Liceo sc. G.B.Quadri
Giornata della memoria
27 Gennaio 2005
LA “NECESSITA’” DI PENSARE
AUSCHWITZ: HANNAH ARENDT
“Comprendere non significa negare l’atroce (…)
Significa piuttosto esaminare e portare
coscientemente il fardello che il nostro
secolo ci ha posto sulle spalle,
non negarne l’esistenza, non sottomettersi
supinamente al suo peso. Comprendere significa
insomma affrontare spregiudicatamente la realtà,
qualunque essa sia”.
(H. ARENDT, Le origini del totalitarismo)
1. Introduzione: gli intellettuali di fronte alla Shoah
Auschwitz occupa una posizione marginale nella cultura
del dopoguerra: la scomparsa dell’ebraismo dell’Europa
centrale e orientale passò quasi inosservata, come se si
trattasse di un evento funesto fra gli altri.
I pochi sopravvissuti non trovarono all’inizio quasi mai
interlocutori attenti e ricettivi1.
Di fatto solo pochissimi intuirono immediatamente il
carattere epocale dell’evento “Auschwitz”, sentendo il
bisogno di comprenderlo ed interpretarlo; la maggioranza
degli intellettuali invece all’epoca provò un’attrazione
“estetica” nei confronti del nazismo o si dimostrò
opportunisticamente disimpegnata; quelli che avevano
combattuto il nazismo furono per lo più ciechi di fronte
al genocidio, come se il loro “orizzonte di visibilità”
non permettesse loro di scorgere la portata di questo
evento.
Caso emblematico è costituito dalla figura di J.P.
Sartre, che incarnava la figura-tipo dell’intellettuale:
Vittorio Foa, giovane antifascista e animatore di Giustizia e Libertà, nelle
sue memorie scrive che nel 1945 l’atmosfera politica e culturale non permetteva
di cogliere il significato del genocidio degli ebrei: “Tornavano i superstiti,
uno su cento, dai campi di sterminio. Raccontavano e cominciavano a scrivere
cose
inimmaginabili
sulla
disumanità
del
potere
e
sull’organizzazione
scientifica della morte, ma questi racconti non toccavano la nostra gioia di
vivere finalmente nella pace. Non si spiega altrimenti il fatto che il libro di
Primo Levi, Se questo è un uomo, ha trovato difficoltà per la pubblicazione: si
temeva di turbare un sollievo collettivo, col rischio di cadere nell’omertà (V.
FOA, Il cavallo e la torre. Riflessioni su una vita)
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nel suo testo scritto quasi completamente nel ’44 e
pubblicato
nel
‘46
(“Riflessioni
sulla
questione
ebraica”) il pensatore francese si mostrava incapace di
pensare
il
genocidio
come
elemento
decisivo
per
comprendere ciò che ra successo; le camere a gas venivano
appena citate2.
Come spiegare questa “indifferenza”, o, comunque, questa
difficoltà a cogliere la portata degli eventi?
o In un continente in rovine gli ebrei sopravvissuti
erano una piccola minoranza, in un contesto in cui ci
sono milioni di profughi;
o Va considerato il lungo passato di antigiudaismo e di
antisemitismo, che impregnava ancora le mentalità e
il pensiero di molti;
o Con
la
divisione
della
Germania
tra
alleati
occidentali e forze sovietiche il dibattito sui
crimini nazisti fu condizionato dal nuovo clima
politico internazionale legato alla Guerra fredda: in
tale contesto non rimaneva spazio per un’elaborazione
adeguata del passato.
o Le
reazioni
del
mondo
ebraico
spesso
non
contribuirono
ad
una
maggiore
comprensione
dell’Olocausto: per molti ebrei il nazismo era la
conferma di una storia di persecuzioni, rispetto alla
quale era predisposti alla rassegnazione; inoltre in
molti paesi occidentali i sopravvissuti non volevano
apparire come vittime particolari rispetto alle
altre, anche perché desideravano reintegrarsi come
cittadini uguali agli altri.
