La filosofia moderna e la giustificazione del sapere scientific

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F - LA NASCITA DELLA CULTURA LAICA E LA FILOSOFIA MODERNA
14 – La filosofia moderna e la giustificazione del sapere scientifico
11 - Cartesio “Come un uomo che cammina da solo e nelle tenebre … ”
12 - L’Illuminismo e la critica della tradizione
13 - Pirsig – “ Hume, Kant e l’arte della manutenzione della
motocicletta”
14 - K. Lorenz “Un etologo e Kant a confronto”
Del dibattito filosofico del Seicento e del Settecento almeno tre tematiche sono I PROBLEMI DELLA _____________
risultate particolarmente significative dal punto di vista storico-culturale vale a
________________________________
dire:
- la giustificazione del sapere scientifico
- il problema di Dio
- l’emergere della soggettività
Ad esse saranno dedicati i prossimi capitoli.
10 - LA FILOSOFIA MODERNA E LA GIUSTIFICAZIONE DEL SAPERE
SCIENTIFICO
0. Scienza e filosofia nel ‘600 e nel ‘700
1. Cartesio: il pensiero come sostanza
2. Hobbes: la ragione come calcolo
3. Locke: l’esperienza come fonte della conoscenza
4. Leibniz: le monadi come specchio dell’universo
5. Hume: dall’esperienza allo scetticismo
6. Kant: le forme a priori della conoscenza
0. Scienza e filosofia nel ‘600 e nel ‘700
0.1 La filosofia moderna e il processo di laicizzazione
0.2 I problemi filosofici posti dal nuovo sapere scientifico
LA FILOSOFIA MODERNA E IL
PROCESSO DI LAICIZZAZIONE
Una delle chiavi di lettura della filosofia moderna consiste nell’interpretarla
come un processo di laicizzazione della cultura. Un aspetto essenziale di questo
processo è la separazione fra sapere religioso, legato alle scritture e ai dogmi, e
le altre forme di sapere. La formazione del sapere laico ha le sue origini già
nella cultura cittadina del medioevo (vedi, ad esempio, Ockham), ma ha trovato
la sua prima completa espressione con la Rivoluzione scientifica. Galileo Galilei,
infatti, ha nettamente distinto la sfera religiosa, che “ deve insegnarci come si
vada in cielo e non come vadia il cielo”, da quella scientifica, che è il risultato
delle capacità conoscitive dell’uomo.
I momenti salienti del processo di laicizzazione fra il Cinque-seicento e il
Settecento possono essere considerati i seguenti:
- i progressi della meccanica, della fisica e dell’astronomia, iniziati da
Copernico, Keplero e Galilei, che portarono alla costituzione delle rispettive
scienze che separavano le scienze della natura dal sapere religioso.
Laicizzazione = separazione __________
_________________________________
da __________________ alla ________
__________________________
I MOMENTI SALIENTI DEL PROCESSO DI
LAICIZZAZIONE
1 la fondazione della ______________
_______________________________
1
- il naturalismo rinascimentale quale si esprime ad esempio nella filosofia di
Giordano Bruno, con il suo tentativo di collocare in una dimensione
esclusivamente naturale l’uomo, la società e la scienza.
- i contributi della filosofia inglese (Locke, Hume), legati all’elaborazione di una
teoria empirista della conoscenza, che ritiene sufficiente ricorrere all’esperienza
per giustificare la validità delle nostre conoscenze. Importante fu anche il
contributo offerto dalle loro teorie politiche (Hobbes e Locke) che, come le loro
teorie della conoscenza, si propongono di spiegare la realtà senza ricorrere a
concetti metafisici o teologici.
- l’Illuminismo, un movimento culturale del Settecento, legato soprattutto alla
Francia, che ha rappresentato un profondo rinnovamento dell’intero patrimonio
ideologico della società occidentale. Il rinnovamento, fondato su un
atteggiamento critico nei confronti della tradizione (vedi lettura n 12), fu di
grande importanza in quanto impose una generalizzazione dell’atteggiamento
laico, che prima riguardava solo alcuni intellettuali, che venivano emarginati e
condannati (Bruno e Galilei). La generalizzazione, inoltre, riguardò anche i temi
affrontanti dando luogo a una serie di studi che sono considerati la prima
formulazione delle teorie contemporanee sulla natura, sulla società e sull’uomo.
La diffusione dello spirito scientifico fa sì che la vita naturale, la storia, la
società, la personalità dell’uomo vengano indagati con i criteri del nuovo sapere,
ponendo così le basi della fondazione di nuove scienze, quali la sociologia, la
psicologia e la biologia (Lamark). In tutti questi campi si tentano spiegazioni
che vogliono essere fondate più sulle osservazioni e sui dati che non sui dogmi
della rivelazione.
Il valore di verità di queste teorie è determinato non più dalla gerarchia
ecclesiastica, ma dal dibattito fra gli intellettuali, mentre la separazione fra
filosofia e sapere religioso si espresse anche nel fatto che i filosofi non erano più,
come quasi sempre nel passato, anche uomini di chiesa.
La rivoluzione scientifica rappresenta sicuramente uno dei momenti salienti
dell’affermazione di una nuova cultura laica, infatti con essa si impose un tipo di
sapere che non ricorreva più alle Sacre scritture, ai dogmi e alle credenze e che
rifiutava concetti di tipo trascendentale.
La riflessione sul nuovo sapere prodotto dalla rivoluzione scientifica divenne
uno dei temi più importanti del dibattito filosofico a causa degli effetti che aveva
prodotto sull’insieme delle conoscenze condivise dalla cultura occidentale fin
dall’antichità. Infatti, le nuove concezioni astronomiche, le leggi fisiche e le
scoperte anatomiche avevano non solo completamente rivoluzionato l’insieme
delle conoscenze che caratterizzava la cultura occidentale, ma anche imposto un
nuovo metodo che privilegiava non tanto gli aspetti qualitativi della realtà
quanto, invece, gli aspetti quantitativi, ricorrendo più alla matematica che alla
deduzione logica. Così mentre prima si stabiliva un principio deducendone
logicamente le conseguenze (Dio è perfetto e risiede nei cieli, quindi i cieli
devono essere perfetti), ora gli scienziati preparavano esperimenti misurando le
variabili.
Inoltre, il nuovo sapere scientifico spesso entrava in contrasto con il senso
comune, con ciò che ci appare, e, infine, non era né rivelato né derivato da
un’autorità, non aveva garanzie, ma era esclusivamente il risultato della
riflessione del ricercatore e quindi dell’uomo.
Furono questi aspetti problematici del nuovo sapere ad animare il dibattito
filosofico al cui interno emersero alcune tematiche: la giustificazione delle
nuove conoscenze, definendo il nuovo ruolo assunto dal soggetto nel processo
cognitivo; l’indagine sul nuovo metodo adottato dalla scienza, già proposta da
Galileo; l’elaborazione di una concezione della realtà che ne evidenziasse gli
aspetti quantitativi; la conciliazione dei risultati della scienza con l’immagine di
2 il ______________________________
(Bruno)
3 filosofia _____________ ‘600-_______
- teoria _________________ della
conoscenza
- ________________________________
4 ________________________________
generalizzazione atteggiamento _______
critica ______________________________
rinnovamento patrimonio _______________
____________________________
la fondazione di ______________________
____________________________________
Valore di verità = _____________________
____________e non più _______________
I PROBLEMI FILOSOFICI POSTI DAL
NUOVO SAPERE SCIENTIFICO
Effetti del nuovo sapere
1 __________________________________
____________________________________
2 nuovo ________________privilegia:
- + aspetti ______________________
che __________________________
- + matematica che ____________________
3 __________________________________
4 __________________________________
I problemi ______________ posti dal nuovo
sapere
2
Dio.
Tra i filosofi che più hanno contribuito a questo dibattito vi sono, oltre a Galilei:
Bacone, Cartesio, Hobbes, Locke, Hume, Leibniz e Kant.
I PROBLEMI ______________ POSTI
DAL NUOVO SAPERE
1 giustificazione nuovo sapere + ________________________________________________
2 l’indagine _________________________________________________________________
3 elaborazione di _________________________________________(aspetti __________________________________)
4 conciliare _____________________________________________________________________________________
I protagonisti: ______________________________________
Nel dibattito che questi temi provocarono riemersero e si delinearono
nuovamente due posizioni relative al problema della conoscenza già presenti
nell’antichità, ovvero il razionalismo e l’empirismo.
Nell’antichità queste posizioni erano state sostenute la prima dalla tradizione
aristocratico-sacerdotale e da Platone, a cui si deve la prima formulazione della
teoria delle idee innate (la conoscenza come reminiscenza), la seconda dai
filosofi della città, da Epicuro e dagli stoici e ripresa da Ockham sul finire del
medioevo. In età moderna il razionalismo è, invece, sostenuto da Cartesio e
Hobbes, ma con importanti differenze tra di loro come vedremo, e l’empirismo
da Locke e Hume. La posizione di Kant, invece come diremo, cerca di superare
tale contrapposizione.
