete battezzato tette...”
“ IO personalmente preferisco seno.”
“ Beh, come si chiama, insomma stavo dicendo che non è poi male, anzi può passare, rende la
creatura, la donna abbastanza attraente. In quanto poi alla mancanza del coso, all’affare in
mezzo alle gambe, si potrebbe...”
“ Si??”
“ Bene, una foglia di fico, e non se ne parla più, nessuno si accorgerà di quella orrenda...Non mi
viene la parola.”
“ Spaccatura? Voragine tra le gambe? Deformazione?”
“ Si, l’hai detta, con una bella foglia di fico nessuno si accorgerà di quella deformazione che ha
tra le gambe.”
“ Va bene, allora io tornerei nel mio regno celeste, vi lascio soli, così potrete fare conoscenza.”
Detto questo, Dio se ne andò, lasciando per la prima volta l’uomo e la donna soli, di fronte uno
all’altra.
Lei guardò negli occhi lui.
Lui, cioè Adamo, ricambiò lo sguardo con un sorriso.
E fu così che per il genere umano, ebbe inizio la grande fregatura.
Adamo: “ Eppure, io la donna la volevo coperta da una folta pelliccia, e con la proboscide.”
Nel frattempo Dio era rientrato nel suo celeste impero, entrò nel celeste atrio del suo
palazzo celeste, prese un ascensore celeste, attraversò un lungo corridoio celeste, di una
lunghezza di circa venti chilometri, infine entrò nel suo personale ufficio celeste, con la
targhetta celeste, con le lettere celesti che formano la scritta DIRETTORE DELL’ALTO DEI
237
CIELI, appena fuori dalla porta celeste.
Dentro all’ufficio celeste, i mobili erano celesti, le poltrone celesti, e la scrivania anch’essa
celeste.
Appoggiato su un mobile celeste, c’era un acquario celeste, con un pesce che dovrebbe essere
rosso ma che invece era....Celeste.
Sopra la celeste scrivania era appoggiata una bella mela, la quale era rossa ma non celeste.
Sorpreso da quel frutto appoggiato sulla scrivania, Dio fece chiamare un tecno-angelo del
reparto , per avere informazioni tecniche in merito.
Un angelo con il numero di matricola, 13, fece la sua letterale comparsa a solo dieci secondi
dopo la chiamata divina:
“ Mi ha fatto chiamare...Signore?”
“ Si, ma sei in ritardo di cinque minuti!”
“ Il traffico...L’ora di punta...”
“ Certo, sicuro, ma vediamo di essere più puntuali e precisi la prossima volta: CAPITO??”
L’angelo fece timidamente di si con la testa, l’aureola vibrò leggermente sul suo capo.
“ Bene, ora subito al dunque, questa mela, cosa ci faceva sulla mia scrivania?”
“ Si tratta di un esperimento di santa Grimilde...Signore, è una mela contro l’immortalità!”
“ Contro l’immortalità? Perché e stata creata quindi?”
“ Si tratta di un rimedio contro un piccolo errore che abbiamo noi tecno-angeli, scovato nella
creazione, in particolare in quella legata alla creazione dell’uomo.”
“ Quale errore?”
“ Ma l’immortalità Signore...L’uomo è l’unico essere al mondo ad essere immortale.”
“ Ed allora? Mi sembra che l’idea di una creatura immortale l’avevo avuta io.”
“ Certo signore, ma non è affatto una bella idea, quindi bisogna rimediare, e subito!”
A quelle parole il volto di Dio si fece cianotico:
“ COOSA!!”
In quel momento si formò uno spaventoso vortice galattico, l’intero universo collassò, mentre
nell’ufficio divino la temperatura scese di parecchi gradi.
L’angelo per resistere al freddo ed al gelo indossò due pellicce di orso, una sopra l’altra, il suo
termometro già segnalava meno cinquanta gradi sotto lo zero.
Un’orda di angeli, con tanto di camice bianco ed una croce rossa, si precipitarono all’interno
dell’ufficio divino, trascinandosi dietro un recipiente di almeno dieci litri, pieno di un potente
calmante.
Quando Dio calmò la< sua divina furia, riprese a dire:
“ IO ho deciso di rendere l’uomo immortale, ho sempre desiderato avere una creatura sulla
Terra, che mi rappresenti in tutto e per tutto, un essere fatto a mia immagine e somiglianza,
ed io sono Dio, io sono...IMMORTALE!!”
“ Si signore, ma ne resterà soltanto uno, cioè lei.”
“ Solo io?”
“ Purtroppo si, perché lei signore è unico,< io sono il signore tuo dio, non avrai altro dio
all’infuori di me>, dice sempre, quindi lei solo merita di restare l’unico immortale.”
“ Ma questo e puro egoismo.”
“ No Signore, e pura saggezza, l’uomo non può essere immortale.”
“ Ma perché?”
“ Perché l’uomo può generare altri suoi simili, e sarà così per sempre, nei secoli dei secoli.”
“ Ma come può l’uomo generare altri suoi simili, senza l’ausilio di una parte femminile, che
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fortunatamente fino ad ora non è stata ancora creata?”
“ Purtroppo la parte femminile dell’uomo è stata creata.”
“ Cosa? E quando mai?”
“ Quando e stata creata quella assurda creatura...La donna.”
“ La donnola?”
“ No, ha capito bene, la donna, quella creatura che oggi stesso ha consegnato ad Adamo.”
“ Ha quella, ma si tratta solo di una creatura nuova, appena creata su richiesta, per fare
compagnia ad Adamo.”
“ Creata su richiesta di Adamo vero? Scommetto che si sentiva molto solo povero uomo.”
“ Volete forse dire...Insinuate forse affermare che Adamo ci ha...”
“Ci ha preso in giro signore, tutti e quanti, lui non voleva avere solo una creatura che gli
facesse compagnia, in tal caso gli bastava prendere un cane od un gatto, da tenere nella sua
caverna...”
“...Ma in realtà desiderava una metà femminile con cui procreare altri suoi simili.”
“ Caspita, ciò vuol dire solo una cosa...Che quel figlio di immortale m’ha fregato.”
“ Certo, ma non è tutto, essendo immortale, anche la sua discendenza sarà immortale,
quindi....”
“ Per tutte le palle cosmiche e rotanti....Ora ho capito dove sta tutto il casino!!”
“ Fra qualche migliaio di anni, non basterà tutto l’universo per contenere tutta la discendenza
dell’uomo, di Adamo;”
“ L’uomo sarà troppo largo per l’universo....Viceversa l’universo sarà troppo stretto per l’uomo:
cosa fare?”
“ Ma c’è la mela di Santa Grimilde Signore, con la quale possiamo provare a sistemare le cose,
il problema sarà farla mangiare dall’uomo.”
“ Non c’è problema, io che sono Dio, so dove abita Adamo, ci dividiamo in tre squadre: Una
costringerà con la forza Adamo a mangiare la mela, un’altra dovrà tenere ferma la nuova
creatura, la donna che lui ha battezzato Eva, l’altra squadra invece dovrà restarsene fuori
dalla caverna per vedere se qualcuno sta passando nei paraggi proprio in quel momento.
Una cosa veloce, niente testimoni, la perfezione è il mio motto!”
“ No, come piano d’azione non ci piace, ci sembra troppo violento, sullo stile della mafia.”
“ Ed ora Che cos’è questa mafia?”
“ Una cosa che verrà creata nel corso dei prossimi secoli dal genere umano.”
“ Ed è cosa buona?”
“ No signore....Si tratta di cosa schifosa e repellente.”
“ Io che sono Dio, ho fatto solo cose buone, quindi l’uomo non è e non sarà mai a mia immagine
e somiglianza: Fategli mangiare quella benedetta mela, in un modo o nell’altro!”
“ Un metodo ci sarebbe....Signore!”
Un sorriso diabolico comparve in quel preciso momento sul volto dell’angelo.
“ Non mi piace, quando fa così!” pensò Dio.
Il giorno dopo, circa un mese del tempo terrestre, il più potente ed infido dei demoni partiva
alla volta della Terra, portando con se una mela.
Si trattava del serpente, o meglio del biscione infernale, il suo compito era ingannare la donna
in modo che fosse lei a costringere l’uomo a mangiare la mela speciale che avrebbe reso il
genere umano da immortale a semplice mortale.
Una mela speciale...Per una missione speciale, piena di adesivi con stampati dei divieti,
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appiccicati alla buccia:
NON TOCCARE QUESTA MELA
DIVIETO ASSOLUTO DI MORDERE
PERICOLO di MORTE
CHI TOCCA QUESTA MELA DIVENTA MORTALE
Intanto nell’Eden, che non era un cinema a lucci rosse, ma così era chiamato il paradiso
terrestre, Eva, la nuova creatura, si era messa a raccogliere la frutta, per preparare una
macedonia ad Adamo di cui era ghiotto:
Fragole, banane, ciliegie, capperi, zucchine, cetrioli, peperoncino, olive, uova...
Ma ad un certo punto arrivò il serpente, era un biscione così enorme che a confronto quello di
Adamo era grande un quarto.
Il serpente per attirare l'attenzione di Eva si mise a cantare: " Cogli la prima mela, cogli la
prima mela..."
Poi, visto che Eva non lo degnava di uno sguardo, le chiese:
" Che fai?"
" Raccolgo i frutti."
" E perché non raccogli anche le mele?"
" E tu chi sei...Di che t'impicci?"
" Sono il diavolo, sotto mentite spoglie, come l'agente 007 in missione."
" Quello che fa le pentole e non i coperchi."
" Ecco appunto, ma secondo me dovresti coglierle le mele, sai come si dice: una mela al giorno
leva il medico di torno."
" Ma Dio ha detto..."
" Lascia perdere quel povero Cristo. Coraggio Eva, vendimi l'anima è ti mando alle stelle."
" Spero invece di non finire nelle stalle."
Così Eva preparò la macedonia, e la diede a mangiare ad Adamo, perché Diabolik in quel
momento aveva un po' di mal di pancia.
E appena Adamo mangiò le mele che erano dentro, vide che Eva era nuda, fu preso così da
grande eccitazione sessuale, e nonostante le crisi di gelosia di Diabolik, iniziò ad inseguirla per
tutto il paradiso terrestre allo scopo di poterla violentare, visto che non portava i pantaloni.
Mentre l'inseguiva Adamo ululava: " Vieni vieni, ancora ancora..."
A quel punto Dio vedendo tutta quella scena vergognosa ai suoi occhi onnipotenti, si
scandalizzò molto, così li chiamò tutti e due al suo cospetto, Diabolik era appena andato ad
organizzare una rapina.
Dio si rivolse a Eva e le chiese:
" Perché hai disubbidito ai miei ordini."
" Il serpente mi ha detto di cogliere le mele."
" Ma porca Eva, le mele erano al viagra."
" Ed ora cosa si fa?"
" Quel pervertito, lui lo sapeva.Ma ora tu donna partorirai nel dolore."
" Devo anche... partire?"
" Si,devi partire,e durante il viaggio partorire. Ora vattene, e mandami qui quel disgraziato di
Adamo, maledetto il giorno che t’ho creata!”
240
" Non so dove sia."
" Si trova in quella radura, con tanto di bava alla bocca, sta inseguendo una zebra."
Poi scacciata Eva si rivolse ad Adamo:
" Adamo, mi meraviglio di te!”
“ Ma perché signore? Ti ho forse deluso?”
“ In verità ti dico, tu hai voluto la creazione della donna, quindi la responsabilità di quello che
è successo e tutta tua!”
“ Non facciamo i scarica barili ...Signore!!”
Ma il Signore non lo stava ad ascoltare:
“ Tu uomo lavorerai la terra col sudore!”
“ Ma signore, tutto questo casino per una mela!”
“ Adamo, e il principio che conta, tu hai disubbidito, ed ora paghi.”
“ Pagare? E con cosa Signore? C’ho solo la foglia di fico.”
“ Lavorando, il lavoro nobilita!”
E cosi grazie all’intervento divino della Sacra Finanza, ad Adamo gli fu pignorata proprio la
foglia di fico, ed ora l’umanità interra ora et labora per pagare i debiti di Adamo.
Epilogo:
Dio stava nel suo ufficio celeste, seduto dietro alla sua scrivania, assorto in cupi pensieri, nel
frattempo sulla Terra si stava abbattendo una tempesta, quando entrarono i due angeli: il
numero 17, ed il tecno-angelo numero 13.
“ Credete che ho fatto cosa buona?”
“ Si Signore, lo crediamo con tutto noi stessi.” Risposero in coro i due angeli.
Poi guardando verso il piccolo granello di sabbia cosmica che costituiva la grande palla che ora
noi umani chiamiamo pianeta Terra:
“ Comunque vedremo, se l’uomo saprà meritarsi il suo futuro.” (Francesco Ambrosi)
241
Un racconto al giorno. Giorno 23
Immagino che la prima luce vista sia stata artificiale, non ho parlato ma quanto avrei voluto
farlo. Vidi quell'uomo tutto verde che mi infilò un affare strano in bocca con estrema forza, e
al posto del mio vaffanculo uscì ueee... ueee... ueeee... Poi sorrise a quella donna sdraiata sul
letto con una faccia stravolta, e disse -è maschio- ah sì pensai, e da cosa l'hai capito. Dopo
avermi ripulito mi misero fra le braccia di quella donna, e lei mi guardò come se fossi suo
figlio!!! La convivenza, in quei tre giorni, dentro una stanza piena di altre persone della mia
stessa stazza non fu delle più felici, eravamo tutti disposti su due file allineate, spesso
controllati da donne adulte vestite di bianco. Non feci amicizia con nessuno, perché avevano
già pianificato tutto. Si sentivano voci acutissime dire delle stronzate assurde:- io farò il
dottore, io il calciatore, io la ballerina, e io la casalinga, io invece farò come mio padre,
comprerò un piccolo furgoncino, lo decorerò, e andrò in giro a divertirmi poi mi laureerò a
quarant'anni e mi stabilirò lavorando in comune.- Mi giro su di un lato in quella pseudo culla
chiusa da vetri, dove mi avevano messo, noto che il mio collega di fianco, come me, non aveva
detto una parola se non per farsi cambiare il pannolino, mi colpirono quei suoi occhi color
turchino e quella sua faccia da fancazzista ma poi gli occhi mi si chiusero probabilmente avevo
sonno. Di tanto in tanto mi portavano dalla signora che avevo visto sul letto, lei mi prendeva in
braccio, poi mi infilava in bocca un affare morbido dal quale veniva fuori del latte e altre
persone avvicinavano la loro faccia vicino alla mia dicendo delle cose incomprensibili tipo
e..ghiri ghiri ghiri e mi riempivano di baci, probabilmente avevano carenza d'affetto.La cosa
più bella che vidi fu la seconda notte, quando da dentro la mia culla dai muri trasparenti venni
svegliato da alcuni rumori, vidi sdraiati su di un tavolo una donna dai vestiti bianchi e un uomo
verde, loro non dormivano ma parlavano, mi ricordo che lei disse-mi fa impazzire, mi fa
impazzire, mi fa impazzire- e lui rispose -oh mio diiiiiooo- non capivo cosa stesse realmente
succedendo ma quella era stata la conversazione più divertente che avessi sentito in quei
giorni. Girandomi vidi che era sveglio anche il fancazzista, non gli era dispiaciuto neanche a lui
lo spettacolo perché aveva un sorriso stampato in bocca. Finalmente il giorno della partenza,
dopo essermi fatto cambiare il pannolino, salutai i mie commilitoni con un profondo e sincero
rutto augurandomi di non rivederli mai più. Mi trasferii con un uomo e la donna che mi dava il
latte in una casa rosa. Questi nuovi compagni si prendevano cura di me:mi davano da mangiare,
mi vestivano, mi lavavano, mi riempivano di coccole ma avevano una fissa strana, lui mi diceva
sempre -chi sono io?....il papà, il papà-e lei -io sono la tua mamma!- ma bastava sorridere
appena o piangere per far fessi i due polli, facevano tutto quello che volevo io. Intanto il latte,
il sonno ed il tempo fecero un buon lavoro e non dimentichiamoci della televisione, arrivò il
primo giorno di asilo avevo tre anni e mi lasciarono per ben sette ore in compagnia di altri
coetanei e di alcune persone adulte, piansi per quasi due ore poi vidi il fancazzista e i miei
occhi smisero di lacrimare, capì che per passar bene quei tre anni di reclusione in quel posto
dovevo farmi un amico e lui mi sembrava la persona adatta. Mi avvicinai e li portai in dono un
cappellino che avevo preso nel guardaroba, lui mi sorrise, capì che saremmo stati amici per la
pelle. Lì in quei tre anni riuscimmo ad affinare il nostro talento per il furto facendo varie
prove con le merende e cappellini vari, ci beccarono un paio di volte ma le condanne non
andavano oltre ad una sgridata. Appena finì il periodo dell'asilo iniziò quello scolastico e lì le
nostre strade si divisero lui andò nel corso B, ed io in quello C, diventando così dei bravi
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ragazzi ligi allo studio e all'educazione. Mi ricordo, un giorno appena tornato a casa da scuola,
beccai quella donna che voleva essere chiamata mamma con un'altra che pretendeva uno zia
davanti al nome, parlare di me, stava pianificando il mio futuro -lui si laureerà in
giurisprudenza, diventerà un avvocato come suo padre,troverà una brava ragazza e mi farà
diventare nonna, non avrà nessun colpo di testa, non voglio che mi venga a dire io farò il
cantante l'attore o quant'altro-sentendo quelle parole, la prima cosa che mi passò per la testa
fu quella di scappare di casa ma rimasi lì sperando che il mio futuro cambiasse. L'anno
seguente le mie preghiere furono state accolte, il corso C fu stato tolto e la nostra classe
dovette rimescolarsi tra la sezione A e quella B, provate a dire dove io sia finito, si la coppia
d'oro si era nuovamente formata. Dopo pochi mesi, riuscimmo a creare un giro di merendine
rubate traendone cospicui profitti in figurine da calcio, finito le elementari iniziarono le
medie e anche lì la sorte fu a nostro favore, facendoci capitare nella stessa classe. Ormai
collaudato, tenevamo lo stesso giro di merende anche se il pagamento era cambiato, non fu più
in figurine ma in gettoni della sala giochi, dopo due anni ci eravamo stancati ed in terza media
pensammo di fare il colpaccio. Nella nostra classe c'era il figlio del preside, il quale tramite
sue padre aveva la possibilità di sapere le domande dei vari compiti in classe, dopo averlo
convinto ad entrare in società iniziammo a vendere le domande guadagnando così un bel
gruzzoletto. Ora però devo fare un passo indietro. Non fu tutto rose e fiori la nostra attività,
un professore, tale Mario Scruto appassionato di libri gialli e polizieschi si mise in testa di
risolvere il caso delle merende. Dopo varie indagini riuscì ad arrivare a noi due ma non aveva
ancora delle prove, solo sospetti. Io e il mio socio ci trovammo a casa mia per discutere di
questa situazione e fu lì che vidi per la prima volta il terrore nei suoi occhi, iniziò a tremare e
a dir delle cose senza senso,aveva i nervi a pezzi poveretto. Così decidemmo di fermarci per
un po' di tempo ma poi venni a conoscenza che il professore aveva una relazione
extraconiugale con la bidella anch'essa sposata, e dopo vari appostamenti riuscii a scattare
delle foto compromettenti. Il giorno dopo lo sviluppo delle foto il professore ci convocò in una
stanza vuota, il nostro detective con un sorriso che partiva da un orecchio e finiva all'altro
aveva trovato le prove ma appena gli feci vedere le foto, scomparve la sua espressione di gioia
e dopo pochi minuti uscimmo da quella stanza risolvendo la questione a tarallucci e vino. Dopo
aver finito le medie con distinto come voto finale, grazie alle domande procurateci dal figlio
del preside, la scelta delle scuole superiori ci rovinò. I miei coinquilini mi iscrissero al liceo
mentre il fancazzista pensò di fare il chimico, mi disse che si potevano fare affari d'oro in
quel campo. Gli studi divennero pesanti e il tempo per vederci diminuiva con gli anni fino a
perdere la nostra amicizia ma appena arrivai in quarta dissi a quell'uomo e quella donna, che mi
avevano costretto a fare quella scuola, che era arrivato il momento di finiamola, non ce la
facevo più, volevo andare a lavorare; loro due, pensando alla vergogna che avrebbe potuto
ricoprirli, mi cacciarono fuori di casa. Non avrei pensato che le stesse persone che erano
state così gentili,generosi,affettuosi e disponibili con me potessero arrivare a tanto ma alla
fine era quello che volevo, essere indipendente. Presi i miei risparmi , la mia roba e partì in
giro per l'Italia. Andai a visitare la Sicilia, la Calabria e la Puglia poi mi stabilì in una locanda in
Toscana dove iniziai a lavorare. Fu lì che conobbi Lela una ragazza di vent'anni anch’essa
cacciata di casa, era venuta a bere un bicchiere di Brunello, dopo aver interagito per poche
ore con lei mi ritrovai sopra il corpo di quella bella fanciulla mi ricordo che lei disse-mi fai
impazzire, mi fai impazzire, mi fai impazzire- e io -o mio diiiiiooo-. Avevamo tutti e due gli
stessi interessi ma quello che ci accomunava più di tutti era il furto, i giorni seguenti furono
indimenticabili, feci l'amore in cosi tante posizioni da non ricordarmi più in che modo si
243
camminasse e infine decidemmo di andare a visitare l'estero ma ahimè non avevamo soldi. Mi
vennero in mente i bei tempi con il mio socio e iniziammo a rubare i portafogli alle persone
nella locanda, racimolando così in una settimana il nostro biglietto per Barcellona. In spagna mi
fumai la mia prima canna, me la diede Lela e non feci a meno di poter notare la sua maestria
nel rollare la canna, non fu una bella esperienza, dopo averla fumata la mia bocca si era
prosciugata non avevo più saliva e sentivo la sensazione di aver in un pastone in gola che non
riuscivo a mandar giù. Passammo tre anni in giro per l'Europa un po' si lavorava, un po' si
rubava, ma ci si divertiva sempre. Tornammo in italia nel giorno del mio ventesimo compleanno,
con me avevo un bagaglio di posti visti, esperienza lavorativa e le lingue conosciute, ah.....
avevo anche Lela, che ormai era diventata un bagaglio al quanto scomodo, lei aveva tre anni in
più, mi aveva fatto conoscere il sesso, le canne e di questo le ero riconoscente ma la storia era
diventata troppo monotona.Dopo essermi fatto un esame di coscienza, appena misi il piede giù
dal treno le dissi -Lela ti devo dire una cosa- -anch'io- lei mi rispose -ho un ritardo di venti
giorni- mi cadde addosso il mondo, mi resi conto che non c'era nessuna pillola del giorno dopo,
nessun contraccettivo che potesse fermare questa catastrofe, tranne un aborto ma appena le
proposi questa soluzione, mi disse che lei si sentiva pronta per avere un bambino e che si era
stancata di girare per il mondo senza concludere niente nella propria vita, mi disse anche che
voleva sposarsi prima di avere nostro figlio, ero in trappola e dopo aver pianto per una notte e
un giorno, presi la decisione di sistemarmi.Hei..... fermi tutti, così non va bene, qui chi scrive
sono io e io decido, torniamo indietro un attimo partiamo dalla locanda. Mi stabilì in una
locanda in Toscana dove iniziai a lavorare fu lì che conobbi Lela una ragazza di vent’anni
anch’essa cacciata di casa, era venuta a bere un bicchiere di Brunello, dopo aver interagito per
poche ore con lei mi ritrovai sopra il corpo di quella bella fanciulla mi ricordo che lei disse -mi
fai impazzire, mi fai impazzire, mi fai impazzire- e io -o mio diiiiiooo-peccato che il giorno
dopo lei dovette partire. Mi ero stancato di lavorare e feci una telefonata al mio compare, non
lo sentivo ormai da anni ma appena rispose fu molto contento di risentirmi, mi disse che era
diventato un perito chimico, aveva molte idee e stava cercando un socio. Appena riattaccai
feci i bagagli e tornai nella mia terra, alla stazione trovai il fancazzista che mi stava
aspettando, iniziammo la nostra avventura. Con le sue conoscenze chimiche e la mia capacità
nel trovare i contatti giusti iniziammo a sperimentare una nuova droga in pastiglie, l'unica
pecca era, testarla, non potevamo farlo sugli animali perché il chimico era un animalista, allora
la testammo sul figlio del preside, dopo vari tentativi creammo una droga perfetta. Tutti
venivano a comprarla da noi ma l'affare stava diventando troppo scottante, sì, si guadagnava
bene ma la polizia locale iniziò ad indagare su di noi e ancora una volta vidi il terrore negli
occhi del perito così decidemmo di fermarci per un po'. Dopo due settimane della nostra
inattività venne a trovarci il preside, ringraziandoci per aver fatto guarire suo figlio dal
diabete, facemmo alcune analisi su suo figlio e scoprimmo che al terzo tentativo della
sperimentazione andata male della pillola, accidentalmente avevamo scoperto la cura al
diabete.La testammo su altri pazienti malati e tutti guarirono senza effetti collaterali, l'anno
dopo vincemmo il premio Nobel e ci scagionarono dalle accuse di spaccio di stupefacenti mosse
nei nostri confronti, anche le persone che mi avevano cacciato via di casa sentendo che il loro
figlio diventò un premio Nobel vennero a congratularsi, chiedendomi scusa e offrendomi di
nuovo il loro affetto. Sapete cosa feci.........accettai e dopo poco tempo mi ritrovai sposato in
un ospedale con la faccia vicina a quella di un bambino dicendo delle frasi incomprensibili, del
tipo e...ghirighirighiri o chi sono io?....il papà,il papà e lo guardai come se fosse mio figlio! (nik)
244
Un racconto al giorno. Giorno 24
“La riga, la riga no,non la devo toccare.”
Non era la prima volta che facevo questo giochetto mentre tornavo da scuola. Il guaio è che lo
facevo pure in casa. Fuori erano le righe che delimitavano il marciapiede dalla strada.Quelle
delle strisce pedonali,le righe d’ombra che si formavano per terra,in casa erano quelle delle
mattonelle,dei marmittoni del pavimento,mia madre mi prendeva per scemo. Camminavo tutto
strano,storto,in punta di piedi ma l’importante è attraversarle, guai a schiacciarle.
”Porca miseria stavolta non ce l’ho proprio fatta”. Avrei dovuto accorciare troppo il passo,se
l’allungavo invece calpestavo l’altra riga, la regola parla chiaro, dice che la camminata deve
rimanere regolare. Pagare pegno,sacrificio,devo fare penitenza,mmhhh vediamo.L’inchino al
primo passante capitato sotto tiro l’ho fatto l’altra volta,il verso dell’ ombrello scappando di
corsa idem,lo starnuto finto fino all’inverosimile pure,cosa mi invento stavolta..qualcosa di
strano,anomalo,ridicolo …ah ecco..quando passa una vecchia mi passo la mano sul pacco. Più è
vecchia meglio è.Ma no dai,non si può,troppo rischioso mi prenderanno per il solito maniaco e
poi se mi conoscono?
L’avevo visto un film del genere, a casa di Giliotti ,mio compagno in prima D.La madre era in
salotto, c’era la riunione dell’ Avon,erano in dodici a discutere di trucchi,creme
antirughe,idratanti,proteggenti,antiage, contro la pelle secca,grassa,media noi invece eravamo
tutti concentrati sul film, si chiamava le Pornovecchie.
Sette adolescenti strizzati in una stanza.Ormoni e testosterone a mille,tutta energia
compressa e repressa che sarebbe potuta schizzare dalle finestre, roba sprecata! A turno
andavamo in bagno:”tranquillo non è per il film” giuravamo a Giuseppe Giliotti detto Teschio.
Secco allampanato e con gli occhi sporgenti che sembravano due palle da biliardo, ecco
com’era fatto Teschio.La 8 per il destro e la 15 per il sinistro,proprio quelle che non
riuscivamo mai ad infilare nelle buche di lato. In bischetta, sul panno verde durante le cinque
ore mattutine rubate a francese e matematica rimanevano sempre la 1, la 8 e la 15. Non
riuscivamo a completare nemmeno una partita.
Teschio era rimasto per tutta la durata del film in piedi, vicino la porta chiusa,col telecomando
nervosamente in mano. Essere alto a tredici anni e mezzo già un metro e ottanta poteva
essere un vantaggio, a scuola per farsi rispettare serviva. Io il mio “rispetto” me lo sarei
guadagnato cinque anni dopo, per di più fermandomi esattamente lì.
Ogni volta che la signora Giliotti tornava in cucina per prendere tè,biscotti,cucchiaini e tazze
e c’era il rischio che entrasse in camera,tac,cambiava canale.A volte c’era la faccia di Cocuzza
altre quella della Pivetti.Poi si ritornava sulle Pornovecchie.Mature sui quaranta e cinquanta in
tutte le posizioni. Eccola lì la nostra educazione sessuale,imparavamo il necessario e ci
ponevamo domande. La cassetta l’aveva portata Franchini “sotuttoio”. So tutto io quando si
trattava di motori.So tutto io di computer. So tutto io di dischi e musica e ovviamente so
tutto io in fatto di donne. Sull’etichetta c’era scritto Italia-Germania,l’aveva trovata tra gli
scaffali dello studiolo del padre,lì c’era un tesoro. Chissà cosa conteneva Italia-Argentina,
Italia-Polonia, il massimo però doveva essere Italia-Brasile,quella sarebbe stata la nostra
prossima visione, sabato pomeriggio.
La mamma di Giliotti c’aveva già provato. Era entrata a sorpresa poco prima, chiedendo se
avessimo fame,”volete fare merenda ragazzi?”. Teschio era stato velocissimo. Il telecomando
245
funzionava perfettamente.Cocuzza alla tv in quel momento affrontava il caso umano del giorno
mentre noi all’ unisono s’eravamo buttati sui fumetti, facendo finta di commentare l’ultimo
numero di Dylan Dog e Martin Mystere.
“Signora,lei è troppo gentile”,rifiutammo l’offerta, la porta si richiuse e grazie alla sapiente
regia di Teschio la tv ricominciò a trasmettere “Italia-Germania”.
Tardelli era un muscolosissimo idraulico che con la scusa di un tubo rotto un Paolo Rossi in
versione casalinga frustrata cinquantenne aveva fatto inginocchiare.
Toccava a me andare in bagno.”non fare macelli,non ti azzardare a sporcare e torna entro due
minuti!”, si era raccomandato Teschio.
