VIVAVERDI A destra, un’immagine glam-rock di Renato Fiacchini, in arte Renato Zero. Foto di Marinetta Saglio 6 musica UN GRANDE RITORNO DA ZERO A MITO: L’ARTE DI DAR VOCE AD UNA GENERAZIONE EMARGINATA di Gianni Minà La luce dei vecchi lampioni a via della Lungaretta allora era fioca, o meglio, giocava con l’ombra dei palazzi. Con Giorgina, la mia prima moglie, avevamo accompagnato dei suoi parenti a mangiar pesce a piazza Santa Maria in Trastevere. Eredi di una famiglia cubana-americana che, solo sessant’anni prima, aveva dato un presidente della Repubblica all’isola e poi aveva lasciato l’Avana al trionfo della Rivoluzione, i parenti erano molto americani, americani con pedigree, denaro e pregiudizi. Quell’immagine traballante sui tacchi e con un vestito molto sgargiante che, quella sera, veniva verso di noi li aveva subito incuriositi, specie quando si erano accorti che aveva un viso dipinto a metà e un cappellino sbarazzino con una veletta. All’altezza di piazza di Sant’Apollonia, dove c’è il Teatro Belli, mi resi conto che quella figurina era Renato Zero e che puntava dritto verso di noi. “A pisè! Hai sentito Mi vendo? E te sei sturbato?”. Mia moglie, Giorgina, si era affrettata a dire “Es un artista, un grande artista”, ma i parenti parevano perplessi, anche nell’offrire la mano per le presentazioni e il saluto. “Sapevo che ti sarebbe piaciuto” insisteva Renato, per nulla imbarazzato del disagio dei parenti, “Sei fra i pochi giornalisti, pisè, che non hanno pregiudizi, ma datte na svejata pure tu!”. Giorgina, senza grande successo, tentava di attenuare l’impatto di quell’incontro chie- In anticipo sui tempi, sempre e comunque, Renato Zero è uno dei grandi autori della canzone italiana, baciato dal successo. Alfiere di un glam-rock di casa nostra, nutrito però di contenuti scabrosi e ambigui, almeno inizialmente, il musicista della Montagnola è stato un interprete dei sogni e delle fantasie, di quel mondo giovanile delle borgate e delle periferie urbane lasciato ai margini dalla crescente industrializzazione del paese. Con milioni di dischi venduti in una carriera lunga e ricca di soddisfazioni, Zero ha sempre coltivato un rapporto di profonda sincerità coi suoi fan, i sorcini, una comunità adolescenziale che vive spesso di una passione trasmessa da madre in figlia e persino con la presenza di qualche nonna. dendo ai parenti se conoscevano David Bowie, caposcuola della nuova ondata della musica en travesti. Ma i parenti erano rimasti ai boleri e, per quanto riguardava l’Italia, a Enrico Caruso. Ebbi la conferma, però, che nella musica popolare italiana stava per affermarsi una grande personalità, quella di Renato Zero, un artista non solo capace di creare sensazione, ma anche di suggerire un cambio di costume nella canzone italiana che pure all’epoca viveva ancora una stagione rivoluzionaria, di grande e poliedrica creatività, che certamente non era dipendente solo dalle mode imposte dall’industria discografica inglese e nordamericana. Perchè Renato Zero, pur nei suoi limiti, non era, come cercava di spiegare con approssimazione Giorgina ai parenti, una copia di David Bowie o del suo compagno, il fotomodello Marc Bolan, il primo uomo che fece da ponte tra l’era hippie e la nascita del glam rock, antidoto all’eccessiva serietà dell’epoca. Era, invece, un interprete delle esigenze, delle frustrazioni, dei sogni, di quel mondo delle borgate e delle periferie urbane che l’industrializzazione aveva prodotto, quando era cominciato l’abbandono delle campagne e, in Italia, l’esodo dal sud del paese per cercare di soddisfare bisogni nuovi che il boom economico aveva sollecitato. Per questo non mi era apparso stonato chi, cercando di interpretare la vena creativa di questo inatteso cantore del malessere, dell’emarginazione e del riscatto proletario, aveva