La differenza tra i due orientamenti consiste nella diversa concezione
dell’origine dei contenuti elaborati dalla ragione: secondo i razionalisti questi
contenuti sono innati nel pensiero, mentre secondo gli empiristi derivano
unicamente dall’esperienza. Occorre però sottolineare che Hobbes, pur essendo
un razionalista, non condivide tale posizione, poiché pensa anch’egli che la
nostra ragione ricavi le sue idee dall’esperienza.
Gli aspetti più importanti che accomunano i razionalisti moderni sono, oltre
all’innatismo per cui alcune idee costituiscono un patrimonio originario, a
priori, della mente che ne dispone senza dover ricorrere ai sensi e quindi
all’esperienza; l'affermazione dell'eguaglianza naturale della ragione in tutti gli
uomini, indipendentemente dalle loro esperienze particolari; la
considerazione della matematica come strumento fondamentale e modello della
conoscenza, in quanto la conoscenza in generale come la matematica procede
con un metodo deduttivo, ovvero deducendo da pochi principi innati e/o
evidenti tutte le possibili conseguenze; l'esigenza di organizzare le conoscenze in
un "sistema" fondato su principi primi e articolato, quanto più possibile, in
deduzioni, conseguenze, dimostrazioni.
Infine, utilizzando come criterio di verità l’evidenza razionale, quindi un
criterio interno alla ragione, i razionalisti finiscono per ricorrere a
motivazione di tipo metafisico-teologico per fondare la corrispondenza tra ciò
che la ragione trova in se stessa e la realtà del mondo esterno al soggetto
pensante (così, ad esempio come vedremo, Cartesio fa ricorso a Dio e alla sua
bontà).
A differenza di quanto affermano i razionalisti, gli empiristi sostengono che la
ragione non è un patrimonio di idee innate, cioè possedute fin dall'inizio da
ogni uomo, da cui ogni nozione debba essere derivata per deduzione, come in
una dimostrazione matematica. È piuttosto una capacità di acquisire conoscenze
nuove grazie ai dati che ci provengono dai sensi, dal momento che l'esperienza
costituisce l’unica fonte e l’unico criterio della verità delle nostre conoscenze.
Conseguentemente essi privilegiano un metodo che è essenzialmente induttivo, in
quanto ricava le conoscenza dalla generalizzazione delle osservazioni (così, ad
RAZIONALISMO E EMPIRISMO
Razionalismo antico e moderno:
____________________________________
Empirismo antico e moderno:
____________________________________
Origine contenuti conoscenza
Razionalisti:__________________________
Empiristi:____________________________
RAZIONALISMO
1 __________________________________
2 uguaglianza ________________________
3 _____________________ =
scienza modello  metodo ____________
= ________________________________
4 filosofia = elaborazione di un __________:
principi primi + ______________________
5 ricorso a ___________________ per
giustificare _____________________ tra
____________________________________
EMPIRISMO
1 fonte e ________________ di verità delle
conoscenze: _________________________
2 __________________________________:
generalizzazione delle __________________
3
esempio, dopo aver costantemente constatato che l’acqua entra in ebollizione a 100
gradi possiamo affermare la legge per cui l’acqua bolle sempre a 100 gradi). Invece,
per il razionalista punto di partenza del processo conoscitivo è un complesso di
principi evidenti di per sé, dai quali la ragione procede deducendo le leggi dei
fenomeni; l'esperienza svolge solo una funzione di controllo successivo dei risultati delle deduzioni.
Per l'empirista il compito della filosofia non è quello di pervenire a un sistema
onnicomprensivo della realtà, ma quello di indagare le possibilità conoscitiva
dell’uomo analizzando criticamente i concetti su cui si fondano le conoscenze
stesse. La filosofia si presenta allora come attività chiarificatrice dell’uso che di
questi concetti viene fatto (vedi l’analisi del concetto di causalità di Hume pag.
53).
Da ultimo, utilizzando come criterio di verità l’evidenza e la certezza della
percezione sensoriale, gli empiristi devono, per giustificare la corrispondenza tra
ciò che conosciamo e la realtà esterna, supporre una completa passività della
mente umana almeno a livello di percezione.
In estrema sintesi la posizione dei diversi filosofi che esamineremo può essere
così espressa:
Posizioni rispetto alla conoscenza:
Cartesio – il pensiero come sostanza metafisica
Hobbes – la ragione come calcolo
Locke– l’esperienza come unica fonte della conoscenza
Leibniz – le monadi come specchio dell’universo
Hume – l’abitudine alla base della conoscenza
Kant – le forme a priori (strutture mentali) della conoscenza
Posizioni rispetto al valore della scienza:
Cartesio –la scienza rappresenta una conoscenza assoluta
Hobbes – la scienza è una verità convenzionale
Locke – la scienza è una verità probabile
Hume – la scienza come credenza, aspettativa nei confronti della natura
Leibniz – la scienza conosce i fenomeni
Kant – la scienza è una verità assoluta , ma solo per noi uomini
3 compito della filosofia:
indagare _________________________ 
analisi _____ _______________________
4 ricorso a __________________________
per giustificare ____________________ tra
____________________________________
POSIZIONI RISPETTO ALLA
____________________________________
POSIZIONI RISPETTO ALLA
____________________________________
CARTESIO: IL PENSIERO COME
SOSTANZA
1 - Cartesio: il pensiero come sostanza
La risposta tradizionale di Cartesio
Cartesio il primo filosofo moderno
La critica al sapere tradizionale e il nuovo metodo
La giustificazione tradizionale del nuovo sapere
Dal dubbio metodico al dubbio iperbolico
Dal dubbio alla prima certezza: l'io penso
Dall'io penso a Dio
Da Dio al mondo
Il meccanicismo:la nuova concezione della realtà fisica
Il meccanicismo:la nuova concezione dell’uomo
La scienza moderna e il meccanicismo
4
La risposta che Cartesio (Renè Descartes – 1596-1650)1 dà alle quattro tematiche
enunciate sopra (vedi schema pag. 3) rappresenta sicuramente uno dei maggiori
tentativi di risolvere i problemi da esse sollevate ma anche, altrettanto
sicuramente, la risposta più tradizionale ai problemi filosofici posti della scienza.
Infatti, Cartesio giustifica la validità delle conoscenze umane, nonché il ruolo
svolto dal soggetto nell’acquisirle ed elabora una nuova concezione della realtà
partendo da due presupposti tipici della cultura occidentale: l’idea di Dio come
ente trascendente e la convinzione che pensiero e materia siano distinti,
riprendendo le tesi proposte da Platone e Aristotele e condivise dalla Chiesa.
All’opposto la posizione di Hobbes rappresenta invece, come diremo, la
posizione meno tradizionale dal momento che nega questi due presupposti.
Il razionalismo moderno trova in Cartesio il suo principale termine di
riferimento, egli infatti fa della ragione il punto di partenza di ogni ricerca
filosofica e di ogni sapere scientifico.
Nonostante la vocazione critica che la spinge a chiarire il perché di ogni cosa, a
seminare dubbi senza dare niente per scontato, per lungo tempo la filosofia
condivide con il senso comune l'idea che il pensiero sia in grado di rispecchiare
la realtà delle cose così come sono effettivamente. Nessun dubbio su ciò.
Questo atteggiamento si basa sulla convinzione che il mondo reale esista
indipendentemente dal pensiero, che fuori dalla mente umana esistano le cose,
delle quali la mente coglie la verità, adagiandosi per così dire sulle cose stesse,
aderendovi perfettamente. L'espressione usata da Tommaso d'Aquino per
indicare la verità, adaequatio rei et intellectus, rende bene l'idea.
Il tranquillo rapporto tra la mente e le cose dura fino a che Cartesio non avanza
un dubbio tanto semplice quanto destabilizzante: siamo sicuri che la realtà sia
proprio così come la percepiamo? Che le idee delle cose che ci formiamo nella
mente rispecchino in modo fedele il mondo esterno? Se le cose sono esterne e
indipendenti da noi, lontane dalla mente, come possiamo essere sicuri di
coglierne in modo corretto la verità? Non potrebbe lo “spazio” tra noi e le cose
costituire una specie di diaframma deformante?
In questo quadro critico che investe in pieno la conoscenza umana, Cartesio
scopre tuttavia un elemento di certezza posso dubitare di tutto ma non del fatto
di dubitare, quindi di esistere: esisto come un essere imperfetto, attanagliato dal
dubbio, del tutto privo di punti di riferimento sicuri, ma esisto. Nella dimensione
interiore, tra dubbi e domande che fanno terra bruciata di ogni certezza
precedente, il soggetto scopre in se stesso una prima certezza e dunque scopre se
stesso come sicuro fondamento della verità. Si tratta tuttavia di una certezza
sterile e circoscritta se il soggetto non riesce a uscire dal proprio ambito chiuso e
a ritrovare il mondo. È possibile da quel primo ristretto punto fermo ricostituire
il quadro della realtà?