La mia fissazione non conosceva soste. Per arrivare in toilette dovevo passare il
corridoio,attraversare il salone con in corso la riunione ,sbucare nell’ ingresso e finalmente
aprire la porta del bagno. Questa volta era filato tutto liscio.
In casa Giliotti i marmittoni dei pavimenti erano ampi,la camminata poteva essere regolare ed
io non avevo calpestato nemmeno una riga.
Di ritorno invece di fare il doppio “busso” sulla porta, aprii d’improvviso.Teschio non si era
fatto fregare nemmeno questa volta. Stavolta in tv c’era una televendita di un super mega
frulla taglia tutto a 99 euro.Ripresi il mio posto,sdraiato sul letto.
Il film ormai stava per finire.Quella doveva essere la scena finale.”Che fotografia, che
inquadrature e poi gli attori!”,rideva Franchini. Ma non sapeva che il dramma si sarebbe
consumato da lì a poco.Ed in una manciata di secondi per giunta!
Passi veloci nel corridoio. I tacchi sella Signora Giliotti non potevano non sentirsi. Teschio
prova a cambiare subito. Primo Canale. Niente.Secondo.Niente. Il rumore dei passi aumenta. Il
cinque,Teschio schiaccia il cinque. Niente. Siamo vicini,oddio stanno per aprire la porta.
Teschio riprova. Due o tre sberle al telecomando “non si spengeeee cacchio!!”. Ecco,la maniglia
si abbassa.Sembra metterci un’eternità ma è un attimo. Tentativo estremo. Teschio si allunga
e fa per intervenire manualmente sullo schermo. La pila dei fumetti sembra essere messa lì
apposta,in quei due passi che lo dividono dalla tv.Teschio inciampa,cade in avanti e con lui il
telecomando.”Ahhhhhh si,si ancoraaaaaaaaaaaaaa”. Sulla Tv appare una scritta in basso
piccolina: “volume max “.L’audio è al massimo. C’è da tapparsi le orecchie. L’avranno sentito fino
al piano terra figurarsi le dodici signore meno una che erano in salone. Ed infatti quel brusio
che prima veniva proprio dall’ altra stanza d’improvviso si era quietato. Noi impietriti. Fermi
con la bocca aperta e gli occhi spalancati.Teschio steso a terra con il volto rosso, sembrava la
capocchia di un cerino.”Che schifooooooooooooooooooo”,le urla della madre si confondevano
con i vari mugolii di Tardelli e Rossi.”Andate fuori di quiiiiii!”.
La partita intanto proseguiva e non si fermava: Tardelli con i mutandoni calati fintava un tiro,
ma era un cross per il suo compagno che si smarcava ed andava in rete
“siiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!!!!”.”siiiiiiiiiiiii!!!” il volume era sempre più “incantato” e copriva la nostra fuga.
Via attraverso il corridoio , poi il salone “….ma….,no….,la riga,la sto schiacciando,è quella del
cambio serie mattonelle porca miseria!”.
Allungo un pochino verso destra per saltare sul tappeto ma il balzo è troppo forte. L’equilibrio
è perso. Finisco ad appoggiarmi su un tavolino con tanti Budda ,vasi ed elefantini d’avorio.
Che macello! Tutto in mille pezzi.
La mamma dovrà fare altre cento riunioni.Vendere e convincere le sue amiche per ricomprarsi
tutto.
”siiiiiiiiiiiiiiiiii,vengooooo”.Mi domando:”ma la spina del televisore non la potevano staccare?”
Ormai il più è fatto. Riprendo la corsa e finalmente imbocco la via d’uscita.
246
Eravamo tutti lì fuori ,all’ appello ovviamente mancava Teschio. Credo fosse riuscito a fermare
il videoregistratore stavolta,non si sentiva più nulla. Non sapevamo se ridere o piangere, quello
di cui ero sicuro tra me e me era che dovevo fare penitenza,non si scampava,era la regola.
“Ora vado da quello lì,quello che sta facendo benzina,gli urlo in faccia-gooooooal- con tutto il
fiato e scappo”,pensavo.
Pure sto film però mi pareva di averlo già visto.Mi sa che era l’anno passato,in campagna,a casa
degli zii. Si trattava di Italia-Germania,quella vera però.Tardelli era vestito da calciatore e
Rossi pure,del telecomando non c’era bisogno. (Alex Biondi)
247
Un racconto al giorno. Giorno 25
Una brezza impalpabile smuoveva delicatamente la tendina del vagone, lasciando intravedere a
tratti un paesaggio immobile e affaticato sotto la persistente calura estiva.
Lo scomparto era semi vuoto: una signora sulla mezza età scrutava distrattamente l’orizzonte,
un ragazzo giocava nervosamente con un pacchetto vuoto di malboro.
La signora si drizzò d’un tratto in piedi, si lisciò la veste leggera e con andamento dignitoso e
composto si affretto a lasciare la cuccetta.
Il treno smise di oscillare, si svuotò nuovamente e ripartì quasi subito.
Il ragazzo mi sedeva ancora di fronte, ogni tanto faceva passare i suoi occhi assenti su di me,
e poi li lasciava sospesi nel vuoto, aggrottando la fronte e senza smettere di torturare il
pacchetto vuoto.
Improvvisamente percepì il mio sguardo indagatore, lo ricambiò incuriosito e io senza fretta
spostai i miei occhi verso il paesaggio che si era nel frattempo mischiato di contorni salmastri
e freschi.
“Le da fastidio se fumo?” domandai
“No, si figuri…”
“Vuole?”
“Grazie, ne avrei bisogno…”
“Lo so…” e mi osservò stupito
“E’ nervoso vero?”
“Dammi del tu”ordinò
Gli sorrisi e lui ricambiò complice.
Non passò molto che mi rivolse la parola, forse per imbarazzo, forse per cortesia o forse per
cercare di ammazzare il tempo prima che sfinisse lui.
“Dove sei diretta?”
“Ha importanza?”
“Scusami, magari ti sono sembrato inopportuno…”
“No, assolutamente”asserii
Gli sorrisi nuovamente, ma questa volta mi osservò corrucciato.
“Cosa ti preoccupa?”
“come?”
Lo stavo mettendo in difficoltà, ma lui si sbrigliò con destrezza e ciò mi provocò
ulteriormente.
“Beh, visto che sei così perspicace da comprendere che sono inquieto per via di qualcosa, forse
puoi anche intuirne il motivo…”
“Sono una persona sagace, non un’indovina…ma ci posso provare…scommetto che centra una
donna…”azzardai
“Quando mai non centra una donna?”insinuò amaramente
Mi pentii di aver smosso quel peso che lo torturava e decisi di concludere i giochi.
“Perdonami, ora sono io quella indiscreta…”
”Lei sta per morire, le manca poco…lo amata da sempre e non gliel’ho mai rivelato.La sto
raggiungendo per darle l’ultimo saluto…”
“Le dirai che l’ami?”
248
“Lei…è sposata e ha una bambina, una bambina che ha i suoi occhi.”
Lui proseguì e io non mi permisi di interromperlo, lo ascoltai in silenzio, lo ascoltai parlare di
lei, di lei che non avrebbe saputo nulla perché non avrebbe voluto turbarla con la sua
rivelazione, gli sarebbe bastato contemplarla per un istante, salutarla con un sorriso.
Gli allungai un’altra sigaretta e lui si fermò, gettò i suoi occhi nei miei e in quegli occhi scorsi
tante di quelle domande che mi sentii smarrita ed impotente per un attimo.
Il treno arrancava lentamente verso il capolinea e si arrestò cigolando rumorosamente.
Ci scambiammo uno sguardo di congedo e ci augurammo buona fortuna.
Quante cose ti scorrono attorno… e tu ti affanni cercando di inchiodarle, contemplarle,
capirle…
Mi voltai e lo vidi dirigersi spedito verso un taxi, una mano sfiorò la mia spalla e l’immagine del
compagno di viaggio si dissolse… (Tiziana Previato)
249
Circo
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Le persone a colori
Afa, caldo e afa, una notte arrabbiata, consumata dalla stanchezza che lotta impotente, una
veglia senza sogni, una cattiva notte, una notte troppo calda, una notte senza consiglio, una
notte spossata senza riposo. Come un litigio tra cani s’increspa la mia volontà, ma il caldo vince
il sonno. La luce avanza dalle serrande, è quasi l’alba.
Il gallo canta, i grilli danzano, il cuculo intona la stessa canzone e con il frinir delle cicale
fanno omaggio al nuovo giorno, mentre io lo maledico. Un po’ di foschia. Ad est nuvole rosa
illuminate da un sole che non c’è ancora. Ancora nuvole azzurre che vagano indefinite nel cielo,
e si mescolano con l’acqua del mare non lasciando intravedere nemmeno l’orizzonte. Ogni
illuminazione si è spenta per lasciare il posto alla luce del giorno che avanza. Lentamente ogni
cosa si determina, mentre la luce ridisegna ogni contorno. Gli alberi d’ulivo protendono i rami
verso il cielo, sembrano braccia di donne che pregano il sole per riavere il loro corpo, la
motilità di fanciulla. Il sole padrone regna arancio su questa parte di mondo. Diventa sempre
più grande, ora comanda la luce.
Un giallo arancio sfumato di rosa avanza nell’azzurro del cielo, nel blu del mare, così
velocemente che l’intensità del chiarore zafferano brucia già gli occhi, stanchi ed assonnati.
Oggi è una giornata paglierina, con una spiaggia gialla, un mare giallo ed io mi vesto di un
luminoso colore. (Gloria Venturini)
Ci sono le persone colorate. Belle persone, che le solitudini e le complessità di clown rendono
speciali. Persone vere, persone a colori.
"Tante volte non ti dico nemmeno quanto amo tutti i tuoi colori. Ma li amo."
Un giorno successe qualcosa che non so. Forse dio inciampò mentre correva per strada o una
sarta corse in cucina a controllare la pentola sul fuoco e si tirò dietro il filo della stoffa. e
successe quel giorno che il mondo si impigliò.
Dio o la sarta o uno spillo qualunque si aggrapparono alla stoffa del mondo, a quel vestito che
tutto lo ricopre. e la stoffa si tese mentre il mondo continuava a girare, dio a correre e la
sarta ad andare in cucina o le spine dei rovi a riempirsi di piume di pappagalli.
Fatto sta che girando girando la Terra scivolò sotto il volto degli oceani e delle terre, scivolò
sotto i deserti come se tutti i colori del suo volto fossero null'altro che un'ombra che scivola
pian piano quando passa il sole. Stavolta però erano tutti i colori a cambiare, a scivolare da una
cosa all'altra e il viso della terra cambiava tutto. dal marrone che diventava blu al mare che si
faceva di cielo. e la spiaggia si colorava di mare. Un granello alla volta tutte le forme
restavano uguali, uguali nella forma, ma cambiavano colore prendendo quello delle cose vicine,
senza scolorire o inzupparsi. era il vestito che mondo che girava sulle membra di tutti i suoi
abitanti. e l'asfalto delle strade saliva lungo le pareti delle case e la signora del quinto piano in
finestra diventava color strisce pedonali, mentre mezzo attico era ancora colore del portone
di ingresso del palazzo. ma ancora per poco, perché scivolando scivolando il color marciapiede
della strada avava superato il parapetto del terrazzo e ormai incominciava a colorare le nuvole
più su. e sotto, gli alberi erano stesi, con le foglie dondolate dal vento, proprio in mezzo alla
strada: una stampa bellissima con le auto, color bambino e color nonna col passeggino, a
sgommarci sopra. e il tizio affamato che faceva colazione addentando un bel cornetto color
faro di bicicletta. Ma tanto che importa se bevi un caffè color rosa alcantara della Mercedes
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parcheggiata là davanti.
Mutande! mutande e fili di calzini stesi sulle fiancate di bus extraurbani che avevano rubato la
biancheria all'ultima borgata di città. e tutti proprio tutti i pedoni e gli uomini, omini e ominidi
tutti color rosa culetto, ché loro non si riuscivano a tingere di mondo. il mondo girava, girava
nel vestito impigliato nei piedi della sarta, nel roseto, o in chissà cosa.
girava il mondo sotto il sole sbigottito, che vedendo quello spettacolo sul suo pianeta
preferito, dapprincipio avava pensato di aver sbagliato luce quel mattino.
chissà se quel giorno successe nulla di speciale sul mondo, forse no o forse sì, qualcuno vide il
mondo quasi cambiar pelle e si gustò lo spettacolo al tramonto, felice di contemplare un sole
che finiva in un mare fumante di cioccolato con cucchiaino color carrarmato e zollette di
zucchero mimetiche. chissà.
forse la sera riportò tutto a posto. La sarta tornò al suo cucito e rammendò il vestitino della
signorina Terra. o forse dio ci mise del suo e smise di correre a scavezzacollo e inciampare
nell'Himalaia. però poi sorrise e si riallacciò le scarpe, pure questo guaio lo aveva messo a
posto. (livio)
Il mio amico Arcobaleno è un pittore assai distratto. Dice sempre che i colori della vita, sono
quelli dell’arcobaleno. Ben distinti l’uno dall’altro, ma quando pasticciano ce ne sono sempre di
nuovi. A disegnare è pure bravo, ma con la testa fra le nuvole, ne combina proprio di tutti i
colori. Col suo magico pennello tinge il prato di verde, ma se gli si avvicina una farfalla, lui con
il naso all’insù, lascia andare la sua mano e nel cielo mette l’erba. Con il blu del mare aperto
vuole fare un temporale, ma uno starnuto lo distrae e colora un grande lago. Un po’ triste, ma
indaffarato, gira la tela e ogni cosa torna al suo posto, un prato, un lago e un grande foglio, su
far volare colorata la fantasia.
Dolce
Lenta
Lieve
Come una musica dal cuore,
come un sussurro dell’anima.
Calma
Delicata
Tenera
Come la brezza primaverile,
come l’impronta di un pettirosso sulla neve.
Amabile
Angelica
Deliziosa
Come un pensiero gentile,
come una giornata mite.
Armonica
Leggera
Gradevole
Come una piacevole passeggiata,
come un’allettante sensazione.
Vita che si sviluppa,
catturata dallo splendore della natura.
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Vita che procede,
sotto un cielo così azzurro.
Vita che nasce in ogni momento,
aggomitolata a una speranza solare.
Ti voglio regalare una speranza,
un sorriso, un sogno.
Ti voglio regalare una farfalla,
per far volare libera e serena la fantasia,
tranquilla nel cielo della vita…
la vita dovrebbe essere così, azzurra,
serena e azzurra,
piena di stelle.
Ti voglio regalare un sogno ed una stella,
guarda lassù nel cielo,
scegli la più bella!
Stasera guardando la notte con il manto blu del cielo,
ho visto una stella brillare lassù, intensa, la più luminosa di tutte.
Verso ovest, da casa mia.
La mia mente vola lontano, galoppa con mille pensieri sempre più in alto,
distante, mi aggrappo ad un raggio di luce,
cerco la strada per arrivare alla stella che luccica:
Verso Ovest è il suo nome.
Cammino ed un fulmine mi fa da bastone,
appoggiata al mio raggio di luce sto seguendo la via,
“è verso ovest” mi dice una cometa viaggiando in tutta fretta!
Per lanterna una lucciola piccina, mi fa compagnia.
Nello spazio infinito dilaga la voce, si perde da sola, troverà la via.
Un pensiero mi viene vicino accompagnato da un sogno,
Verso Ovest è il loro vagare.
Uno sguardo mi prende la mano, un sorriso mi insegue lesto,
una smorfia chiacchiera piano.
Una voce ritrova l’amica, quanti cuori vagano soli!
C’è un’unica strada, la Via Lattea, ma
ahimè, quante anime viaggiano separate!
Le stelle chiacchierano nel cosmo, le parole dilagano veloci,
una grande fila mi accompagna lassù…erano tutti nel cielo,
sparpagliati qua è là, alla ricerca di Verso Ovest, la stella che brilla di più.
Lungo è il percorso, faticosa l’ascesa, ma quando si è insieme è più facile,
più allegro, all’unisono del medesimo desiderio cerchiamo lo stesso conforto,
insieme è più forte, è più bello, è più grande e completo.
Un fiore giallo e piccino si avvicina pauroso, accompagnato da un uccellino.
Persino sirene, delfini e coralli hanno lasciato le onde del mare,
gattini e pulcini procedono avanti a tutti,
curiosi come bambini di arrivare Verso Ovest, la stella del cuore.
La mia mente sta ancora viaggiando, in compagnia,
ma sono certa che hanno trovato la via,
253
la strada è lunga, ma se sta sera guardo il cielo
e volgo lo sguardo verso ovest vedo la stella,
un lungo avanzare di mille speranze che tenendosi per mano
vanno incontro allo stesso destino, alla stessa vita, alla stessa stella.
Ogni tristezza, ogni solitudine, ogni malinconia, si può alleggerire,
basta stare in compagnia e se amici vorrai avere,Verso Ovest devi guardare.
Nella stessa scia ti ci puoi ritrovare e tra canti e parole una carezza,
una persona ti può riscaldare d’amore, basta poco, basta credere un po’,
anche una piccola luce, una stella lontana dispersa nell’universo,
può non far sentire soli, ed il vento porterà le sue parole,
pronte per arrivare sino al cuore…
allora alza gli occhi per guardare verso ovest. (Gloria Venturini)
Commosso dalla stupenda
Bellezza del cielo d’estate
Il sole per poco non pianse
Poi orgoglioso
trattenne le lacrime
in un incanto di nuvole… (Marinella)
Belle, le persone a colori...
sorgente limpida, come nasce un fiume?
sempre scorre l’acqua, mai la stessa,
perso nel mare.
flu flu, flu flu.
nasce e poi, respirano i polmoni?
soddisfatto (vita che scorre), non rimborsato,
illuso chi legge, non chi ama.
glu glu, glu glu. (marco)
Una nota di miele in tasca,
per addolcire
le incomprensioni della vita.
Una nota di miele in testa,
per alleggerire
il grigiore di certi momenti.
Una nota di miele rosa,
per colorare
con la fantasia attimi di nostalgia.
Povero nei miei averi,
ma ricco nel cuore,
per quella nota di miele
che vibra perpetua nell’anima,
con delicatezza rende dolci
i miei ricordi. (Gloria Venturini)
254
Da questo balcone di anima inquieta
Fuori è buio
Buio senza stelle né luna
A tentoni
Inciampando
Nelle ombre
Si allontanano
Le nostre solitudini
Da questo balcone di anima inquieta
Questa sera così lunga
senza una fine certa
senza un approdo
E tu notte
mi parli a fatica
da questo balcone di anima inquieta,
da questo silenzio
che è oltre la vita,
oltre la sabbia la terra il demone il vento il possesso il potere l’illusione d’amore,
da questo balcone di anima inquieta (aiseop)
Sono qui che provo un senso di vertigine misto a paura, devo saltare su una barretta
penzolante appesa a due fili sottili. non so se ce la farò, sento forte il rischio di scivolare. il
pubblico aspetta il mio gesto, e lo fa con avidità, con golosità, come per possedermi o per
mangiarmi.
sono qui che guardo la rete protettiva e le sue maglie tanto larghe da rischiare di passarci in
mezzo senza accorgersene. il pavimento, insabbiato e appena concimato dagli elefanti, è
lontano e spaventoso.
sono qui che penso a tutto questo: il trapezista è il circo, è il gesto umano che stupisce e
rimane negli occhi. un'enorme responsabilità, un rischio inaudito ed ingiustificato mi
accompagnano ovunque, eppure eccomi che mi tuffo nel vuoto e, prima di sapere se afferrerò
quella piccola asticella metallica, sento di amare anche questo vuoto. (marco)
Dammi una nota
per cominciare
un la vibrato
largo
una nota senza eco
poi…
una che si perde lontano
questa sì
255
nella sua eco,
musica
infinita,
all’inizio
creata dal nulla
come la vita.
... sento di amare anche questo vuoto...
Questa sera così lunga
senza una fine certa
senza un approdo,
un’avventura
dentro riflessi di lune,
riflesso su riflesso,
specchi di laghi
che ti si aprono dentro
e palcoscenici affacciati
sulle notti piene di ombre,
spettatori indistinti
ma veri
che si muovono appena
affacciati su questo viola
intenso
quasi lucido e profumato,
dentro un sogno
ad occhi aperti
occhi spalancati……
non per tutti
rispecchiano l’anima
non per tutti………
ci sono grumi di incubi neri
ci sono nuvole grigie che sfioccano
e volano inquiete
ci sono macchie d’inchiostro
recente
che cambiano volto e profilo,
mute domande
misteri.
Si agita dentro
la terra,
terra arsa violenta e violata,
terra di vulcano,
urlo disumano.
Il demone
punito
incatenato,
orribilis visu,
256
cerca di arrivare
allo specchio degli occhi
all’anima fatta di sguardi
ai profumi dei tramonti
alle musiche
di laghi infiniti
placati
di luci
e di voci
a sguardi sfiniti
non domi.
E tu notte
mi parli a fatica
da questo balcone di anima inquieta,
da questo silenzio
che è oltre la vita,
oltre la sabbia la terra il demone il vento il possesso il potere l’illusione d’amore,
il segreto
nascosto
nel profondo
più profondo
del cuore. (aiseop)
"la dimensione del tempo è andata in frantumi, non possiamo vivere o pensare se non spezzoni
di tempo che s'allontanano ognuno lungo la sua traiettoria e subito spariscono" (I.Calvino)
A volte ripenso a questa frase, letta anni fa e ricercata furiosamente appena insidiato dal suo
ricordo. come al solito provo a far collimare tutto, a trovare una traiettoria comune a questo
sentire che tanto appare simile al concetto espresso dal grande scrittore. non credo esista ...
... una traiettoria unica fatta di spezzoni sconnessi ... un contrasto come quando ci capiterà di
guidare su un'autostrada vuota mentre nell'altro verso migliaia di macchine sono incolonnate
in fila, e chissà quante volte ci è già capitato ...
mentre il direttore del circo imposta la traiettoria, fingendo di fare oggi quello che non è
stato fatto ieri, la donna cannone si sporge dal sipario colorato. osserva il pubblico, un
bambino attento la scorge ed ella timidamente si ritrae.
quando arriva il momento di morire per l'ennesima volta, il bambino la riconosce e, avendo
letto nel suo cuore in quel rapido sguardo, inizia ad amarla. non vuole che venga sparata. teme
per lei e vorrebbe proteggerla. è geloso di uno sguardo come un innamorato. ella lo osserva,
come se non vi fosse nessun altro, e vorrebbe rassicurarlo.
uno spezzone di vita che appartiene ad entrambi, mentre solo loro, fra tante persone,
chiudono gli occhi. BOOM! (marco)
... sento di amare anche questo vuoto... BOOM!
Fragili
ed effimeri,
257
carne che si fa sangue
bagnata di pianto,
così fragili
ed effimeri
carne che si annusa
si possiede
si compenetra,
così fragili
ed effimeri,
fantasmi o creature
ammalati di eterno,
così fragili
spettatori,
così effimeri
attori,
così immersi
in una magia di potere,
di conoscenza,
di orgoglio
intellettuale,
di arroganza
animale,
di terrore
e incoscienza.
Dallo sguardo inquieto
un sorriso da palcoscenico,
una ostinazione da automa,
una luce negli occhi
perfida o magica,
involucri nelle sabbie mobili
prigionieri dell’anima. (aiseop)
Il pubblico osserva i baffi, lunghi ed ispidi, sul mio volto di donna. nel mezzo della pista, a Jeff
il "deforme" esce la solita lacrima. Tim il "nano" è invece allegro e pieno di vita. gli darò il
figlio che desidera.
il mio sguardo copre in un attimo quel minuscolo essere pieno di energia. penso sempre a come
sarà questo figlio. solo a volte spero che sia normale, quasi sempre penso a lui come a un
piccolo nano, ricco della dignità del padre, e che come lui sia un amante unico. e mai perfetto.
un filo oscillante la taglia, nel cielo. nel cielo, le foglie ne oscurano l'anima. ciò che fa vacillare
non muta i destini: sanguinante e soffocata, eppure mai catturata, colora di luce bianca il
cielo, e stringe a sé un solo ed unico velo.
un po' di tintura nera per nascondermi ed ecco il mio spettacolo. il mio naso rosso si muove
come una lucciola, nel buio del circo. il pubblico lo segue stupito, ne è ipnotizzato, ma è solo un
punto rosso nel buio inimmaginabile dei miei pensieri.
258
il mio volto è lentamente plasmato dalle mani, niente ciglia finte o trucco colorato, solo bianco.
e un punto nero, una lacrima candida. due mani, un volto si muovono confondendo gli occhi di
chi osserva. una breve storia con un lieto fine? meglio di no. dopotutto sono solo un clown in
questo mondo, con il dolce spettacolo della mia anima triste. (marco)
... sento di amare anche questo vuoto... BOOM!
Cammino sulla crosta sottile
di questa indefinitezza di questa non scelta
mani fredde alla punta delle dita
come quando saluti per forza
stelle stelle stelle stelle ripeto la parola e la luce entra a forza
dentro questo cielo virtuale
piccolo palcoscenico di un teatrino senza pubblico
e senza attori
solo marionette
un solo copione
scritto e mai vissuto
dentro
inciampo nella mia stanchezza
cado sulla mia inettitudine
fuori dal palcoscenico
un vuoto prima gelato
poi arioso e poi tiepido
poi fuoco
dentro il mistero della vita
quella sotto la crosta sottile della abitudine
quella dove ci si sbrana per amore
e ci si consuma
dove si aprono cieli dentro cieli
galassie senza disperazione
dove un filo di luce blu
sottile
è polvere di eternità
perduta.
Le parole hanno un'ansia forte
di incontrarsi con i loro segni,
di non morire prima che qualcuno le intenda,
prima che possano brillare e illudersi
di essere vive e non finite,
magari incomprese a volte,
oscurate a volte,
ma almeno un poco amate,
almeno un poco vissute.
Parole sottili sibilanti
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Con le mani in tasca
Sulla riva di questo mare grigio
C'è "brumezzu"
E la notte sibila di venti impetuosi
Salino nelle narici in pieno viso
Da questo muretto
Capisco che la vita è istantanee
Poi c'è il destino
Parole stanche vi raccolgo
Con fatica con umiltà
Per rispetto alla vita
Un brillio di vocali
Un acuto di consonanti
Un senso compiuto
Parole nate da un sentimento
Da un lettura del mondo
Per stupore o paura
Il primo primordiale racconto
Forse di un umano
Al freddo sotto le stelle
Alla luce della luna
Solo (aiseop)
... sento di amare anche questo vuoto... BOOM!
Sotto un cielo stellato come non mai e, più puntualmente, sotto al tendone di un circo ...
“Entrino signori, entrino” - annuncia il direttore del circo.
“Donna barbuta, donna cannone, domatori e trapezisti, clown, nani e ballerine e chi più ne ha
più ne metta ...”
Il pubblico allibito osservava la parata come se fosse la prima volta. In verità per molti di loro
era effettivamente la prima volta. Più precisamente solo dieci dei presenti, su un totale di
cento, avevano già assistito al terribile spettacolo del circo, e ad essere pignoli solo uno di
questi aveva già consumato lo spettacolo di questa specifica compagnia circense.
Per tutti gli altri si trattava di una novità, come quelle che la vita ci riserva ogni giorno, direi,
se fossi un fatalista che pensa alla vita come ad una inevitabile catena di fatti più o meno
collegati fra loro. Ma meno e più, erano preparati agli eventi mirabolanti che li attendevano, al
contrario di quanto lo si è a quelle novità che la vita ci riserva ogni giorno.
Scrivo questo non per confondere il lettore, sempre attento e pronto ad ogni evenienza,
seppur letteraria, ma per preparare lo stesso lettore agli avvenimenti che accaddero quella
sera, che in fondo era cominciata come tutte le sere, sotto un cielo stellato, sotto un tendone
da circo appena crollato.
“calmi, signori, calmi non è successo niente” - si affannava a ripetere il direttore
260
“fra poco tutto sarà come prima e potremo assistere comodamente al fantastico spettacolo”
Forse non si rendeva conto, il direttore, che il pubblico non era affatto scosso dall'accaduto,
tant'è vero che quasi tutti avevano iniziato a squarciare il tendone, che in verità era di bassa
qualità visto che per romperlo erano sufficienti un paio di forbicette da signora, e ancor più
vero che dopo soli dieci minuti e trenta secondi gli unici ancora intrappolati sotto il tendone
erano il clown, il direttore, la tigre e il domatore.
Il pubblico si mostrava seriamente preoccupato per la sorte del domatore che al momento del
crollo stava esattamente a mezzo metro dalla tigre. Il clown non preoccupava ed anzi era
tanto esilarante nei suoi goffi tentativi di liberarsi quanto non lo sarebbe mai più stato in vita
sua. Il direttore, che per il pubblico non era altro che uno scocciatore perditempo, era stato
avvistato e prontamente intrappolato da tre fra i più esperti spettatori di circo che poi si
erano rimessi a sedere comodamente attendendo finalmente di poter assistere al loro
spettacolo preferito: il circo senza direttore.
Il domatore e la tigre, che si erano chiaramente alleati nel tentativo di liberarsi dal tendone,
usciti sotto il cielo stellato non poterono che ammirare lo spettacolo dei trapezisti che
volteggiavano e piroettavano in un tripudio di applausi. Il pubblico, comunque entusiasta,
iniziava però ad insospettirsi per questa strana alleanza tigre-uomo e così la tigre pensò bene
di mettere le cose in chiaro mangiandosi in un sol boccone il domatore. Il pubblico,
tranquillizzato dall'accaduto, aveva già ripreso ad osservare i due trapezisti rimasti, mentre
si dispiaceva sinceramente per la caduta degli altri due che nel frattempo erano finiti nello
stomaco appesantito della tigre che si stava tramutando lentamente in un elefante.
Lo spettacolo languiva senza speranza, due trapezisti non bastavano di certo, il clown
intrappolato non faceva più ridere nessuno e onestamente, in mancanza delle altre attrazioni,
si sentiva quasi la mancanza dell'antipatico direttore. L'unico avvenimento oggettivamente
interessante, la tigre che si trasformava in elefante, si pose al centro dell'attenzione
generale ed il pubblico, dopo aver dato in pasto il noioso clown alla tigre, aveva assistito allo
spuntare delle zanne. Nello svolgersi sempre più calmo ed ordinato dei fatti non si sa per quale
strano motivo il direttore era stato risparmiato, la decisione, presa a maggioranza dopo una
votazione a scrutinio segreto, era un inequivocabile segno di guerra civile in atto fra due
opposti schieramenti nel pubblico: i conservatori e i riformisti.