Era come se l’Europa si rifiutasse di posare lo sguardo
su una tragedia così mostruosa consumatasi nel suo cuore
2. Il “privilegio” dell’esilio
Tenendo conto di questi elementi risulta ancor più
significativa la lucidità di quei pochi intellettuali che
seppero cogliere il significato epocale di ciò che era
appena successo; fra questi meritano senz’altro di essere
ricordati Hannah Arendt, Günter Anders, Theodor W.
Adorno, Max Horkheimer ed Herbert Marcuse. Essi intuirono
L’antisemitismo viene presentato come una passione, una scelta dell’odio
contro la ragione e come un bisogno frustrato di comunità; lo sterminio come
sistema sfugge completamente all’orizzonte di pensiero sartriano.
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che l’Occidente, con i campi di sterminio, si trovava di
fronte ad un momento di rottura di civiltà3.
Hannah Arendt ha così descritto la sua reazione di fronte
alle notizie sempre più diffuse sul progetto nazista di
sterminio degli ebrei:
“Era il 1943. E subito non ci credevamo, benchè io e mio marito
considerassimo quegli assassini capaci di tutto (…) Ma siamo stati
costretti a crederci sei mesi dopo, quando ne abbiamo avuto la
prova. Fu allora il vero trauma (…) Era come se l’abisso si fosse
aperto di fronte a noi”
(Archivio Arendt.1)
Questi intellettuali, come si è detto, furono i soli, al
di fuori delle vittime, a vedere e pensare Auschwitz.
Come deve essere pensata questa singolarità?
Si tratta di filosofi, sociologi, politologi formati nel
clima della repubblica di Weimar e costretti all’esilio
dopo l’ascesa al potere di Hitler nel 1933; essi,
rispetto al contesto culturale tedesco del tempo, erano
al
contempo
integrati
e
marginali,
assimilati
ed
estranei.
La categoria fondamentale per capire questa condizione è
quella dell’ESILIO: si tratta di ebrei assimilati, nei
quali l’uno dei due termini non prevale sull’altro. In
quanto
assimilati
essi
non
potevano
interpretare
Auschwitz in base a categorie interne alla loro storia e
tradizione,
ma
cercavano
una
chiave
di
lettura
universale; in quanto ebrei, abituati alla condizione
(esistenziale prima che politica) dell’esilio, essi erano
in grado di sottrarsi ai condizionamenti dell’ambiente
circostante.
Questa caratteristica paradossale permetteva loro di
avere una disponibilità ideologica superiore a quella
degli altri: la condizione di precarietà e il limitato
inserimento
istituzionale
facevano
di
questi
intellettuali
un
gruppo
capace
di
sfuggire
ai
condizionamenti esercitati dalla mentalità dominante e
dalla visione del mondo tradizionale, permettendo loro di
svolgere in libertà il ruolo di coscienza critica della
società del tempo.
Adorno e Horkheimer (Dialettica dell’illuminismo, 1944) colgono in esso
l’espressione dell’”autodistruzione della ragione”; per Adorno (Minima moralia,
1944) lo sterminio “amministrativo e tecnico” degli ebrei, messo in atto con i
metodi tipici di un “lavoro meccanizzato”, nell’ambito di una “guerra senza
odio”, come il “culmine dell’inumanità” raggiunto dalla nostra civiltà.
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Proprio grazie a queste condizioni storiche, politiche e
culturali, questo gruppo di pensatori si trovano nella
condizioni di avvertire nell’evento “Auschwitz” una
rottura di civiltà: nel maggio del ’44 Adorno ed
Horkheimer
vi
scorgono
l’espressione
di
una
“autodistruzione della ragione”; in un testo dello stesso
anno Adorno presenta lo sterminio “amministrativo e
tecnico” degli ebrei, come “il culmine dell’inumanità”
raggiunto dalla nostra civiltà; sempre nel ’44 la Arendt
scrive che “i massacri amministrativi” sfidano “le
categorie del pensiero e dell’azione politica”.