Cartesio prospetta la sua via d'uscita: il soggetto che dubita, proprio perché
dubita, si sente imperfetto, ma questa consapevolezza non sarebbe possibile se
egli non avesse in sé l'idea della perfezione, cioè l'idea di una realtà piena in base
a cui commisurare il proprio stato di mancanza. D'altra parte, secondo l'antica
regola, dettata dal buon senso, che dal meno non può venire il più, egli,
imperfetto, non può essersi dato da sé quell'idea di perfezione. Questa gli deve
necessariamente venire da ciò che è perfetto in senso assoluto, cioè da Dio, la
realtà prima. E poiché un Dio perfetto non può che essere buono senza riserve,
Dio non può ingannarlo riguardo alla percezione della realtà. Le nostre idee
devono perciò corrispondere alla realtà esterna e Dio è il garante della veridicità
delle nostre conoscenze.
1
LA RISPOSTA TRADIZIONALE DI
CARTESIO
accettazione di 2 _____________________
tradizionali della _____________________:
1 __________________________________
2 __________________________________
CARTESIO IL PRIMO FILOSOFO
MODERNO
PENSIERO E REALTÀ
Prima di Cartesio
pensiero
realtà
Dopo Cartesio
il _________________
certezza del ____________
certezza del ___________________
imperfezione __________________
certezza __________________________
bonta di ___________
certezza _________________________
Per la vita e le opere di Cartesio vedi 82
5
Nell'itinerario cartesiano si compie in modo originale sul piano filosofico quella
“scoperta” dell'interiorità caratteristica del mondo moderno. Dal punto di vista di la scoperta ________________________
Cartesio l'interiorità diventa uno spazio privilegiato, perché all'interno del
soggetto che riflette su di sé non si apre quella distanza che rende problematico il
rapporto tra il soggetto e le cose esterne e che fa nascere il dubbio sulla
rispondenza tra le idee soggettive e il mondo al di fuori.
Il soggetto, il pensiero umano, è immediatamente presente a se stesso. Sulla base Avanzo mascherato
di questa considerazione si apre una nuova fase della filosofia, in cui il rapporto
tra pensiero e realtà non è più visto come qualcosa di naturale e scontato, ma
come un dato problematico che deve essere fatto oggetto di riflessione.
Che tipo è Cartesio, pensatore che rivoluziona il pensiero e inaugura la filosofia
moderna? È un uomo curioso, aperto alle novità, il quale condivide con i filosofi
e gli scienziati del suo tempo interessi e temi di ricerca, non privi di pericoli nel
clima culturale dell'Europa seicentesca: l'esigenza di un metodo rigoroso in base
al quale condurre le indagini filosofico-scientifiche, il primato della matematica
come conoscenza assolutamente sicura, l'analisi della realtà naturale ridotta ai suoi
dati oggettivi e misurabili, la ridefinizione dell'immagine dell'universo.
Cartesio, però, è anche un uomo tranquillo, prudente (larvatus prodeo, avanzo
mascherato, è una delle sue frasi più celebri), attento a non lasciarsi andare a
idee troppo ardite e a non incorrere nelle censure ecclesiastiche, soprattutto
desideroso di potersi dedicare senza preoccupazioni agli studi.
Di qui, dopo gli anni giovanili impegnati nella carriera militare, quando Cartesio
si era arruolato in un esercito combattendo nella Guerra dei Trent’anni, lo
snodarsi di una vita riservata, che si focalizza sulla ricerca scientifica.
LA CRITICA AL SAPERE
TRADIZIONALE E IL
NUOVO METODO
Nel “Discorso sul metodo”2 la ragione è definita come «il potere di giudicare
rettamente distinguendo il vero dal falso». Essa è sinonimo di intelletto, di lume
naturale o, più semplicemente, di buon senso. La ragione, dunque, rappresenta la
capacità, che ogni uomo possiede naturalmente e spontaneamente, di
attingere conoscenze certe. All'inizio del Discorso, l'autore sottolinea che "il
buon senso", ovvero la capacità di discernere il vero dal falso e di apprendere la
verità, è «la cosa meglio distribuita al mondo», in quanto tutti gli uomini possiedono
quella luce naturale dell'intelletto che li mette in grado di raggiungere la certezza
della verità.
Accanto a questo valore intuitivo della conoscenza che sottolinea l’importanza che
in essa svolge l’individuo contro il richiamo all’autorità, tipica del medioevo, a
sottolineare la modernità dell’impostazione di Cartesio vi è anche il valore che
assegna alla ragione in ordine all'utilizzo pratico delle conoscenze, in vista del
progresso civile e materiale degli uomini. In un celebre passaggio del
Discorso il filosofo sottolinea questo aspetto dell'utilità della
conoscenza: “… conoscendo il potere e le azioni del fuoco, dell'acqua,
dell'aria, degli astri, dei cieli e di tutti gli altri corpi che ci circondano così
distintamente come conosciamo le diverse arti dei nostri artigiani, noi potremmo
impiegarli nello stesso modo in tutti gli usi cui sono idonei e così divenire quasi
padroni e possessori della Natura”.
Dall'unità della ragione consegue immediatamente l'unità del sapere. È questa la
grande intuizione che Cartesio dice di aver avuto il 10 novembre 1619, allorché ritenne di aver scoperto «i fondamenti di una scienza meravigliosa». Le diverse
scienze non sono infatti condizionate dalla specificità dei singoli contenuti, ma
IL RAZIONALISMO CARTESIANO
2
“Il Discorso sul metodo”, benché in seguito sia stato spesso edito indipendentemente, venne scritto
come “Prefazione”, di carattere autobiografico, a tre saggi scientifici (ricordiamo qui che il maggior
contributo che Cartesio ha dato alla scienza è costituita dal diagramma cartesiano). L’opera fu pubblicata
anonima in Olanda nel 1637. Un breve estratto del testo è presente nella lettura n. 11.
6
traggono i loro principi da alcune verità fondamentali che la ragione ritrova
intuitivamente in se stessa. La ragione riflette dunque sulle scienze la propria unità,
così come - secondo una nota metafora del filosofo - è unica la luce con cui il
IL RAZIONALISMO CARTESIANO
1- la ragione come capacità _____________________ di conoscere
valore intuitivo della ragione
contro
_______________________
2 - la ragione come _______________________________
3-
______________________
contro
_______________________
4 - la ragione come ________________
a) l’unità _______________ la ragione fonte di ________che valgono per _________________________________
compito della filosofia: chiarire le ________________________________________
b) l’unità del ________________________________________________________
Sole illumina le cose. La filosofia si configura pertanto come la scienza
fondamentale, la quale fonda e coordina tutte le altre discipline, in quanto ad l’albero delle __________________
essa spetta il compito di chiarire le verità fondamentali della ragione da cui
dipendono tutte le scienze: «La filosofia è come un albero, le cui radici sono
la metafisica, il tronco è la fisica, i rami che spuntano dal tronco sono tutte
le altre scienze, cioè la medicina, la meccanica e la morale».Dall'unità della
ragione consegue anche l'unità del metodo cui ci si deve attenere per poter
attingere conoscenze certe. Il problema fondamentale di Cartesio, e secondo
lui l’altro decisivo compito della filosofia, diventa quindi quello di
individuare tale metodo che, dovendo valere per tutte le scienze, deve
fornire il principio formale di ogni conoscenza possibile.
D’altra parte, una volta assodato che la
L’IMPORTANZA DEL ____________________
ragione è per natura eguale in tutti gli
uomini, ne segue che «la diversità delle
Ragione uguale ____________________________________
nostre opinioni non deriva dal fatto che
alcuni sono più ragionevoli degli altri, ma
metodo ________________
metodo _______________
soltanto dal fatto che noi conduciamo i nostri
pensieri per vie diverse e non prendiamo in
considerazione le stesse cose. Infatti, aggiunge
verità della _____________
diversità delle ______________
l'autore, “non basta esser dotati di una buona
intelligenza, l'essenziale è applicarla bene”.
La sottolineatura circa la corretta "applicazione" della nostra intelligenza esprime
tutta l'importanza che Cartesio attribuisce al metodo, ed è proprio per questo che
inizialmente si volge alla ricerca di un nuovo metodo di indagine filosoficoLA CRITICA AL SAPERE TRADIZIONALE
scientifica.