Da allora ogni decisione, anche la più banale quale poteva essere quella di permettere o no
l'entrata in scena dei nani, veniva presa dopo una votazione, il che stava mano mano spostando
l'attenzione del pubblico sul come affrontare tali importantissime votazioni piuttosto che sul
merito delle decisioni prese. E questa non vuole di certo essere una critica a chi, come il
pubblico, aveva fin qui condotto lo spettacolo in maniera divina, alternando momenti di puro
spettacolo circense a momenti ad altissimo contenuto culturale. Ad un certo punto lo
spettacolo risultava, come dire, impantanato, così venne presa la decisione di fare un unica
votazione che valesse per un certo periodo, diciamo venti minuti.
I conservatori, vincitori delle prime elezioni democratico-circensi, tendevano per natura, e
questo è chiaro, a conservare ma cosa, invece, non era altrettanto chiaro. In effetti nei
261
momenti in cui il pubblico conservatore comandava lo spettacolo, a causa della mancanza di
decisioni, ad annoiarsi erano perfino i nani, notoriamente i più vivaci ed allegri. Così iniziava a
serpeggiare fra i conservatori l'idea di risolvere il problema affidando le decisioni necessarie
ad un unico spettatore che si fosse dimostrato indubitabilmente il più esperto e competente
fra tutti. La scelta cadde ovviamente sull'individuo col naso più lungo, in quanto in tutto il
mondo era risaputo che avere-naso-per-le-cose non era dote comune. Alla fine, per non
perdere tempo, gli vennero affidate un po' tutte le decisioni dello schieramento e,
soprattutto, gli venne cucito da due esperte sarte un vestito degno della maestà del ruolo.
Il circo riprese così a funzionare alla perfezione, lo spettacolo dei nani divertì a tal punto sua
maestà che, ella in un gesto di terrificante e divina bontà, li volle risparmiare alle fauci
dell'elefantigre. Tuttavia questa magnanimità non soddisfaceva affatto alla volontà del
pubblico, che per di più era pagante e che era avido di assistere all'evento di trasformazione
tigroelefantesca.
Così i successivi venti minuti di governo toccarono ai riformisti.
I riformisti amavano chiaramente riformare, ma cosa e soprattutto come non era altrettanto
chiaro.
La litigiosità dei riformisti risultò essere paragonabile solo a quella dei nani, notoriamente
litigiosi e cocciuti.
Tra l'altro la vittoria nelle elezioni aveva portato una euforia eccessiva nello schieramento,
che probabilmente era ancora impreparato a portare avanti uno spettacolo di tal guisa, e
quindi lo schieramento riformista, oltre che a portare a termine la trasformazione, cosa che
tra l'altro non riuscì nonostante furono dati in pasto all'elefantigre sia gli apprezzatissimi
nani che i due restanti trapezisti, non riuscì ad ottenere molto dalla propria gestione,
scontentando un po' tutti soprattutto all'interno del proprio schieramento.
La mancanza di fantasia e di idee precise su come fare divertire il pubblico oramai superpagante era il vero problema dello schieramento riformista. Ora, senza voler fare della sterile
polemica, risultava evidente la mancanza di un vero leader.
Le successive consultazioni elettorali furono, inevitabilmente, un vero fiasco, visto che l'unico
coraggioso votante scrisse sulla propria scheda elettorale un insulto a tutto il sistema che si
era creato, tale che sarebbe sconveniente riportare in questo contesto.
Con il pubblico scontento ed innervosito per la mancata trasformazione tigroelefantesca e per
i falliti esperimenti politici, il direttore, che nel frattempo si era liberato dalla trappola
tendosa che lo affliggeva, riuscì, con la sua arte affabulatoria, a convincere il pubblico, oramai
allo stremo delle forze, a buttarsi volontariamente nelle fauci del mostro con la promessa che
almeno uno di loro, alla fine, sarebbe riuscito ad ammirare la mitica creatura elefantesca.
Ordinatamente, il pubblico si mise in fila e senza protestare, uno ad uno si infilarono nella
bocca del mostro diventato oramai enorme. Esso non aveva più bisogno di masticare e le
trasformazioni che avvenivano in lui per ogni spettatore trangugiato erano sempre più
impercettibili.
262
Il direttore, e questo gli spettatori forse lo immaginavano fin dall'inizio, sarebbe stato,
probabilmente l'unico a poter assistere al vero evento che vale una vita. La tigre era oramai
sparita quasi del tutto, restavano poche macchie di peluria sulla coda ed il direttore, unico
sopravvissuto, si fregava le mani, ignaro e felice, sotto quello che inizialmente era l'unico
semplice spettacolo: un cielo stellato. (marco)
Da questo balcone di anima inquieta mi gira la testa come in un circo. Mi gira la testa come
fossi bruciata, come una strega. Mi gira la testa come guardando la TV. Come una strega.
Oggi per lei è un giorno fortunato: forse...
Può vincere immediatamente cinquantamila Euro, organizzando una rapina ai danni della Banca
d'Italia.
Legga in fretta è importante
Le piacerebbe firmare presto una cambiale di cinquemila Euro?
E vorrebbe perdere nel giro di poche ore duecento Euro?
Si?
Allora mi ascolti bene!
OGGI E' UN GIORNO FORTUNATO PER LEI!
Lasci che glielo dimostri, perché è esattamente ciò che è accaduto alla signora X, che
purtroppo è deceduta cinque giorni dopo aver ricevuto la mia:
VEGGENZA APPROFONDITA, A SOLE SESSANTAMILA EURO!!
Questa donna (In realtà era un travestito albanese, ma che la cosa rimanga tra di noi) viveva
in una situazione piuttosto precaria, con problemi economici e familiari, roba da suicidio
insomma, ed io con i miei: GRANDI POTERI OCCULTI, l'ho aiutata.
A far cosa?
Ma a suicidarsi naturalmente!
Infatti mi è bastato averle spedito una bomba in un plico anonimo.
Ma tornando a noi, la sua configurazione astrale di fortuna lascia prevedere delle perdite
importanti nelle prossime settimane e durante tutto l'anno. E' quindi necessario che lei giochi
i numeri di fortuna che ho calcolato in funzione del suo caso:
13.17.66.6.
Sarà veramente un caso, anzi un vero miracolo, se lei riuscirà a vincere con questi numeri
anche solo cinquanta centesimi di Euro.
Anche sul piano dei sentimenti potranno sopraggiungere presto grossi problemi: litigi,
infedeltà del partner, separazioni ecc.
Abbia ancora un po' di pazienza, e vedrà che i suoi desideri saranno esauditi ben oltre le sue
aspettative: violenterà una ragazzina di dieci anni, passando così per pedofilo, in seguito verrà
arrestato, e condannato a venti anni di carcere, il tutto a spese dello stato.
E' O NON E' FORTUNA QUESTA?
In tutta franchezza, io scrivo solo alle persone che sono sicuro di poter aiutare, perciò può
credermi se le dico che mi sono appena fatto venti mesi di carcere per truffa aggravata.
Accettando con l'accetta la sua disastrosa:
GRANDE VEGGENZA APPROFONDITA, le cose potrebbero migliorare notevolmente per lei,
proprio com'è accaduto alla signora X (Che in realtà era un travestito...) di cui le ho già
263
parlato.
O per la signora Y (Sorella della signora X, ed anche lei era un travestito...), che ha perso
trecentoventiquattro Euro nello stesso modo:
SEGUENDO AD OCCHI CHIUSI LA MIA GRANDE VEGGENZA APPROFONDITA!
Poverina era cieca dalla nascita...
O per tutte le altre disgraz...Intendevo dire fortunate persone che grazie al mio aiuto hanno
potuto realizzare i loro sogni più segreti, i loro desideri più sconci, i loro sogni più erotici....!
Ma ora torniamo a lei:
Per uno strano colpo di sfortuna, vincerà, vinceraaa, cinquantamila Euro al gioco.
Ma non si preoccupi, perché fortunatamente li perderà subito, in quanto li dovrà versare tutti
sul mio conto bancario. Questo sarà infatti il mio magico aiuto, per aiutarla a tenere la
sfortuna lontana dalla sua persona il più possibile.
Ricordi, ci sono più quindici giorni favorevoli, in un mese per perdere al gioco, con due date
cruciali che possono apportarle perdite per centinaia di Euro:
CHE FORTUNA!!
Proprio come la signora X (Che in realtà era un travestito...), e la signora Y (Sorella della
signora X, ed anche lei era un travestito...):
PACE PER LA LORO ANIMA.
Ora posso farle una domanda personale?
No?
Bene, gliela faccio lo stesso:
Ha fatto delle cose giuste nella sua vita, e ciò che è giusto ha pensato che doveva essere
giusto mi sono spiegato?
No??
Mi spiego, quello che per lei è giusto, che per me non è giusto, per lei è giusto, ma io non sono
d'accordo che sia giusto, perché se non può essere giusto per me, non può essere giusto per
lei, quindi per farla breve con tutto questo giusto ed ingiusto, io le consiglio che tutto quello
che per lei era giusto, e ci pensi bene prima di rispondermi che era giusto, di lasciarlo perdere
perché non era giusto, infatti se non è giusto, non è giusto, sono io che glielo dico: il giusto, il
GRANDE MAGO AMICO, l'uomo più giusto in questo mondo di ingiusti e di ingiustizie.
GIUSTO?
Mondo,
mondo ingiusto,
mondo crudele,
mondo perverso,
mondo frenetico,
dove tutto corre,
va di corsa,
gira e ruota
in un gran girotondo,
una ruota,
un perno d'ipocrisia,
264
cosa speriamo di ottenere,
dalla vita,
che speranze abbiamo
di un mondo migliore,
follia di libertà,
di fratellanza tra gli uomini,
inutile pensare a tutto questo
in un mondo malato.
Vidi lei,
in ginocchio tra le fiamme,
che lambivano la sua carne,
un fuoco eterno,
stava in ginocchio
sui carboni ardenti
sulle sue deboli spalle
reggeva pesante roccia
con su incise queste parole:
Io in vita mia
fui una stolta!
Urla agghiaccianti,
disumane risate,
echeggiavano nell'antro infernale,
orrendi demoni
che senza pietà alcuna
lanciavano frustate infuocate
sulla sua pelle nuda.
Ciecamente lei si fidò
di un uomo,
ma un giorno
la lama di un coltello
nella tenera carne del suo petto penetrò.
Il suo cuore quella lama raggiunse,
il suo sangue sul duro asfalto riversò,
la sua anima al giudizio
del sommo creatore rese,
del suo uccisore nessuna traccia fu trovata,
forse era l'uomo che lei amava. (Francesco Ambrosi)
265
Doppia notte
Ieri osservavo il vento che muoveva le foglie, ero disteso sull’erba e sentivo freddo
nonostante la serata fosse terribilmente calda a causa dell’aria africana. La leggera umidità
impregnava i vestiti e il cielo asciutto era pieno di stelle luminose.
Oggi osservo le foglie immobili appena sfiorate dalla brezza. Il sole asciuga la mia pelle, che
sento ruvida e poco recettiva. Sono come assente eppure estremamente sensibile, noto anche
i particolari più insignificanti, i contrasti, le sintonie. Come stregato dall’immobilità degli
istanti che scorrono, invece di percorrere la solita via per il lavoro, prendo una strada mai
fatta.
…
Sono su una specie di autostrada a sei corsie, la mia macchina è da sola in questa direzione, in
quella opposta le macchine sono completamente bloccate ma restano silenziose.
…
Sono io a non sentire il minimo rumore, eppure, osservando all’interno delle tante macchine
incolonnate, si vede chiaramente che tutti hanno la mano sul clacson nel tentativo vano di
scacciare via la fila.
…
Rallento incuriosito da una ragazza dai capelli scuri al lato della strada, mi fa cenno di
avvicinarmi e addirittura mi chiama: “Fermati, ti prego dammi un passaggio!”, “per dove?” domando - “lontano da qui, ovunque tu vada!”. La faccio salire e, da quel momento, non capisco
più una parola di quello che mi dice, mi parla in una lingua che sembra divina, sicuramente non
di questo mondo. Forse aveva imparato quelle poche parole solo per far fermare qualcuno. Mi
parla in continuazione ed io non so che risponderle, allora prendo la sua mano e provo a
stringerla. Smette di parlare, come un neonato smette di piangere quando la mamma lo prende
in braccio. I suoi occhi sono tanto grandi e di un colore così intenso che la pelle del suo viso ne
è come illuminata.
…
Non bado alle stranezze in questa giornata, sono come sassi che non impediscono all’acqua di
un ruscello di scorrere. Eppure, il mio lago di tranquillità comincia ad incresparsi col passare
del tempo ed il viaggio è sempre più stancante, anche se ora non sono più io a guidare.
…
Mentre dormo su un sedile di macchina, sicuramente accanto ad un angelo, un grido sordo e
diabolico mi tormenta e non posso aprire gli occhi perché la luce è accecante.
…
Sono sveglio, stanchezza e ansia hanno raggiunto il loro apice, forse. Osservo la ragazza
accanto a me che ha come mutato il suo aspetto, non parla più, mentre silenziosamente le
lacrime scorrono sul suo viso. Sembra che una vita sia passata in questi pochi minuti di sonno.
Una frenata brusca mi fa quasi sbattere contro il parabrezza. Le chiedo il perché di questa
frenata e lei mi risponde: “Non ti accorgi che non c’è più il parabrezza?”, incredulo, allungo la
mano e non trovo il vetro. Sono spaventato e le chiedo: ”Cosa succede?”, ma ha già ripreso a
guidare e ora l’aria quasi trapassa la mia pelle. Cellula dopo cellula gli strati di pelle del mio
viso si staccano ed io non riesco più a pensare a niente.
…
266
Sono ipnotizzato da un tramonto che sembra l’unico, l’ultimo, mai visto e sempre presente nel
mio animo. Un tramonto ed un’alba insieme, da non sopportarne l’immensità.
…
Il paesaggio incantato e sconosciuto lascia lentamente il posto a strade familiari e terrene. I
palazzi di questa città non permettono di osservare quegli spettacoli particolari, irripetibili,
che modificano per sempre il corso di una breve esistenza. Brevissima, forse un solo giorno.
…
Ieri osservavo le foglie immobili o forse il vento che le muoveva …
Oggi, dopo una vita o dopo pochi minuti, osservo l’angelo accanto a me, invecchiato e stanco,
che mentre guida non distoglie lo sguardo dalla strada e ne sono incantato. (marco)
La vita, un groviglio di strade,
un labirinto di stanze,
tante porte.
Stanze vuote,
stanze cariche di sogni,
stanze di antichi ricordi,
e ancora,
stanze chiuse e impolverate.
Qua e là finestre aperte sul mondo,
luci di speranze,
ombre di malinconie.
Una chimera fa capolino da una botola in un soffitto,
in una stanza chiusa a chiave,
non si sa neppure il motivo.
Ma al di là del cuore,
oltre i meandri dell’anima,
c’è una camera con un sarcofago,
dove sono sepolte cose nostre,
così segrete che non le conosciamo neanche noi,
seppure siano intimamente nostre.
E’ la stanza di quella porta che non si chiude più.
“Nudo e indifeso, spogliato delle tue armi,
vorresti nasconderti nel posto più profondo,
confonderti con l’oscurità,
ma sei sempre pronto a scoprirti.
Non ti piace quello che vedi.
Una grande debolezza,
alibi di una forte umanità crollano sempre sotto le stesse paure.
Dove trovi la forza per reinventarti?
Per cadere poi chissà dove?
Ancora un momento di pausa, di eterna riflessione.
Con il cuore a pezzi ti riprendi in mano,
sfuggono le speranze, mentre i sogni girano alla larga,
lontano anni luce da te,
267
da noi,
da me.
Vorresti sapere quale sia la strada da intraprendere,
ciò che si deve fare nella vita, qual è la meta,
il fulcro su cui far ruotare questa flebile esistenza,
lo scopo, la roccia a cui aggrapparsi con tutte quelle poche forze che sono rimaste.
Ma in una doppia notte nella mattina,
ti accorgi che amara e triste,
alla luce di una pallida speranza,
rimane la consapevolezza che i sogni muoiono all’alba,
e cruda cade la realtà ogni giorno.
A volte è come si stesse vivendo la vita di un’altra persona,
invece sei sempre tu, intriso dai tuoi ricordi.
I sensi fanno percepire le vibrazioni del mondo,
sembra di respirare la vita anche attraversa i pori della pelle,
eppure è così semplice distendersi,
chiudere gli occhi e in questo silenzio solo vivere.
Solo vivere.
La frenesia non è uno stile di vita, ma solo tanta stanchezza,
e l’amaro dolore fa ancora tanto male.”
Sento la voce dei miei primi sogni,
gridare all’uomo che non ho mai incontrato,
tutto il mio amore, le mie felici speranze.
La vita ha cancellato quegli acri desideri.
Avevo grandi sogni allora e tanta voglia di vivere!
Tanta voglia di sperare, di lottare per i miei ideali.
Ora guardo le mie mani,
e sono nude,
e sono vuote.
Nel cuore quell’acerba malinconia senza rimedio,
per tutto quello che non ho trovato,
per tutto quello che non ho avuto e …
credevo spettasse a tutti nella vita.
Non è così!
Buia è la vita quando non ci sono né sogni e né speranze.
Cerco solo un po’ di pace dentro me.
E voglio ridere…
E voglio tenerezza…
E voglio aria pura…
forse allora il mio respiro sarà più grande.
Voglio un po’ di silenzio,
dolce,
pace,
dove cercare e trovare una mano vicino a me,
che mi coccoli il cuore nella gioia rara e nel dolore.
268
Una vita che ha tutti i suoi anni impressi dentro,
e quando gli occhi si riempiono di lacrime senza un apparente motivo,
quando la contentezza s’infrange su rimembranze lontane,
quando malinconie improvvisamente sbocciano e feriscono ancora,
allora si sa che tutto scappa dalla stanza col sepolcro,
adornata da incisioni scritte col sangue dell’anima,
la stanza con quella porta che non si chiude più.
Una vita con tutti gli anni impressi dentro si porta dentro tesori di parole... inadeguate per
una vita intera...
Ci sono momenti in cui nessuna parola può esprimere una condizione d’animo così intensa, per
quanto bella e meravigliosa possa essere. La mia mente vaga, si espande illimitata come
l’orizzonte, ed il pensiero va a focalizzare l’immagine sublime dei gabbiani liberi nel tramonto.
Quell’immensità degna dell’anima è simile ad un paesaggio stepposo e primitivo che annulla
l’individualità e si fonde con l’infinito di un attimo, fugace ma tanto grande. La mia gioia pura
vola serena con ali di cristallo, ed una pacatezza così colma di tranquillità fa bene al cuore. La
bellezza del mondo, della natura e la felicità di vivere non sono stanche di saziarsi e di
perdersi nell’azzurro di uno sguardo colmo dolcezza, che emana fiducia, sicurezza, conforto
ed anche una piccola e pungente amarezza. Tutto è un’immagine di vita. (Gloria Venturini)
Parole
inadeguate,
suoni
troppo complessi.
Dietro una porta
sorride la luna,
dolce
come il primo amore.
Dietro una porta
che non si apre,
non trovo suoni e parole
adeguati.
Una luce intensa
e calda
come una carezza desiderata
in questa sogno di mezza notte.
Veglia solitaria
in un pulsare di stelle,
musica
misteriosa
e calda questa notte.
Occhi dolci e chiari
di luce e gioventù perduta,
come una volta,
tanto tempo fa,
269
regalo per una sera.
Un attimo più lungo
e ne avrei paura.
Tempo non correre via
sgranando le ore,
rallenta il respiro,
rallenta,
fermati come una fotografia,
intorno danzano voci persone cose parole rumori di fari occhi chiari mari.
Lascio scorrere le mani su queste parole così inadeguate, il coraggio o la forza della vita e
della morte sono in altre mani. Un asteroide vaga insensato da secoli dentro il suo destino. Se
incontrassi i tuoi occhi, quelli di tutti gli sguardi che ho amato senza essere infedele, senza
poterli tenere per me, sarei mare liquido o lago d’acqua chiara. Questa malinconia senza
angoscia, dolce come una notte che si fa chiara di luna, me la rigiro tra le mani, la vendo, la
regalo, fammi volare con te solo per cinque minuti, cinque minuti in cui non possa pensare a
niente. Nuvola bianca inseguita dal sole, luce che scompari dietro l’altra faccia della luna,
sogno più reale di queste mani che pigiano i tasti e di questa fronte senza storia. Poesia
infinita dove è assente la materia………un’altra vita.
Nero grigio denso cielo scuro
assenza di luce
irrequietezza stolida e immanente
prima della pace
sfinitezza di oblio intuito
amico e nemico
una luna dietro a un dito. (aiseop)
autunno,
poche rose,
niente rose,
ma sempre almeno una,
sul letto di foglie che separa terra ed aria ...
sole, che muore in quest'alba,
che brucia la pelle delle mie mani,
rossa, e simile al guscio di un'aragosta.
nulla fuori, tutto dentro.
rosso come il sangue che mi parla,
chi mi ha descritto la voce del sangue?
trascurai quella voce,
ed ora è muta. (marco)
270
Apnea
271
Incubo ad aria condizionata
Andare sulla Luna non fa più notizia.
Non c’è bene
dove non c’è male.
Non c’è amore
dove non c’è sesso.
Non ci sarebbe salute
senza le malattie.
L’equilibrio:
niente destra
senza sinistra.
Cadono i muri.
Popoli divisi.
Prostitute albanesi.
Dov’è il fascismo?
Senza centro……
non c’è comunismo,
ma l’equilibrio?
Il caos.
L’interesse: l’unica fede.
Frammenti….
frammenti di che?
D’amore…
di rossi…di neri..
d’orgoglio…di passioni..
solo ricordi.
…E la carne, i casini?
Chiamami …sono Lucrezia..
e la carne?
Il profumo…la pelle
l’afrore di…..
Tu..tu..tu..tu
avviso gratuito
l’utente da lei chiamato
non è al momento raggiungibile.
Tu..tu..tu..occupato!
Polvere di stelle…
Bianca?
Risogna….
Sarai più fortunato. (Giuseppe Bianco)
Le cose hanno mal di denti.
Le cose.
272
E' che il più
delle volte
non sai dove stanno
le cose belle della
vita e quindi spesso
procedi a tentoni come
una talpa che cerca
il suo campo. (corrado carlin Dag.)
Melanconie lungo la riva del mare
come un film anni 60
- La smart card PC drive UBS palmare
Iraq petrolio guerra e pace
Intifada un morto (uno) in Afghanistan
Un palestinese ucciso
Tre morti nel tamponamento a catena - leggo prima uno o l’altro? - audience auditel share Melanconie lungo la riva del mare
mare di rapina corsara
(qualche tratto somatico orientale)
mare di pesca dolorosa,
ragazzino timido pensoso fermo a veder tirare su le reti
- innocente malinconia negli occhi riempiti dal tramonto come un film anni 60 in bianco e nero.
Ora comunichiamo per e dove il padrone ci chiama
- diciamoci sottovoce poche parole vere
prendiamoci per mano e camminiamo piano Non c'è campo per le parole c'è campo solo per i cellulari ciao, come stai?
Questo piccolo orto cinto da un muretto screpolato
Questi cespugli d’erba sconosciuta e stenta
Due limoni ricurvi un arancio selvatico
Un cielo che s’indora improvviso sciabolando la luce
Tra nuvole nere fuggitive un attimo sospese indecise
L’intimità di questa emozione l’incomprensibile certezza
Di non poterla condividere che tra volti lontani
Di anime sconosciute ché se fossero carne viva e sangue
Non sarebbe possibile parlarsi così senza farsi del male.
Non mi chiedere perché né se ne sono contento…….così è.
Però Sanremo è Sanremo!
Un motivo musicale
Un refrain
Per rendere dolce la sera
E la notte
Vera
Un regalo di note
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Che accarezzano il cuore
Senza paura di tremare
Vibrando di luna
Illudendo gli occhi di stelle
Respirando il mare
Al buio un incontro di anime
Granelli di sabbia
Dispersi e raccolti dal vento
C’è un senso profondo
In questa musica
Svelata per amore
Respiro di Dio
Mai così vicino
Al cuore. (aiseop)
Giordano Bruno muore bruciato.
Da quel rogo.
Tu guardavi il cielo
e dove per altri era mistero
tu vedevi l’universo
e infiniti mondi,
e nella semplicità di un granello di sabbia
vedevi l’immenso splendore che si specchiava
con l’unico spirito divino possibile,
quello della reale misericordia,
quello che non faceva del potere
degno motivo di sua rappresentanza.
Hai creduto fino alla morte nell’uomo
e da quel rogo esala ancora
impassibile e fermo il tuo pensiero,
credere nella forza di un seme
che germoglia fra le terre arse
dall’ipocrisia e dall’intolleranza,
credere nella magia dell’armonia
che tutto quieta nella consapevolezza,
credere nella semplicità di un seme
nel quale specchiare il tutto del fluire universo,
uno sguardo diretto verso il cielo
senza l’apparenza a far da inganno.
Hai fatto del ricordo arte
traducendo il pensiero in immagine
e l’immagine dilatata si espandeva
verso l’infinito dello scibile,
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e della tua morte facesti sigillo d’eternità,
pensiero irripetibile della causa eterna
della natura effetto senza limite,
hai creduto fino alla morte nell’uomo
hai creduto nella forza di un seme
che germoglia fra le terre arse
dal pregiudizio e dall’intolleranza. (Gerardo Sorrentino)
Peter Pan va sull'isola che non c'è.
Andar controcorrente
è il mio mestiere.
Il remo nello scalmo
spinge forte e lascia dietro
l’onda battagliera di un’altra primavera.
Il volto corrugato da un destino avverso,
sferzato dal vento dell’ipocrisia,
segna la rotta instabile
del confuso idealismo.
Concetti un po’ banali,
principi elementari
fan da timonieri.
E mentre il tempo corre e fugge via,
io remo e remo ancora
controcorrente
cercando un posto che non c’è.
Vorrei veder con te
sorgere il sole
dividere la gioia del desio
quando l’incontro
dei due furtivi amanti
riempie il cielo
di infuocati bagliori,
ed all’amor
si aggiunge il pianto.
Si toccano, si baciano
per separarsi ancor
mentre lacrime
di argentea luce
rischiarano il cor
nella speranza
del venir del giorno.
Non ci sono più le mezze stagioni.
Ah quanto
la bella stagione
è ora nemica al mio cuore!
275
Con un soffio caldo
hai sconvolto i sensi sopiti
per travolgerli
nella mietezza
della primaverile brezza.
Farfalla hai seguito
il nascere del primitivo fiore
ridondo di polline inebriante
a generare nuova passione. (moscerino)
Mi manca da morire quel suo piccolo grande amore adesso che saprei cosa dire adesso che
saprei cosa fare adesso che voglio un piccolo grande
amoo...oooo...oooooooo...ooooo...reeeeeeeeee
Mi ha vinto
la sua voce
roca nella notte buia
quando il respiro
si affanna
e le mani
non bastano alle carezze
… la bocca
non basta ai baci
… la lingua
non sazia i sapori.
Mi ha vinta
sotto la luna
e il suo raggio chiaro
a ombreggiare sagome
per terra
... a distorcere volti
... a eccitare pensieri.
Mi ha vinta
e portata dove la mia inibizione sterile
voleva morire.
Tra le sue labbra. (Francesca Pellegrino)
Dlin Dlon. Consigli per gli acquisti.
In questi tempi incerti, se per puro caso, facendo una gita in campagna vi capitasse di vedere
una mucca, con un capello da Napoleone in testa, non lasciatevi ingannare dalle apparenze,
quella è una mucca pazza. (Francesco Ambrosi)
Un paese di provincia è un microcosmo fatto di vicoli umidi e ripidi; di case dai tetti spioventi,
coperti di tegole rosse; di piccoli negozi e discorsi in dialetto.
La vita trascorre sonnolenta intorno alla piazza principale e le giornate si susseguono
identiche e ripetitive per le casalinghe come Carla.
Carla si alza ogni mattina alle sei, per preparare il caffè a suo marito, un bestione di
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centodieci chili dal ventre prominente. Gli stira la camicia, gli fruga nei pantaloni per cercare
eventuali buchi nelle tasche e trova invece un bottone marrone finito lì chissà come. Mette via
un fazzoletto sporco, non prima di avere controllato la presenza di eventuali tracce di
rossetto, e lo sostituisce con uno fresco di bucato.
Il bestione sorbisce il caffè a letto e ringrazia la moglie commentando a voce rauca: "acqua di
polpo!Puah!".
Carla và in cucina e accende la televisione, senza badare ai commenti del marito, sempre così
brontolone. Compare sul video una annunciatrice che sorride, mostrando i denti bianchissimi.
"Chissà che c'avrà questa da ridere all'alba! Capirai..." pensa Carla mentre si riempie i polmoni
di nicotina, fumando la prima sigaretta della giornata.
Suo marito fa capolino sulla porta; è ancora in mutande, ma indossa i calzini e ha fatto volar
via un bottone, cercando di infilarsi in una camicia che è diventata troppo stretta.
"Cucimi questo stramaledetto bottone, che sono già in ritardo!" ordina sbadigliando.
Carla cuce pazientemente il bottone, evitando ormai di fargli notare che forse sarebbe anche
il caso di mettersi a dieta. Dopo quindici anni di matrimonio ha rinunciato a lottare contro suo
marito, contro lo sporco, contro le rughe, contro la cellulite e i peli superflui.
L'aveva sognata diversa la sua vita, da ragazzina, quando stringeva a sé il cuscino e immaginava
il primo bacio.
"Chissà perché ti fanno crescere col chiodo fisso del matrimonio" si domanda sempre più
spesso ultimamente e si fa strada in lei la convinzione di aver preso una enorme fregatura
dalla vita.
E' contenta di avere due figli maschi: poche soddisfazioni ma poche preoccupazioni.
Il bestione finisce di abbottonarsi la camicia e non le dice neppure grazie, si limita a darle una
pacca sul sedere e ad esclamare allusivo: "A stasera, eh?".
Non è un gentile invito, è semplicemente un preavviso perché si faccia trovare con indosso
qualcosa di più sexy del suo pigiamone di flanella.
Nei primi tempi del suo matrimonio Carla ha vissuto qualche momento di esaltazione, la notte,
tra le lenzuola di lino ricamate a mano; ma la passione si è raffreddata presto e adesso serve
alla sua dolce metà la solita minestra riscaldata.