quasi subito parlato della nascita di un Pasolini della canzone. Conoscevo Renato Fiacchini (che usava già, come artista emergente, lo pseudonimo di Renato Zero), perchè la sorella era segretaria a Tv7, il rotocalco televisivo della Rai al quale io collaboravo fin dalla metà degli anni ‘60. Renato era figlio di una infermiera e di un VIVAVERDI In entrambe le foto, Renato Zero in concerto negli anni ‘80, in piena esplosione della “zerofollia”. Foto Archivio DUfoto [email protected] 8 musica poliziotto e veniva da un sobborgo, quello della Montagnola a Roma, poi cantato nel brano del 1979 Periferia dell’album Erozero, che lo portò per la prima volta al primo posto dei dischi più venduti. La Montagnola era alle spalle delle abitazioni dei parlamentari, sulla Cristoforo Colombo, dove era stato edificato l’enorme e orrendo casermone per le case di oltre centocinquanta famiglie di dipendenti della pubblica sicurezza. Renato, alla metà di quegli anni di piombo, contraddittori, duri, ma anche creativi era già il più vivo, il più fresco dei giovani artisti che inseguivano e pervicacemente raccontavano speranze al Piper, al Titan, perfino al Bowling Brunswick, dove di sera Roma offriva la sua movida, allora per niente banale. Girava con due sorelle, Loredana e Mimì Berté (che avrebbe scelto poi il nome d’arte di Mia Martini). Con sé aveva sempre una valigetta molto colorata piena, come affermava, dei suoi sogni, il teatro e il mondo musicale in generale che aveva in testa da sempre, ma che nell’Italia ancora ingessata di allora nessuno pareva volere. “Uscivo de casa vestito normale, sgoiattolavo lungo il muro dei condomini dei poliziotti verso la libertà. Nella valigetta avevo le mie mise, le mie combinazioni sgargianti, i miei trucchi, insomma, la mia doppia personalità. Quando, dopo aver attraversato la città, arrivavo a via Tagliamento, dove c’era il Piper, cercavo un androne di quel rione per cambiarmi velocemente e soddisfare quella parte nascosta della mia personalità. Vestiti i costumi di scena del mio teatro umano, ero pronto per la grande recita” ha spiegato una volta. Alla fine degli anni ’60, poco più che adolescente, era tuttavia sempre là dove avveniva qualcosa di nuovo. Dai ragazzi denominati “collettoni” che con le “collettine” ballavano Il Geghegè negli spettacoli televisivi e innovativi di Rita Pavone, appena lanciata sul video da Lina Wertmuller con la trasposizione del Diario di Gianburrasca, alle comparsate nei film più visionari di Federico Fellini (Satyricon e Casanova), alla partecipazione nella versione italiana del musical Hair (insieme a compagni come Loredana Berté e Teo Teocoli), fino al primo ruolo importante, quello del venditore di felicità, nel musical Orfeo 9, scritto da un grande talento disperso, Tito Schipa Jr, figlio di uno dei più raffinati tenori del ‘900. Una sera ricordo Renato Zero al Titan di Massimo Bernardi diventare, in un attimo, il partner più ascoltato di Stevie Wonder di- ciannovenne, in tournée in Italia per lanciare Il sole è di tutti (A place in the sun). Una notte di happening nella quale un nostro amico spudorato, Albertino Marozzi, ebbe la faccia tosta di accompagnare alla batteria quello che, entro pochi anni, sarebbe diventato un gigante della musica del nostro tempo figlia del blues. Ma la casa di Renato era il Piper, aperto nel ‘65, dove chiunque poteva inventarsi artista, e provare a farlo. Renato Zero, in quella stagione di passaggio dall’ingenuità del beat all’impegno politico post ’68, fu veramente un antesignano di un nuovo linguaggio artistico che un lustro dopo si sarebbe chiamato glam-rock, con il trionfo di cipria, lustrini e paillettes. Questo mondo di ambiguità, prosperato in Inghilterra oltre che con David Bowie e Marc Bolan, anche con Iggy Pop, Roxy Music e, per un breve