La parte costruttiva di definizione del metodo è preceduta da una dura polemica
contro l’istruzione e il pensiero aristotelico-scolastico che Cartesio conduce a LE CRITICHE ALL’ISTRUZIONE_____________
partire dalla sua stessa esperienza personale. Cartesio condanna la tendenza dei - ______________________(GESUITI)
gesuiti ( di cui lo stesso Cartesio aveva frequentato un collegio e che erano i
principali seguaci dell'aristotelismo nel campo dell'insegnamento) a far studiare Il carattere __________________________
solo il passato, senza curare un'adeguata comprensione, da parte dei giovani, del
presente. Una critica ancor più severa è rivolta poi contro il carattere 1 incentrata sul __________________ e non
essenzialmente linguistico-letterario, per di più formalistico e retorico, della sul ________________________________
cultura privilegiata negli istituti che si ispiravano ai principi scolastici. Coll'aggravante
che questa preponderanza della dimensione umanistica andava a tutto scapito di 2 carattere __________________________
un'adeguata preparazione matematica. Fin d'ora dunque, Cartesio ha già chiaro in
mente che le discipline cui bisogna guardare con più speranza nella prospettiva di un e non _____________________________
7
rinnovamento del sapere sono appunto le discipline matematiche. Infine, e
soprattutto, Cartesio attacca duramente la logica aristotelica, fatta di sillogismi3 che
non servono in alcun modo a far progredire il sapere. Le altre critiche antiaristoteliche e anti-scolastiche che troviamo disseminate in varie opere cartesiane
riguardano essenzialmente il verbalismo di chi pretenderebbe di sostituire parole e
concetti ricavati da una tradizione libresca ai dati dell'esperienza; l'attribuzione alla
realtà naturale di forme e principi (a cominciare dalle famose virtù occulte) connessi
con una dottrina filosofica ormai invecchiata; infine, il generale impianto dogmatico
che orientava un'intera società di dotti a considerare veri e non revocabili in dubbio
certi principi enunciati da Aristotele. È dinanzi a tutto ciò che si produce, nel giovane
Cartesio, una vera e propria rivoluzione intellettuale ed esistenziale.
“Appena l'età - scriverà in una pagina del Discorso sul metodo - mi permise di
uscire dalla tutela dei miei precettori, abbandonai interamente lo studio e risolsi di
non cercare altra scienza fuori di quella che potevo trovare in me stesso o nel gran
libro del mondo [...]. Con questo mezzo ritenni fermamente di riuscire a condurre
la mia vita molto meglio che se avessi costruito su vecchie fondamenta o mi fossi
appoggiato soltanto su principi accolti, senza mai averne scrutata la verità”.
Questa radicale rottura di Cartesio col mondo aristotelico-scolastico si accompagna
alla necessità di fondare una filosofia nuova. Strumento primario di questa filosofia
dev'essere un nuovo metodo.
Cartesio riassume il suo metodo sotto forma di quattro "regole" molto
generali.
1) Il primo di questi precetti (o "regola" dell'evidenza) contiene l'indicazione
del fondamentale criterio di verità: devono essere accolte come vere solo quelle
idee che si presentino alla nostra mente in modo chiaro e distinto. "Chiarezza"
di un'idea significa che essa è colta dalla mente in forma compiuta ed esaustiva, senza
che nessuno dei suoi aspetti resti avvolto nell'oscurità; "distinzione" significa che l'idea
è ben delimitata rispetto alle altre.
2) Il secondo precetto (o "regola" dell'analisi) suggerisce di "dividere" ogni
problema o "difficoltà" nelle sue parti elementari. Di fronte a qualsiasi problema ci si
presenti nella ricerca, per quanto oscuro e apparentemente inafferrabile, la prima
operazione da compiere è quella di scioglierlo (o risolverlo) in problemi via via più
semplici, fino a giungere a un problema la cui soluzione sia a portata di mano, perché
intuitivamente evidente o derivabile facilmente da premesse evidenti.
3) Il terzo precetto, detto anche "regola della sintesi", afferma la necessità di disporre
i propri pensieri secondo un ordine che procede da una minore a una maggiore
complessità. Si tratta, come è facile vedere, del procedimento opposto al
precedente, e rappresenta in buona sostanza la ricostruzione (o la ricomposizione)
dimostrativa o deduttiva.
4) Vi è infine un quarto precetto, la "regola" dell'enumerazione, che prescrive
di fare sempre enumerazioni complete e revisioni generali, in modo da essere sicuri
di non omettere mai nulla. Quest'ultima regola invita a controllare le precedenti fasi
del processo conoscitivo, in particolare a verificare attentamente che, quando
abbiamo fatto la scomposizione di un problema nelle sue parti semplici o analisi
(seconda regola), non abbiamo omesso nessun elemento importante; e che, quando
abbiamo fatto la sintesi (terza regola), non abbiamo trascurato nessun rapporto di
interdipendenza necessario che collega una conoscenza all'altra.
Le regole del metodo, pur nella laconicità della loro enunciazione nella seconda
parte del Discorso, conservano ancora oggi un fascino e testimoniano un nuovo
modo di intendere la pratica filosofica. Alla loro base c'è l'esigenza cartesiana di
dare un ordine alla mente nella ricerca della verità, visto come antidoto contro
il procedere casuale . Potremmo dire che le quattro regole, in definitiva, si possano
3 fondato sul _________________________
____________________________
4 __________________________________
5 l’uso di concetti infondati
finale)
(forma, causa
6 il ________________________________
La radicalità della _____________________
LE REGOLE DEL NUOVO METODO
1- regola dell’evidenza: le idee devono
essere
chiare = _____________________________
____________________________________
distinte = ___________________________
____________________________________
2 – regola dell’_______________________
scomporre i problemi / elementi complessi
in __________________________________
____________________________________
3 – regola della _______________________
procedere dal ________________________
al __________________________________
4 – regola dell’_______________________
verificare che nell’_______________ e nella
______________________ non si sia
____________________________________
3
Il sillogismo aristotelico costituisce un ragionamento del tipo: tutti gli uomini sono mortali (premessa
maggiore) – Socrate è un uomo (premessa minore) – Socrate quindi è mortale (conclusione), dove la
conclusione rappresenta una conoscenza già contenuta nella premessa maggiore.
8
dal procedere ________________________
ridurre al divieto di procedere a caso e all'invito a ragionare in modo ordinato.
Le quattro regole del metodo sottintendono alcuni presupposti che occorre portare alla
(vedi ________________) al procedere con
luce. Innanzitutto esse accettano la convinzione che il sapere si fonda su verità
elementari e che la crescita del sapere si basi sull’elaborazione di queste verità ____________________________________
elementari, acquisendo una piena consapevolezza dei singoli passi in cui si snoda la
ricerca scientifica (si ricordi a questo proposito il procedere privo di controllo critico
tipico dei maghi rinascimentali). Inoltre tali convinzioni, nonché le stesse regole del
metodo che ne derivano, sono evidentemente ispirate al modo di procedere della
matematica che infatti si fonda su verità elementari fondate sull’evidenza e che utilizza
come strumenti l’analisi, la sintesi e l’enumerazione. Le regole poi, nella misura in cui
suggeriscono che è sempre possibile risolvere i problemi complessi in problemi più
semplici, implicano una visione ottimistica offrendo un’immagina rassicurante della
realtà, secondo cui essa è composta di elementi semplici dei cui processi di
aggregazione la mente è in grado di cogliere le leggi.
Resta, infine, da sottolineare che in esse il soggetto vi svolge un ruolo primario, sia
perchè la loro validità è, secondo Cartesio, dimostrata dalla sua personale esperienza,
in quanto afferma di aver avuto innumerevoli volte occasione di constatarne
direttamente l’efficacia, sia perché la garanzia che forniscono del nostro sapere risiede
per intero nell’evidenza, agli occhi del soggetto, dei risultati via via raggiunti.
I PRESUPPOSTI DELLE REGOLE
1 sapere fondato su ________________ _______________________
2 crescita sapere = _________ _______ delle verità ________________ con ___________________________________
3 ispirate al procedere della _____________________________________
4 visione _________________________ perchè ___________________________________________________________
5 ruolo del _____________________ : a) fondato su ___________________________________
b) garanzia del sapere fornita dall’ ________________ per il ___________________
Una volta individuato il nuovo metodo, bisogna ricostruire, sulla base di questo,
l'edificio del sapere. In attesa del nuovo sapere solido e rigoroso, Cartesio invita a
mettere fra parentesi le conoscenze tradizionali, incerte e inattendibili. Ma se è
possibile sospendere il giudizio nell'attività teoretica, non è altrettanto facile
sospendere l'azione in quella pratica, perché intanto la vita va avanti, e le sue
esigenze richiedono continuamente valutazioni e scelte.
Prima di iniziare a ricostruire la casa dove si abita — dice Cartesio, con una delle
molte immagini di cui è intessuto il suo discorso — bisogna procurarsene
un'altra, dove si possa alloggiare comodamente per tutto il tempo in cui
procedono i lavori. Analogamente, in attesa che il sapere sia completamente
rinnovato su fondamenta più salde, bisogna pur vivere.
Di qui l'opportunità di fissare una morale provvisoria, in quanto non elaborata su
basi sicure, ma ricavata dall'esperienza e dalla riflessione personale. Una morale
consistente di alcuni principi che servano appunto a dare una linea di condotta
temporanea.