Carla guarda dalla finestra il marito che si allontana, tenendo i bambini per mano.
"Dolci occhi di ladra..."la sigla della prima soap del mattino rapisce la sua attenzione.
Si immerge nell'oblio di storie finte e insulse per dimenticare la banalità della sua vita reale.
(maria oliveri)
Andare sulla Luna non fa più notizia.
Un giorno un povero topino si aggirava sconsolato per le vie della città. Ah quanto è diventata
dura la vita di quaggiù pensò volgendo lo sguardo alla luna che ammiccante lo guardava. Una
volta era più semplice! Bastava fare quattro salti dietro l’angolo, tuffarsi in qualche
cassonetto e si era pronti per la gran festa. Con tutto quello che gli uomini buttavano via, tra
avanzi, scarti e leccornie, ogni giorno era baldoria. Ora ti aggiri per le strade e trovi solo
tanta monotonia. Ieri ho visto un bel contenitore. Era invitante, tutto colorato che già gustavo
un bel pranzetto. Mi ci son tuffato dentro con grande avidità e cosa ne è venuto fuori? Un
maleficio mai visto prima! Un urlo mi è salito su dallo stomaco mentre degli artigli graffiavano
il mio pelo. A guardar bene ho poi scoperto cosa fosse quella diavoleria. Già, si chiama vetro
signori miei, più pericoloso del caro, vecchio topicida. Questa davvero non è vita mia cara
amica, disse rivolgendosi alla luna. Stanco del suo vagabondare, intristito dalla fame che lo
divorava, si fermò a riposare su un grande spiazzo. Improvvisamente il buio fu squarciato da
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un’enorme luce ed udì voci umane levarsi concitate. Guardandosi intorno
esclamò:”Acciderbolina, ma questa è la base da dove domani partirà la navicella per la luna! E
se venissi lì da te? Magari si sta meglio di quaggiù” Appena tutti furono via e spente le luci, si
intrufolò nella grossa navicella ed acquattato, nascosto per benino, attese di arrivare sul
pianeta. Che sorpresa trovò lassù! Quell’amica panciuta che gli teneva compagnia nelle serate
grame sulla terra era un’enorme forma di formaggio. Proprio quel che mi serviva, pensò tra se
mentre iniziava a rosicchiare, quando ecco spuntar fuori degli strani omini. Avevano delle
buffe orecchie a punta, lunghissime dita con grandi artigli e, sopra le piccolissime orbite
roteanti, che fungevano da occhi, degli strani paraluce. Come son buffi questi omini pensò tra
se. Fortuna che appaiono pacifici. Venire fin quassù, per un’altra vita tribolata come quella che
ho lasciato, sarebbe stata una disgrazia, proprio ora poi che ho trovato questo paradiso. Uno
degli omini gli si avvicinò timoroso per osservarlo. Fu allora che, passato lo spavento, si leccò i
baffi e fattosi coraggio chiese: Sai dirmi amico mio perché indossate tutti quegli strani
paraluce? Questi, dopo un fragoroso Gulp-Orp-Scaratafà, sospirando gli disse: “L’eccessiva
luce ci danneggia. E’ per questo che viviamo nascosti al buio e quelle poche volte che siamo
costretti a venir fuori usiamo queste strane protezioni”. Improvvisamente il topo vide passare
davanti agli occhi tutta la sua vita grama sulla terra e pensò al riscatto. Ho io la soluzione
amico mio! Come negarla a voi che mi avete accolto forestiero senza chiedermi un perché?
L’omino sorrise. Vedi quelle grosse dita penzolanti? Bene, per prima cosa fate crescere delle
lunghe unghione, affilatele e poi tornate qui da me. Io intanto metterò a punto il piano per
togliervi d’impaccio. Quando gli uomini verdi tornarono li accolse con un gran sorriso e
presentò loro una bella piantina per la costruzione di un’immaginifica città. Ma amico mio, gli
disse il portavoce degli omini, tu ci avevi promesso una soluzione ed invece ecco che ci mostri
una piantina. Pazienta e capirai. Oggi siete costretti a vivere al riparo della roccia, ecco invece
la mia idea. Con gli artigli che avete affilato scaverete delle grosse gallerie ed una magnifica
città, con strade, palazzi e tante meraviglie verrà edificata lontano dalla luce. Potrete
finalmente correr felici, girare per le vie e guardare il mondo. Per mostrarvi la mia amicizia,
non potendo darvi un aiuto nello scavo, mi occuperò della rimozione del terriccio. Gli omini
andarono via, felici di aver trovato un sì grande amico, ed il giorno seguente iniziarono i lavori
di gran lena. I giorni passavano ed il topo continuava a mangiare il formaggio grattugiato dagli
omini che grati decisero di incoronarlo RE. Il topo era sempre più trionfo del suo potere
quando atterrò sul pianeta un’astronave partita dalla terra. Il re chiamò a se i sudditi ed
ordinò loro di portare al suo cospetto tutti gli occupanti del veivolo. L’ingordo sovrano quando
vide che dai terrestri era stato inviato in osservazione solo un piccolo e sparuto topolino di
campagna, ricordandosi del suo passato temette per la stabilità del suo regno. Per evitare ogni
pericolo ordinò che fosse condotto con gli altri giù nella miniera di formaggio per procedere
all’incessante scavo. Il povero topino scavava e canticchiava felice tutto il giorno e la sua voce
si perdeva nelle lunghe gallerie fino a giungere al palazzo reale. Il re topone, infastidito e
incuriosito da tanta allegria fece chiamare a se il piccolo topino per interrogarlo. Perché sei
così allegro con tanta fatica da sopportare domandò? Il topino rispose semplicemente
sorridendo: “Ne ho be donde d’esser felice. Scavando giù nella miniera ho trovato una filatura
di formaggio assai gustosa, light ma proteica. Non viene fatica a lavorare con tanto ristoro”. Il
re, leccandosi i baffi, ordinò che presto fosse portato a lui quel nettare divino. Rispose il
piccolo topino: “Vorrei o mio sovrano ma non posso. Quella magica pasta filante ha un gran
difetto, può essere consumata solo in loco altrimenti deteriora con il trasporto”. Il re,
incuriosito, volendo assaggiare quella magnifica leccornia, dispose che venissero allargate le
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gallerie per il suo passaggio e percorse quelle vie di gran carriera fin quando, giunto, cominciò
a rosicchiare il formaggio. Ormai stanco e satollo decise di tornare al suo trono. Si voltò
indietro volgendo lo sguardo al topino di campagna che aveva ripreso a canticchiare. Cos’hai
ancora da cantare se ormai ho mangiato tutta la tua pasta filante? Rido dell’avidità che acceca
la furbizia o mio sovrano. Vedete l’ingordigia quale ingenuità ha generato? Ormai grasso come
siete resterete rinchiuso in questa gabbia d’oro mentre io, piccolo ed affamato, ho
conquistato la mia libertà. (moscerino)
Fa caldo stanotte è un dicembre tropicale
quella notte di dicembre sembrava più buia, la luce tremolante dei lampioni tingeva di arancio i
marciapiedi deserti....l'uomo alla finestra aspettava l'arrivo del tram che avrebbe lasciato
nell'oscurità gli ultimi passeggeri. aspettava da tre mesi ogni notte alla fermata, aspettava la
ragazza dai capelli d'oro, la ballerina che avrebbe dovuto sposare in settembre. aspettava
seduto sul selciato e lo avrebbe fatto anche quella sera se non si fosse ammalato. i binari
stridevano e il tram scompariva insieme ad una sagoma confusa verso il parco, mentre qualcosa
di luccicante accendeva l'asfalto. l'uomo alla finestra si infilava il cappotto per trascinarsi
fuori, verso la strada, tossiva reggendosi il petto, mentre una piccola foglia d'oro si posava
sulla sua spalla. correva nel parco e al suo passaggio i lampioni si spegnevano uno ad uno,
correva disperato fino a quando si fermò a piangere di fronte ad una grande quercia, esausto
cadde poi a terra. al mattino, mentre le campane rintoccavano le sei, vide affiorare tra le
foglie il volto della ragazza dai capelli d'oro, le sue labbra erano blu, ma il suo corpo era
ancora caldo. (anonimo)
Ancora una preghiera poi vado a dormire. Giuro.
Dammi una luna tonda,
stasera voglio una luna piena,
rotonda e gialla.
Voglio una candela che non si consumi,
che profumi tutti le stanze,
una candela tonda, come la luna.
Affetto vicino a me,
ho voglia di un caldo chiarore,
in questo inverno tanto freddo.
Voglio coccole da bambina,
una favola.
Raccontami una storia dorata stasera,
che mi porti a ballare su di un campo fiorito,
circondata da note e musica,
da danze ed elfi,
sotto una luna tonda.
Dammi un sorriso,
lo voglio conservare nella tasca dell’ultima opportunità,
voglio la tua mano,
che mi accarezzi e mi porti lontano,
io e te,
sotto una luna tonda,
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stasera,
io e te,
sotto una luna tonda. (Gloria Venturini)
Ma mamma, non ho sonno ancora. Un po' di TV. Solo programmi col bollino verde. Prometto.
Ricordo ancora il viaggio in Canada del mio miglior amico Antonio Bertucci, per uno strano caso
del destino aveva vinto un viaggio premio, mediante l'acquisto di duecento più una confezione
di biscotti Frisc-kroc, lui non era mai stato una persona fortunata, anzi era la più sfigata del
mondo conosciuto. Al suo ritorno, c'eravamo dati appuntamento in un bar di Udine, quando me
lo vedo arrivare ricoperto di bende e di ecchimosi, un incredibile miscuglio tra la mummia ed
uno zombie.
" Bertucci, ma che ti è successo? sei ridotto da far paura!"
" Non me ne parlare, è stata un'esperienza terribile."
" Ma cosa ti ha ridotto in questo stato?"
" La guida aveva organizzato un escursione nelle foreste canadesi."
" Bello..."
" Ma sul sentiero ci siamo imbattuti in un gigantesco orso. Tutti sono riusciti a scappare, ma io
sfortunatamente sono inciampato su una radice. L'orso mi era ormai addosso. "
"Fai il morto!" Mi gridò la guida che nel frattempo si era nascosta dietro ad un albero."
" E tu? Che cosa hai fatto?"
" Ho fatto come mi aveva detto la guida, mi sono disteso per terra, fingendo d'essere morto.
Allora l'orso deve aver pensato che il trucco era vecchio."
Mamma non vede. Bollino rosso.
Messa giù la cornetta del telefono, Romet, così si chiama il nostro personaggio, fece per
tornare a dormire, quando una potente scossa di terremoto del nono grado della scala mercalli
fece tremare tutta la casa, mentre un forte vento mandava in frantumi tutti i vetri di Murano
alle finestre. Piegato dal terrore, Romet si nascose sotto il letto:
" Romet, che fai ti nascondi alla mia vista?"
" Chi siete? Vi avverto, sono disoccupato, come tutta la brava gente di questo mondo non
tengo nulla in casa che non mi abbia già sequestrato la banca."
" Ma come, io sono il Dio, quello di Abramo, di Isacco..."
" Mai conosciuta questa gente, lo giuro, che possa morire se quello che dico non fosse vero."
" E sia: che venga la morte!"
In quella l'anta di un armadio si aprì di colpo, e dall'oscurità comparve una decrepita donna
vestita di un saio nero, con tanto di falce ed un avvoltoio appollaiato sulle spalle. A quella
visione, il sangue di Romet gelò nelle vene. " Signore, dicevo così per dire."
" Romet, io e te dobbiamo parlare di affari."
" Quali affari? ha a che fare con la borsa di Milano Signore?"
" No, domani sarà il grande giorno: quello del giudizio universale!"
" Giudizio universale signore?"
" Si, tu sei un mio angelo, mandato sulla terra in incognito per preparare la mia venuta."
" La SUA venuta...Si....Certo...Come no!"
" Ti sei dato da fare spero."
" Si certo...Figurarsi...Come no!"
" Che cosa sono quelle cose sullo scaffale?"
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" Quali cose? Quale scaffale?"
" Quello scaffale, che hai di fronte al letto, si chiamano videocassette vero?"
" Vedo che lo sa, perché me lo domanda?"
" Però che titoli: Porca Onta (V.M.18 anni), Porqus (V.M. 50 anni)..."
" Sono documentari."
" Documentari? sulla custodia ci sono fotografie di ragazzine di tredici anni nude."
" Tredici o venti, sempre esseri umani sono, per di più cosa vogliamo lamentarci sul problema
della pedofilia, quando la televisione mostra bambini che fanno lo spogliarello alla musica della
colonna sonora di Full Monty, poi quando succede il fattaccio certi direttori di giornali
vorrebbero pubblicare i nomi dei colpevoli, con la scusa così di incrementare le vendite delle
loro testate giornalistiche, così questi pedofili diventeranno famosi, saranno famosi, ma la
legge sulla privaci, dove la mettiamo la legge sulla privaci."
" Niente scuse, ti spedisco sulla Terra, me ne sto via un centinaio di anni, giorno più o giorno
meno, e quando ritorno cosa ci trovo? Un pervertito, mi meraviglio di te Romet!"
" Ma quale pervertito, ho usato quelle video per documentarmi, dico il vero, lo giuro sulla testa
della mia ragazza."
" Era questa la testa della tua ragazza?" disse il signore mostrando a Romet una testa
femminile appena tagliata, decapitata con una ghigliottina dal resto del corpo. " Signore, ma mi
deve sempre prendere in parola?"
" Non fa niente, tanto le ragazze sono tutte uguali, lo so perché le ho create io."
" Non sono d'accordo signore."
" Romet! Come ti permetti di mettere in dubbio la mia parola?"
In quel momento un fulmine entrò dalla finestra aperta e senza vetri, mandando in cenere i
mobili della casa. " Signore ti prego, è il tuo umile servo che ti parla, placa la tua furia divina,
abbi pietà di questa povera anima sperduta nell'oscura ombra del male, che umilmente chiede
il tuo perdono, non colpirmi ancora col tuo potente scettro della giustizia, ti prego..."
" E sia Romet, ma come giustifichi la frase che hai detto prima? Quella in cui metti in dubbio
la mia parola, dicendo che io il signore tuo dio, non ho creato la donna!"
" La scienza signore; Gli scienziati affermano che l'uomo è disceso dalla scimmia, da una
specie di scimmia. Però non sono mai riusciti a capire come abbia fatto a salirci sopra.
Comunque ci sono le prove di quanto affermano i cervelloni: in una caverna furono trovati i
resti dell'Homo Sapiens, mentre nell'angolo più profondo gli umili resti di quella che è stata
definita la Donna No Sapiens, poi nel corso della storia, l'uomo da semplice bestia che era, ha
sviluppato una certa intelligenza diventando la bestia ch'è tutt'oggi. Comunque a quei tempi, il
rapporto sessuale tra uomo e donna era molto semplice, bastava che l'uomo si avvicinasse
piano piano alla femmina, le dava una bella craniata con la clava, poi la trasportava nella
caverna, ed il gioco era fatto. Oggi invece le cose sono un po’ più difficili, provate infatti ad
avvicinarvi ad una donna, e a darle una craniata con una clava, al minimo vi arrestano per
tentato omicidio."
Dimenticavo. Buon Natale.
Vennero dall'oriente tre re magi, coi cammelli molto stanchi, e chiesero al vecchio lì vicino, se
da quelle parti fosse nato Gesù bambino. Ma il re, che in realtà era il perfido, crudele re
Erode, li mandò tutti a quel paese, esattamente a Betlemme. Così continuarono a seguire la
stella, diretti alla stalla, ma come iniziò questa loro ossessionante ricerca? Tutto ebbe inizio
quando Baldassarre, uno del trio Magi, dopo aver dato un'occhiata all'immensità dell'universo
mediante il suo potente telescopio a cristalli liquidi, rivolgendosi ai suoi tre colleghi, che in
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quel momento erano intenti ad aprire i doni sotto l'albero di Natale, anche se Natale non era
molto d'accordo e per questo gli giravano un po' le palle, disse: " Forza ragazzi, facciamo
rotta per casa di Dio!"
Così partì la loro ricerca della stalla perduta.
Trovata la stalla, e dopo essere entrati nell'umile dimora, come la descrisse Giuseppe il
falegname per dar loro il benvenuto, iniziarono ad adorare il bambino nella mangiatoia,
offrendogli: oro, incenso e...." Mirra cretino, ti avevo detto di portare la mirra, non la birra!"
Poi rimasero in attenta contemplazione: " Lo dicevo io che non era un terrestre."
" Avete visto cari colleghi, che orecchie lunghe appuntite e pellose?"
" E le corna? Avete fatto caso alle corna?"
Giuseppe:" Ma che state facendo, state guardando il bue e l'asinello...Gesù è quello in mezzo."
Si scoprì così che i Magi erano un po’ miopi. (Francesco Ambrosi)
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Senza Speranza
Ci sono più persone senza speranza di quante la coscienza ne voglia accettare. Senza speranza
ti mandano magari l'ultimo messaggio. E lasciano senza speranza anche te. E non c'è vita che
basti a dimenticare.
Io sono un angelo, veglio e veglierò su te, e le tempeste passeranno, il sole tornerà a splendere
dopo un fragile arcobaleno all’orizzonte, poi ancora pioggia, vento, e certe volte grandine, ma
io sarò qui, e tu non mi vedrai che per un istante, poi sparirò, magari nella nebbia d’un inverno
gelido, magari sottovoce, controvento…
In quell'interminabile notte d'aprile pioveva e tirava vento, un vento freddo, troppo. Lui
correva, correva col suo fuoristrada, era vicino alla spiaggia, le ruote aderivano poco
sull'asfalto bagnato, viscido, sul lungomare solo qualche gabbiano indolenzito, alberi spogli... E
le onde sembravano vetri, alte dei metri, vetri in frantumi. Il cancello automatico si aprì al
primo flebile tocco e lungo il viale sconnesso, in salita, lui cercava di scorgere lumi in
lontananza.. Entrando nell'immensa villa pensava di trovarci una donna ad attenderlo, no, non
quella volta, che niente sarebbe stato più dolce in quel fine aprile da cartolina sbiadita, che
nulla sarebbe risultato più magico e piacevole, in quell'attimo, preciso istante di pensieri vacui
e fuggenti e destini che si perdono..
Aveva quella cosa che sempre ha inseguito, e altri non hanno più , altri ancora non hanno mai
assaporato, neppure per poco, nemmeno per un piccolissimo inutile brandello di tempo: il
successo. Successo che porta popolarità e soldi di conseguenza, e i soldi attirano le persone,
donne soprattutto, così come il verme col pesce. Ma questa è un'altra futile storia e quel che
conta è che quella notte era solo.
Il freddo lo avvolse nell'immensa villa buia, illuminata a tratti da qualche splendido bagliore
nel cielo. Notte, notte che sembrava non dover finire mai.
E accese la tv e quel che vide fu il suo volto, reso irriconoscibile da colori troppo accesi e
brillanti, spense subito che molto spesso odiava il suo viso. Magia di una casualità, provò con la
radio, e inutile, inutile quanto assurdo, controvento, la sua voce roca rincorrere una melodia,
forte, troppo forte a quell’ora, magia di un insieme colorato di contorni attoniti, magia di un
niente quanto splendente.. spense subito.
Passò tempo, stava alla finestra a guardare gocce cadere, scorrere lungo le striature dei
vetri, lo sguardo fisso, qualche goccia corse, corse anche lungo le curve del suo viso, non era
acqua.. Si mise a letto nell’ora del risveglio, nascosto sotto le coperte come un bimbo, bambino
impaurito e travolto dagli eventi, forse non all’altezza di quel che il destino gli regalò in un
giorno assolato, che tanto sole può far male, forse, o forse no, che il signor destino, cieco quel
giorno, non altrettanto quello appresso, tolse come aveva dato…
Al posto dell’orsetto di peluche tra le braccia teneva una bottiglia del miglior brandy
francese. E passarono ricordi, che molte volte può far male ricordare, così di colpo, come quel
giorno di sole, o svegliarsi da un sogno..
E come l’acqua, acqua che segue la medicina amara, ad ognuno di essi un bel sorso..
Nessun dolore, sorso dopo sorso, nessun dolore.
Buttò via le coperte come libero, libero d’urlare, corse fuori, urlò, sotto una pioggia che
sembravano chicchi di grano caduti da cielo in terra per far crescere, maturare, tornò
fradicio. Intanto il tempo imperturbabile scorse ancora e poi ancora, in assenza di una donna
283
si diede, e lo fece con tutto se stesso, a non so quale chimica droga, che non era caduta da
cielo in terra, come per magica fatalità di fine aprile nel suo comodino.
La triste favola dell’angelo in un quel piccolo susseguirsi d’eventi narrati, inevitabilmente già
prescritti da un dottore schiavo di un meccanismo molto più grande, sembrava volgere al
temine. Andò in bagno, barcollando, aggrappandosi, tirò capocciate allo specchio, immagine,
frammenti, fino a romperlo, fino alla fine, fino a che mille e poi altri mille cocci di vetro, e
sangue, sanguinava, bambino, attore, splendido interprete di se stesso, seguì la linea delle sue
vene lungo il polso, salendo..
raggiunse il letto e coperte di seta bianca si colorarono a chiazze, rosso scuro.. aggrappò la
bottiglia, un ultimo sorso, il ricordo più lontano…………………………….
Alcune ore dopo la pioggia era cessata, il telefono squillava incessantemente, non può piovere
per sempre. E si dice, si dice fosse un angelo, e come gli angeli è volato via, senza far rumore.
(Paolo Pagliotti)
Ci sono testimonianze di disperazione negli occhi di ogni persona.
Questa vita grigia come l’umore di un foglio di carta bruciato,
questo sapore di un pavimento freddo nonostante quel persiano
e le distruzioni delle piccole sconfitte
nei fiammiferi spenti nel posacenere e le notti piene di distruzione
nelle fiamme del respiro
e nel fumo della malattia,
la polvere del cedimento che si gonfia e apre la bocca,
il disastro pende come una lama su una spremuta di desideri
e il cuore bruciato a metà
e scordato come una buccia d’arancia sopra il tavolo
fa il fumo nero della desolazione
che offusca le stelle e non si capisce da dove arriva il freddo.
Dentro quegli occhi c’è una stagione d’insolenza
si può vedere il ponte scricchiolante e le gomme consumate
e le occasioni sottocoperta con un’unghia di rovina,
dentro una rotta stregata recita il tempo la parte del buffone
e contro il crollo della notte
imiterò un’oscurità spaventata che ozia tra la polvere di una lampadina fulminata,
non ci sono progetti per mantenere inalterato l’essere,
non ci sono musiche del giorno dopo,
i rimedi all’inevitabile sono come divise impolverate,
i regni del passato hanno perso territori e baionette
e le sconfitte dei grandi imperatori sono quelle con l’eco più grande.
Ovunque sia una rosa c’è il pericolo che non rinasca rosa,
la disfatta si intuisce nel lucernaio con un treno fantasma ogni quarto d’ora
e non c’è tempo per i rimpianti
e svaniscono le bugie come rimedi che non funzionano,
sia distruzione e catastrofe e capitolazione,
sia crollo senza ricostruzione,
sia sconfitta senza rivincita,
sia quello che distruggerà la mia vita e
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sia la vita stessa quella che distruggerà me
sia quanto più possa soffrire distrutto dal troppo dolore e
sia questa sconfitta di un uomo che ama nell’anonimato e
si traveste da pubblicità straniera,
distruzione di un singhiozzo con le sembianze di una risata e
fine del fiato sprecato da un’orchestra trascurata
e fine delle terrazze affacciate sulle tangenziali intasate,
pioggia appena esco dal garage con le chiavi in mano e
passi lenti e cappotto umido
e la fine di una giornata è appesa all’incerata a fiorellini del tavolo della cucina
che si commuove ad un assaggio di commedia.
Mani bagnate, appassionate, prestate per tremare e per riscaldare,
una faccia tra queste mani ed un sogno tra le schegge del domani,
chiara e scura ed invadente
sarà l’arroganza di un inchiostro fatto di pigrizia e paura
e quel vento che sbatte alle serrande
porta il ritardo di un tango che sto ancora ascoltando
e freddo che arriva come un lupo a braccia aperte,
è una distruzione completa la mia
che trova sempre posto come un pullman al suo capolinea,
è una distruzione in ginocchio
tra pentimenti amari e pentimenti avari,
distruzione da indirizzo nello scontrino fiscale.
La tragedia alberga nell’animo di ogni sentimentale
come un sipario ormai ingiallito,
ne sa qualcosa la mia scrivania di mezzanotte
che attende per lo meno un epilogo decente,
ne sa qualcosa la mia faccia da bottiglia di vetro con l’etichetta
in attesa di un vuoto a rendere,
la fine della vita in uno spavento e la fine della notte in un bicchiere
e questa incomprensione del tempo
che finisca in un sonno o in un mal di testa,
finisca come una penna in un abito sbagliato.
Un bacio in astratto indossa le mie labbra,
si tinge gli occhi di lavanda e scappa lontano inseguendo
pioggia e strade
come una donna in penombra timorosa di soffrire
che scappa lontano dietro un’epoca peggiore
e quello che hai sbagliato nella finzione che hai interpretato
e quello che hai scordato nella sporcizia dentro te,
nel buio una faccia ubriaca di tenerezza
ha finito di piangere
e salire scale a chiocciola,
non c’è un gesto in un pugno o in uno schiaffo
che appartenga ad uno specchio rotto,
non c’è immagine che non cambi dopo la distruzione di un colore,
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una sposa vestita di bianco,
un sorriso color amaranto,
una chitarra appoggiata ad un giallo,
una vita finita nel grigio del portaombrelli.
L’allegria dei difetti è l’unica che mi rimane mentre consulto le macerie
e consulto il mio nome su cui è sceso un riso sardonico
e la giostra delle parti spezzata in due
ha lasciato la maledizione di non poter cambiare ruolo,
tutto farà parte di conflagrazioni e deflagrazioni,
le spiagge di fine serata saranno detriti,
i millesimi di finte realtà saranno rottami,
potremo chiamare gli amori rovine
e sentirli echeggiare come un contrabbasso in una stanza vuota,
potremo mandare in frantumi
qualche avanzo di eccessivo pathos
e camminare in punta dei piedi, camminare e prendere il volo facilmente
e accorgersi che non c’è risposta nel vento
e quando sei più vuoto di una promessa o di una tristezza
non sei più leggero,
sei solo più inutile di una cassetta della posta in una casa abbandonata,
sei solo più smarrito di un carattere costretto dentro una persona sbagliata.
La mia distruzione è ciò che di più bello avrò costruito,
la mia rovina è la sola vera arte che potrà esprimermi,
avrò amato veramente e null’altro potrà compiersi. (Matteo Costarelli)
Disperazione... che ci portiamo dentro e urliamo alle persone. E diventiamo ingombranti...
quando urliamo. Per questo restiamo soli.
Danny venne svegliato nel cuore della notte dal soffocamento del suo respiro non capiva cosa
gli stesse succedendo e in preda al panico non riusciva più ad addormentarsi. La notte
successiva gli capitò la stessa cosa quella dopo ancora e ancora. Tutte le notti, da dieci anni
fino ad ora Danny si sveglia di sobbalzo perché il suo respiro si ferma. Viveva tutti i giorni con
la sua ansia, smise anche di andare in analisi e iniziò a non prendere più psicofarmaci perché
ormai stava per sorgere un altro problema, la dipendenza: cinquanta gocce per stare tranquillo
al lavoro, tre pastiglie per non fare irrigidire i nervi e altre quaranta gocce per dormire ma nel
cuore della notte, puntualmente, il risveglio non desiderato.