periodo, con Lou Reed, Renato Zero aveva sentito il bisogno di esprimerlo però in anticipo sulle mode, anche se inizialmente senza successo per la diffidenza che allora circondava in Italia i cosiddetti “artisti alternativi”. Ebbe però il merito di non accontentarsi dello stravolgimento delle scenografie, degli abiti, e perfino del trucco, insomma solo delle apparenze, ma di nutrire le sue canzoni con messaggi e provocazioni che segnarono coraggiosamente un cambio di costume nella nostra musica popolare e anche la capacità di leggere dentro una generazione che non riusciva ad essere più solo quella dei buoni sentimenti, pronta ad eludere le situazioni scabrose e contradittorie. Esempio di questa capacità una canzone come Mi vendo, un grido serio e sfrontato allo stesso tempo di un “prostituto felice” e poi tutto l’album Zerofobia, che significava “paura di Zero”, un modo per esorcizzare la censura benpensante che fino a quel momento lo aveva respinto. Nell’album, ormai storico, canzoni come Morire qui, La trappola, L’ambulanza e Il cielo, summa della filosofia dell’artista. Nel disco c’era anche la cover di Dreamer dei Supertramp, tradotta, molto arditamente, in Sgualdrina. Il merito di quella libertà era anche dovuto alla poltica lungimirante che un manager di provenienza cattolica come Ennio Melis aveva tenuto, alla Rca italiana, con gli artisti che pre- VIVAVERDI cedevano i tempi e che quindi bisognava proteggere, tenere in vita, aspettando la maturazione della società. Era successo così con Luigi Tenco, con Lucio Dalla, parcheggiato per anni nelle sale di incisione della grande fabbrica di dischi sulla via Tiburtina, dove spesso faceva il turnista, sovrapponendo il suono del suo clarinetto nei dischi degli altri. In quel gruppo di artisti in attesa di essere sdoganati dal cambio del costume, c’erano anche Rino Gaetano e Renato Zero. Nel ’78 l’attesa per Renato era definitivamente finita. L’album Zerolandia (ispirato dall’etichetta discografica da lui fondata nel frattempo), ne fu la conferma, con brani come Triangolo, testimonianza di un ineluttabile cambio del costume italiano. Zero è stato ed è un ribelle con risvolti conservatori, con messaggi inneggianti alla libertà sessuale, come Sbattiamoci (tanto per conoscerci di più), e nello stesso tempo antiaborto, come all’inizio del suo percorso Sogni nel buio, o antidroga, come La tua idea , o perfino sfiorando la contraddizione, contro il sesso troppo facile, come Sesso o esse. Il suo fenomeno, però, è molto più complesso di quello di un cantante-autore che ha indovinato i brani di molti LP, scritti all’inizio con professionisti come Franca Evangelisti, Pietro Pintucci e successivamente con Ruggero Cini e Roberto Conrado, prima di fare tutto da sè, salvo gli arrangiamenti quasi sempre del maestro Renato Serio. Zero ha sancito che la “diversità” dell’artista è ben altro che una semplice inclinazione sessuale. Come ha scritto qualcuno “la sua forza è stata quella di aver dimostrato la “normalità del diverso”, che è capace, come tutti e più di tutti, di sentimenti d’amore, di rispetto, di solidarietà e di fede”. Alla fine degli anni ’70, dopo il successo del 45 giri Il carrozzone (che ha sul lato B l’esilarante Baratto), l’artista è un vero e proprio fenomeno pur nella controversa società italiana dell’epoca, tanto che è costretto a girare con un tendone da circo della capienza di cinque mila posti , dove il pubblico cede spesso all’isteria, all’idolatria, e lo émula presentandosi ai concerti truccato e vestito come lui. Scoppia la “Zerofollia” e Renato, con Viva la Rai, fa il verso anche alla televisione di Stato che pure in Fantastico 3, il mitico divertimento del sabato sera degli italiani, gli aveva riservato uno spazio tutto suo intitolato Fantastico Zero. Un film-documentario di Paolo