Per loro i campi di sterminio non potevano essere ridotto
ad un mero incidente di percorso, per quanto grave, sulla
via dell’ineluttabile progresso dell’umanità fondato
sulla fiducia della ragione; essi apparivano piuttosto
come un prodotto legittimo della civiltà occidentale,
della quale favcevano apparire il carattere distruttivo
della razionalità strumentale.
Auschwitz rimetteva in causa il concetto di civiltà: la
barbarie non era l’antitesi della civiltà moderna,
tecnica e industriale, ma la sua faccia nascosta. La
storia non poteva più essere interpretata come percorso
rettilineo ed omogeneo in tutte le sue parti; era ormai
una storia spezzata.
3. Il percorso intellettuale di H. Arendt
La riflessione arendtiana sull’Olocausto ha attraversato
tre fasi distinte, che cercheremo ora di illustrare in
modo dettagliato:
a) Prima fase: L’immagine dell’inferno
Auschwitz apparve subito alla pensatrice tedesca come un
evento nuovo, senza precedenti; dopo aver ricevuto
notizie certe sullo sterminio alla prima reazione, di
incredulità, fece seguito l’impressione che si fosse
“spalancato un abisso”.
Nonostante ciò essa cercò di comprendere tale evento
“razionalmente”: era necessario riconoscere questa realtà
senza staccarla dal suo contesto (storico) che era quello
di un secolo di imperialismo.
I
primi
articoli
sull’Olocausto
dimostrano
una
straordinaria
lucidità
nella
comprensione
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dell’evento,soprattutto se si tiene conto della scarsità
e frammentarietà dell’informazione.
In un saggio del dicembre ’444 viene già individuato un
elemento fondamentale del processo di sterminio: il suo
carattere industriale, amministrativo e impersonale.
Il
funzionamento
delle
fabbriche
della
morte
non
dipendeva dal fanatismo di una minoranza ma dallo zelo di
una
massa
di
burocrati
“normali”,
scrupolosi
nell’adempiere al loro dovere senza discutere gli ordini.
Anticipando riflessioni sviluppate più ampiamente ne “La
banalità del male”, la Arendt precisa che la “soluzione
finale” non si appoggiava “né sugli assassini per natura,
né sui sadici (ma) sulla normalità di persone della
tempra del signor Himmler”.
In un articolo del 1946 (“L’immagine dell’inferno”) la
pensatrice presenta le “fabbriche della morte” come
“l’esperienza fondamentale della nostra epoca”: esse sono
il frutto di un’alleanza infernale fra “scientificità”
(biologia
razziale)
ed
“efficienza
della
tecnica
moderna”.
In altri termini la Arendt riconosceva la modernità come
uno dei tratti distintivi di Auschwitz, riconoscendo che
si tratta di un evento che interpella l’intera civiltà:
“Politicamente parlando, le fabbriche della morte costituiscono un
‘crimine contro l’umanità’ perpetrato sul corpo di individui
ebrei; e se i nazisti non fossero stati sconfitti, le fabbriche
della morte avrebbero inghiottito i corpi di molte altre persone
(in realtà, gli zingari furono sterminati con gli ebrei
per
ragioni ideologiche più o meno simili). Senza dubbio gli ebrei
sono legittimati a rivolgere questo atto d’accusa contro i
tedeschi, ma a condizione che essi non dimentichino in questa
occasione di parlare a nome di tutti i popoli della terra”.
In questo primo periodo, che va dal 1944 al 1947, la
Arendt sottolinea l’irrazionalità economica e militare
dello sterminio degli ebrei: il genocidio era un fine in
sé5. I campi nazisti non sono altro che “laboratori di
una esperienza di dominio totale” che poteva essere
realizzata solo “nelle condizioni estreme di un inferno
fabbricato dall’uomo”.