La sua mente era stata violentata da tre psicanalisti prima di smettere l'analisi, i quali
avevano dato tutti una spiegazione al suo comportamento, alla sua ansia: il primo dottore la
attribuì alla rottura con la sua amata Amy, Danny disse che fu stato lui a lasciarla ma il
luminare spiegò che sicuramente il suo gesto era stato dettato dalla paura di non riuscire a
sostenere un rapporto con una ragazza molto bella e con una vita sociale piena di incontri,
quindi il rimorso lo faceva star male. Il paziente dopo aver guardato in faccia il suo dottore
capì che era il momento di trovarsene un altro. Il secondo attribuì il suo malore alla morte
dell'unico famigliare a cui lui voleva bene, suo nonno la sola persona che lo coccolasse,
trovandosi dopo la sua scomparsa circondato da gente tra virgolette estranea. Infine l'ultimo
dottore disse che i suoi problemi nascevano perché il paziente non aveva nessun amico nessuna
vita sociale, solo casa e lavoro. Chiaramente anche quest'ultimo come i suoi due illustri colleghi
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lo riempì di farmaci. Danny pensò che nessuno dei tre luminari aveva detto la stessa cosa tutti
avevano attribuito alla sua ansia delle spiegazioni diverse, probabilmente tutte vere, forse il
suo malessere proveniva da più motivi ma l'unica risposta uguale la diede lui dicendo che non
riusciva a capire perché si sentiva così, forse fu uno sbaglio nascere in questa epoca,
sentendosi cosi un diverso.ore 7.30 la sveglia suona ma Danny è gia sveglio da due ore. Scende
giù dal letto si infila le pantofole e va in bagno per la solita pulizia del corpo quotidiana,da una
breve occhiata allo specchio solo per pettinarsi poi tutto ad un tratto i suoi muscoli i nervi del
collo si irrigidiscono senza un motivo, senza preavviso, lo fanno e basta. Ora ogni movimento
del capo diventa faticoso come se avesse una testa di duecento chili sul collo ma per lui questo
è normale dal momento in cui gli succede tutti i giorni, scende in cucina e si prepara la
colazione un bicchiere di latte e due fette biscottate le quali alla fine del pasto spesso non
venivano neanche toccate se non per rimetterle nella loro scatola nella credenza.
ore 8.10 Dopo essersi vestito scende e va alla fermata del suo autobus che lo conduce al suo
lavoro da impiegato in un ufficio tecnico. ore8.30 Danny si siede nella sua scrivania accende il
computer e non parla con nessuno a meno che non si tratti di discorsi di lavoro ma anche in
quel caso le sue parole sono pesate, mai, più del necessario. ore12.30 l'impiegato va alla mensa
della fabbrica, ordina il suo solito menù: un piatto di riso, un pezzo di pane, un'insalata e una
bottiglietta d'acqua si siede e mangia, mai uno sguardo, mai una parola non pensa neanche
perché ha paura di essere condizionato dal suo pensiero e dalle altre persone producendogli
attacchi di panico.
ore14 Danny ritorna in ufficio ed inizia a lavorare.
ore 18 la giornata lavorativa è finita prende il suo autobus e torna nel suo appartamento dà
un'occhiata alla cassetta della posta e poi entra in casa. Si siede sul divano e riattacca la spina
al cervello pensa perché i suoi orari sono sempre gli stessi mai una variante, mai un giorno
diverso dagli altri, perché per continuare a lavorare senza aver paura del suo malessere ha
assunto un meccanismo di autodifesa che scollega la mente dal corpo e la fa concentrare solo
sul computer, perché da quando ha vent'anni i suoi momenti di rilassamento sono solo in
macchina con prostitute che puntualmente appena scendono gli creano una nuova paranoia,
cosa ha potuto fare per meritarsi questo. Ormai Danny si era creato uno stile di vita fuori
dalle righe da così tanto tempo da non riuscire più ad uscirne non l'aveva cercato ci si era
trovato dentro.
ore 20 si prepara da mangiare, prende una padella, apre il frigorifero e tira fuori dei
bocconcini di pollo pronti in cinque minuti, li cuoce e li mette nel piatto. Prende una forchetta,
un coltello, un tovagliolo, si siede e li mangia con la stessa velocità della cottura, lava il
coperto e pulisce per terra.
ore 20.30 va in camera da letto, si spoglia e si mette a letto dopo poco il suo cuore inizia a
battere sempre più forte, sempre più forte e non riesce a deglutire, rimane fermo immobile,
poi dentro il suo corpo sente una scarica di adrenalina e preso da un raptus d'ira corre in
cucina apre gli scaffali e inizia a buttare tutte le cose che ci sono dentro a terra. Spacca
piatti, bicchieri e urla come un matto, dopo, la quiete, il suo corpo si è completamente
rilassato è la prima volta da dieci anni che si muove con questa disinvoltura,si siede un attimo,
guarda il macello che ha combinato e torna a letto. ore 02.29 Denny viene svegliato dalla
mancanza del proprio fiato pensa che la sfuriata oltre a qualche minuto di distensione gli
avesse dato dopo tanto tempo l'opportunità di svegliarsi con il suono della sua sveglia. Si alza,
va in cucina a ripulire il disastro che ha combinato ma mentre raccoglie i cocci dei piatti nota
un bicchiere ancora integro e poco distante un flacone di candeggina, li prende e li mette sul
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tavolo poi continua a pulire fino a quando la cucina non riassume il suo aspetto.
ore02.45 l'impiegato si siede al tavolo, riempie il bicchiere di candeggina, lo fissa per alcuni
secondi poi lo stringe fra le sue mani e con movimenti lenti se lo avvicina alle labbra, sente
l'odore e lo agita come fa un sommelier con il suo bicchiere di vino.
ore02.46 il respiro di Danny si ferma nel cuore della notte ma questa volta non si sveglia,
rimane fermo, immobile a terra con un piccolo sorriso fra le labbra. (nik)
Soli. Soli. Soli. Soli. Soli. Soli. Soli. Soli. Soli. Soli. Soli. Soli. Soli.
La resa dei conti in un foglio che ride
della mia pessima interpretazione,
sono ormai alle strette
non so più nemmeno recitare e
cadono le ambizioni di un personaggio duro
dalle giornate sporche,
cadono le mimiche da pazzo giullare inchiodato
ad un pubblico,
cadono le memorie finte utilizzate
per scusare,
il ritorno verso casa diventa meno dignitoso
da raccontare
ed il consumo di me stesso in cose prive di vita
non ne vale la pena
se non hai una parte da recitare e
farti credere
che quelle grandi gesta diano abbastanza gloria.
Il sipario non ha motivo di chiudersi
e il sipario nero sopra le provinciali
crea una scena
in cui dimentichi le battute
ma non hai bisogno di frasi già scritte
e movimenti scontati
in quel momento basta un polline di fragilità che ti provochi
uno starnuto
per distrarti con semplicità da fachiro,
non potrò più fare il gentiluomo, il confidenziale e
lo spavaldo,
niente più facili complimenti e conclusioni affrettate,
niente più gin nel campari e rientri tardi mai avari,
non so se qualcun altro
se ne sia accorto…
il vino da pasto nel boccione da due litri continua
ad andare giù bene,
il citofono ha la stessa faccia e mi risponde e
mi apre il portone,
gli uomini e donne che conosco seguitano a concedermi
la loro apparenza,
288
ciò che mi preoccupa è mia nonna
non so se ne sia venuta a conoscenza
ma non credo
mi prepara ancora le fettuccine fatte in casa,
devo stare tranquillo
probabilmente un attimo di crisi d’ispirazione
mi fa essere
banale e troppo plateale,
non è detto che non possa rimediare
con mani tra i capelli e
facce troppo serie,
spero di non essere di fronte
alla resa dei conti
perché dovrei piangere tutte quelle lacrime
che non ho pianto per non farmi compassione
e dovrei consolarmi
per tutte quelle volte che ho fatto finta
che non ce n’era bisogno,
sono spiacente
ho sbagliato
la battuta
lo so
l’ho detta con sarcasmo mentre la dovevo declamare
irosamente
e poi non dovevo passarmi la mano dietro il collo
né pulirmi le orecchie
con la punta della matita
e le braccia alzate erano per far scendere le maniche
troppo lunghe
ma non ditemi che stavo pensando ad una donna
o ad un mandarino pieno di ossa
sarei proprio un dilettante,
è arrivato il momento di rivedere il copione
e far contento
chi mi voleva a quel modo
con la pancia asciutta senza peli nel petto
scolpito da punte di finale
mentre volevo solo stare in finanziera
in una stanza vuota a provare umori e vendette per la parte da esule,
rivedrò le parti che recito peggio
quelle in cui sono il vero innocente con una pellicola
kodak
dentro una macchina fotografica rotta
inutilmente felice
di tutti quegli scatti.
E’ uno spettacolo gratuito
289
con spettatori
più finti degli attori
e le quinte rumoreggiano
e non ho voglia di congratularmi con gli altri
che sanno così bene la loro parte
non ho voglia di disturbarli
né di giustificarmi
spero solo che ci sia abbastanza indifferenza
in loro
da scordarsi di me al primo marocchino lavavetri,
l’importante è che non scambino
il mio poco talento
per debolezza
altrimenti sono finito
e la storia di non disturbarli non è vera,
non voglio proprio salutarli,
sarò maleducato con un cappotto sulle spalle e
per lo meno
non prenderò freddo.
L’uscita dal retro è triste ma comoda
e i fogli bianchi sono difficili da ingannare
come le penne indisciplinate
e per strada
pensando a ciò che mi è lontano per scelta
comincio a sentire
un po’ di baccano
ma sono i bonghisti dietro l’angolo
e i gatti
nei secchi dell’immondizia
quindi è stata solo un’impressione,
mi commuovo quando fingo con me stesso per non farmi soffrire
e quelle davanti a me
sono ballerine danzanti che mi sorridono
in punta dei piedi,
sono fatte di luce e
mi fanno ballare con loro dicendomi di non pensarci
mentre il barista
è pronto con il conto in mano
ma sembra che non sappia niente neppure lui
ha il papillon
una moglie
una figlia
quanto basta per lasciarmi con l’inutilità di uno qualunque.
Ma no,
io non fingo,
non ho voglia di fingere
290
e i miei strani comportamenti sono reazioni a vuoti copiosi
ed esaltazioni delle mie sconfitte,
non posso fingere guardando negli occhi
neppure di fronte
alla miseria
di qualche spicciolo lasciato sopra il bancone di un bar,
e quando dico che preferisco
l’osteria dopo lo spettacolo piuttosto che lo spettacolo stesso
parlo sul serio
così che possa ubriacarmi con la mia amada
per farmi credere che almeno di fronte a lei esiste la possibilità di una distruzione
della finzione,
e nonostante inciampi
in un fantino e poi in un postino
continuerò a piedi ugualmente
scrutando i manifesti dell’intimo per donna
e le finestre con le luci accese,
pensando che probabilmente non sono capace di essere e basta
e di fronte allo specchio
vedo solamente la viltà
che mi copre
con una maschera di normalità
e le cassiere degli ipermercati
nei centri commerciali
non so come facciano ad essere così serene
non so se fingano
e siano altrettanto brave delle colleghe degli autogrill,
ci vorrebbe un regista serio
che mandi tutti a casa e annulli le tappe della tournèe
che prima c’è bisogno
di un parcheggio gratis
e di un mosaico fisiognomico da indossare
e di macchine
con la capacità di sopportare chilometri e passeggeri,
forse dovrei ritirarmi
e aprire una bottiglieria con tutte le guarnizioni,
sedermi a casa
e guardare un panorama che è sempre lo stesso
con i pali della luce davanti alle colline
e più in là
lontano
un temporale che forse è per me,
dovrei ritirarmi
anche se ho appena iniziato,
ma a chi non piace
un applauso,
291
un’acclamazione,
un senso di esaltazione?
e allora mi faccio incastrare di nuovo
e consulto una silvia sopra un elce con il becco storto per il rimorso
ed il mio foglio è ora spaventato da questo discorso
e credo preferisca
torni attore pessimo ma normale.
Non so più recitare e mi viene da ridere,
lancerò due petardi e
me ne andrò in silenzio. (Matteo Costarelli)
Soli.
292
Anestesia
Ci sono più persone senza speranza di quante la coscienza ne voglia accettare. Senza speranza
ti mandano magari l'ultimo messaggio. E lasciano senza speranza anche te. E non c'è vita che
basti a dimenticare.
Solo anestesie.
Rugiada
su erba di giada,
pianto silenzioso
della sera,
mentre la terra addormentata
nasconde sudore e sangue fossili,
passaggi d’amore e di morte, di vento e di luce,
di anima e di carne,
suo nutrimento secolare.
Scende una pioggia fine,
così fine che quasi non bagna.
Mi corico su questo letto di rugiada,
si smorzano gli echi e i richiami delle voci
sepolte, profonde , sotto la terra oscura.
Quasi sognando guardo il cielo e le stelle,
ho scelto l’anestesia,
forse lì inclina l’animo,
forse è soltanto paura. (aiseop)
Canta il mare
eternamente
dentro a una conchiglia.
Canta il mio cuore
confusamente
dentro alla mia anima.
Canta il silenzio
tenacemente
dentro alla mia mente.
Muoiono i sogni
cantando
dentro ad una speranza
spenta.
Fermi, fermi tutti. E' il capitolo sbagliato. La disperazione è nel capitolo precedente. Qui c'è
l'anestesia...
293
Dolce attesa,
aspettare la sera!
I passi lenti del silenzio,
vanno incontro al tramonto.
Uno sfavillio di luci
brilla nel cielo.
Splendida notte,
mi prende la mano…
mi porta lontano…
Nel parco dei sogni,
dove emozioni,
inseguono voli
di intime chimere.
Una nota di luna
mi veste di velluto
e petali di rosa.
I passi lenti del silenzio,
come improvvisi bagliori di stelle,
illuminano d’incanto
la vita mia.
Ci dimostriamo ogni giorno che l'anestesia è possibile, anzi perseguibile.
Non piangere di tristezza,
essa è lieve, come il sogno.
Le pietre si prostrano,
si consumano
allo scorrere del tempo,
e i ricordi sbiadiscono.
Ma ciò che è soave
eternamente rimane.
Leggera
è la brezza del vento,
tenue è la carezza,
lieve è l’anima.
Siamo angeli,
senza principio,
né fine.
La nostra voce,
come una nenia,
si perde
nell’infinità
del mare.
Sono quasi preghiere...
Come in un quadro,
echeggiano i colori
della mia terra,
294
profumata di grano.
Fiumi azzurri
scavano la verde pianura
tempestata dal rosso
dei papaveri.
Schegge di luna
illuminano
le pietre delle case,
sino all’alba.
Il vento raccoglie
i racconti dei nonni
e li porta lontano,
fin dove brillano i sogni.
Gli occhi del tempo
scrivono ricordi
sulle piazze,
l’orologio scandisce
lo scorrere degli anni.
Le campane rintoccano
l’ora della preghiera,
si annusano fragranze
di sapori antichi. (Gloria Venturini)
Gialli limoni come graffiti
incidono il grigio del muro sbrecciato,
foglie verdi e profumi
intrecciano tracce vicine
a ombre di istanti perduti,
oltre il muro
nuvole in corsa nascenti,
il silenzio del mare, lontano,
è un invito a tacere.
Raccolgo
negli occhi e nei pori,
riflessi di luce e colori,odori e sapori,
fughe di soffi di vita.
Ombre di tenerezza
fugaci come nuvole,
polvere profumata e silenziosa
di spiagge quasi deserte,
mare antico
ascolto la tua voce,
si sfinisce il mio bisbigliare.
I profili dei monti,
confine allo sguardo,
295
contengono l’anima della mia sera,
i suoi brividi,
in attesa di un cielo
che smarrisce improvviso la luce
e si immerge in un sogno di stelle
lontane.
Mi allontano
con la gelosa tenerezza
di due mani in tasca
strette a custodire,
solo per un poco,
questo giorno che muore. (aiseop)
Psichiatri, alcool, amici, amore, bugie, sentieri di montagna... sono solo l'ipnosi di un attimo
d'anestesia, per chi si sta spezzando in due.
Dalla memoria,
si apre la finestra dei ricordi,
un paesaggio,
montagne e vallate,
aria fresca cristallina.
La nostra gioia era così elevata
da essere più in alto di tutto!
Tra i boschi
camminavo a fatica,
e tu mi sorreggevi,
mano nella mano,
mi conducevi
dal mormorio del sottobosco
all’immensità della radura.
Seduti sopra grandi pietre
guardavamo il cielo,
mai ci era sembrato così vicino!
Il silenzio era talmente profondo
da percepire l’eco della presenza di Dio.
Ricordi i nostri passi
che cercavano l’infinito?
Camminavamo
mano nella mano,
senza orizzonti nell’anima,
tra sentieri di montagna.
Vigne dai frutti maturi,
baciate dal sole,
con la sua luce intensa,
illumina frammenti
di chicchi succosi.
296
Nuvole fumose
giocano tra loro,
disegnando immensità
dalle mille fantasie.
Ma il cuore lacrima…
Pesa un silenzio
imbevuto di ricordi,
che scivolano lenti
nella vallata dell’infanzia…
Ovunque
l’odore dell’estate
grava frizzante nell’aria.
Solo un attimo di nostalgia,
una fugace bugia,
lascia il posto
a una foglia ingiallita,
che fugge via.
Cammino nell’immensità,
tra questi monti maestri,
sconfinati spazi millenari,
lusingano la mia mente.
Cammino tra queste valli,
si spiegano a ridosso delle montagne…
e sono anima viva.
Percorsi attorcigliati ad un grande principio,
come una cintola, sorreggono la dignità.
Gallerie arrivano dentro al cuore,
nel profondo dell’anima,
per ritrovare ancora valli.
Valli bagnate di verde,
dove far pascolare quieta l’anima.
Rivoli d’acqua pura,
nascono da sorgenti d’amore.
Valli baciate dal sole,
accarezzate da freschi sogni.
Valle dopo valle,
come pieghe dell’anima,
adombrate da ricordi passati.
Valli sotterranee,
con candide cascate calcaree,
con laghi e fiori di silicio.
Valli sommerse,
come un labirinto
nella memoria.
E poi su, sempre più in alto,
297
in cima alla montagna,
nelle valli delle speranze,
dove ognuno tiene per mano
la propria vita.
In alto nel cielo,
fin là dove arriva la preghiera
di un cuore trasparente
da bambino.
Un altro giorno
scende alla foce.
La luna d’argento,
risplende altissima nel cielo.
Si leva un canto
di voci sottili,
solitarie
scuotono il silenzio.
Il vento gioca tra le fronde,
come una carezza d’ombra,
la pace entra nel cuore.
L’aria profuma di sogni,
corrono lesti verso il mattino.
Come un fiume nel tempo,
al di là del mare,
oltre la notte,
al di là della vita,
dopo la morte,
abbracciamo l’Eterno.
Già... anestesia... la solitudine più buia.
La voce della marea
perpetua parole
che non colmano
vuoti d’anima.
Solitudini ferite,
da silenzi senza sogni,
fluttuano nostalgiche
al crepuscolo di una speranza.
Chimere si profumano
tra le rose,
rosse di tramonto.
Il vento dilegua
musiche del cuore,
echi lontani di ricordi,
con note ritmiche
di ritorni.
Sere senza favole,
298
aromi di fiori
riempiono l’aria,
restano mani sole,
silenzi senza sogni. (Gloria Venturini)
Rincuorato pastore
dai lunghi pensieri
che cerchi rifugio
dove giustizia non c'è
ascolta il vento
e cammina con calma
dove il signore ti aspetta,
non negarti ai curiosi
ne provare a distrarti
ma nel fango rinascerai
per mostrare alla donna
che l'amore può abitarti.
Ormai nel ghiaccio
nulla si asciuga
e nulla si scava,
nulla ci si nutre
e nulla ci si specchia. (Carlo Volpicella)
Mi presento: Lola,ballerina di flamenco,scuola di danza mai iniziata cominciò prima la vita.
Nutrita di latte e canto flamenco, cresciuta tra nacchere e mosse di anche, donna di sogni
consunti - il mio Alonso è un hijo de puta occhi neri, incinta a quattordici, (che importa se
l’aborto ha strangolato l’anima) mi tradisce, mi hombre, che si beve nei bar il mio lavoro e
ubriaco mi sbava e umilia là su quel tavolo, - amore e morte - - violenza di canto flamenco - (Su
quel tavolo ricordo una tazza di latte e biscotti, il viso di pane nero di mia madre riflesso, i
primi passi flamenchi da bambina). La sala è acre di fumo e sudore stasera, come al solito,
turismo che violenta l’aria. Tan tan ta ta tan tan tan tan ta ta tan Sulla pedana,batto e grido
rauca, batto e mi giro a metà, non vi guardo, io sola esisto, io donna, e voi piccoli uomini (anche
tu mi hombre) non siete nada Tan tan ta ta tan tan tan ta (piango e ti calpesto) Un dolore
segreto scende dalle mani alla vita alle viscere, dentro gli umori e i segreti dell’anima. I piedi
stanchi batto, sbatto, ci lascio passione, tutta la poesia amara di una donna esile, regina di sé
e della luna che a luce di faro mi illumina. Adios mi hombre, adios a todos, caballeros (es mi
hora, es la hora de mi baile flamenco). Di vento e di mare Oggi posso solo parlarvi di vento che
insistente lamenta e mi inquieta tra fessure di pietra. Il cielo grigioperlato per riflessi
ambigui di sole mi riscalda nel bavero alzato. Sulla riva zittito dal vento cercherò le risposte
di sempre che il vento mi porta a folate. La luce sul mare si apre increspata di onde la raccolgo
negli occhi per farmene dono e riparo per donarla stasera e la notte a chi porto nel cuore.
(aiseop)
299
Origami di angeli
300
MERCURIO
Ti vedo, mercurio e luna.
Sorridi, e con quel sorriso dici tutto. Tutti i tuoi 55 anni, cappello un po' piegato sulla testa,
come nei film.
I piedi sul tavolo di legno, un bicchiere di vino rosso che dividerai con me. Ridi e ti prendi in
giro, e io, figlia di luna e mercurio, che faccio e disfo la vita a velocità ossessionante, senza un
centro, sono ferma nel centro di quell'ossessione di vita.. figlia....
E conto il mercurio della gente...
Ti vedo
dentro una fotografia
non ancora sviluppata.
Sorridi
a far l'attore disperato
della tua stessa vita,
il cappello nero
piegato sulla testa
come Humphrey Bogart
in Casablanca,
Suonala ancora, Sam ,
la tua casa
ossessionata di vita,
Suonala ancora, Sam ,
i piedi sul tavolo
di legno, Suonala,
dai, Suonala ancora, Sam ,
un bicchiere di vino rosso
che dividerai con me,
anche se a me piace
il vino bianco.
Suonala ancora, Sam ,
Sono figlia della luna
e del mercurio
e ti vedo
nel centro
della tua ossessione.
Sono figlia
in una terra di nessuno
e non ho un centro,
se non un centro
di mercurio.
301
E ridi
a fare l'architetto disperato
della tua stessa
ossessione di vita.
Suonala ancora,
Suonala ancora, Sam .
E hai costruito
una casa di mercurio
dove non era possibile
avere un centro
se non la realtà di quel
Suonala ancora, Sam .
E ci viene da ridere,
lo so.
Balla con me, dai...
Suonala ancora,
Sam (lidia)
Fabio sguardo triste,
Fabio che fa cerchi, cerchi nel vuoto di una mattina troppo fredda..
Sofia disegna fiori,
piccoli fiori tutti uguali su di un quaderno con la copertina rosa..
Fredda mattina qualunque di un autunno dolciastro,
che tra un mese arriva natale col suo carico di luci sfavillanti e falsi sorrisi,
che devi sorridere, devi sorridere anche se non lo vuoi.
A Fabio non piaceva natale, da piccolino sì, e come ogni bambino aspettava
sogni, regali o forse solo una carezza, carezza che…
Lui non aveva mai parlato della sua vita a Sofia,
solo piccoli frammenti di ricordi sparsi,
tra le parole sospese nel silenzio di una sera in cui si stava bene abbracciati stretti,
e lei neppure, diceva che non c’era molto da dire.
Lui credeva, lei credeva..
Come in una campana di vetro, quelle che se le giri scende la neve..
scende la neve..
Corri Sofia,
corri più veloce che puoi, non voltarti, per favore.
Fabio resta lì,
sotto la pioggia che cade lenta a piccole gocce sul suo giubbotto troppo stretto,
sul suo viso bagnato, tra i capelli e nel suo cuore…
302
Tanto nessuno se ne accorgerà se la pioggia si confonde con una lacrima.
Tanto nessuno se ne accorgerà.
Fabio viso da cartone animato,
Fabio che fa cerchi, cerchi nel vuoto..
Sofia disegna fiori,
piccoli fiori tutti uguali..
Misto di ghiaccio e vento,
un giorno sulla banchina del porto in un estate troppo calda,
un vecchio signore gli fece un ritratto con colori pastello
Fabio viso da cartone,
quel ritratto lo conserva geloso perché quel vecchio in quel giorno di sole vide qualcosa oltre
un'immagine,
con i suoi colori tenui la caricò di piccole sfumature e di perché.
Ha sempre voluto far vedere quello schizzo a Sofia,
ma era come fargli vedere nel fondo più fondo di sé.
E lei,
lei ora scrive su di un quaderno frasi da bambini,
bambini che si giurano amore eterno,
le stesse frasi, forse più dolci, forse più belle, che prima gli scriveva lui.
Fabio si lava il viso e poi si specchia,
ci mette sempre troppo tempo, come se ogni volta volesse vedere cosa c’è davvero
oltre quell’immagine riflessa..
Fabio occhi chiari,
e qualche sottile ruga d’espressione,
Sofia ha lo sguardo buffo, capelli scuri, qualche lentiggine..
Dice che dagli occhi di una persona si può capire se è buona o meno.
Fabio si asciuga il viso e poi si specchia,
Dici che il mondo si può fermare x una notte sola?
‘…sulla sua testolina vuota, sulla sua testolina vuota e nel suo cuore…’
Fabio culla Sofia,
Fabio culla Sofia, all’infinito.
Lei si stira i capelli per farli diventare più belli e perché a lui piace,
ma è bella senza sapere d’esserlo ed è solo insicura certe volte.
La prima volta che l’ha vista nuda non credeva ai suoi occhi.
‘Non posso credere che non sai quanto sei bella.’
Sofia si vergogna e le guance diventano rosse rosse,
Fabio più di lei,
sente la sua voce così stonata, sente la sua voce tesa e parole
303
che restano a metà, nell’aria struggente di un anno che sta per finire.
Fabio innamorato delle debolezze, di piccole e dolci manie di una ragazzina,
butta molliche di pane lungo un percorso, senza l’obbligo che queste vengano raccolte, senza
aspettarsi nulla..
Sofia raccoglie molliche di pane lungo quel percorso, con costanza e testardaggine,
vuole averlo tutto x se o forse solo..
Ma lui non vuole, non vuole in quel momento,
..e mescola rabbia a magia
e mescola lacrime all’amore
e gioca, gioca coi suoi giochi preferiti!!
Fabio esce sotto una pioggerellina sottile,
pensa Sofia ora dorme, pensa non voglio mai più litigare con lei,
non lo farà, non la chiamerà, che i giorni passano e il natale s’avvicina,
e sa che deve tirare fuori un bel sorriso e la sua maschera migliore.
Fabio e Sofia così diversi,
Fabio che confonde sogni & desideri, che cammina lento e un po’ impacciato,
Fabio troppo timido, Sofia saltella e vola via..
‘…sulla sua testolina vuota, sulla sua testolina vuota e nel suo cuore…’
Passano spaccati di ricordi e canzoni,
Sofia non vuole vedere un film che la faccia pensare,
Fabio pensa forse ora lei è felice,
Sofia stringe tra le mani un pugnale e sferra colpi,
sferra colpi alla cieca, con leggerezza e avidità.
Fabio occhi chiari non crollare, per favore!
S’innamora di piccoli gesti inutili,
gesti che Sofia sa far così bene, e sorprenderlo.
Lei insegue Fabio con tutta la sua cocciutaggine,
e lui stupido si lascia inseguire e sorprendere..
Nulla di serio, niente di più.
Ma lo sa far girare e gioca coi suoi giochi preferiti,
e tutto questo ne lui, ne lei sanno, sarà un rischio.
Sofia saltella e vola via,
vola via nel momento in cui lui si convince a dirle i suoi segreti.
All’infinito..
In quel settembre troppo veloce e bagnato,
in quel novembre carico d’incomprensioni,
Fabio resta col suo scrigno socchiuso
304
ed un rimpianto, troppo sincero proprio quando doveva mentire,
mentire anche a se stesso, cade giù il nostro..
Sofia tira fuori una rabbia tale,
che sovrasta e annienta tutta la sua timida dolcezza.
Fabio ha paura anche di guardarla e trema,
forse soltanto perché non sa più chi ha di fronte.
Sofia diversa dalla bambolina bionda con gli occhi azzurri
in cui puntualmente Fabio.. Sofia che lo conquista e lui a scoprire
nuove piccole emozioni.
E poi,
poi c’è che Sofia non è una stupida oca che ride e basta,
a Fabio piaceva ascoltarla.
E lei,
lei ora scrive su di un quaderno frasi da bambini,
bambini che si giurano amore eterno,
le stesse frasi, forse più dolci, forse più belle, che prima gli scriveva lui.
X fortuna non c’era il vento,
x fortuna non c’era vento quel giorno,
a tavola assieme e uno scrigno socchiuso venne lasciato cadere.
Lei capì quel che voleva capire,
lei capì quel che voleva capire.
Sofia non pensare.
Fine di una storia.
Ora Fabio è stanco,
darà di se soltanto l’immagine che gli altri vogliono e mezze verità magari.
Non vuole mai più innamorarsi,
ci aveva messo così tanto x fidarsi di nuovo,
fidarsi davvero e fino in fondo
e quando finalmente..
Viene tradito,
dopo che lei aveva fatto di tutto x conquistarlo,
la sua fiducia su ogni cosa..
e c’era riuscita,
era riuscita dove troppi avevano sbagliato.
Fabio è solo adesso,
non è questo che lo spaventa,
se vuole falsi amici,
se vuole un falso amore,
è tutto così semplice, tutto lì
che l’aspetta davanti ai suoi occhi troppo chiari,
305
ma lui non vuole più ne giocare, ne fingere ora
vorrebbe solo passasse via veloce questo natale ipocrita e magari,
magari andare in cima ad una montagna ed urlare.
‘Poi in un soffio di vento tutto scivola via,
ed il troppo freddo di questi giorni diventerà
qualcosa di soffice e leggero,
come 1000 cerchi in una bolla di sapone,
odio e amore,
x sempre in una bolla di sapone.’
Vigilia di natale,
Fabio s’addormenta sognando di cullare Sofia,
dirle tutto, e tutto di lui,
accarezzare la sua pelle chiara,
e sentire ancora l’odore del suo corpo confondersi col suo,
sentirsi in paradiso,
o su di una stella..
Solo un sogno,
Fabio e Sofia non si parleranno mai più davvero,
e i loro occhi,
i loro occhi non s’incontreranno mai più,
se non x farsi del male.
SE NON X FARSI DEL MALE.
Lui crede
lei sia la persona al mondo che più l’ha…
..perché è dai silenzi che si conosce davvero una persona,
più che da mille e mille altre parole..
Sofia sapeva ascoltare quei silenzi.
Sei come un libro aperto gli disse un giorno quel suo vecchio amico,
sei come un libro aperto scritto in una lingua troppo difficile da comprendere..
Le tornano in mente quelle parole come
un carillon che parte con la sua nenia troppo dolce..
All’improvviso e nell’attimo sbagliato.
Fabio perso e spaventato.
Fabio culla Sofia,
Sofia saltella e vola via.
E’ solo riuscito a farsi odiare
il nostro piccolo bambino
306
con le sue emozioni troppo in vista
con i suoi occhi che non sapevano più mentire
coi suoi gesti di difesa e quelli di rabbia nella vana ricerca
di un equilibrio che non c’è.
‘E’ x questo che ti sto facendo male.’
Fabio perde sangue,
ma è solo un piccolo taglio si arginerà in fretta e senza dolore.
Mille parole gettate nel vento,
ed errori fatti col senno di poi.
Almeno ora Sofia avrà capito il bene che lui prova x lei
se prima non ci aveva mai creduto fino in fondo.
‘Noi distesi su quel letto così caldo che non puoi..
Io mi perdo nei tuoi occhi mentre dici una bugia..
e accarezzo le tue gambe con le mani come se..
e accarezzo le tue gambe coi miei baci e sembra che..’
E invece sei tu, che hai fatto di me, un uomo migliore!
‘… sulla tua testolina vuota, sulla tua testolina vuota e nel tuo cuore…’
..mescola rabbia a magia
mescola lacrime all’amore
e gioca, gioca coi suoi giochi preferiti.. (Paolo Pagliotti)
Sera,hai una luce grigio perlata.