Poeti intitolato Ciao Nì supera al botteghino negli incassi il pubblicizzatissimo Superman. Io ricordo quella stagione perchè dopo l’uscita di Artide Antartide, probabilmente l’album più riuscito del lungo percorso di Renato Zero, fui invitato da Sergio Bernardini, il leggendario inventore della Bussola e del tendone di Bussoladomani, ad andare a vedere da vicino il teatro di un artista che malgrado l’immissione nel suo spettacolo di tante trovate, dava corpo ogni sera ad una recita e ad un rito dove gli spettatori diventavano adepti e cantavano con lui ogni momento della rappresentazione. Renato ogni sera era costretto a lasciare furtivamente Bussoladomani, il santuario dello spettacolo italiano d’estate. Una volta Bernardini dovette farlo scappare su un’ambulanza. Ma dalla sera successiva i suoi fan, soprannominati “sorcini”, non avevano più abboccato alla trovata. L’artista, d’altro canto, con un macchinone da vero divo del glamour-rock, in quelle estati di inizio anni ’80, girava per la Versilia dando retta a tutti, senza alcun timore per la sua incolumità. Una sera dette retta anche alla mia prima figlia, Marianna, allora bambina, e ai compagnucci con cui ogni giorno giocava sulla spiaggia. Venne a cena a casa e si sparse la voce. Dovemmo chiamare i carabinieri, non 9 per l’incolumità sua, ma per quella dei ragazzini. Renato chiamava i suoi fans “sorcini” da quando, assediato dai motorini che gli sfrecciavano da tutti i lati, commentò “Sembrano tanti sorci”, e dedicò loro il brano I figli della topa. C’era anche molta autoironia in quello che faceva, una dote che il successo non ha incrinato. Una quindicina d’anni dopo, nel 1998, lo invitai a Storie, l’ultimo programma televisivo che mi è stato concesso di fare. Il sommario che Renato mi suggerì ci impose una registrazione in due puntate. Ma la richiesta non era gratuita, anche se autoreferenziale. Renato, infatti, si presentò con una famiglia di “sorcine” inedite: nonna, mamma e figlia già adolescente che, a più riprese e nel corso di venticinque anni, avevano con sorprendente continuità portato avanti il loro ruolo di fans, trasmesso con amore da madre in figlia. Eppure, come in tutte le carriere degli artisti, dopo la corsa a perdifiato dell’inizio anche Renato Zero ha vissuto anni in cui sembrava che la recita fosse finita. Dopo l’ennesimo successo con Via Tagliamento 1965/1970, terzo doppio di studio consecutivo e quarto in generale, dove raccontava l’esperienza vissuta al Piper, il favore verso di lui sembrò tramontare da un momento all’altro. Nel 1984, al giardino zoologico di Roma, vestito da leone e scortato da quattro aborigeni, Renato infatti presentò il nuovo lavoro, Leoni si nasce. Sembrava di dover assistere al solito trionfo e invece ci fu una caduta rovinosa, con un inaspettato flop nelle vendite. Il periodo d’ombra durò alcuni anni, nei quali qualcuno che non lo aveva mai sopportato, sentenziò che la sua immagine un tempo “cool” e trasgressiva era diventata vecchia e kitsch. Anche il tendone di Zerolandia fu costretto a chiudere, forse per il boicottaggio di un potente dell’epoca. Una vicenda raccontata da Renato nel brano Giorni, proprio dell’album Leoni si nasce. La rinascita avvenne negli anni ’90, non solo con brani come Ha tanti cieli la luna (più avanti ripresa da Mina nel suo tributo a Renato intitolato N° 0) o con la partecipazione, per Renato Zero si esibisce alla Bussola di Focette, 1981. Foto Archivio DUfoto [email protected] la prima volta, al Festival di Sanremo con Spalle al muro, di Mariella Nava, e successivamente con Ave Maria, che gli procurò una standing ovation di molti minuti, ma anche con il cd Passaporto per Fonopoli (una sorta di città della musica che lui sempre ha sognato di edificare) e con il primo posto in classifica con l’album emblematico