“Colpa organizzata e responsabilità universale“, in “Ebraismo e modernità”
In una lettera a K. Jaspers la Arendt definiva la “soluzione finale” come un
crimine nel quale, per la prima volta nella storia, non si era ucciso “per
ragioni umane”, ma si era creato un sistema il cui fine era semplicemente quello
di “estirpare dal mondo il concetto stesso di uomo”.
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Riassumendo si può dire che quattro sono in questa prima
fase gli aspetti del processo di sterminio degli ebrei
individuati:
1) Il suo carattere industriale;
2) La complessità burocratica;
3) La “normalità” degli esecutori;
4) L’obiettivo di annientare, attraverso il popolo
ebraico, la diversità degli uomini.
b) Seconda fase: riflessioni sul “totalitarismo”
Nei
primi
scritti
sul
nazismo
il
concetto
di
“totalitarismo” non compare quasi mai; ancora nel 1946 il
concetto chiave era per lei quello di imperialismo. Tra
il 1946 e il 1950 il concetto di “totalitarismo” si
impone come chiave di lettura fondamentale nel pensiero
della Arendt.
Il risultato della riflessione arendtiana su questo tema
è contenuto nell’opera “le origini del totalitarismo”,
conclusa nel 1949 e pubblicata nel 1951. In quest’opera
l’autrice riflette sull’emergere, nel XX secolo, di una
nuova forma di potere fondato sull’ideologia e sul
terrore. Premesse di tale realtà sono l’antisemitismo
moderno e l’imperialismo.
Hannah Arendt individua alcuni aspetti fondamentali del
sistema totalitario:
a) L’annullamento dell’individuo in quanto “soggetto di
diritto”:
nella
prospettiva
imperialistica
l’Occidente si sentiva autorizzato (teorie razziste)
a sfruttare i popoli colonizzati; l’antisemitismo
moderno, da parte sua, aveva trasformato gli ebrei
in paria sociali, in apolidi, persone private di
qualsiasi protezione legale. Il totalitarismo aveva
poi perfezionato questa tendenza: “ Tale sistema
mira
infatti
a
distruggere
i
diritti
civili
dell’intera popolazione, che alla fine si trova
proscritta nel proprio paese, alla stessa stregua
degli
apolidi.
L’uccisione
della
personalità
giuridica dell’uomo è una condizione indispensabile
per dominarla interamente”.
b) Il secondo elemento era “l’uccisione nell’uomo della
persona morale”: nei campi di sterminio la dignità
umana era annientata; sia le vittime che i carnefici
l’avevano perduta. Quando la coscienza, la capacità
di pensare e di giudicare sono state distrutte,. “la
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complicità deliberatamente organizzata di tutti nei
delitti del regime totalitario è estesa alle vittime
e così resa veramente totale”.
c) Il
terzo
elemento
era
“l’uccisione
dell’individualità”:
nella
società
totalitaria
l’uomo diventa “massa” atomizzata. Alla dissoluzione
dell’individuo nella masse corrispondeva, nei campi
di sterminio, la disumanizzazione e l’eliminazione degli
uomini divenuti “superflui”. Il fine ultimo del totalitarismo
è la “trasformazione della natura umana”: “Non è in gioco la
sofferenza, di cui ce n’è sempre troppa, sulla terra, né il
numero delle vittime. E’ in gioco la natura umana stessa”.
I campi di sterminio nazisti sono presentati come luogo
del “male radicale”, tipico del XX secolo. In una lettera
a Jaspers del Marzo 1951 la Arendt scriveva che “il male”
si era “rivelato più radicale del previsto”, perché erano
venuti alla luce crimini che non rientravano nelle
categorie del Decalogo.
c) Terza fase: La “banalità del male”
Le riflessioni contenute nel testo del 1951 non erano
definitive; nel 1961 venne inviata a Gerusalemme dal “New
Yorker” per seguire il processo Eichmann. Il libro che
raccoglie le riflessioni a partire da questa esperienza
la
Arendt
è
“La
banalità
del
male.
Eichmann
a
Gerusalemme”, pubblicato nel 1964.
