La mia passione per la musica comincia con un voltafaccia, una giravolta, una piroetta. Compivo in quei giorni 12 anni, quando decisi di mettermi in questo cammino solitario. Dei vari talenti artistici mi attirava il piu’ duro da conquistarsi, quello che almeno così m’appariva. Lasciavo la pittura, verso cui mostravo una evidente attitudine: avevo cominciato a disegnare dal vero a 4 anni, fra l’altro con un sicuro senso della prospettiva. Come pittore non ero un artista perché la mia facile vena non è mai entrata in crisi, non mi sono messo in discussione per superare i miei limiti e trasformarli in doti; in compenso ero dentro al linguaggio della contemporaneità di allora, a tappe veloci avevo scoperto l’informale: Fautrier, Burri, Tapies. L’attualità estetica, trasferita in blocco nella musica, nel giro di pochi mesi fece sì che i miei modelli diventassero Boulez e Stockhausen. Ciò ha portato conseguenze importanti , poiché non avevo ricevuto i condizionamenti dei manuali di scuola. Molti rimangono stupiti del fatto che mi dichiari autodidatta; a me invece stupisce che non lo siano tutti. Studiavo ( e ancora imparo) la tradizione, ma attingendo direttamente alle opere. Nel nostro mondo schematico, vengo criticato proprio perché non trovo alcun senso nella distinzione fra antico e moderno. Ammetto che la pratica del disegno qualcosa può aver favorito: i diagrammi di flusso, necessari a costruire i miei pezzi . Li uso da sempre e li ritengo una metodologia appropriata a progettare una forma moderna, in cui il tempo è multiplo e discontinuo ( con un brutto accrocco di parole, oggi ricorrente, lo diremo tempo posteinsteiniano ). Forse ora deluderò molti, però voglio parlare con sincerità. La spiccata inclinazione verso l’aspetto timbrico, tipico della mia musica, non deriva affatto dal lontano passato di pittore, bensì da una mentalità orientata alla chimica e da un certo rigore logico. Non sono scienziato tuttavia ho intuito, da artista, alcune svolte del pensiero recente. Per esempio, ho scritto composizioni frattali dal 1968 in poi; non avrei potuto adoperare il termine frattale ( Gli oggetti frattali di Mandelbrot uscì in francese nel 1975 e in italiano nell’ 87 ) eppure il fenomeno dell’autosomiglianza mi era familiare a causa dell’osservazione della natura e di alcune opere d’arte orientale. La mia musica coscientemente vuole essere adatta all’uomo, comunicativa. Essa inizia dal corpo. Non risiede nella soggettività ( le emozioni dell’autore) e neppure nell’oggettività ( le relazioni interne alla scrittura); dunque né soggettiva né oggettiva. Il centro , semmai, sono io spettatore. A seguito di questo spostamento estetico, l’opera diviene esperienza percettiva. Io concepisco suoni in movimento, eventi ambientali al limite del percepibile: rappresento cioè una sorta di teatro dell’ascolto . Non più quindi pezzi di musica, quanto pezzi di realtà (?) in cui oggetto e soggetto, strumento ed esecutore si confondono in uno spazio ellittico, un non-luogo permanente e misterioso, che ci tiene sospesi, in allarme, dove lo spettatore è protagonista. Il silenzio non resta semplicemente come sfondo, viene anzi a coincidere con l’azzerarsi della mente. Questa non è una musica allegra né triste. E’ un mezzo creativo per stimolare l’autocoscienza. Occupandomi della percezione era ovvio che mi scontrassi con alcune superstizioni delle avanguardie. Ero costantemente allineato ( a mia insaputa, devo confessare ) con gli scienziati cognitivisti. Ho sempre rifiutato l’ortodossia fanatica della musica contemporanea, anzitutto il suo determinismo; trovo poi accademico il concetto di libertà espresso dalle tendenze aleatorie; e soprattutto accuso la mancanza di impegno personale che ha staccato completamente i compositori dalla società. Non dimentico un episodio. Nella fase giovanile del mio insegnamento a Milano, il più dotato dei miei allievi lasciò polemicamente la mia classe, rimproverandomi di nutrire un ideale artistico troppo severo. Aveva ragione: tuttora ritengo non vi sia modo di fare l’artista per mezzo dei compromessi. Non so se questo sia un ideale eroico del comporre. So che qualcuno deve sviluppare la propria individualità: colui che si occuperà del nuovo. In genere il compositore è schiavo dei sistemi combinatori; egli manipola note ( e non suoni ) senza essere coinvolto o responsabile del risultato finale. Il risultato finale è invece il mio punto di partenza: io penso immagini sonore, universi. Dopo li inseguo nei particolari e li realizzo. Sono veramente convinto che il determinismo provochi un progressivo, implacabile smorzarsi dell’immaginazione. Le mie opinioni mi hanno regalato una fama di eretico, assai meritata. La libertà di giudizio, sebbene costi un alto prezzo di sacrificio, ha per me un valore inestimabile. In fine di questo sintetico discorso, mi pare giusto ringraziare gli amici e i colleghi che si sono occupati della mia attività di compositore, con studi critici specialistici. Loro mi hanno aiutato a meglio comprendere quello che ho esplorato nel mio lungo percorso. Salvatore Sciarrino