Quando non sei più di nessuno. Sono stagioni in cui l’artista esce anche, nei suoi spettacoli, con un’orchestra sinfonica alle spalle, con cui festeggia trent’anni di carriera. E’ l’epoca de I migliori anni della nostra vita, dove c’è tutto il mondo dell’artista, quello che porta in giro con lo spettacolo teatrale TuttoZero uno show di quaranta canzoni con venticinque cambi d’abito. Il brano Cercami, dall’album Amore dopo amore, nel 1998 vende un milione di copie, diventando il suo più grande successo di sempre. Una sera, già nel 2000, tento di andarlo a trovare allo stadio Olimpico, dove i “sorcini” sono più di settanta mila. Non arriverò mai al suo camerino. Troppa la ressa. D’altro canto mi rendo conto, mentre torno in dietro, che mia figlia Marianna ha ormai più di trenta anni anche se che Renato Zero non è cambiato di molto durante questo lungo viaggio. Un suo album, Il dono, conquista subito il primo posto della hit parade e vi rimane fino all’anno successivo. A chi, nel 2006, gli propone a Sanremo il premio alla carriera risponde con un laconico “Se ne riparla quando avrò ottant’anni”. E, nel 2007, pur vincendo il Telegatto con il tour Zeromovimento, non va a ritirarlo, designando per l’incombenza il suo manager. Ora sono quarant’anni che canta e sforna dischi con un entusiasmo a volte bulimico, trenta due quelli pubblicati di cui ventisei realizzati in studio, quattro dal vivo e due raccolte. I suoi versi, in certi momenti, hanno fatto sentir viva un’umanità giovane, che era fuori dal mondo, socialmente esclusa. A qualcuno di questi sbandati ha fatto far pace con se stesso. Credo che fra le tante parole poetiche, morali e qualche volta moraliste che ha pronunciato o cantato, la sua avventura artistica e umana può essere riassunta in alcuni versi del suo cd Il dono, uscito nel 2005: “Nessuno viene al mondo per sua scelta/ non è questione di buona volontà/ non per meriti si nasce e non per colpa/ non è un peccato che poi si sconterà. / Combatte ognuno come ne è capace/ chi cerca nel suo cuore non si sbaglia./ Hai voglia a dire che si vuole pace/ noi stessi siamo il campo di battaglia./ La vita è un dono legato ad un respiro”. [email protected] Foto Gianluca Saragò INTERVISTA A RENATO ZERO “FACCIO TUTTO DA SOLO, ANCHE IL DISCOGRAFICO” di Emiliano Coraretti Così si è inventato il self made disco, di cui ha curato tutto: dalla stesura dei brani al progetto di marketing. Il risultato? A una sola settimana dall’uscita, l’album è diventato triplo disco di platino, piazzandosi direttamente al primo posto della classifica. E dire che Presente non è certo un cd usa e getta. Ne è cosciente anche l’artista, che per descriverlo usa un semplice, ma efficace: “Stavolta non me so’ proprio regolato”. Ha ragione, perché nell’album ci sono 17 canzoni, che disegnano tutto lo Zero possibile: quello romantico di Ancora qui, quello che racconta gli anni Settanta (L’incontro), quello sempre pronto a ricordare, nel brano Professore, che “non basta solo la cultura, perché fuori dal libro è molto dura”. Ce lo assicura un artista, che non ha mai avuto paura di andare da solo. Zero, perché questa voglia di mettersi in proprio? Nella mia carriera ho avuto solo due etichette, prima la Rca e poi la Sony: colpi di testa, quindi, non ne ho mai fatti. Ma a un certo punto ho avvertito una distonia. Le nostre case discografiche sono ormai delle multinazionali e noi che suoniamo in Italia siamo considerati un po’ troppo periferici. Del resto, il nostro mercato estero qual è? Un po’ il Sud America, la Spagna, qualcosa in Francia, poi basta. Colossi discografici come la SonyBmg o la Universal, invece, puntano molto, direi tutto, su artisti come Ste- Alle 9 e 30 del mattino Renato Zero è già in piena attività: “Ora che faccio tutto da me - spiega, ho un sacco di lavoro”. Già, dopo