La prima massima della morale provvisoria suggerisce di osservare le leggi e le
consuetudini del proprio Paese, di mantenere fede alla religione in cui si è stati
educati, di comportarsi in ogni caso in modo da evitare gli eccessi, assumendo
posizioni saggiamente moderate.
Dal contenuto di questa prima massima affiora una preoccupazione personale:
Cartesio teme infatti l'ostilità dei moralisti contro un metodo che, azzerando ogni
sapere precedente, rischia di coinvolgere nella distruzione anche le verità della
fede. Per questo motivo cerca di rassicurare l'opinione comune e di evitare
LA MORALE ________________
la ___________________del giudizio e la
______________________________
Le regole della _____________________
______________________________
1 _________________________________
__________________________________
9
l'accusa di essere insensibile o addirittura contrario alla religione.
La seconda massima invita a mantenere un atteggiamento fermo e determinato
una volta presa una decisione, come il viaggiatore, che, perso in una foresta, non
si abbandona all'irresolutezza vagabondando di qua e di là, ma continua a
camminare diritto nella stessa direzione, sapendo di arrivare così prima o poi ai
margini dell'intrico alberato.
La terza massima, che richiama i motivi della morale stoica, invita a cercare di
dominare se stessi piuttosto che la fortuna e di cambiare i propri desideri piuttosto
che l'ordine del mondo, nella consapevolezza che solo i pensieri sono
completamente in nostro potere. Nel Discorso sul metodo, a conclusione
dell'esposizione della morale provvisoria, Cartesio esprime il proposito di
dedicare la propria vita alla ricerca della verità e allo sviluppo delle proprie
facoltà razionali.
Le regole del metodo non hanno in se stesse la loro giustificazione, non ci danno
garanzia della validità delle conoscenze che otteniamo, oltre all’evidenza agli
occhi del soggetto di cui si è detto. Il fatto che la matematica se ne serva con
successo non è di per sé una giustificazione, perché esse potrebbero avere
un’utilità pratica ai fini della matematica e non essere applicabili al di fuori di
essa. È per questo che nelle “Meditazioni metafisiche”4 Cartesio si pone
esplicitamente il problema di giustificare la validità delle conoscenze umane, che
ritiene essere delle verità assolute. La prospettiva di Cartesio è dettata da questo
atteggiamento antiscettico che si esprime nella convinzione della validità
assoluta delle conoscenze fondate sulla ragione e, quindi, nella convinzioni che
ad esse possa essere dato un fondamento certo e sicuro. A delineare la
prospettiva cartesiana concorre anche la convinzione della perfetta compatibilità
della scienza moderna con la fede cristiana.
Il punto di partenza del ragionamento di Cartesio è il dubbio metodico, cioè il
rifiuto delle conoscenze che non siano chiare ed evidenti. Come già nel Discorso
sul metodo anche in questo caso il percorso viene descritto come esperienza
personale, come il drammatico racconto di un uomo che mette in discussione
tutto il sapere tradizionale, giungendo persino a dubitare della sua stessa
esistenza, per poi raggiungere un nuovo punto di appoggio che egli considera più
solido e affidabile di quello precedente.
Il dubbio deve investire tutte le conoscenze e viene applicato da Cartesio in due
momenti fondamentali. Nel primo momento il dubbio viene applicato alle
conoscenze che derivano dai sensi. La falsità di tali conoscenze è così palese da
poter essere verificata nella vita di tutti i giorni. Ad esempio, un bastone
immerso in acqua appare spezzato, ma non lo è. Poiché a volte i sensi ci
ingannano, le conoscenze che da essi derivano, osserva Cartesio, non possono
essere considerate evidenti e quindi vere. Tale forma di dubbio è resa ancora più
universale mediante l’ipotesi del sogno: se sognando abbiamo percezioni simili a
quelle che abbiamo da svegli, allora non è possibile distinguere con chiarezza le
percezioni di quando siamo svegli da quelle, sicuramente false, di quando si
dorme.
Nel secondo momento il dubbio viene ulteriormente generalizzato applicandolo
alle conoscenze intellettuali, quali la matematica e la geometria. Per applicare il
dubbio a questo campo Cartesio introduce l’ipotesi dell’esistenza di un Genio
malefico che ci inganni in continuazione, facendoci apparire chiaro ed evidente
ciò che non lo è, in modo che non sia possibile garantire la veridicità delle
conoscenze umane . Il dubbio diventa perciò iperbolico, universale.
2 _______________________________
__________________________________
3 ________________________________
__________________________________
LA GIUSTIFICAZIONE TRADIZIONALE
DEL NUOVO SAPERE
1 - DAL DUBBIO METODICO AL DUBBIO
IPERBOLICO
La prospettiva cartesiana:
1 validità ____________________________
2 compatibilità tra __________ e _________
l’esperienza ______________________
Il dubbio _______________
Il dubbio _________________________
4
Le “ Meditazioni metafisiche sulla filosofia prima” (1641) vennero pubblicate congiuntamente alle
“Obiezioni” (le osservazioni scritte sollevate tra gli altri da Hobbes ) e le relative “Risposte” cartesiane.
10
IL DUBBIO ______________________
1- applicato alle conoscenze __________________________________
I sensi ci __________________________  conoscenze sensoriali non __________________________
l’ipotesi del __________________
2- applicato alle _________________________________
L’ipotesi del ____________________________  IL DUBBIO ______________________
la sospensione del giudizio = _____________________________________________________________________________________
A conferma dell’impostazione soggettiva con cui Cartesio affronta il problema
egli ci racconta che a questo punto della sua esperienza decise di optare per la L’impostazione _________________
sospensione del giudizio, di non accettare per buona alcuna conoscenza senza
prima aver trovato una solida base su cui fondare le nostre conoscenze. Con
queste parole, ricorrendo alla metafora dell’architetto, Cartesio ci descrive il suo
progetto: “Ho dichiarato, in più luoghi dei miei scritti, che cercavo dappertutto
d'imitare gli architetti che, per elevare grandi edifici nei luoghi dove il macigno,
l'argilla e la terraferma son coperti di sabbia e di ghiaia, innanzi tutto scavano
profonde fosse, e di là rigettano non soltanto la ghiaia, ma tutto quel che si trova
poggiato su di essa, o che è mescolato o confuso insieme con essa, allo scopo di
posare dopo le loro fondamenta sul macigno e la terraferma; poiché nella stessa
maniera, io ho, innanzi tutto, rifiutato come sabbia e ghiaia tutto quanto riconobbi
essere dubbio e incerto.”.
La centralità di Cartesio nella filosofia moderna trova conferma anche in questa Dalla _________________________
esigenza di dubitare di tutto; il dubbio cartesiano ha infatti rivestito nella filosofia
al ____________________
moderna lo stesso ruolo che la «meraviglia» aveva ricoperto nella ricostruzione
aristotelica della filosofia greca. Con un deciso mutamento di prospettiva: dallo
stupore di fronte a ciò che è in quanto è, al sospetto nei confronti di tutto ciò che è
attestato dall'esperienza come realtà. La consapevolezza delle distorsioni
dell'esperienza è alla base dell'urgenza di una rifondazione del sapere su basi
certe e inattaccabili.
___ - DAL DUBBIO ALLA PRIMA CERTEZZA:
L'IO PENSO
Per raggiungere l’obiettivo di fondare su basi più sicure le proprie conoscenze,
dopo aver portato alle sue estreme conseguenze l’esercizio del dubbio, Cartesio
compie un ulteriore percorso che lo porterà ad affermare l’indubitabilità di tre
idee: l’idea dell’io, l’idea di Dio e l’idea del mondo.
Il cammino per dare un fondamento solido alle nostre conoscenze parte dal
dubbio iperbolico. L’aver portato il dubbio alle sue estreme conseguenze
consente, infatti, di scoprire una verità che sfugge a qualsiasi dubbio, così chiara
ed evidente da sfuggire a qualsiasi obiezione. Si può dubitare di tutto, tranne del
fatto che sto dubitando, quindi pensando ed esistendo, infatti il fatto stesso di
dubitare testimonia l’esistenza di qualcosa, qualcuno che dubita. Di conseguenza
la prima certezza sarà “Penso quindi sono” (“Cogito ergo sum”).
Cartesio osserva che, anche qualora stessi sognando o farneticando, o fossi
ingannato dal genio malefico, sarebbe comunque indubitabile il fatto di esistere,
infatti il fatto di sognare, farneticare o essere ingannati comporta che io non sia
nulla, sono la testimonianza del mio essere pensante . La verità del ‘io penso’
non deriva da un ragionamento, in quanto la sua certezza non è basata su un
sillogismo in cui “Io penso, dunque esisto” è la conclusione di una premessa
maggiore del tipo “Tutto ciò che pensa esiste”, ma è un’intuizione che si impone
immediatamente, ed è così evidente da essere al di sopra del dubbio. Questa
rappresenta quindi la prima verità assolutamente evidente, anzi è il primo più
caratteristico esempio di una verità assolutamente chiara ed evidente.