Gli occhi inquieti osservano
le pieghe del tempo sul mare increspato,
le estraneità in questo piccolo universo condiviso,
un profilo di monti
sempre più lucido e nero,
fuochi svelati da colonne di fumi
e rade vele,
stridore di gabbiani
e qualche motore,
storie semplici e inesplicabili,
individualità nette e impalpabili,
unite da questo cielo grigio ora quasi nero,
da vento a folate
in un luccicare sbiadito di stelle
nell’orizzonte dei miei occhi,
solo più di prima,
più consapevole e smarrito.
Scorrono i minuti e le ore
senza capire,
307
mi limito a guardare
e respirare la notte
quasi con stupore. (aiseop)
The dog is running after the cat
The cat is running after the mouse
The mouse is hungry, but he’s running away
While a chameleon is watching from the tree…
Is there any cheese close to that tree?
The mouse stops to eat the cheese
The cat stops to eat the mouse
The dog stops too, he’ll bite the cat in the tail
While a chameleon is watching from the tree…
Are there any animals under that tree?
The dog pulls away the cat’s short tail
The cat jumps on the tall green tree
The mouse can’t sleep inside the cat
While a chameleon is watching from the tree …
Is there a cat in front of him?
The chameleon draws out his long red tongue
The cat is afraid but he can’t climb down
At the end the chameleon will gulp him down
While the dog is playing with the cat’s short tail...
“Poor cat”, he says, “and poor mouse, too”.
Once a week everybody starts to tell this story
Do you know which day this story will be played by somebody?
“On Sunday” says everybody ”I’m sure, please don’t worry”
Nobody knows why, but Sunday has gone by.
Once a week the king goes to buy a new ring
Do you know which day the king will buy his new ring?
“On Monday” says the king ”It’s better to buy the ring”
Nobody knows why, but the king is always right.
Once a week the queen goes to eat a green bean
Do you know which day the queen will eat her green bean?
“On Tuesday” says the queen ”It’s better to eat the bean”
Nobody knows why, but the queen is always right.
Once a week the prince goes to wear blue-jeans
Do you know which day the prince will wear his blue-jeans?
308
“On Wednesday” says the prince ”It’s better to wear the jeans”
Nobody knows why, but the prince is always right.
Once a week the guard goes to run a long yard
Do you know which day the guard will run this long yard?
“On Thursday” says the guard ”It’s better to run the yard”
Nobody knows why, but the guard is always right.
Once a week the ghost goes to scare a big host
Do you know which day the ghost will scare the big host?
“On Friday” says the ghost ”It’s better to scare the host”
Nobody knows why, but the ghost is always right.
Once a week everybody stops to tell this story
Do you know which day this story can’t be played by anybody?
“On Saturday” says everybody ”This story stops, I’m sorry”
Nobody knows why, but Saturday has just arrived. (Nello Praz)
Il mercurio corre via, spaventato e senza risposte.
CERCA SOLO UN PO' DI PACE...
Correre via da che cosa e perché.....
correre fino a perdere i sensi
fino a che il buio della notte,
una notte senza luna,
inghiotta anche la paura
e abbracciare il silenzio,
dei passi e dei pensieri,
nelle tue mani invisibili e tiepide,
nel tuo profumo
dolce come la pace del cuore. (aiseop)
309
Gli angeli che durano poco
Non so se credo negli Angeli. Ma credo negli angeli terreni.
Angeli che durano poco, forse poco concreti, ma angeli.
Angeli terreni.... gli angeli che durano poco....
Se incontrassi i tuoi occhi, quelli di tutti gli sguardi che ho amato senza essere infedele, senza
poterli tenere per me, sarei mare liquido o lago d’acqua chiara. Questa malinconia senza
angoscia, dolce come una notte che si fa chiara di luna, me la rigiro tra le mani, la vendo, la
regalo, fammi volare con te solo per cinque minuti, cinque minuti in cui non possa pensare a
niente. (aiseop)
Gli angeli arrivano con il silenzio sotto un selvaggio, immenso, deserto di stelle nelle
profondità della vita, nell'intimità più profonda dei ricordi mai avuti.
Sono come vecchi astronauti sempre in viaggio.
Sono gli astronauti del centro e del cerchio.
Quando incontri un angelo che dura poco (l'angelo che dura poco...) bacialo, e lasciati baciare.
E' la magia dell'esperienza dei momenti, dello spirito fantasma che disegna una costellazione
per non farti smarrire, un momento, per darti una strada, un momento... che dura poco, un
momento, per non legarti, e non smarrirti.
Gli angeli che durano poco viaggiano tra gli spiriti degli altri angeli. E' la storia delle nostre
storie.
La storia di storie che raccontano storie. (lidia)
Angeli... poco invadenti, che ci accarezzano e ci abbracciano. Tutti abbiamo bisogno degli
angeli.
"Se incontrassi i tuoi occhi, quelli di tutti gli sguardi che ho amato senza essere infedele,
senza poterli tenere per me, sarei mare liquido o lago d’acqua chiara. Questa malinconia senza
angoscia, dolce come una notte che si fa chiara di luna, me la rigiro tra le mani, la vendo, la
regalo, fammi volare con te solo per cinque minuti, cinque minuti in cui non possa pensare a
niente."
A volte ci sentiamo prigionieri del nostro corpo e dei mali che torturano le nostre piaghe.
L’unica cosa che veramente abbiamo di libera, penso sia la mente, o meglio la fantasia,
l’immaginazione, i desideri, sono orizzonti in cui si può sbizzarrire a più non posso. I bambini
pensano alle streghe con grandi occhiali che volano sopra a strane scope volanti, le ragazzine
sognano principi dalla divisa azzurra, e coloro che si definiscono adulti si permettono il lusso
di sognare quando non ne possono più, perché sprofondano nella realtà spesso troppo pesante
ed asfissiante. La realtà è pericolosa, perché propone orizzonti e tramonti pieni di quello che
vuole il cuore in certi momenti, e allora si confonde tutto, anima e realtà, e si finisce a volte
col convincersi di cose che sono invece solo nostre. Ma quante realtà ci sono? Esistono realtà
che variano a seconda dell’esperienza, quelle oggettive, reali, fisiche, realtà inconfutabili,
realtà di congetture prestabilite da chissà chi e quando. Forse la vera libertà non esiste, è una
parola talmente complessa e personale ed ognuno ha la propria libertà nella sua realtà. Oggi ho
visto dei morti, e mi chiedo se loro hanno raggiunto effettivamente la libertà, se l’anima
dentro di noi è prigioniera dal nostro corpo, forse dopo voleremo davvero dappertutto, senza
310
porte e né frontiere, senza ostacoli da affrontare. Forse l’anima dopo la vita raggiunge
effettivamente quella pace che ho visto oggi in quelle persone senza vita, senza un soffio
addosso. Forse la fine di una vita è il termine di quel viaggio che ci procura tanti guai e
malanni, e la tranquillità è un sogno che raggiungeremo solo quando la morte ci avvolgerà tra le
sue braccia, non poi così tanto gelide.
"Se incontrassi i tuoi occhi, quelli di tutti gli sguardi che ho amato senza essere infedele,
senza poterli tenere per me, sarei mare liquido o lago d’acqua chiara. Questa malinconia senza
angoscia, dolce come una notte che si fa chiara di luna, me la rigiro tra le mani, la vendo, la
regalo, fammi volare con te solo per cinque minuti, cinque minuti in cui non possa pensare a
niente."
A volte la vita può finire nel fiore della gioventù. I sogni possono morire trascinando con loro
tutte le illusioni, tutte le speranze di piccoli uomini ai primi approcci con il mestiere di vivere.
L’incomprensione nella vita, della gente fra loro, per poca fiducia, può generare la svolta totale
di un destino assieme… e inaspettatamente si è avvolti dalla solitudine. Il calore di una parola,
a volte, dà il coraggio per respirare ancora, di cambiare per ricominciare, sempre con un pugno
di vento in tasca come unica garanzia. Una voce amica che ti sussurra di andare avanti la puoi
trovare ovunque, e non ci si ferma. Continua la vita che lenta scorre sotto l’ombra amara di un
ricordo. E ancora tu, nella tua stanza buia, accoccolato solo dalla pallida, fievole luce di un
lumino, scrivi sempre la stessa poesia in nome di quel giorno in cui l’inganno ha capovolto i tuoi
sogni. Lavori, cammini, parli e sorridi, hai pure una parola di conforto per gli altri, ma dentro di
te, cosa può farti sorridere di spensieratezza? Poeta, dolce, pazzo amico poeta! Una ruga
cadente pende dalle tue labbra, pochi capelli scoloriti, dagli anni o dalle sofferenze? Continua
poeta, il vizio della poesia ti ha fatto abbracciare, sempre e comunque, il vizio di vivere.
"Se incontrassi i tuoi occhi, quelli di tutti gli sguardi che ho amato senza essere infedele,
senza poterli tenere per me, sarei mare liquido o lago d’acqua chiara. Questa malinconia senza
angoscia, dolce come una notte che si fa chiara di luna, me la rigiro tra le mani, la vendo, la
regalo, fammi volare con te solo per cinque minuti, cinque minuti in cui non possa pensare a
niente."
Lampi e fulmini danzano nella notte di un cielo di mezza estate, nell’imminenza un concerto di
tuoni, che come soprani e tenori, intonano parole che si ascoltano col cuore, suoni amplificati
dalla memoria. La mente ferita da una tempesta di parole, rattoppa il vestito candido
dell’anima, ormai sporcata dalla pioggia e da tutto ciò che essa porta con sé. Ci si accorge che
c’è l’anima bucata. Piccoli ed enormi buchi dalle grandini della vita. A vedersi così, sporca e
bucata, l’anima si dispera e vuole fuggire, vuole sparire lontano e volare sempre più in alto,
fino a toccare le stelle, per vestirsi di nuova luce. Un viaggio, l’anima senza dire una parola se
ne và. Vola speranzosa cavalcando un gabbiano nel cielo variopinto dai respiri del mondo.
Ascolta il rumore del mare, guarda i suoi cerulei azzurri, i suoi molteplici pesci… sorride.
L’anima inizia a sorridere alla Terra. La vista delle montagne maestose, l’impero della natura
che verde sovrasta padrona, rinvigorisce la povera anima desolata. Avvinghiata al suo gabbiano
felice, di notte vede piccole luci brillare, sono anime di mondo, anime come noi, anime come
l’anima ferita. Durante una sosta ne trova una che si disseta al ruscello della speranza e
questa diventa sempre più forte e sempre più bella, allora le rivela il segreto con un bisbiglio,
un sussurro di vento: … seguire … la … via … del … cuore…. Ispirata da un sogno piccolissimo
l’anima andò oltre la notte, si fece una doccia di luce di stelle, rimarginò i buchi come meglio
poteva e cambiò veste, cambiò addirittura colore. Il candido bianco oramai non aveva più
senso, lo avrebbero sporcato senz’altro di nuovo, così si vestì di verde, e a chiunque osasse
311
sporcarla poteva sempre dimostrare che ci disegnava sopra qualcosa, chissà, magari un fiore
giallo o una stella raggiante. L’anima, ora più forte, si fece anche più furba, quando la ferivano
si scostava, cercando di attutire i colpi. Ogni tanto si fa un viaggio sopra il suo gabbiano e
ritempra tutta se stessa, e se ha voglia di cambiare veste, legata ad un nuovo sogno, tocca le
stelle che la inondano di luce brillante d’amore. La magia delle parole per i mali dell’anima e del
cuore è sempre la stessa: ama l’amore. (Gloria Venturini)
"Se incontrassi i tuoi occhi, quelli di tutti gli sguardi che ho amato senza essere infedele,
senza poterli tenere per me, sarei mare liquido o lago d’acqua chiara. Questa malinconia senza
angoscia, dolce come una notte che si fa chiara di luna, me la rigiro tra le mani, la vendo, la
regalo, fammi volare con te solo per cinque minuti, cinque minuti in cui non possa pensare a
niente."
La dolcezza di questa notte
così intensa
e inquieta
mi porta ad accarezzarti la mano
all’improvviso
in mezzo alle mie nevrosi
alle mie ire,
posso restituirti solo piccoli gesti
solo sguardi brevi
solo silenzi
dove naufragano
a perdersi
la tua dolcezza e la mia malinconia.
Un silenzio così luminoso così chiaro
un pensiero così profondo così vero
un amore così grande un mistero
nel grande lago dove il dio che ci inquieta
è silenzio di luce e riparo (aiseop)
"Se incontrassi i tuoi occhi, quelli di tutti gli sguardi che ho amato senza essere infedele,
senza poterli tenere per me, sarei mare liquido o lago d’acqua chiara. Questa malinconia senza
angoscia, dolce come una notte che si fa chiara di luna, me la rigiro tra le mani, la vendo, la
regalo, fammi volare con te solo per cinque minuti, cinque minuti in cui non possa pensare a
niente."
Non ci sei più…
a solo questo pensiero,
angoscia e dolore…
mi si gela il sangue
nelle vene,
mi si crepa il cuore
da spasmi fatali,
una sola lacrima di pietra
mi cade dagli occhi,
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le gambe sembrano inesistenti,
la speranza si dissolve
in un fievole alito
di vento amaro,
esalato da un mio roco
colpo di tosse,
e la vita è già finita…
... ma ci sono gli angeli...
"Se incontrassi i tuoi occhi, quelli di tutti gli sguardi che ho amato senza essere infedele,
senza poterli tenere per me, sarei mare liquido o lago d’acqua chiara. Questa malinconia senza
angoscia, dolce come una notte che si fa chiara di luna, me la rigiro tra le mani, la vendo, la
regalo, fammi volare con te solo per cinque minuti, cinque minuti in cui non possa pensare a
niente."
La notte porta con sé le note della malinconia. Nella memoria scintille di ricordi, come scosse
all’anima. Come una foto incandescente quello sguardo sciolto senza parole, come fa la neve al
sole. Tra una notte è Natale. Mi sento impreparata per una notte così rara, non viene tante
volte nella vita, per questo mi è molto preziosa. Mi sento bisognosa d’amore, sto elemosinando
amore. Dentro di me, devo cercare lì dentro, sono sicura che c’è, lo devo trovare anche se si è
nascosto. La mia emotività se n’è andata a giocare sopra un’altalena. Alti e bassi. Bassi ed alti.
La mia disponibilità è stata travolta. Non ho più soglie, né difese. Devo trovare quel posto solo
mio, quel giardino riservato alla mia speciale compagnia, ai miei cuori, che battono allo stesso
ritmo del mio. Speciali le mie creature nate dal mio corpo, sorte dalla mia mente, dalla mia
anima, da tutto l’amore che posso. La mia essenza si è sviluppata ulteriormente generando al
loro libero sfogo altre essenze. Vorrei prenderti per mano, tu che stai lì, dietro queste righe,
dentro il loro contenuto e portarti a ballare sopra un campo fiorito, danzare sotto brillanti
raggi di sole, che disegnano sulla superficie liquida dell’anima le nostre risate, copiando e
rubando l’allegria di questa limpida naturalezza. Tra una notte è Natale amore, vorrei poterti
parlare d’amore, per amarti e farmi amare. (Gloria Venturini)
"Se incontrassi i tuoi occhi, quelli di tutti gli sguardi che ho amato senza essere infedele,
senza poterli tenere per me, sarei mare liquido o lago d’acqua chiara. Questa malinconia senza
angoscia, dolce come una notte che si fa chiara di luna, me la rigiro tra le mani, la vendo, la
regalo, fammi volare con te solo per cinque minuti, cinque minuti in cui non possa pensare a
niente."
Quest'estate,
così lacrimosa
di un pianeta che muore(?),
non ci ha donato, cara,
le scintille di Lorenzo
e la collina del nostro
incontro annuale
ci è apparsa cupa,
come l'antro di uno spettro.
Che voglia, quest'anno,
di parlarti di noi
sotto le vivide fiammelle
313
e di trovare
il modo di capirci,
finalmente,
dopo i silenzi riottosi di un anno.
C'è rimasto un pezzo di cielo,
nella notte di Lorenzo,
appena sereno,
ma troppo esiguo
da dividere in due.
Siamo discesi per il pendio
con le mani allacciate
e i cuori disabitati:
cercavamo nelle cadenti
il calore per noi
che, forse, s'è perso
in quest'anno di stasi.... (anonimo)
Una manciata di stelle,
in questo angolo di cielo,
in tasca sabbia di desideri,
rinchiusi troppo stretti,
polvere di sogni ancora segreti.
Volo nel vuoto di speranze,
come un tuffo nel buio,
legate solo a una stella cadente.
Luci di soli nella notte,
energia proiettata alla mente,
bellezza che si irradia alla sensibilità.
Leggere emozioni si librano nell’etere,
sfumature d’amore si allungano nella notte,
ambigue apparenze si insinuano nei pensieri.
Un raggio di stella,
un chiarore di luna,
un lumino di speranza,
come probabilità isolate,
si accendono timide nel cuore.
Chissà se i desideri espressi quando si vede una stella cadente si avverano?!
"Se incontrassi i tuoi occhi, quelli di tutti gli sguardi che ho amato senza essere infedele,
senza poterli tenere per me, sarei mare liquido o lago d’acqua chiara. Questa malinconia senza
angoscia, dolce come una notte che si fa chiara di luna, me la rigiro tra le mani, la vendo, la
regalo, fammi volare con te solo per cinque minuti, cinque minuti in cui non possa pensare a
niente."
Viaggiando tra questa immensità, tra questi monti maestri da millenni, sconfinati spazi
lusingano la mia mente. Tutte queste valli, come le valli dell’anima, si spiegano a ridosso delle
montagne… e sono anima viva. Attraverso queste vie curve e ricurve, arrotondate, percorsi
314
rotondi, strade attorcigliate attorno ad un grande principio, che come una cintola gli
sorreggono la dignità. Gallerie che arrivano dentro al cuore, nel profondo dell’anima, scavate
tempo fa, per ritrovare ancora valli. Valli bagnate di verde, su cui far pascolare quieta l’anima,
rivoli d’acqua pura che nascono dalle sorgenti dell’amore, acqua nuova che disseta l’anima di
freschi sogni. Valli di sole, baciate dalla luce, accarezzate dai caldi raggi dell’estate. Valle
dopo valle, come pieghe dell’anima, come una meraviglia sconfinata, valli rigogliose di fiori e di
colori , valli adombrate da ricordi passati, lontani, che come rugiada pendono da petali
temerari. E ancora giù, fino alle valli più profonde, valli di grotte sotterranee, dove stalattiti e
stalagmiti tentano di imitare la natura dello spirito vitale, con candide cascate calcaree, con
piccoli laghi su cui spiccano orgogliosi fiori di silicio. Queste sono le valli dei sogni mai
avverati, degli insuccessi desolati, valli sommerse che si schiudono una accanto all’altra, sino a
diventare un labirinto nella memoria. E poi ancora su, a dismisura più su, sempre più in alto,
tanto da arrivare alla valle più ambita, quella in cima alla montagna, che tocca il cielo di più, la
valle della speranza che non muore mai, dove a piedi scalzi ognuno tiene per mano la propria
vita, come un fiore stupendo, e contandone i petali, vede il colore dei giorni andati, mentre
sbocciano nuove fiduciose mete per un domani, per un futuro splendido, sempre più in alto nel
cielo, sempre più in alto, fin là dove arriva la preghiera fatta col cuore trasparente di un
bambino. (Gloria Venturini)
"Se incontrassi i tuoi occhi, quelli di tutti gli sguardi che ho amato senza essere infedele,
senza poterli tenere per me, sarei mare liquido o lago d’acqua chiara. Questa malinconia senza
angoscia, dolce come una notte che si fa chiara di luna, me la rigiro tra le mani, la vendo, la
regalo, fammi volare con te solo per cinque minuti, cinque minuti in cui non possa pensare a
niente."
Angeli... dietro le stelle cadenti...
315
Dov'è la magia in quel che viviamo?
dov'è la magia in quel che viviamo?
è solo il trucco d'un prestigiatore stanco
un trucco....
......solamente....
più lento degli altri... (lidia)
Illusioni...
ombre
di realtà
svaniscono
troppo presto
per impressionare
un poco
la tela
di un destino.
Coincidenza.
Magia... (Domenico Vicinanza)
e mi da' freddo
un mare
trasparente:
non nasconde
le impurità
nelle sensazioni
buie
del mio corpo.
Me le racconta
alga per alga
pesce per pesce
sasso per sasso...
la sua storia
vecchia
di mare greco,
le imperfezioni gli insegnamenti.
Mi da' freddo
perché bagna
i capelli
sul corpo
e sala
la pelle
e la lingua,
316
e mi fa
amaramente
sincera. (lidia)
Gli dei giocano all'amore. Giochi di magie e sincerità, giochi di maghi e di streghe, uominie
donne un po' stanchi, un po' lenti... gomitoli di gatti eleganti e impauriti... che si muovono lenti
sul prato, con passo felpato e flamenco... anime strane, quelle dei gatti, un po' magiche...
ma dov'è la magia in quel che viviamo?
Ho congedato il mio Ulisse
da questa riva dove l’orizzonte corrusco
riflette nuvole e onde dense e sciabolate di luce,
solo, su questa riva
popolata di presenze
di sentimenti e di anime fatte sabbia
ed erba rada e piccoli fiori gialli e azzurri
e gatti randagi dallo sguardo smarrito e tenero.
Fruscio ruvido e amichevole di risacca
ogni sciacquìo un incontro diverso
un ricordo a volte sfumato
a volte nitido e forte,
profumato, quasi da sentirsi un po’ male dentro.
Se hai un vento che sappia cantare al cuore
e curare le ferite antiche e le paure,
brividi di freddo nelle ossa e solitudini,
fai che soffi alla mia sinistra
da dove i profumi sanno di mistero
verso il tramonto appena iniziato
tra luci e ombre promiscue
là sulla destra dove il mio destino
fa tramontare il sole ogni sera da tanti anni ormai. (aiseop)
Venti nell’anima…
La voce del mare,
mormora da secoli,
sussurra da millenni,
ruggisce perenne nel tempo.
Il vento culla voci al loro sorgere,
poi le accompagna, lentamente,
sino al loro ultimo lamento.
Venti nell’anima,
voci di invisibili presenze,
mormorio di mare.
Grandi occhi fra noi…
317
Etere fra noi,
ininterrottamente perpetuano la vita,
spiriti da sempre.
Il nostro cammino,
faticoso e imperfetto,
esprime la loro impronta occulta,
mistero clandestino del nostro pensiero.
I nostri gesti riecheggiano i loro frutti,
dalle mani di vento.
Grandi occhi d’anime
accompagnano la nostra umana vista,
quando smarrita si posa sugli orizzonti,
sopra confini dove si schiude un’insolita consapevolezza…
un’immagine di luce. (Gloria Venturini)
Un'insolita consapevolezza ci stringe la gola ogni mattina. Dov'è la magia in quel che viviamo?
Magia in un colore o in un'emozione...
Innamorato penso al colore arancio, il mio preferito. Assaporo le vibrazioni lungo la schiena ed
il formicolio fin nella punta delle dita e chiudo gli occhi. Ritorno a guardare e mi accorgo
dell'azzurro del mare subito sotto il sole ormai rosso intenso. Penso a te, al tuo colore
preferito e capisco perché siamo fatti l'uno per l'altra. (anonimo)
Quei giorni che ti svegli e
sei ancora impigliato
nei sogni così vividi
che fatichi a riconoscer la realtà
quando ancora la ragnatela del sogno
obnubila il tuo pensiero...
ti è mai capitato ? (corrado carlin Dag.)
Magia negli occhi di una sconosciuta.
La magia ?? di questo mare inquieto sotto un cielo brillante di
stelle
a tramontana
Della vita........ come si disvela nelle notti bianche di luna
profondi
raffiche
È nostalgia??... di profumi e di luci e di occhi
Per qualcosa?? sono qui stasera in riva al mare, salino a
nelle narici e nel cuore
318
la luce in
Mai vissuto??.. intuito,nascosto,perduto,inseguito come
appena tramontato
fondo al silenzio di un sole
Incredibili occhi di una sconosciuta
apparizione di un universo
poco più di un istante
senza rumore di parole
così che io possa solo immaginare
magicamente. (aiseop)
Magia d'acqua.
Acqua è vita
Acqua chiara,
acqua fresca cristallina,
acqua salata di mare.
Acqua di luce,
vita acquatica da sempre.
Nell’acqua trasparente del mare,
tuffarsi, nuotare e giocare,
è un po’ come tornare a casa,
alle origini, all’inizio più remoto,
è una simbiosi umana.
L’acqua rinfresca, disseta, ristora.
Acqua azzurra di mare,
si tinge di verde e di blu.
Acqua pulita.
Acqua che sgorga dall’anima.
Piccole gocce d’acqua
amare scendono dagli occhi,
per inondare un fiume di dolore.
Acqua della fatica,
fuoriesce dai pori della pelle,
dai muscoli contratti dallo sforzo,
dall’assiduo lavoro quotidiano.
Acqua gravida, fonte di vita,
prima culla del bambino.
Acqua ancora.
Acqua e amore,
acqua e dolore,
acqua è vita.
Ultimo momento,
319
desidero immaginarlo sulla riva del mare.
Estremo viaggio dei pensieri,
tra la sabbia di una vita dorata,
tra le sferzate dure e rabbiose delle onde sugli scogli,
tra le carezze consolanti del vento.
Orme di passi,
tutta una vita,
arrivano sino al verdazzurro del mare,
scompaiono.
Vaga forma misteriosa,
stacca l’anima dalla pelle,
sereno tramonto,
colori accesi si confondono con l’imminenza dell’oscurità della notte.
L’immagine finale sarà il volto caro delle persone che ho amato.
Lascia il tuo corpo con gioia e vai nella luce.
Quando ormai sarò lontana,
offuscata dalla nebbia non più umida,
ricorderò l’ultimo tramonto,
quando la polvere delle mie mani si è confusa con la sabbia. (Gloria Venturini)
...dammi magia...
E' soltanto un primo passo, una prima parola detta e non detta, le mie labbra sono ancora
chiuse, serrate, ma le mie mani sono già in movimento, come sempre, scorrono e non sanno
come fermarsi, cieche seguono una voce dal volto lontano, una voce che vive nelle mie orecchie
come il soffio di un gesto appena
Silenziosamente spegnerò la luce e le parole continueranno a fluire verso le mie mani
addormentate, rimarranno là in attesa di un risveglio, in attesa che questa stanchezza sia
passata, che questo sogno sia diventato un mondo nuovo in cui camminare su strade lastricate
d'argento. E' l'argento dei miei desideri che si esaudiranno con la bacchetta magica di un
viaggio inaspettato.
Un viaggio che io racconto, un viaggio che è una vita, la stessa vita che io sto vivendo, un
viaggio che è l'amore che porto sulle mie mani, sul mio volto, sui miei occhi che si chiudono
incerti alla vista di tanta bellezza. La tua bellezza che mi acceca e mi consola, che mi spiazza e
mi fa sentire sola come un una pagina bianca che attende di essere riempita con parole che
come musica raggiungeranno le tue orecchie e si fermeranno dentro al tuo corpo.
Aspettami, io crescerò ancora grazie a queste parole e a questi gesti che devo imparare a
compiere con più sicurezza.
Aspettami; le mie parole mi porteranno da te. (Odile)
...dammi un canto di streghe...
Era quasi mezzanotte.
Aprii la finestra, e lasciai che la fresca aria notturna penetrasse nella mia stanza. Indossai il
320
mantello scuro e il cappello, e salii in sella alla mia scopa. In un attimo mi lasciai alle spalle la
mia esistenza umana.
Il vento mi sferzava la faccia, cancellando ogni minima traccia di sonno. Sopra di me il
luccichio delle stelle e il chiarore argenteo della luna. Sotto di me la città e i suoi palazzi, le
macchine, le persone e le tante luci. Stavo volando. Lanciai un grido selvaggio. Non era la prima
volta, ma l’emozione, l’ebbrezza, la follia erano sempre le stesse.
Il rintocco di mezzanotte. Era giunta l’ora. Chiusi gli occhi e allargai le braccia, come se
fossero state le mie ali da spalancare. Nella mia mente risuonarono le voci di migliaia di
streghe nel mondo che intonavano la melodia dell’Antica Canzone, e la mia si unì alle loro,
affinché tutte le voci diventassero una, tutti gli spiriti uno solo e tutta la magia si
concentrasse in esso, cosicché la Grande Madre scendesse su di noi e ci donasse la sua forza
in quella notte in cui le barriere tra questo e l’altro mondo si assottigliavano e le anime di
coloro che furono tornavano fra i vivi. Chiunque avesse avuto orecchie per Sentire avrebbe
udito il nostro canto e compreso il significato delle parole pronunciate nella Lingua
Dimenticata, che ogni strega conosce, pur non sapendo di sapere.
Io sono la notte
Sono la luna di perla e le stelle argentate
Io sono l’aria della sera
Ed il sogno dei dormienti
Io sono l’alba
Sono il sole che illumina e riscalda
Io sono il chiaro cielo
E le nuvole che lo oscurano
Io sono il vento
Sono l’acqua del ruscello e del mare immenso
Io sono il fuoco che arde
E la terra da cui il seme germoglia
Io sono l’albero
Sono il piccolo fiore che cresce nel prato
Io sono l’uccello che vola nel cielo
Ed il pesce che nuota nel mare
Sono il predatore, sono la preda
Sono la madre, sono il figlio
Sono l’uomo, sono la donna
Sono la giovane che nulla conosce e la vecchia che ha visto tutto
Ho abitato le caverne e costruito giganti di pietra
Ho pregato in templi di marmo e sono stata sepolta in piramidi nel deserto
Ho servito i Re e a mia volta sono stata Regina
Ho combattuto con la spada e con il fucile
Ho scagliato frecce e lanciato bombe
Ho camminato per sentieri di pietra e strade d’asfalto
321
Sono stata bruciata sul rogo e sono rinata
Sono la Vita, Sono la Morte
Ero, Sono e Sarò
Ogni cosa comincia e ogni cosa finisce
Ma niente nasce dal nulla
E nulla scompare per sempre
Sorelle io sono ognuna di voi
Il mio potere è il vostro…
La sentivo, era intorno a me e dentro si me.
La Grande Madre mi stava donando ancora una volta il suo potere. Sentivo tutto il mio corpo
vibrare, tremare scosso dalla magia che lo attraversava. Se avessi aperto gli occhi avrei visto
la luminescenza che mi avvolgeva, la stessa che avvolgeva tutte le streghe del mondo, in quel
momento. Poi la musica cessò, e la Voce tacque. Aprii gli occhi e trassi un bel respiro. I miei
poteri erano di nuovo al massimo, e io ero pronta ad affrontare un nuovo anno da strega del
Terzo Millennio.