oltre 40 anni di carriera, 30 album all’attivo e oltre 500 canzoni scritte, l’uomo che ha cantato Il cielo, ci ha fatto amare Il carrozzone e sognare il Triangolo, ha deciso di mettersi in proprio. Completamente. E così, per pubblicare il suo nuovo cd, Presente, non si è affidato né ad una major, né a una casa discografica indipendente. In Italia, nessun artista aveva mai osato tanto. E qui racconta perché ha dovuto mettersi in proprio. vie Wonder o U2, capaci di vendere ovunque. Noi cantanti italiani non potremo mai confrontarci con questi giganti. Il risultato è che anche la nostra forza contrattuale è nulla. Se poi sei un emergente, tanto vale che ti presenti a queste multinazionali portandoti la dote da casa. Ovvero? Devi andare da loro con un disco già fatto. Se poi hai con te anche un arrangiatore, è pure meglio. Nessuno pensa a difendere l’arte di questi ragazzi. Prima, ormai 30 anni fa, case discografiche come la Rca o la Fonit Cetra vivevano con la nostra musica, e quindi erano pronte a muovere le chiappe. Bisogna dire che la crisi economica non aiuta…. È vero, non stiamo vivendo un buon periodo. Oggi, anche zone prima autosufficienti come il Nord Est e la Toscana, sono in balia delle multinazionali. Il Made in Italy quasi non esiste più. Diciamolo: se anche il nostro vino non vende, come pretendiamo di fare affari con i dischi? E quindi, meglio andare da soli… So bene che faccio la parte di uno che va al fronte con una carabina, mentre dall’altra parte ci sono quelli che sparano con i cannoni. Ma la mia libertà di artista non ha prezzo. Chi mi conosce lo sa: io libero lo sono sempre stato, e infatti non sono mai stato vicino a qualche partito. Oggi sono anche diventato imprenditore, ma l’ho fatto per costrizione: se le nostre case discografiche ci trattassero un po’ meglio, non ci sarebbe bisogno di fare scelte come la mia. Si sente vittima della crisi del disco? No. E poi, non si può parlare di crisi solo in termini di numeri. Che mi dice della scarsa attenzione che si dà oggi alla produzione artistica? È vero, capire se una canzone può diventare una hit oppure no, è quasi impossibile. Vogliamo citare tutti i brani che hanno avuto successo 30 anni dopo che sono usciti? Sarebbe una lista davvero lunga… Appunto. Ma al di là di questa componente aleatoria, si dovrebbe fare di tutto per confezionare un disco che abbia una sua dignità, un suo senso. Certo, vuol dire lavorare VIVAVERDI A destra, il nuovo album di Renato Zero con 17 brani inediti: tra le collaborazioni al cd, Maurizio Fabrizio, Luca Madonia, Mario Biondi, Sergio Cammariere, Phil Palmer, Vincenzo Incenzo e Mariella Nava 12 musica duro. Ma lo dice uno che non si è mai tirato indietro. A differenza di molti miei colleghi che si divertono ad andare alle Bahamas, io, più lontano che vado, arrivo a Torvaianica. Ma solo chi sa sacrificarsi è un artista con la A maiuscola. Gli altri, sono dei buoni professionisti. Non è che oggi si producono un po’ troppi dischi? Assolutamente sì. Si pubblica troppo e in maniera troppo frettolosa. Quando Lucio Battisti usciva con un suo album faceva a tutti noi un grosso favore. Perché? Perché i suoi erano dei capolavori, quindi tu, con il tuo prodotto, dovevi cercare di non essere troppo scarso. Lucio lo ha fatto per anni. Poi ha prodotto dischi più raffinati e un po’ meno accessibili, ma è giusto che un artista cresca, anche perché con lui cresce il pubblico. Quando alla gente dai solo cazzate, non puoi imputare al pubblico di comprare solo cazzate. Un pubblico educato recepisce anche prodotti un po’ più complessi. Magari non subito, ma basta dargli tempo. Sa, si chiama offerta culturale. Lei, la sua offerta, la immagina da tempo. E si chiama Fonopoli… È vero. Non so quando vedrà la luce, ma io la mia Fonopoli la immagino come una struttura