Il percorso di Cartesio
L’INDUBITABILITÀ DELL’_______________
penso dunque ___________
io sono la testimonianza _______________
___________________________________
l’io penso come prima ________________
___________________________________
11
Ponendo come prima certezza il pensiero, Cartesio compie una svolta importante
nel modo di concepire la conoscenza. Nell’antichità e nel medioevo, per dare
fondamento alla conoscenza dell’uomo si faceva ricorso a teorie che
consideravano le strutture razionali che la conoscenza coglie nella realtà come
oggettivamente esistenti, indipendente dall’uomo, o in un mondo a parte (mondo
delle idee di Platone) o come costitutivi delle cose stesse (la forma di Aristotele).
Al posto di queste entità metafisiche Cartesio pone invece il pensiero stesso. La
conoscenza viene quindi fondata sul soggetto umano, sul suo pensiero, e non più
su qualcosa di esterno. Rimane però un profondo legame con la tradizione, in
quanto il pensiero è inteso da Cartesio non tanto come una funzione della mente,
quanto come entità metafisica. Infatti Cartesio non si limita a considerare il
pensiero una facoltà dell’uomo, ma in esso vede una sostanza, una cosa a sé
stante, autonoma che chiama res cogitans.
LA SVOLTA DI CARTESIO:
Platone ______________
dalla centralità delle strutture razionali _______________________dall’uomo:
Aristotele  ____________
alla centralità del ___________________________
LA CONTINUITÀ DI CARTESIO:
il pensiero _______________________ e non come _________________ / facoltà dell’_____________
Per dimostrare l’esistenza del pensiero come sostanza, Cartesio osserva che la
certezza di pensare è indubitabile anche se dubito di avere un corpo o di trovarmi
in un mondo materiale, perciò, ne conclude Cartesio, l’io, la cui natura è di
essere una sostanza pensante, è indipendente dal corpo e dal mondo. Il fatto che
Cartesio pensi che dalla chiarezza e dalla distinzione di un’idea, cioè dalla
possibilità di essere pensata come indipendente da ogni altra, debba
corrispondere anche la sua esistenza reale è dovuto al fatto che Cartesio assume
la matematica come modello di autentica scienza, infatti è solo per la matematica
che le idee chiare e distinte sono anche vere.
Il cogito (l’io penso) cartesiano riprende un motivo già presente nella storia
filosofia, in particolare in Agostino d’Ippona, il quale lo aveva anche lui
sviluppato per sconfiggere lo scetticismo, giungendo però a conclusioni alquanto
diverse. Infatti, Agostino utilizza la certezza dell’esistenza del soggetto che
dubita per stabilire la presenza di una verità che lo illumina ma lo trascende,
mentre Cartesio utilizza il suo “Cogito ergo sum” come principio per garantire la
validità delle conoscenze prodotte dall’uomo e delle azioni basate su di esse.
IL PENSIERO COME SOSTANZA
(RES ______________________)
l’_____________________ del pensiero dal
___________ e dal mondo ______________
Cartesio e __________________________
___ - DALL'IO PENSO A DIO
Dopo aver dimostrato l’esistenza dell’io e prima di passare a dimostrare
l’esistenza della realtà esterna Cartesio dimostra l’esistenza di Dio.
Per capire come Cartesio procede alla dimostrazione dell’idea di Dio occorre
partire dalla sua classificazione delle idee.
Il suo modo di intenderle è diverso dal modello platonico, in quanto le idee sono
esclusivamente il frutto dell’attività mentale e non esistono al di fuori della
mente (benché il pensiero sia indipendente dal cervello).
La molteplicità delle idee può essere suddivisa in tre gruppi: le idee avventizie,
che provengono dal mondo esterno tramite i sensi e non possono essere
considerate certe, perché la conoscenza sensoriale è fallace; le idee fittizie,
fabbricate da noi stessi e, quindi, del tutto arbitrarie e non significative; le idee
innate, che non sono né il frutto della realtà esterna, né sono una nostra
elaborazione volontaria, ma appartengono alla stessa facoltà del pensare e,
La classificazione delle _______________
1 _____________________
Fonte: __________ non _______________
2 __________________________________
Fonte:____________________________
arbitrarie
2 __________________________________
12
quindi, si impongono necessariamente al pensiero. Sono innate l’idea dell’io,
dell’essere divino e del mondo, e i loro attributi necessari, quali la razionalità del
pensiero, la perfezione di Dio.
Cartesio procede a dimostrare che l’idea di Dio è innata nel seguente modo. Il
nostro pensiero non è perfetto, e ne abbiamo prova continuamente, in quanto le
nostre conoscenze sono spesso imprecise e false; eppure, proprio in quanto
riconosciamo l’imperfezione delle nostre idee, dobbiamo avere in mente l’idea di
perfezione. L’idea di perfezione non può che coincidere con quella dell’essere
perfetto, cioè Dio. Siccome però non possiamo aver avuto esperienza della
perfezione, questa deve essere un’idea innata. Bisogna, dunque, riconoscere che
esiste un essere divino capace di far sorgere in noi l’idea della perfezione
assoluta. L’esistenza di Dio può, inoltre, essere dimostrata senza far ricorso al
nostro stato di essere imperfetti; infatti, se noi abbiamo un’idea chiara e distinta
di Dio come essere perfettissimo, allora sarebbe contraddittorio negare a Dio
l’esistenza perché ne verrebbe meno la perfezione (lo schema dei due
ragionamenti, come si vede, è lo stesso utilizzato da Anselmo d’Aosta per la
prova a posteriori e quella a priori).
Dimostrata l’esistenza di Dio Cartesio può passare a trarne le conseguenze per il
problema da cui era partito, dare un fondamento sicuro alla conoscenza umana,
sconfiggendo definitivamente l’ipotesi del genio malefico.
Infatti, essendo Dio perfetto, a tale perfezione non può mancare la bontà
assoluta, ma se e Dio è assolutamente buono non può volere che il nostro
pensiero ci inganni. L’ipotesi di un genio malefico (alla base del dubbio
iperbolico) viene in questo modo superata. La perfezione divina diventa quindi il
vero fondamento della nostra conoscenza. Le idee della nostra mente, qualora si
impongano ad essa con chiarezza ed evidenza, devono essere ritenute
necessariamente vere, infatti, se non lo fossero dovremmo ammettere che Dio ci
inganna e, quindi, non potrebbe più essere pensato come perfetto. Il principio
dell’evidenza, su cui si fondano le regole del metodo e per cui si debbono
accogliere come vere le idee che sono chiare e distinte, trova così in Dio il suo
fondamento ultimo.
Questo ragionamento è apparso, già ai contemporanei di Cartesio, un circolo
vizioso, in quanto il criterio dell’evidenza è stato assunto come criterio di
partenza per dimostrare l’esistenza dell’essere pesante e l’esistenza di Dio per
poi sostenere che l’essere divino fornisce un criterio di garanzia al principio
dell’evidenza da cui si era partiti.
Come nella teologia tradizionale e nella metafisica Dio occupa, dunque, un ruolo
centrale nella filosofia di Cartesio. Questa centralità non porta però alla
conclusione tradizionale del primato di quanto è stato rilevato nelle Sacre
scritture; l’idea di Dio è utilizzata invece per difendere la capacità dell’uomo di
conoscere il vero e Dio, in quanto creatore delle capacità conoscitive dell’uomo,
ne è anche il garante. In questo modo lo stesso Dio nel cui nome si tentava di
bloccare il progresso scientifico diventa in questa ottica il fondamento della
verità della scienza.
Solo per l’ateo il dubbio non è mai superato, in quanto egli può sempre dubitare
delle sue conclusioni, dal momento che non può riconoscere Dio come il
creatore delle sue facoltà.
Messo Dio a fondamento del conoscere umano Cartesio estende le caratteristiche
che la metafisica tradizionale attribuiva all’essere di Dio al pensiero scientifico:
la scienza è dunque eterna e vera, perché Dio è eterno ed è verità, e le sue leggi
sono immutabili in quanto anche Dio lo è (in questo modo la dipendenza dalle
leggi non vincola Dio stesso).