Stavo ancora volando sopra la città, e sotto di me c’era la folla vociante e festante per
halloween. In mezzo a loro riconobbi veri spettri, che si confondevano con la gente
mascherata che tentava i confondersi con loro. Invisibile, scesi per strada e raggiunsi alcune
mie Sorelle. Di nuovo visibile d insieme a loro mi mescolai tra la gente.
…..Noi tutte siamo una e una è tutte.
Era così che finiva il canto. (Ruby Bumbleroot)
322
ORIGAniMa
Limoni giallo intenso,
il muro dell'orto
chiude il mio divagare
in profumo di erbe e di sole.
Nell'anta a vetro riflesso
narciso in anima inquieta,
decadente e reale
scolpitura di ossa e di carne.
Non ha peso né storia
questo grano di polvere d'ala,
di angelo o demone a scelta,
caduto nel chiuso di un orto
per caso.
Mi aprirò un varco
tra muri intrecciati di muschi
seguendo l'azzurro del cielo
spezzato tra i rami.
Percorrerò il breve cammino,
popolato di sfingi e fate morgane,
e,spogliato d'orgoglio,
aprirò gli occhi e le mani
per donarmi,
annullarmi,
anche se nessuno reclama.
Ci sono stregate foreste
mimesi di anime
chimere erratiche in forme di elfi
su cime di alberi voci in lingue profetiche
che strisciando per terra diventano sibili
incontro un bambino timido semplice
un perfido uomo innocente ed inutile
una lupa affamata con latte venefico
una ragazza svestita di corpo e di fascino
un antro oscuro e terribile
da cui escono pensieri annodati ad aspidi
e canti improvvisi che annebbiano i sensi
dolcissimi inviti ammalianti che intrigano
la terra incomincia sotto me ad ardere
la foresta è in fiamme rossotorrida
fuggo e inciampo mi rialzo e soffoco
…mi accorgo, sudato e pallido, che mi dormi accanto.
323
Tu dormi, io deliro, tu vivi, io scrivo.
Sono un grano di polvere d’ala,
un perché senza storia.
Il mare è stranamente quieto,
le vele si muovono appena
come i pensieri,
sospesi
a questo filo di luce,
a questa pausa di voci.
Annuso l’aria piano,
è inquieta e sa di sale.
Non ho occhi specchio
grigioverdi profondi
in cui cercare la fuga,
solo fili d’erba sottili,
quasi invisibili,
alle fioche luci sparse che la sera accende
furtiva.
Consapevole e ignaro,
lo sguardo sul mare,
al mio punto di arrivo
so di fare ritorno. (aiseop)
Ho perso
tutte le conchiglie
raccolte
sul bordo
di un mare dimenticato,
e che avevo creduto
di poter donare
a mia madre
il giorno
del suo compleanno,
ho rubato
capelli neri
per fermare i suoi anni
ed ho chiuso
in una scatola
di scarpe
il suo sorriso
per non vederla
piangere mai più,
ho venduto
il carillon
324
e il mio cuore
per non pensarti più!
CRISTALLI ESPLOSI
NELLA LUCE DI UNA CAVA
DEI PENSIERI FRITTI,
NULLA PUò GIRARMI ATTORNO
SENZA CHE IL MIO OCCHIO
CATTURI L'ESSENZA DI UN GESTO
O DI UN SEGNO,
OMBRE E GRAFFITI
DESCRIVONO ISTANTANEE
DI UN'EPOCA AVARA DI RAGIONE
MA COLME DI INEQUIVOCABILI
SIGNIFICATI..... (Carlo Volpicella)
Brandelli di cuore
sto portando al mercato
arrotolati
in carta stagnola.
Cammino come un soldato:
piedi scalzi
scansano il fango
al ritmo di braccia
che non sapevo così lunghe...
I capelli ho legato
-stranamente votata al cambiamento!sotto l'elmetto pesante
dei ronzanti pensieri
quotidiani
e sfido la luce del giorno
da quando ho smesso di
prediligere la notte
rovinosa...
Ho brandelli di cuore
in carta stagnola,
correte genti
guardate il mio dono:
ho fatto a pezzi
quel soldo di cuore
che m'era rimasto
e lo svendo
alla fiera
delle marionette
dipinte a mano! (Sandra Cervone)
325
Lo scorrere
dell’acqua,
come il corso
del destino,
nel mare aperto
della vita,
lascia impronte
di anime sole.
Anime
Fiamme d’immenso
in fragili otri
di creta.
Multi - etnia,
uno spargersi
di razze.
Nasi…
Occhi…
Persone!
Pelle chiara o scura,
diversi,
tutte anime,
viaggiatori della vita.
Stesso scompartimento,
silenzio.
Stesso colore,
silenzio.
Cala il gelo
tra la gente,
prigioniera di sé stessa.
Frontiere nel cuore.
Libera sovrasta,
solitaria,
una muta disperazione.
Un vortice d’immagini
mi accarezza la mente.
Ricordi incerti e strani
mi attanagliano il cuore.
Non capisco questa confusione,
questo atroce dolore
mi sconquassa l’anima.
Rinchiusa sola in una stanza
vago come un fantasma
326
alla ricerca del passato.
In un attimo penso a delle mani,
a carezze tanto care,
ed è un dolore insopportabile,
non vedo nessun volto,
allora mi dispero
e grida atroci mi escono dalla gola.
Non capisco queste bianche mura,
questi asettici guardiani,
questi dottori che parlano di niente,
vogliono un pensiero
che non mi appartiene più.
Puntualmente arriva il nuovo giorno, trascinandosi appresso i soliti binomi: vita-morte, allegriatristezza, amore-dolore, e solitaria speranza, io aspetto te amore, con i tuoi bei amari
momenti, sicura che la vita è solo questo, un’insieme arcigno di momenti, niente più. La vita è
una perenne attesa del domani e rifugiare in esso ogni sogno, ogni verità, ogni poesia. La
consuetudine dissolve spesso la fiducia in un avvenire migliore. Le brevi impronte di felicità
offerte dalla fugace clemenza della vita, si sfumano alla luce della consapevolezza della realtà,
un continuo divenire, un progredire attorniato da aloni di disonestà, di falsità, di stupide
convenzioni propinate dalla società, da tutti quei bei paroloni privi di significato. La coscienza
rende viva l’anima, il cuore pulsa nelle genti del mondo, ci si accorge che questa civiltà ci
propina l’opposto del nostro volere, che questo non è altro che un infernale spettacolo al quale
tutti dobbiamo partecipare.
Diafana,
dietro lenti ispessite
la vita dilegua
pallidi ricordi.
Mesti sorrisi
scavano solchi
di pensieri a mezz’aria...
parole non dette.
Incerta paura
Si dilegua scarna,
vuota,
solinga.
Origami di carta,
belli come troppe parole,
solo parole,
accartocciate dalla realtà.
Solitario rimane
un vuoto di carta.
Una faccia diafana e stanca la mia… come ogni mattina, ho l’incontro con me stessa, davanti
allo specchio, per ricostruire quello che rimane della mia persona.
327
Un volto esausto, pressato dalla vita che avanza, rughe come solchi dolorosi scavano le guance,
vicino agli occhi, e come una ragnatela impercettibile avanzano, seccano il sorriso e vanno
oltre, là dove è nascosta la parte più intima di me stessa.
A volte neanche il belletto vuole colorare la mia immagine e si stacca, come se non accettasse
l’imbroglio di un viso un po’ più colorito.
Occhiaie quasi anemiche sostengono due grandi occhi da cui traspare l’anima, con tutta la sua
amarezza, immersa in un mare di lacrime già versate.
Contengono tutto il sapore della vita.
Occhi doloranti… quei grandi occhi alla ricerca di un barlume di felicità ricevuto negli anni
passati.
Un miscuglio di gioia, tristezza, malinconia.
Uno scialle sulle spalle, come fossero accartocciate da sogni rinsecchiti, che lasciano freddo,
gelo nel cuore. Improvvisamente mi guardo, come fosse la prima volta, vedo la mia immagine
riflessa nello specchio e con essa tutto il mio bagaglio di vita.
Il tempo passa, scorre come sabbia fra le dita, e non riesco a fermarlo.
Penso alle cose fatte, alle parole non dette, e a quelle scappate di bocca, a cui invece è troppo
tardi per rimediare.
Lo specchio riflette l’impossibilità di tornare indietro e fare scelte migliori.
La vita è un insieme di scelte, un groviglio di fili che s’intrecciano tra loro, un insieme
d’incontri, dettati dal momento, dalle contingenze, dai sentimenti.
Le scelte e gli incontri sbagliati trapelano dallo specchio, che come una guida terribile,
evidenzia sempre gli errori, mentre fa scorgere appena le cose giuste.
Ogni mattina raccolgo i cocci dei miei pensieri, poi sorrido e penso che ce la farò, che
cercherò di vivere al meglio.
Quando mi accorgo dei vuoti che forano l’anima e mi rendo conto della gravità di questi
momenti, cerco di riempirmi d’amore e di cose belle.
Quante domande facciamo davanti agli specchi!
Non sempre ci sono risposte.
A volte, nelle mie incertezze, cerco segnali, intuizioni per non sbagliare, per capire come devo
comportarmi, per non perdermi dietro a parole, o a desideri, o a pensieri senza tempo, senza
spazio, inutili.
Lo specchio è il riflesso dell’anima, in questo istante nuda ed in ginocchio, schiava della sua
stessa ingenuità, in attesa solo di un raggio di sole che illumini la stanza.
Il cuore speranzoso aspetta un sorriso per vivere, un cenno per non morire, poi… il solito
incontro con la realtà di ogni giorno. Dalla finestra s’intravede una luce rosata, auspicio di una
bella giornata. E’ una fresca e limpida mattina d’inverno.
Lo specchio riflette ancora una speranza, rivedo me stessa trasparente, eterica come non mai
e mi piace riscoprire quanto è semplice sorridere. (Gloria Venturini)
Dentro
ogni debolezza
un cuore
resta a volte
in equilibrio
come bolla di sapone
nello spazio
328
di un cielo,
dentro
ogni debolezza
un cuore
fugge
arrampicandosi
su se stesso,
dentro
ogni debolezza
un treno
scappa giù
terrorizzato
alla ricerca
di un figlio
perduto,
dentro
ogni debolezza
633 foglie
copriranno
gli egoismi
di questo mondo
piccolo.
Regole parallele
attraversano i piani
di un cuore stanco,
rischio di scivolare
sul lenzuolo
dei malandati
pensanti,
un cane rincorre
un pallone
e il mattone
si priva
dei suoi spigoli,
frenesia
di primavera
sul sentiero
aperto e amico,
domani laverò
i miei scarponi
e li luciderò a nuovo. (Carlo Volpicella)
Lei sapeva che, in quell’istante, in quel piccolissimo istante, il mio sguardo era proprio lì.
Accanto al suo viso.
Fianco ai suoi occhi.
329
Sentiva il mio respiro, lievemente forte, picchiare sui suoi capelli. Li spostava in piccoli passi
di danza. Ascoltava la mia voce scoppiettare nelle sue orecchie, piano. Sussurrava.
Assaporava il calore della mia pelle stringendosi nel vortice delle mie braccia, morbide.
L’avvolgevano. Gustava i movimenti delle mani che, con estrema dolcezza, tastavano i suoi seni.
Li carezzavano.
Assaggiava poco per volta il gusto delle mie labbra, mordicchiandone ogni angolo, succhiandone
ogni goccia. Baciava frenetica i miei zigomi, gli occhi i capelli il collo le guance.
E di nuovo la bocca.
Scatti felini.
Ma tenui.
Poi.
Alzò lo sguardo. Fermo. Nel mio.
Un attimo.
Un infinito attimo.
Un meraviglioso attimo.
Poi.
Ho continuato a guardarla: mentre il treno s’allontanava, sferragliando.
Ho pensato: mi sarebbe piaciuto conoscere il suo nome. (Folletto Dav)
Every night, before falling asleep,
Mr. Clock-Man winds himself up,
Gets his clothes off,
Puts on his pyjamas,
And he never forgets
To switch on his alarm.
Every night, at eleven o’clock,
Mr. Clock-Man turns off the light.
Every day, early in the morning,
Mr. Clock-Man hears his alarm,
Wakes up with a start,
Gets up in a while,
But he never forgets
To grab bacon and eggs.
Every day, at seven o’clock,
Mr. Clock-Man sets out for work.
Every day, from nine till five,
Mr. Clock-Man strikes all the hours,
Strikes one after midday,
Strikes two and lies down,
But he never forgets
To strike five before stopping.
Every day, just after work,
Mr. Clock-Man eats biscuits and tea.
330
Every day, in the late afternoon,
Mr. Clock-Man goes home again,
Switches on the T.V.,
Sits down on the chair,
But he never forgets
To padlock the door.
Every day, before eight o’clock,
Mr. Clock-Man takes supper alone.
Every day, when evening comes,
Mr. Clock-Man rings all his friends up,
First the Watch-Boy,
Then Miss Clepsydra,
But he never forgets
Cuckoo-Clock and Sand-Glass.
Every day, at the end of the day,
Mr. Clock-Man is as tired as three ….
But
Every night, after the day,
Mr. Clock-Man’s story begins again. (Nello Praz)
Ascolta la voce del mare,
il perenne mormorio delle onde,
le grida dei marinai,
il sussurro dell’acqua
quando s’infrange sulle rocce!
Senti la voce del mare,
cattura le sensazioni delle tempeste,
la paura di quella violenza,
il vociare degli abissi
quando un relitto si posa inerte sui fondali.
Ricorda la voce del mare,
le passeggiate sulla riva bruciata dal sole,
i giochi d’innocenti gioventù,
gli schizzi della schiuma e le risate,
la gioia di fare il bagno mano nella mano.
Comprendi la voce del mare,
la sua immensità, la forza dell’acqua?
Comprendi lo spirito del mare,
quel verdazzurro infinito
che si confonde con la mia anima?
331
Non so se comprendo,
ma ascolto e ricordo la voce del mare! (Gloria Venturini)
La finestra trasluce la notte,
la nostra è grigioscuro,
pigiami pantofole silenzi,
pulsare di arterie dolenti.
Una goccia ticchetta irritandomi.
Un taglio di luce
sbava
su una foto antica e dolce
che conosco a memoria.
Ti sfioro la mano e i capelli…..
ti amo è sicuro
ma a lungo ti ho chiuso parole,
ormai senza scuse.
Per domani una vita diversa,
la stessa,
fuggire e tornare,
a una dolente pietà
che mi fa incazzare,
perdonami.
Sono un grano di polvere d’ala,
un perché senza storia.
Nella notte le stelle mi spiano inquiete
si è spenta ogni luna
stringo i pugni più forte
e ti abbraccio senza farti svegliare
onda di mare
e ti abbraccio senza dire parola
onda di luna
e ti abbraccio finalmente acquietato
onda di vita
assoluzione piena
pena infinita. (aiseop)
I gorghi di vaghezze ci hanno reso più umili di quanto pensi...
Siamo stati burattini svincolati dai fili,
ma fermi dove siamo caduti.
Di presepi nel deserto il mondo è pieno,
come di vergini truccate solo d'invidia
e carezze sul viso...con dita affilate.
Siamo stati interpreti di libertà plagiate,
da vite altrui...
332
mentre la nostra bruciava,
riempiendoci la bocca di cenere. (malium)
SUSSURRAto.
Sussurro nel vento
un vuoto mi permea
l'anima e rimango solo
a guardare.
Amaro e' il mio
pensiero pieno di
tristezza che vela
la mia anima vago
s..perso.
Saziami se puoi
la vita. (corrado carlin Dag.)
Sento di doverti tanto
La luce svanisce
nel viola della sera,
il giorno si raccoglie
con l'ansia di andar via.
Anche la mia luce declina?..
sento, improvviso, il pulsare
del tempo,
scruto con occhi stanchi,
imprimendo sfumature,
i contorni del mio piccolo mondo,
di nascosto ti osservo,
ti cerco,
sento di doverti qualcosa.
La sera è perduta
nel buio della notte,
a occhi chiusi sfoglio
le immagini del mare,
il tuo profilo,
la luce degli occhi
nei riflessi viola,
sento di doverti tanto.
Spogliato di orgoglio,
inquieto,
ti cerco la mano,
333
ti accarezzo il viso,
ripeto parole d'amore
all'infinito.
L'alba non ci fa paura.
Sera
luce che scivoli
via
come il mio sguardo
sui tuoi occhi
che fioriscono sul cuscino
profetici
e azzurri
di malinconia.
Attraverseremo
insieme
la porta del bar
nella mattina
sferzata
da vento gelato
e ordineremo
sorridendo
caffelatte e brioches
e ti vedrò
stretta nel cappotto
voltar le spalle
e fendere il vuoto
che ti fascia
e sorridendo
ti seguirò
andar via
soffiando
alito caldo
sulle mani gelate.
La tua voce
è metallo
fuso
incandescente
e nelle piccole
rughe degli occhi
si aprono
gli ardui e scoscesi
ritmi della terra,
334
smarrimento
più si sale
e più ci si guarda
nelle pupille
magiche,
molecole,
illusioni,
rabbia
e rimpianto
di realtà
irreali.
Mi incontro con te,
forestiera al mio corpo,
amica al mio cuore,
le parole che scorrono
a fiume in piena
colmano a stento
solitudini quasi infinite,
emozionati ci legano
un attimo
prima di svanire
e morire,
i silenzi ormai complici
diventano attese,
questo inquieto vagare
e parlare e ascoltare
è vibrazione di sensi
che si fanno materia
senza tempo
né fissa dimora
e da l'uno all'altro di noi
si spostano all'istante,
dei momenti più dolci
spettatori e rimpianto,
dalla rabbia e dal dolore
feriti,
ricolmi di pianto.
Giocano le luci
Tra i castagni
Ricchi
Di frutti
Autunnali
Giocano
Le ombre
335
Fra le case
Che il vento
Di tramontana
Accarezza
Rude.
Luce
che riveli i colori del prato
fiore a fiore
filo d'erba
per filo d'erba,
luce
che ti rifletti bianca
sui muri calcinati
e fai brillare
i rossi mattoni
e i tetti delle case
luce che scivoli
sui sassi opachi
e sveli grani
di pietre dure colorate,
luce
svela
una per una
le mie ombre.
Occhi
che si interrogano
e labbra
mute
nella sera onirica
al tavolo vetusto
di lavoro,
corpi
fragili e caldi
e poi di tanti
uno
e per poco
e per gioco.
Vibra
la sensazione di vita
che attraversa
i muri e i visi e le parole
per ritrovare
il suo centro pulsante
336
e la sua pace.
Hai bruciato
il campo
rosso di papaveri,
fiamma su fiamma,
solo calore,
azzurra e castana
come cielo e terra,
nel fiume
che scorre in piena,
schiaffo di onda
sopra un'aguzza pietra.
Notte profonda blu scuro
come il pensiero di te stasera,
come l'abisso del tempo
racchiuso nei soliti gesti
che ci legano ormai senza scampo,
sempre meno devo apparire,
sempre più è difficile e semplice
essere qui, senza sogni,
con una tenerezza
che la notte
non può contenere
e il giorno ancora disperde
per inganni
in abbagli di sole. (aiseop)
337
Adiòs Lorenzo
338
Adiòs Lorenzo
“Tu interioridad es dolida”
“Esiste in spagnolo la parola DOLORIDA, Lorenzo, per dire DOLOROSA?”
“Sì, amor, ma no es comune. Ella es una palabra poetica, ella es dramatica”
“Ma DOLOROSA ha un suono più drammatico di DOLORIDA, mentre lo spagnolo è una lingua
più cupa dell’italiano”
“Noooooo, el castellano no es un idioma cupo, pero es riflessivo. En castellano no habemos las
‘i’, el idioma italiano es epico, el castellano es interior. El italiano habes demasiadas ‘i’, porque
es como el cielo, es eroico; el castellano habes las ‘r’, porque es tierra, es un idioma intimo, inte-Ri-o-R. En castellano nos habemos la ‘j’, no la ‘i’, la j aspirada, intima, la j de rojo”
“Ma intima has dos ‘i’, y dolorida una ‘i’, mentre dolorosa nessuna ‘i’ ”
“Dolida tienes en su grembo la contradicion, donde el dolor. Lidia, amor, tu es ricca en tu
profundidad, y herida y desesperada. . . en tu profundidad, tu tienes un dolor tan grande y
secreto . . . ”
“Per questo ho scritto -dentro y adentro y resiste adentro y adentro- ricordi, Lorenzo? Eri
preoccupato che un uomo potesse intendere le mie parole come se fossero sessuali. . . e lo
erano! Como el dolor de una mujer.”
“Como el dolore de una donna.”
Lorenzo è tornato a Medellìn. Parla lentamente, perché pensa ogni parola che dice. Mangia le
arance, ma mai a pranzo. Le sbuccia con un coltello. Ha sempre un fazzoletto dove raccoglie le
bucce.
Ha capito e abbracciato in un momento e in un silenzio il mio cuore. Non mi ha mai chiesto
perché non fossi felice, quasi sapesse che un coriandolo non può rispondere.
Lorenzo si chiede come poter disegnare la gravità sullo sportello di un armadietto di ferro blu.
Mi chiede quale sia “el mi sentimiento su la esistencia del bosone de Higgs” “No lo que tu
sabes, lo que tu sientes”. Fu la prima cosa che mi disse.
La seconda, in realtà.
Lorenzo è un professore di fisica teorica di Medellìn. Ha passato il suo anno sabbatico a Roma
Tre. Era impossibile non notarlo, con i pantaloncini corti, i calzini bianchi e il cappello yankee,
sempre pensieroso, sempre con quel silenzio sospeso di chi è in procinto di dire qualcosa di
importante, e magari sta per mostarti una vecchia bottiglia di Cynar che gli è stata regalata
per Natale dalla vicina di casa. Felino di giungla. “Quieres un cafe’ ?” fu la prima cosa che mi
disse, quel giorno che giravo con una gonna con uno spacco lungo e una camicetta
semitrasparente per i corridoi bianchi e assolati del dipartimento, in quel periodo dell’anno
dove la mattina è già sudata e pomeridiana, e la gente è già stanca la mattina presto che si
chiude negli uffici come i gatti, e i tacchi staccano sul pavimento un silenzio solare e
domenicale, e tu diresti da lontano che le scarpe sono rosse. Lorenzo mi ha detto che una
tribù australiana ha diciassette modi per dire verde, “pero es logico, tu no me intiende si yo te
dico: verde esmeraldo, o verde mare. Loro se intiendono” Lorenzo è una persona innamorata di
qualunque cosa. Mi ricorda una donna che ho incontrato una sola volta, Ilaria, innamorata per
sempre, senza sapere di cosa. Occhi meravigliati, innamorati, che riflettono la meraviglia così
tante volte in un labirinto interiore di specchi da restarne imprigionati. Occhi pieni
339
dell’incanto per il suono meraviglioso che fanno le impressioni e le sensazioni quando si
riflettono su specchi irrisolti. E cantano dentro, e la musica è così bella che Ilaria balla con i
suoi occhi, e balla da sola, non con gli uomini, perché balla con tutti gli uomini del mondo e con
tutte le cose del mondo e della luna. E la immagino vestita da principessa che balla a piedi nudi
sull’erba, con le braccia aperte, e canta Summertime con la sua voce di angelo freddo, ed è la
cosa più innocente sul mondo e sulla luna. Lorenzo è triste perché la Colombia non ha la
memoria storica dell’Europa, Ilaria cerca la sua memoria personalissima nel mondo.
Lorenzo e Ilaria non possono avere una memoria, perché tutto il dolore del mondo non tocca la
loro infanzia. Non sono irraggiungibili come sembra a prima vista, non sono lontani, non sono
soli. Io credo, ma è solo “el mi sentimiento”, che abbiano visto cose della luna che noi non
abbiamo ancora visto, o che non possiamo vedere.
Non so se esiste il bosone di Higgs, quello che sento è che lo spazio e il tempo attorno a me
sono piegati dalla massa e dalla magia di tutte le persone che mi hanno abitato, sia stato per
poco tempo, o per poco spazio, o clandestinamente o apertamente.
Comunque, abitata per sempre.
Non so se esiste il bosone di Higgs. Io sento che esiste, come esistono Ilaria e Lorenzo.
Ilaria ora è a Londra, Lorenzo a Medellìn. Non so perché da ieri sera non posso separare nella
mia testa il ricordo di queste due persone che non si sono mai conosciute.
Oggi passando davanti all’ufficio che era di Lorenzo ho visto il nuovo ospite e l’ho detestato.
Poi ho notato che, come Lorenzo, anche lui faceva la fisica con la carta e la penna, e mi è
tornata alla mente la cosa più bella che Lorenzo mi ha detto: “Yo te quiero por la tua
macchina, porque tiene una banana y una mucca y una mela”
Non tutti devono capire cosa significa questo. (lidia)
Voglio dirti parole semplici stasera,
semplici come una risacca
e il vento che si insinua tra i capelli.
Voglio dirti che le solitudini ,
abbarbicate come alghe
allo scoglio dell’anima,
si sciolgono e riannodano
ad ogni schiaffo dell’onda.
La vita si allarga sulla superficie del mare
verso l’ignoto e l’infinito,
verso il mistero,
mistero che si versa nel tramonto
ogni sera come in un rito sacro
in un calice di sogni e di paure.
Voglio stringere le tue mani,
forse saranno fredde ,(tremano),
abbracciarti ,
stringendoti nel cerchio dei miei occhi chiusi,
per donarti il cuore,
non per sempre ,
340
quello è già stato donato,
solo per la dolcezza di un istante
innocente,
-sì innocente sopra ogni sospettoperché la vita è sentimento,
è un lampo negli occhi di luce chiara ,
un sorriso, un “come stai?” più attento,
un gesto affettuoso con la mano.
Ora è meglio tacere e ascoltare,
a occhi chiusi,
il sibilo del vento e la risacca. (aiseop)
341
Ho visto cose che voi umani…
342
Come occhi di donna
Urlo al mio fantasma
inutile e vacuo
urlo senza un filo di voce
e tu stella irraggiungibile
brilli oltre i miei occhi chiusi
oltre la mia piccola mente
oltre la mia immaginazione
più onirica e audace
malinconica ossessione
mistero vincente. (aiseop)
La giornata se ne va via sonnolenta. Il Sole mi apre i pori della pelle per farci entrare il
respiro lentissimo della vita, il respiro lentissimo e ossessivo delle frequenze più basse che
suonano la pelle sudata e scottata dal Sole.
Amo il Sole come non l'ho mai fatto.
Mi sento una sirena fortunata, perché ho gambe che mi fanno camminare in un mondo che mi
ha dato la vita (Un mondo che studio per amore.), ma nuoto nuda in un mondo acquatico,
distante e avvolgente, prenatale, assoluto... a cui do vita. (Un mondo di cui parlo per amore.)
Oggi ho sentito un AMORE storico e solare penetrare sessualmente nei pori assolati e
accaldati della mia pelle, asciugare l'umidità dell'inverno, regalarmi un'umidità nuova, quella
del sangue che scorre nel suo ambiente naturale. (Quella del sapore bagnato di occhi di
donna.)
Come fosse mare, il Sole mi porta sulle labbra il sapore della mia intima e acquatica
vulnerabilità. Non ha divergenza e non ha convergenza. (Solo ciò che è nello stesso momento
assolutamente logico e assolutamente illogico è vero e vulnerabile. La totale, necessaria e
intima imperfezione dell'anima umana.)
Anche la logica teme l'eternità del tempo e l'infinità dello spazio. L'infinito scientifico è un
limite, un'ipotesi. La scienza rinormalizza gli infiniti e le divergenze. Per farsi umana ha
bisogno della sacralità dell'infinito, ha bisogno di essere sacra. (Ogni scienza è finta.)
L'eternità respirata è fatta eterna dai momenti in cui si scioglie. (Come acqua nella sua
innocente e spudorata non linearità.)
Così il respiro lentissimo della vita è tutto umano, possibile solo per la limitata mutevolezza e
imperfezione dell'essere umano, per la nostra umanissima paura della morte. (Abbiamo fatto
quadrare il cerchio solo perché abbiamo paura.)
Mi brucia l'immagine dell'innocenza spudorata degli occhi appassionati sotto il velo bianco da
sposa. Mi brucia la verginità del momento, che essi rappresentano.. il velo bianco è il mare
della sirena, è acqua nuda, abbronzata, trasparente. E' una luna acquatica. Acquatica.
Acquatica. E' Sole. (Bagnato di veli da sposa e di voglia di fare l'amore.) (lidia)
Luce
343
Calda di sole
Liquida
Amnesia
Di mare
Come occhi di donna, aperti oltre la mia immaginazione
più onirica e audace
malinconica ossessione
mistero vincente.
Come occhi di donna.
Sfida
al colore dell'anima segreta
quel colore che è polvere e aria
sfida
il tuo sorriso
trafigge e fissa sulla carta
la mia angoscia
un lampo
sorriso innocente
come accarezzare
occhi di gatto
sfida
liquido elemento
aereo soffio di vento
rugiada lacrima pioggia
leggera
vestita di seta da sera
trema la pelle
sotto la seta preziosa
nuda trema
afferro con violenza
l'involucro tra le mani
mi resta polvere di luce
mistero
inseguire quel gesto
il graal distillato dalle tue vene
il tintinnio della pioggia
sempre più lieve
cadere addormentato nel sogno
esausto
risvegliarmi
al tepore di una notte di luna
rugiada di erba di giada
materia e cielo
leggere la luna
è la chiave
per capire il primo mistero
344
leggere la luna
leggere la luna
la luna
la luce bianca
non più solo
senza attorno nessuno
dentro
tutti i lettori di luna
atomi e particelle
vibrazioni di stelle
liquido desiderio
materia sfinita
vita.
Urlo al mio fantasma
inutile e vacuo
urlo senza un filo di voce
ad occhi di donna! Una lama
tagliente
come i tuoi silenzi
grigia
come le mie esitazioni.
Urlo al mio fantasma
e tu stella irraggiungibile
più onirica e audace
malinconica ossessione
mistero vincente.
La notte è aperta ma indecifrabile
dialogo di stelle con una luna velata,
forse ammalata stanca annoiata,
la notte alza il suo vento di scirocco
vento d’africa sabbia tra le dita.
Tu stai nell’ombra tra le mie ombre
tra i fantasmi della notte,
di questa notte scelta per provare a impazzire
per far morire un involucro e la sua linfa
per far nascere con un urlo desideri
di un’altra vita infinita lucida e folle,
tu stai nell’ombra tra le mie ombre
come una spiaggia inghiottita dal mare
e sparita.