dove, quando entri, prima ascolti il concerto di un gruppo pop, poi quello di un quartetto d’archi e per finire lo spettacolo di un mimo. Questo è quello che sogna per il futuro. Oggi c’è Presente, il suo nuovo cd, dove invita la gente ad ascoltarsi, a reagire e perfino a scendere in piazza, come ha fatto la sua generazione negli anni Settanta. Che fa, confronta i ragazzi del Duemila con quelli del suo periodo? No. E non voglio neanche essere uno di quelli che inizia le frasi con: “Negli anni miei…”. Quando lo dici, fai terrorismo e fai sentire i giovani piccoli piccoli. La verità è che quello vissuto da noi negli anni Settanta è irripetibile, specialmente da chi oggi patisce un’obesità mentale che impedisce di reagire, perché atrofizza il cervello, e peggio ancora il cuore. Uno dei miei compiti è favorire la lubrificazione, parlando ai giovani con molto tatto, così come credo di aver fatto con questo disco. Io esorto i ragazzi a dirmi: “Rena’, non tradirci adesso”… Scusi, ma perché dovrebbe farlo? Perché potrei mettermi a braccia incrociate, farmi dire dalle radio che sono fuori target e togliermi dai coglioni. E invece… Invece ho ancora voglia di stare con la gente, di cantare quello che ho dentro. Ma me lo lasci dire: con una passione come la mia si nasce. Con il tempo acquisti certezza e anche un po’ di corteccia, ma la voglia di comunicare la devi avere dentro da subito. Le sue canzoni, anche quelle di Presente, sono molto scritte, eppure risultano sempre fluide e comprensibili già al primo ascolto. Quanto tempo lavora su un brano? Ci sono canzoni che nascono con delle difficoltà, e ci sono altre che, come per magia, nascono con un vestito già perfetto. Per questo disco avevo scritto 35 pezzi, potevo registrare un doppio album. Poi ne ho tirati fuori 17, e le assicuro che non potevano essere di meno. Un produttore mi avrebbe detto di metterne dentro 12, ma ormai faccio come voglio. Nessuno può mettere limiti al mio modo di esprimermi. Parlando di comunicazione, che rapporto ha con Internet? Ho paura del suo grande successo. Se fosse solo una valvola di scarico o una nostra libreria, allora non ci sarebbero problemi. Ma quando tu affidi tutto te stesso al web, perdi il controllo e non hai più un contatto umano. Secondo lei la Rete ha anche snaturato la fruizione della musica? Posso parlare onestamente? Ci mancherebbe altro... Quando io realizzo un disco, spendo delle cifre stratosferiche affinché il mio prodotto suoni alla perfezione. Tutta questa fatica viene poi compressa in un mp3, che toglie unicità al tuo lavoro, appiattendone i suoni. Sa qual è stata la cosa più emozionante nel lavorare sul mio nuovo album? Me la dica? Entrare nella fabbrica dove il cd è stato materialmente fatto e vedere una palletta minuscola diventare il tuo disco. Quando ho preso in mano il cd con le mie canzoni, mi sono sentito padrone di me stesso per la prima volta nella mia vita. Però aspetti, non direi padrone, che ricorda brutte cose degli anni Settanta. Diciamo così: titolare. Vada per titolare. A dire il vero, nell’album si definisce anche ambulante… Sì, ma di testa, prima che di corpo. Il mio desiderio più grande è sempre stato entrare con la stessa disinvoltura nel vestito di una principessa così come in quello di una popolana. E infatti io so’ uno che si trova bene sia ai Parioli che a Centocelle. So respirare ogni ambiente, senza fatica e senza sentirsi straniero. Vogliamo dirlo? È questo il segreto del suo successo. Sì, credo proprio di sì. Ancora mi meraviglio di come le persone mi facciano entrare nella loro vita, confidandomi cose ignorate dai loro stessi parenti. Lo ammetto, a volte mi imbarazza, perché mi sento depositario di frasi non dette. Però non sono proprio capace di alzare le spalle e dire: “Ma chi se ne importa, sono affari tuoi….”.