Il ruolo che Cartesio affida a Dio è quello di garante della razionalità del mondo
e della capacità dell’uomo di comprendere questa razionalità. Dio è quindi
esclusivamente una necessità di tipo razionale. Questa posizione verrà
contestata, come vedremo, da Pascal (1623-1662), per il quale Dio non risponde
Fonte:______________________________
(io, ________ e ______________ e i loro
________________ )
Le dimostrazioni dell’__________________
______________________________
1 l’_______________________ delle nostre
__________ e l’idea della ______________
2 esistenza e ente _____________________
La sconfitta del _______________________
Se Dio è infinitamente _________________
non può _____________________________
___________________________________
la _________________________________
delle idee ____________ e _____________
il circolo vizioso dell’__________________
La __________________________di Dio
dalla centralità delle ______ _________ alla
centralità delle capacità ________________
di cui è garante _______ in quanto
________
___________________________________
_________________ = scetticismo
la scienza è _____________ e ___________
perché Dio è _________________________
Cartesio: Dio come necessità ____________
Pascal: Dio come necessità _____________
______________________________
13
tanto ad un esigenza razionale, quanto ad un esigenza esistenziale; Dio non è il
garante delle nostre conoscenze, ma colui che dà significato alla nostra esistenza.
Il percorso cartesiano dal dubbio al cogito, a Dio, alla mediazione della garanzia
divina che certifica la validità delle nostre idee e della nostra conoscenza del
mondo, costituisce una svolta rispetto alla filosofia precedente che fino a quel
momento, con l'eccezione dello scetticismo, non aveva messo in dubbio la
capacità del pensiero di rispecchiare la realtà delle cose così come è
effettivamente.
Cartesio, tuttavia, non può essere assimilato allo scetticismo, perché, mentre
secondo gli scettici è impossibile individuare un criterio di verità che permetta di
distinguere il vero dal falso, egli mira invece a dimostrare che la verità esiste e
che, grazie a Dio nella sua funzione di garante, c'è corrispondenza fra le idee
soggettive e la realtà esterna.
Cartesio critica anzi lo scetticismo, osservando che, da un punto di vista
rigorosamente scettico, non si può essere sicuri nemmeno della tesi secondo cui
non esiste alcuna verità, altrimenti lo scetticismo, smentendo il proprio nome
(scepsi, "ricerca"), diventa a sua volta una forma di dogmatismo, imponendo
un'affermazione non giustificata. Cartesio riprende così le critiche rivolte già nei
tempi antichi allo scetticismo che, se sostenuto in maniera coerente e radicale,
porta al silenzio, perché sarebbe contraddittorio con le tesi scettiche ritenere
come vera la proposizione che afferma l'impossibilità di distinguere fra vero e
falso.
Cartesio si interroga sulla validità del conoscere umano, abbandonando la
convinzione che esso sia per natura portato a cogliere la verità delle cose e
rendendo problematico il rapporto tra le idee della mente e la realtà esterna.
Il dubbio, allargato via via fino all'ipotesi del genio maligno, sottolinea la
lontananza del pensiero rispetto alla realtà, per cui si arriva a dubitare di tutto.
Quella lontananza scompare quando il pensiero guarda in se stesso. Il cogito si
salva dal dubbio e costituisce la prima certezza — il fondamento assoluto e
intoccabile della verità — proprio perché non è qualcosa di esterno al pensiero;
esso appare indubitabile nel momento stesso in cui si dubita della verità dei suoi
contenuti.
Possiamo misurare la svolta di Cartesio attraverso il nuovo significato che assume nel suo pensiero un termine rilevante sul piano filosofico: quello di «idea».
Nella filosofia antica e medievale, a partire da Platone, idea è la specie unica
intelligibile presente in una molteplicità di oggetti. Per Cartesio, invece, idea è
un qualsiasi contenuto del pensiero, in generale una rappresentazione della
realtà. Nella mente umana sono presenti le idee, cioè le rappresentazioni delle
cose, mentre le cose, in quanto appartenenti al mondo esterno, non sono oggetto
del pensiero in modo diretto e naturale, come pensavano i filosofi precedenti.
Il significato cartesiano dell'idea come immagine della realtà si impone poi
largamente nell'ambito della filosofia moderna, e viene fatto proprio anche da
pensatori che seguono percorsi di ricerca diversi rispetto a quello di Cartesio.
Con Cartesio si avvia anche un nuovo significato del termine «soggetto», che si
riferisce all'anima-sostanza, alla res cogitans, e che nel corso della filosofia
moderna arriverà a identificarsi con la coscienza umana, con lo spirito in quanto
principio di attività.
Per la filosofia antica e medievale, soggetto è qualsiasi cosa, non in particolare
l'uomo. Le parole latine subiectum (da sub-iactum, "sottoposto", ciò che sta
sotto, che traduce il greco "sostrato") e substantia (che ha lo stesso significato)
indicano le cose esistenti. Allora soggetto (o sostanza), nel senso appunto di ciò
che sta sotto, ciò che sta alla base, è il fondamento che costituisce ogni cosa nei
suoi caratteri permanenti e che fa da sostegno alle sue qualità mutevoli o
accidenti; il soggetto è ciò che rimane invariato al di là del mutare degli
LA SVOLTA DI CARTESIO
Il dubbio di Cartesio: __________________
___________________________________
No __________________________
Critiche _________________________
Il dubbio sulle _____________________
VS
indubitabilità ____________________
In nuovo significato di:
a- ____________________________
Platone: presente in ___________________
_________________________________
__________________: _______________/
rappresentazione _____________________
b - ________________________________
filosofia antica:
soggetto/ ___________________ =
fondamento delle ___________________
14
accidenti. In questo senso il termine è usato per indicare qualsiasi cosa esistente:
il sasso, l'animale, la pianta, l'uomo.
Le cose cambiano quando con Cartesio entra in crisi la convinzione che ci sia un
rapporto immediato tra la mente dell'uomo e la realtà esterna. Questa realtà,
dotata di un proprio ordine e di proprie leggi, deve essere accertata; ma proprio
perché essa è esterna e lontana, tanto che il pensiero può dubitare della sua
esistenza, bisogna individuare un principio certissimo, un fondamento sicuro su
cui appoggiare l'intera conoscenza, che si collochi necessariamente
nell'interiorità dell'uomo, all'interno del pensiero stesso. Tale principio è il
cogito, che Cartesio indica appunto come «fondamento primo e certissimo»,
«fondamento assoluto e fermo della verità»; il cogito è ciò che nel processo
conoscitivo rimane saldo e costante al di là del variare delle rappresentazioni.
Il pensiero, la res cogitans, diventa allora il soggetto per eccellenza, il
fondamento che sta alla base delle rappresentazioni, mentre le cose diventano
semplici oggetti (ob-iecturn, "ciò che sta di fronte"). Soggetto è allora, in senso
proprio, l'uomo che pensa.
Ma che cos'è il pensiero? Il cogitare non deve essere identificato con il pensiero
inteso in un senso ristretto, vicino al nostro uso consueto. Cartesio dice con
molta chiarezza cosa intende: «Ma cos'è una cosa che pensa? Di certo una cosa
che dubita, intende intellettualmente, afferma, nega, vuole, non vuole, e anche
immagina e sente. Se tutto ciò mi appartiene, in verità non è poco» (Seconda
meditazione).
Come si vede, il cogitare comprende molte cose: comprende per esempio il
volere (e anche l'amare e l'odiare), e addirittura l'immaginazione e i sensi. Ma il
sentire non era stato escluso perché legato al corpo? Qui Cartesio fa una
precisazione importante: il sentire può ingannare, perché adesso credo di vedere,
udire, o di avere caldo, e invece, per esempio, sto soltanto sognando. Ma «di
certo mi sembra di vedere, udire, avere caldo; ed è questo che non può essere
falso». Ciò che caratterizza il cogitare è questo «mi sembra di...», dunque una
coscienza dei propri atti: è una coscienza riflessiva che accompagna qualunque
tipo di rappresentazione, il fenomeno dell'autocoscienza, cui Cartesio assegna un
ruolo centrale.
Ciò che caratterizza tutti gli atti cogitativi è la cogitatio, ovvero la coscienza.
Essa è qualcosa di naturalmente noto a ogni essere pensante, pur non essendo
vera e propria "scienza".
Cartesio giunge a dimostrare l’esistenza della realtà esterna e dell’io corporeo
attraverso l’esame delle idee avventizie, cioè delle idee che l’intelletto non trova
in sé ma si formano tramite l’esperienza, derivate quindi dai sensi.
Queste idee contengono una rappresentazione dei corpi che non può non
presupporre in qualche modo la loro realtà, infatti, se questi corpi non
esistessero, non avremmo l’idea della loro esistenza o ne avremmo di diverse
perchè in caso contrario dovremmo supporre che Dio ci inganni.
Quando posso dire di avere una conoscenza chiara e distinta di un corpo?