La notte è aperta ma indecifrabile
dialogo di stelle con una luna velata.
345
Tu stai nell’ombra tra le mie ombre,
tra i fantasmi della notte,
come una spiaggia inghiottita dal mare
e sparita.
La notte è indecifrabile
luna velata
spiaggia inghiottita dal mare
sparita.
La notte è velata
la luna inghiottita dal mare
sparita. (aiseop)
Donna sposa segreta.
Gioielli da regina
e sandali da schiava.
Il resto nuda.
Nudo d'acqua e di luna.
DIPINGIMI. Gioielli da regina
e sandali da schiava.
Voglio spremermi addosso fino all'ultimo limone.
Perché niente è degno di vestire la nuda regina,
che però muore senza un abito caldo,
magari bianco.
Innegabilmente, amore, amore fino a quell'attimo di sacrificio, quell'unico attimo concesso e
ricevuto, che trasuda nei corpi uniti e nelle parole scritte.
Innegabilmente sirena liquida.
stasera
ballerò
flamenco
e riderò
ballerò
un flamenco
possessivo e
territoriale
ballerò
il flamenco
più femminile,
più geloso,
più elegante,
più sessuale
346
e riderò
ballerò
un flamenco
intimo,
geloso
carnale
e sacro
lo ballerò
come un tango
disperato
e liquido,
e appassionato,
come un ultimo
tango
ballerò
un flamenco
denso
di matrimonio
e separazione,
sudato
di spirito
e carne,
vorace
di senso
e di assenza
griderò
la spagna
di gola
e di stomaco
ballerò
un flamenco tango,
dentro agli occhi
di donna,
come una preghiera
una morte
o una superstizione.
E poi
verrò a prendermi
gli applausi, e poi ad amarti. (lidia)
347
Ogni donna viene stuprata tra gli applausi.
Laceravi il mio corpo,
serravi le mie braccia,
come pietra il mio corpo teso dal terrore,
subiva muta la mia mente la violenza,
e l’anima moriva nel delirio del dolore.
Lacrime gelate scendevano dagli occhi,
mentre la tua rabbia rideva.
Notte nera,
umiliata senza nessuna carità.
Notte irrimediabile,
svolta straziante della vita,
crepacuore di speranze.
Un muto silenzio
spegne le grida furiose d’angoscia.
Lacrime abbandonate a sé stesse
senza alcuna pietà,
schegge violentano l’anima straziata
ogni volta in cui l’odio del ricordo avanza.
La tua malvagità è un crimine
che pagherai solo davanti a Dio,
ma per sempre il mio cuore
invoca la tua morte.
Nel posto segreto,
dove si teme di ritrovarsi da soli davanti ai nostri peccati,
eccomi.
La vendemmia delle passioni serba un vino succoso nell’età ardente,
dolce gusto di mosto, novello profumo.
Le stelle violente nella notte illuminano urla di silenzi compressi e pestati.
Un’inquietudine scuote il silenzio,
nel profondo dell’oscurità,
un’altra muta omertà,
così spietata da non riuscire a pensarla.
Spettri di alberi senza foglie,
prati inariditi, secchi e gialli,
fiumi prosciugati, agonia di pesci dagli occhi chiusi,
cuori senza un’anima.
Fredda solitudine spogliata,
nuda e solinga,
sgradevole e desolata.
Avevo timore di dire una parola,
tacqui,
mi mancava la voce.
Rumore di altri fiati,
la notte e il vento sono pieni di voci,
348
voci con le ali.
Fiamme di suoni accesi danzano nel cuore.
Parole alate arrivano fino ad oscurare la luna.
Quante notti aggrovigliate a fili di pensieri,
senza l’altro capo.
Incenso e musica,
tintinnio di risate,
luci pungenti come voci.
Riposo nell’ombra.
Come una pianta vigorosa,
innalzo le fronde al cielo.
Un lamento come preghiera,
ho fame di speranza,
ho tanta sete d’amore.
Linfa di vita scorre veloce,
troppo in fretta passa il tempo
e rinsecchisce fino all’ultimo osso.
Eternamente la notte arriva
e depone il suo mantello nero. (Gloria Venturini)
... occhi feriti i tuoi... Regina di cuori
Un appellativo doloroso:
il tuo.
Con esso hai saputo giocare
e hai potuto ferire.
Mosse abili:
le tue.
Sembravano coronate da scelte premeditate
e da parole quasi studiate.
Falsità celata:
la tua.
Ai miei occhi brutalmente rivelata
come da tuo indecifrabile piano.
Amicizia vera:
la mia.
S’è frantumata contro un’aura di cristallo
ma non è bastata per aprire gli occhi altrui.
Servirà almeno questa, regina di cuori?
... innamorati, volano nei mille strati leggeri e amari dell'amore...
Poter conoscere ciò che non appari
Poter sapere ciò che non credi
Poter vedere come mi vedi.
Qualcosa a te mi unisce in mezzo alla folla
ma sembra essere
349
come un pezzo di cristallo
così fragile e prezioso
che solo una tua parola potrebbe distruggerlo.
Ma come fare per conservarlo?
Solo una tua parola potrebbe,
dovrebbe,
vorrei…
Cosa vorrei? Come? Quando?
Sarà forse mai il tempo?
In un destino così cieco e sordo
o peggio che non vuol vedere e sentire
che solo una tua parola!
E allora fammela vedere!
Urlala!
Solo a te appartiene
ma solo a me non sarà rivolta,
poiché il fato così per me ha deciso.
Vorrai mai smentirlo?
E allora fallo solo con una tua parola. (soleazzurra)
... i mille strati, le mille parole leggere e amare dell'amore...
Mi ha dato gli occhi e ha detto guarda
Mi ha dato il cuore e mi ha detto ama
Ma mai nessuno mi ha detto che……
Con il cuore avrei sofferto e con gli occhi avrei pianto………….
La lucertola dell’amore ancora una volta è fuggita
e mi ha lasciato con la coda tra le gambe….
Ben mi sta !
Voglio sempre troppo,
voglio quello che non posso avere………..!
Il non pensarti non ha senso
Perché ripudiare o rinunciare a qualcosa
che tutto il tuo corpo cerca, desidera più di ogni altra cosa ?
Che la tua mente continua a cercare?
Che il tuo cuore continua a vibrare ad ogni ricordo che riappare …
Così come non ha importanza se ho aspettato vestita e pronta la tua chiamata fino a notte
tarda
Così come non ha importanza se ho aspettato mezzanotte per mandarti i miei auguri
Non ha importanza !!!!
Perché tanto non riesco ad odiarti !
I sogni sono belli
350
Ti permettono di allontanarti dalla realtà che a volte è crudele
Ti permettono di immaginare un mondo più buono
I sogni possono farlo,
ti danno la possibilità di far diventare tuo il ragazzo che non ti vuole
i sogni ne sono capaci
ti fanno innamorare di chi vuoi
ti fanno divertire con chi vuoi
i sogni sono forti
scoprono mondi stupendi, prati immensi, cieli limpidi, uomini liberi
i sogni sono davvero grandi,
l’importante è non smettere mai di sognare…….
Apri la bocca solo se quello che stai per dire è più bello del silenzio…
Guardami ma non parlare…
Prendimi, se solo il tuo desiderio arde quanto il mio….
Ma non parlare, il silenzio farà da sottofondo al ns amore….
Amore..
Correre nel prato verde…
Per rotolarsi insieme nell’erba e poi baciarsi dolcemente…
Ma amore e’ anche…
Correre nel nulla…
Rotolarsi nella melma e leccarsi le ferite che non si chiudono mai….
I due volti dell’amore…
I due volti del cuore………….! (Marinella)
... i mille... e mille.... strati leggeri e amari dell'amore...
Chiudo gli occhi,
ascolto il vento tra gli alberi,
soffice, lieve come una carezza,
dilatato come l’orizzonte,
libero tra il cielo e la terra.
Luce di stelle brilla negli occhi,
azzurra di ricordi,
luce che parla di te,
luce di giorni negli occhi,
nell’anima,
luce sopra gli orizzonti dei miei pensieri.
Amo il tuo ricordo,
351
vivo ogni giorno
la presenza eterica di te.
Respiro a fatica,
mi consolano le carezze
che non ho più.
Abbraccio una foto sbiadita,
il resto di un’immagine offuscata.
Acerbo amore,
ombra celata,
sognerò il passato,
con i dolci gesti,
amati e lontani.
Perle di luce
scendono dagli occhi.
Un sorriso tra le lacrime,
per la perdita di un fiore.
Il vecchio incontro
profuma d’assenzio,
come non mai la catena
che credevo spezzata,
mi lega il cuore
ancora stretto stretto a te.
Note e musica di noi,
sussurri di melodia,
azzurra di cielo,
limpida di luce di sole.
Chiarore,
siamo nella stessa luce,
sotto lo stesso cielo,
un insieme di momenti,
gocce di lacrime,
azzurre di giorni,
nella nostra luce,
luce di sole,
luce di stelle,
luce di luna,
luce di noi.
Luce solo nostra.
Siamo luce d’amore,
rosso come un tramonto,
scintille brillanti negli occhi.
Guardami, guardami,
sono nella tua stessa vita,
ti sento luce vicina,
guardami sono qui,
352
l’unica verità è che
io sono libera solo
quando sto con te,
la tua luce mi manca.
Siamo nella stessa luce…
Vieni vicino, ti voglio sentire,
sei la mia luce d’amore.
Respiriamo nella stessa luce,
azzurro di luce,
luce di noi.
Rivedo la mia immagine splendente,
gli occhi arrossati ancora un po’,
stasera ho pianto.
Assomigli ad un grande schermo,
dove si perde la mia fantasia.
Tu mi hai visto ridere e piangere,
gioire e soffrire,
capire che al mondo
non c’è spazio per le folli utopie,
per l’ingenuità del sogno.
A volte affannata corro da te,
amo affogare tra l’immensità
che solo tu sai imprimere in me,
tra quelle strane sensazioni
che rivedo nel mio sorriso,
che riscopro in un pianto,
che creo e poi distruggo,
poiché
il tempo che trascorro davanti a te,
non è altro
che un insieme di attimi fuggitivi
di nostalgia,
attimi in cui la mia vita vola via,
corre lontano,
in un mondo un po’ strano,
un mondo d’amore
in cui il sogno è realtà.
Per un istante la notte
Un addio doloroso,
falso e quasi dispettoso.
Ho vagato per le strade,
buie e vuote senza te.
Ho trascorso la notte a camminare,
353
a pensare, a rammentare il tuo sorriso,
le tue mani, le tue parole.
Guardavo attorno a me,
cercavo una stella,
qualcosa che potesse parlarmi di te…
all’improvviso una voce,
appari come il sole tu.
Corro da te e abbracciando la mia vita,
sono tornata a sorridere.
In montagna la notte è più scura, più nera.
Le stelle sono vicine vicine, sono molte di più.
Brillano di una luce diversa, più intensa.
Si accendono come piccole scintille,
luminose come fiammelle,
si moltiplicano a vista d’occhio.
La notte è più notte,
ed io aggrappata a te sogno un sogno innocente,
non ancora sognato,
sotto la calda coperta dell’amore.
Un sorriso si culla sereno nel mio cuore.
Un piccolo cuore va incontro alla vita,
è una dolcezza infinita,
le sue piccole lacrime sembrano grandi
come le onde del mare,
i suoi sorrisi sdentati sono più belli del sole,
e ti fanno volare in alto,
sempre più in alto. (Gloria Venturini)
354
Il giardino delle 15 pietre
Questa notte è così calda
di africa e di sguardi
di sguardi dentro
emozioni
all’improvviso come una rete
che imprigiona
pareti di acciaio
di cristallo
e di là dai vetri occhi
profondi
come abissi di mare
urlare
nessuno mi sente
sento un rumore
sempre più forte
alle tempie e nel cuore
un pulsare
alla fine libero
alla fine leggero
nel vento caldo
di occhi profondi
di stelle che vibrano
atomi dispersi
riuniti
nell’universo libero
infinito
nel vento
caldo come un bacio
appassionato
chiudo gli occhi
ti fermo per strada
chiunque tu sia
espressione di vita
senza violenza
ma senza pudore
ti chiedo
un favore
un bacio
senza futuro
un presente
anche a occhi chiusi
un profumo
355
un calore
prima di morire
dentro
prima di morire. (aiseop)
Ci sono 15 pietre in un giardino di Kyoto. Se ne possono vedere solo 14, da qualunque parte si
guarda. Sempre 14 pietre, a turno, ne nascondono una quindicesima. Mille uomini o eroi
cercano, a turno, la quindicesima pietra. I moderni fotografi cercano di impressionarla.
Pensatori e scrittori cercano di parlarla. I danzatori vogliono ballarla. Gli attori pretendono di
fingerla. I musicisti credono di darle una pausa. I bambini vogliono giocarla. I vecchi
dimenticarla o darle un senso. I matematici vogliono darle una geometria. I filosofi vogliono
farne una religione.
Tutti vogliono, cercano, pretendono, credono. La quindicesima pietra si da' senza concedersi,
ed è questo possesso quasi magico che ci rende ciechi a lei. La quindicesima pietra ci possiede
perché dandosi, non ci appartiene. Così, ci da' l'illusione di essere viaggiatori.
Donna sposa segreta.
Gioielli da regina
e sandali da schiava.
Il resto nuda.
Nudo d'acqua e di luna. (lidia)
Hai viaggiato, non è vero, in queste parole? Ma le hai appena lette, appena poche righe fa, nel
capitolo precedente.
Sono parole già lette, già scritte.
Tu ci torni ossessivo e viaggiatore. Cercando, tra le righe, la tua quindicesima pietra. Avido.
Impaziente. Innamorato della faccia scura della luna, palese e invisibile, e della faccia chiara
della luna, parte bellissima dei tuoi cinque sensi.
Ho incontrato occhi neri
improvvisamente chiari
improvvisamente sinceri
specchio definitivo totale
precipizio al vuoto siderale
attrazione fatale.
Ho incontrato occhi neri
anime perdute
intelligenze di nuvole chiare
soffio di vento
che svela la luce
del mistero finale.
Un movimento
giù per la strada assolata
un brillio di mare
un vento
un sentimento. (aiseop)
356
Dentro te
Lasciami entrare
dentro te
come il vento
in una finestra aperta
lascerò volare
qualche foglio
muoverò il pulviscolo
nell'eventuale raggio di sole
Lasciami entrare
sarò leggero
come un alito
lasciami andare
discreto come
una goccia di sudore
Lasciami entrare
dentro te....
e da lì
guarderemo il mondo. (Giuseppe Bianco)
Donna sposa segreta.
Gioielli da regina
e sandali da schiava.
Il resto nuda.
Nudo d'acqua e di luna.
La luna vanitosa si specchia nell'acqua...
acqua salata...acqua di mare,
acqua che spruzza la spiaggia, la sabbia,
fine e dorata, lieve come una coperta.
Fragranza di mare, profumo di salsedine.
Mormorio di mare, soffio di vento.
La luna si bagna di mare,
passeggia a riva e sente il contatto della sabbia,
sottile, impercettibile, ancora calda di sole.
Indossa l'odore del mare.
Ascolta le parole che sussurra il vento,
vento caldo...vento leggero...
vento salato...vento caro...
vento che accarezza... l e n t a m e n t e.
Vento che canta... vento di musica e note...
una nenia l o n t a n a , dispersa, da tanto tempo...
357
nel v e n t o .....
Battito di onda, gelosa, presente.
Borbottio arrabbiato, rumoroso,
mormorio di mare,
rumore di onda che si infrange dolente sulla spiaggia,
onda che accarezza i piedi della luna,
o n d a che o r a t a c e!
Stasera sono luna di mare,
sono blu della notte,
sono o n d a su o n d a ,
onda di voce remota,
ancora v e n t o, ancora o n d a
che annusa un ricordo,
un pensiero fluttuante di luna e di mare.
Una corda tesa nell'anima,
vibra al suono di emozioni.
La mente e il cuore,
amanti stasera,
si sciolgono in pura sensibilità.
Camminando tra i giardini dell'anima,
profumi di note smarrite...
dagli anni della vita.
Aiuole fiorite da colori sgargianti...
che neanche il tempo ha sbiadito.
Sentieri con sassi appiattiti...
dalle strane forme dell'esistenza.
Camminando.......
con il cuore in mano,
tra i giardini.........
come arcobaleno dell'anima,
...........ritrovo la vita.
14 pietre, a turno, sono visibili, a meno che non si guardi alla luna, e lì vi si trovi qualcosa,
qualcosa lontana, lontano, quella quindicesima pietra, che ha volte ha un volto umano, in quel
miracolo lontano che è l'amore.
L’uomo guarda alla luna,
rivede in essa quel volto tanto caro,
quel sorriso tanto amato.
Nelle sole notti di luna piena,
in cui l’astro brilla del suo massimo splendore,
solo poche notti all’anno,
le notti non offuscate dal tempo,
dalla vacua malinconica tristezza,
rivive la melodiosa sensazione di lei,
solo allora ricorda i bei lineamenti del suo volto.
358
E nell’estasi di luna,
preso dall’assiduo pensiero di lei,
il suo cuore sussurra parole,
dolci parole d’amore…
Non posso non fermarmi sulla riva del mare,
e non sognare, non aspettare…
Non posso non annusare l’odore salmastro dei ricordi,
e non volare lontano…
Non posso non ascoltare un do re mi di note danzanti,
e non sentire una musica senza parole che nascono da dentro…
Non posso non affondare nel sonno,
nel buio caldo della quiete e non sognare…
Non posso non pensare a te…
e non amare.
Non poteva non guardare alla luna
e non pensare a lei.
Non poteva non parlare a lei...
Ti avrei aspettato una vita…
I ricordi scivolano
Su sogni abbaglianti d’amore,
chiusi in un forziere,
buttato nel fondo del mare dei silenzi.
Un vortice di tempeste,
dove s’intrecciano pensieri.
Una ferita ancora aperta,
il cuore sanguina.
Rosso che non si vuole vedere,
che non si vuole ascoltare.
Siamo anime naufraghe
nel mare della vita,
anime sbattute e stordite
da quel chiarore di passato,
che sfugge al buio degli abissi
e tremulo si affaccia,
per poi accendersi.
Divampa il fuoco nel mare,
gridano i silenzi.
Un amore senza contorni
dilaga astrale nelle notti,
prendendo il corpo di un fantasma
si affaccia alla memoria
e rivive ancora un poco. (Gloria Venturini)
Fluttuante, salata quindicesima pietra...
359
Ossessioni di rosso
Ossessione di rosso la mano di donna che seduce, NUDA, la propria anima fuori dalla pelle con
passione flamenca, che si da' e si nega di nacchere nere improvvise di teatro e di morte...
Una sillaba di vento
Un pensiero lieve
Un sentimento
Uno sguardo fedele
Precario
Sillabario della vita
Crudele feroce insensata
Questo spreco di desiderio
Di infinito
Di meraviglia viscerale
Deve avere un senso
Un profondo richiamo
Ancestrale (aiseop)
Un'intimità
si spoglia
davanti
a un'altra intimità
già nuda,
due intimità
d'anima
si mordono
di dolore
e di amore,
si legano
dolcemente
come due corpi
sudati
e liquidi
d'amanti.
Nudi come sposi
ridono di più,
si danno più sesso,
più intensità,
sudano di più,
hanno più odore,
più sapore,
hanno sensi
più
pen
i
360
et
ra
n
t
i
t
a
r
et
pen
più
storici.
Si fanno forse più male. (lidia)
Dentro un rosso intenso
dentro un vortice
rosso intenso
mentre le parole di preghiera
sono gocce di sangue
che graffia la pelle.
Amo questa sarabanda,
questa veglia
prima di bere assenzio e miele.
Il papavero
apre le sue tenere ali rosse
caduche
inebriato di luce,
il sole è alto forte immenso,
le ore non hanno ombre
i pensieri non hanno ombre
i desideri non hanno ombre,
c'è una luce d'oro
di porpora e oro
in questa calda sera andalusa.
Tan
tan tan
tan
tan tan tan.
Un ballo di mani intrecciate
e piedi ritmati
su polvere dura
sempre più sola,
bevendo sabbia e sangue,
nel sogno
solitario,
alchimia
segreta
nota solo a Dio,
orgoglio
consapevole
e umile,
361
genuflesso
prima dell'applauso
e del perdono.
Andalusia
farfalla dorata
che sanguina
appuntamento con la morte
vestiti a festa
malinconia
che fa luccicare
le sue lacrime
come ornamenti
ostentato orgoglio
fuoco che arde
e si consuma dentro
si rappresenta la vita
con riti crudeli
come crudele è la vita
una sfida teatrale
e mortale
non ci possono essere pause
se non un attimo prima di osare.
Olè! (aiseop)
Ossessione di rosso denso sulla schiena del toro e sulla sabbia, e sulle grida del pubblico e
sulla sabbia e negli occhi NUDI del torero e sulla sabbia.
Ossessione di rosso nel lamento rotto e necessario del canto flamenco, che fa male, NUDA,
come quella voce di stomaco e di chitarra spezzata che ti si schianta addosso e nei tacchi.
Ossessione di rosso, NUDA, di velo andaluso, da sposa o da arena, di ricami come schiaffi di
vita sudati da chi balla il flamenco, da chi ama il flamenco.
La nostalgia
ha la forma
di gambe
di donna,
ha forma
di gelosia,
di teatro vuoto,
di opacità.
L'occhio di bue,
opaco,
tocca
le gambe
di donna
vestendole
362
di occhi e sipario
l'applauso
di una platea
di spettatori
è inutile
se questi
non chiedono
sabbia e sangue
se non ti chiedono
nuda
con gli occhi nudi
con le mani nude
con i piedi nudi
con lo stomaco nudo
allacciato
dal sipario
indiscreto
e violento
di mani
elettroniche
e meccaniche.
Voglio
un mondo falso
per dargli
peperoni verdi
fritti col sale grosso,
per raccontarti
il mondo falso
e il sale grosso.
per raccontarti
un flamenco falso
e una donna vera
che lo balla
con gambe
nude
di donna.
ubriacata d'acqua,
di mediterraneo
lento e accorato,
di peperoni fritti
col sale grosso
363
e di acini d'uva
scrocchiati tra i denti,
di flamenco e sirtaki,
solisti e sensuali
sopra i tavoli,
(vestiti stracciati
di pelle fuori dalla pelle)
di vestiti acquatici
per la pelle sudata
di sabbia e di sale
e di sonno e di sole,
(essere sott'acqua)
le mie contraddizioni
distratte
come intuizioni
non hanno colpe qui.
solo nostalgia,
che ha il cuore
della mia vita. (lidia)
364
Incomunicabile
In me ride l’inferno senza nemmeno l’umanità dei diavoli che ridono.
(F. Pessoa)
Il sangue s’ingrossa di rosso
in strane fantasie e chiaroveggenze…
odore
e gelosia,
e dolcezza…
la dolcezza
di chi
ha il ventre
di madre
e d’amante
e sa in anticipo
i dolori
del parto
e della vita
Dov'è l’inferno della bambina,
dove quello della donna, e della bambola, e della strega e della santa?
Solitudine di donne
Che fanno l’amore
E abortiscono
Alla tastiera
Di un portatile
E di bambine
Che si svegliano
In preda ad un’ansia
Fetale e amniotica
In preda
Ad un’incomunicabile
Disperazione.
Già sanno
La storia
Che sto per
Raccontarti.
“Oggi ho visto
Il centro
Dell’abisso
Geometrico
365
Di un uomo.
Era ad un’intersezione:
da una parte
la totale
assenza
di dolore
degli occhi
dei pazzi
e dei suicidi
da un’altra parte
la giocosa
curiosità
nei gesti
dei bambini
e dei suicidi
dall’altra parte ancora
la durezza
della lucidità
di chi ignora
l’implorazione
sdentata
dei vecchi
e dei suicidi.
La disperazione
ride
nello stomaco
Tra il vino
E i sonniferi
E una vita che sta tra i colori nascosti del rosso nel fondo fangoso e delimitato dell’abisso di
un fiore bianco viola e giallo
in primo
piano.
Il dolore
in quel centro
geometrico
all’intersezione
di tre domani
inesistenti
e incomunicabili
a chi non li vede
366
sta ballando
il suo ultimo
ballo,
sul ciglio
dell’acqua
(sia essa un fiume terroso e veloce in piena oppure un lago familiare e nero in equilibrio col
mondo)
(Perché
l’acqua
è la madre
buona)
Oggi
guardo
l’acqua
assonnata
e rido
perché
nessun
amore
riempie
questa
solitudine
irrimediabile
negli occhi,
non per colpa
ma per volontà
rido
come ride
la paura
quando
non rimane
che la paura
stessa
Ho visto nei tuoi occhi
Occhi che ho già visto,
(I miei occhi)
Amico mio
(I miei occhi)
Su quel ponte.
(I miei occhi su quel lago)
367
Prima o poi finirai
(I miei occhi che non hai visto)
Il tuo ultimo ballo
(I miei occhi mentre ballavano l’ultimo ballo)
Dolcemente nell’acqua.
(I miei occhi dolcemente sull’acqua)
Metti su almeno
Nelle tue orecchie assordate e sorde
La più bella delle musiche…
(La tristezza assordata e sorda
che implode dentro
senza alcun rumore o speranza
è un suono insopportabile)
Ho visto nei tuoi occhi
(I miei occhi)
Occhi che ho già visto,
(I miei occhi)
Amico mio
Sulla riva dell’Adige grosso
(I miei occhi)
Che non chiedi più nemmeno pietà.
(I miei occhi
che non vedi
che non chiedevano
più nemmeno
pietà)”
L’inferno
di tutte
le mie donne
morte
ride
dentro di me
senza nemmeno
l’umanità
dei diavoli
che ridono.
Il sangue s’ingrossa di rosso in strane fantasie e chiaroveggenze… odore e gelosia e la
dolcezza di chi ha il ventre di madre e d’amante e sa in anticipo i dolori del parto e della vita.
La stanza della cupola dell'osservatorio ha pareti di vetro. E' il vetro antico delle porte delle
case anni cinquanta, lo stesso vetro non vetro che è sulla porta della cucina della mia casa.
Sono in una biblioteca, circondata da annuali di osservazioni astronomiche. Piccola e nuda in un
mondo autunnale di vetri antichi. (lidia)
Ascolta con me questo silenzio di emozioni
368
Così esausto e ansioso insieme
Lucido e affabulatore
Notte che non riesco a viverti intera mai
Per la luce del giorno che mi ha prosciugato i desideri
Che mi incalza navigatore stanco e assetato
Onda dentro l’onda dentro un’onda la mia onda l’onda onda onda onda…
Acqua
urna segreta
da cui è nata la vita. (aiseop)
Sono abituata
all'onda della gente,
alla distorsione delle maree
e degli isolamenti
nei loro mostri e nei sogni,
e le accontento,
perché ho in me
ogni onda di ogni persona
ogni mostro e ogni sogno,
quale che sia più impregnato di inferno.
Io esperienzo ed emoziono
la compressione dell'onda
e amplesso ed esperimento
il desiderio e il respiro.
Questo mi lega in matrimonio
al carnaio di gente
che si bagna o impazzisce
nell'onda umana e terrestre.
E' un'onda di sangue e di zolfo
che si estende tra la
magia e la sensazione
della frequenza che sente nelle orecchie
quell'uomo in Africa che prega
e la bambina che gioca al piano di sopra
e quel negro con gli occhi bianchi che suona il sassofono a New York
e quel soldato che guarda negli occhi un compagno che muore
e quella donna sulla riva del mare di Ibsen
e quella ragazza che balla flamenco in Giappone
e quell'uomo che stupra la sua donna
e quella donna con lo smalto alle unghie e una bomba sul ventre
e quella ragazza che prova il primo bacio sul cuscino
e tutti quelli che stanno documentando la fine di un sogno qualunque
e tutti quelli che stanno facendo l'amore,
369
piangendo, ridendo, chiedendo pietà,
o non chiedendo più nemmeno pietà...
... tutti in perfetto equilibrio con l'onda
ed ad ogni istante la vertigine di capovolgersi un po',
solo un po' più a testa in giù a Roma
e un po' più a testa in su in Nuova Zelanda...
E tutto da capo.
E l'onda in perfetto equilibrio.
E l'equilibrio trattenuto a forza
dai quanti delle distorsioni delle maree
e degli isolamenti.
E questo matrimonio è l'unica fedeltà che conosco.
E la mia onda non la posso sfregiare e fermare
perché ucciderei un uomo, o una donna, a caso nel mondo,
come se battere le mie mani
facesse bruciare,
a caso nel mondo,
un uomo o una donna, a caso, nell'onda.
Tam Tam
Torno all'ombelico energetico della mia onda,
tam tam tam tam
all'anello della mia intimità di onda.
tam tam tam tam tam tam
Il lago madre amniotico della mia infanzia di donna
e acquatico della mia mestruazione di madre.
tam tam tam tam tam tam tam tam
Il lago che mi ha guardato negli occhi
quando nessuno ha osato farlo.
Tam tam
Torno alla cavità di risonanza più magica,
tam tam tam tam
al mio nodo energetico dove gli interstizi
tra i miei strati afferrano la loro esistenza,
Tam Tam Tam Tam Tam Tam Tam Tam Tam Tam Tam Tam
dove sono onnipotente, massa e massa mancante,
sorgente di massa e massa di prova
della gravità tra i miei corpi.
Tam Tam
Torno alla mia culla d'acqua,
Tam Tam
370
al centro esatto del fondo del lago,
Tam Tam
al centro esatto dell'onda.
Tam Tam
Dove ballo seguendo solo la gravità
Tam Tam
dell'attrazione tra i miei corpi.
Ballo un Tam Tam primitivo, un ballo tra viscere d'animale.
Tam Tam acquoso, livido e regale.
Tam Tam
Tam Tam
Tam Tam
Tam Tam (lidia)
come un ballo africano, paura di entrare, luci di terra su un mondo sospeso tra il precipitare
dentro e l'espandersi di un mare che svapora come l'onda che produce. Ballano le parole tra i
tamburi come macchie vive su un quadro, viscere di un mondo che cerca un corpo. (livio)
Tutto questo è incomunicabile.
E' jazz che non passa dai suoni o dalle orecchie ma distrugge il suono nell'intestino e nello
stomaco. E' jazz sordo, che balla dentro. Non conosce i rumori. Non ha suono, ha solo
vibrazione.
371
Ho visto cose che voi umani...
(lidia)
.
372
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