In questo lavoro la pensatrice lascia cadere il concetto
di totalitarismo, per concentrarsi di nuovo sul genocidio
degli ebrei.
Il punto centrale della sua riflessione riguarda proprio
l’interpretazione di Auschwitz: mentre per il tribunale
di Gerusalemme esso non è stato altro che l’ultima
manifestazione delle antiche persecuzioni (“il più
orribile pogrom della storia ebraica”), per la Arendt lo
sterminio degli ebrei costituisce “un attentato alla
diversità
umana
in
quanto
tale,
cioè
ad
una
caratteristica della ‘condizione umana’ senza la quale la
stessa
parola
‘umanità’
si
svuoterebbe
di
ogni
significato”.
L’antisemitismo spiegava la scelta delle vittime, ma il
loro sterminio radicale faceva riferimento all’umanità
intera.
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Il resoconto sul processo Eichmann provocò non poche
polemiche, quasi che l’espressione “banalità del male”
producesse un effetto di banalizzazione del genocidio.
In realtà la Arendt aveva cercato di posare lo sguardo
sull’uomo Eichmann: da una fredda analisi a partire dal
processo il tenente colonnello delle SS risultava essere
di una “terrificante normalità”, un semplice burocrate
incapace di risposte che non fossero di tipo formale.
Non si trattava di una figura tragica, travolta dal
dilemma del bene e del male, ma semplicemente di qualcuno
totalmente privo di autonomia di pensiero: egli non
provava rimorso perché durante il nazionalsocialismo il
male era la legge, e la legge non poteva essere violata.
La “soluzione finale” non era per Eichmann che “un
impiego con la sua routine, i suoi alti e i suoi bassi”.
In questa prospettiva muta la sua riflessione sul “male
radicale”:
“Quel che ora penso veramente è che il male non è mai ‘radicale’,
ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una
dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo
intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso
‘sfida’ come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di
raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in
cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la
sua ‘banalità’. Solo il bene è profondo e può essere radicale”
Ammettere la banalità del male non significa banalizzare
l’Olocausto, piuttosto evidenziarne ancora di più la
mostruosità, perché perpetrato da persone “normali”. La
preoccupazione della Arendt era inoltre di evitare la
tendenza a “mitologicizzare o a estetizzare il male
radicale del totalitarismo” (R.J. Bernstein).
Il processo di Gerusalemme non aveva solo evidenziato la
banalità del male. Ci furono momenti, rari per la verità,
in cui si trattò di quelli che si erano rifiutati di
obbedire alle leggi del Reich hitleriano, pagando con la
vita questa scelta.
Tra questi il sergente tedesco Anton Schmidt, che si era
distinto in Polonia nell’aiuto di partigiani ebrei prima
di essere scoperto e giustiziato. Quando fu raccontata,
durante il processo, questa storia
“un silenzio di tomba calò nell’aula del tribunale; come se il
pubblico avesse spontaneamnete deciso di osservare i tradizionali
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due minuti di silenzio in memoria dell’uomo che si chiamava Anton
Schmidt. E in quei due minuti, che furono come un’improvviso
raggio di luce in mezzo ad una fitta, impenetrabile tenebra, un
pensiero affiorò alle menti, chiaro, irrefutabile, indiscutibile;
come tutto sarebbe stato oggi diverso in quell’aula, in Israele,
in Germania, in tuta l’Europa e forse in tutti i paesi del mondo,
se ci fossero stati più episodi del genere da raccontare”.
4. Bibliografia essenziale
H. ARENDT, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme,
Feltrinelli 1964
ID., Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità
1996
ID., Ebraismo e modernità, Feltrinelli 1993
ID., L’immagine dell’inferno. Scritti sul totalitarismo,
Editori Riuniti 2001
ID., Responsabilità e giudizio, Einaudi 2003
Archivio Arendt 1. 1930-1948, Feltrinelli 2001
E. TRAVERSO, Auschwitz e gli intellettuali, Il Mulino
2004
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