Cartesio affronta questa questione già nella seconda meditazione, con un celebre
esempio. Propone un esperimento mentale. Consideriamo un pezzo di cera
appena estratto dall'alveare: ha ancora la dolcezza del miele che conteneva,
conserva una traccia dell'odore dei fiori dai quali è stato raccolto, è duro e
freddo, e se colpito emette un suono. Ma se avvicino la cera al fuoco, tutte
queste caratteristiche svaniscono: si liquefà, si riscalda, perde odore e colore, e,
percossa, non emette nessun suono. Tuttavia, continuiamo a giudicare che ciò
che è di fronte a noi è cera. Quindi dobbiamo concludere che «la cera non era né
quella dolcezza del miele, né quel piacevole odore dei fiori, né quella
bianchezza, né quella figura, né quel suono». Ma se non è tutto questo, la cera di
preciso che cos'è? Se elimino tutte queste caratteristiche, che non appartengono
Cartesio:
no rapporto immediato ______________ /
_______________________
_______________ / pensiero = base delle
____________________________________
Realtà = OGGETTO delle _____________
______________________________
Pensiero = __________________________
___ - DA DIO AL _________
Se i corpi non esistessero Dio ___________
___________________
l’indubitabilità _______________________
______________________
COME __________________ I CORPI?
Esperimenti __________________
L’esempio della _____________________
15
alla cera, che cosa rimane? Rimane «qualcosa di esteso, di flessibile, di
mutevole». La questione allora è: con che cosa colgo che la cera è un corpo
flessibile e mutevole? Non con in sensi: infatti, i sensi mi dicono soltanto che la
cera ora è fredda, ora è calda. Con l'immaginazione neppure: infatti, è vero che
posso immaginare che la cera che ho di fronte, che ora è rotonda, è capace di
diventare quadrata, ma è anche vero che io concepisco la cera come qualcosa che
può ricevere infiniti cambiamenti, e la mia immaginazione non riesce a
percorrere questa infinità; di conseguenza, non è con l'immaginazione che
ottengo il concetto che ho della cera, cioè di un corpo flessibile e mutevole.
Esclusi i sensi e l'immaginazione, rimane l'intelletto. Cartesio si serve di questo
esempio per dimostrare che noi conosciamo i corpi con l'intelletto, con una
«visione della mente». Questa visione può essere «imperfetta e confusa», oppure
«chiara e distinta»: è imperfetta e confusa quando attribuisco alla cera
caratteristiche percepite con i sensi; è chiara e distinta quando attribuisco alla
cera caratteristiche colte attraverso l'intelletto.
Conosciamo dunque i corpi con l'intelletto, che formula un giudizio. Eppure tutti
noi diciamo di vedere la cera, come se la conoscessimo attraverso la visione
degli occhi, non attraverso l'analisi della mente. Sbagliamo quando diciamo
questo? Sì, è la risposta di Cartesio. Affacciamoci alla finestra e guardiamo le
persone che passeggiano. Noi diciamo di vedere persone, così come prima
dicevamo di vedere la cera. In realtà, vediamo soltanto cappelli e mantelli, sotto i
quali potrebbero nascondersi spettri; in realtà, non vediamo persone, ma
giudichiamo di vederle. Tornando all'esempio del pezzo di cera: soltanto
attraverso un giudizio possiamo dire che la cera calda e molle è la stessa cera che
prima sentivamo fredda e dura.
II corpi ovviamente vengono sentiti e immaginati. Ma la nozione che abbiamo
del corpo esteso non dipende né dai sensi né dall'immaginazione: è un'idea
innata, cioè nata con me. L'intera teoria cartesiana della conoscenza si fonda
sull'innatismo. Secondo Cartesio l’unica cosa che noi possiamo concepire come
chiara e distinta del mondo esterno è l’estensione nello spazio, infatti Cartesio
identifica l'idea innata di materia con l'idea innata di quantità, cioè l'estensione in
lunghezza, larghezza e profondità. In altri termini, l'estensione è l'unica proprietà
essenziale della materia; i colori, i suoni, i sapori ecc. sono proprietà secondarie,
riconducibili all'estensione. L'essenza delle cose materiali consiste dunque nelle
loro proprietà matematiche. Se questo è vero, analizzare l'essenza delle cose
materiali è lo stesso che analizzare la natura della matematica. E la matematica è
il paradigma della conoscenza chiara e distinta, fondata esclusivamente su idee
innate
Alla realtà esterna non possiamo, dunque, attribuire alcuna altra proprietà come
il colore, il sapore o l’odore (qualità soggettive), poiché di essi non abbiamo
un’idea chiara e distinta (prima regola del metodo).
In questo modo Cartesio, dopo aver conciliato l’immagine di Dio con i risultati
del nuovo sapere scientifico, può affrontare l’altro problema posto dall’emergere
della scienza, ovvero (vedi schema pag. 3) l’elaborazione di una concezione
della realtà che ne evidenzi gli aspetti quantitativi consona, quindi, al nuovo
modo di intendere la realtà della scienza stessa. Cartesio, infatti, affermando che
l’unica dimensione della realtà razionalmente conoscibile è l’estensione nello
spazio, abbandonava la concezione dell’irriducibile varietà qualitativa della
realtà fisica, testimoniata dall’esperienza quotidiana, eliminando così uno degli
ostacoli che si opponevano all’affermazione della nuova scienza.
Per Cartesio l’unico modo di concepire la realtà esterna è quello di pensarla
come una sostanza diversa e autonoma dal pensiero, materiale in quanto il
pensiero è spirituale, e che si estende nello spazio (res extensa). La
contrapposizione tra sostanza estesa e sostanza pensante costituisce il dualismo
metafisico cartesiano che consente di separare nettamente la realtà fisica dalla
realtà spirituale, il mondo dei corpi da quello dell’anima. La concezione
Oggetti:
1visione _____________________
imperfetta ______________________
2 visione _____________________
__________________________________
Sensi o __________________?
Cappelli e _________________
Corpi __________ (estensione) = idea
____________________
essenza delle cose = __________________
_________________________
qualità ______________________ = NO
________________________________
CARTESIO E
I PROBLEMI FILOSOFICI POSTI
______________________________
LA MATERIA COME ______________________
il _________________________________:
la contrapposizione tra ____ ____________
_________ e _______________________
16
cartesiana consente, innanzitutto, di superare la concezione della natura dei
filosofi naturalisti del Rinascimento che teorizzavano una natura animata da una
anima universale e spiegavano le connessioni tra i fenomeni ricorrendo a questa
universale animazione. La separazione assoluta del mondo dei corpi da quello
dell’anima consente a Cartesio di giustificare l’indipendenza della scienza della
natura da ogni questione teologico-metafisica. Diventa possibile studiare la
natura con metodi quantitativi e matematici e i risultati raggiunti non
interferiscono sulle questioni tradizionali concernenti l’anima e Dio. Cartesio
ritiene, dunque, sia che i risultati del nuovo sapere scientifico possano conciliarsi
con l’orizzonte concettuale tradizionale, sia che solo questo ultimo possa essere
in grado di garantire la validità del sapere prodotto dalla scienza.
conseguenze:
1 – ________________________________
___________________________________
2 - l’indipendenza della scienza dalla
___________________
IL MECCANICISMO:LA NUOVA
CONCEZIONE DELLA REALTÀ FISICA
La distinzione fra sostanza estesa e pensante separa, abbiamo detto, lo studio
della natura dai principi teologico-metafisici. Infatti, la separazione fra le due
sostanze consente a Cartesio di considerare il mondo fisico come indipendente
da qualsiasi riferimento animistico o vitalistico (che vedono la materia animata
da forze vitali) e indipendente dal finalismo (che vede la materia determinata da
fini ultimi), in quanto l’anima, le forze vitali e i fini appartengono alla sola res
cogitans. Inoltre, vengono eliminate dalla natura le qualità sensibili (cioè che
esistono solo nella percezione del soggetto), perché queste vengono considerate
una modificazione della res cogitans e non della res extensa. Infine, la
distinzione permette di considerare come inerenti ai corpi solo le caratteristiche
direttamente riconducibili alla loro estensione spaziale e al moto.
Partendo dal presupposto che alla realtà esterna occorre attribuire le
caratteristiche direttamente derivabili dall’estensione spaziale Cartesio deduce le
proprietà della res extensa a partire dalle proprietà geometriche dello spazio per
cui: essendo lo spazio, nella geometria euclidea, infinito la sostanza estesa sarà
ugualmente infinita; allo stesso modo poichè lo spazio è infinitamente divisibile
la materia non può essere costituita da atomi, come unità indivisibili; infine,
poiché lo spazio è qualitativamente indifferenziato la sostanza estesa sarà tutta
uguale per cui tutti i corpi fisici, compreso quello dell’uomo, sono uguali.
Per effetto della separazione tra __________________ e _______________________
a) natura indipendente da: 1- _________________________
2 - fini ultimi
3 - ______________________
perché appartenenti alla _________________________
b) inerenti alla natura: _____ _____________ + ________________________________
le proprietà della _______________________ = alle proprietà dello ______________________:
1 - ________________________________________________________________________________________________________
2 _________________________________________________________________________________________________________
3 _________________________________________________________________________________________________________
Oltre a essere dotata delle proprietà spaziali la materia è anche dotata di L’INTERVENTO DI DIO:
movimento. Materia e moto hanno origine entrambi da Dio, ad esso si deve,
creare ________________ e dotarla di
infatti, non solo la creazione della materia ma anche il conferimento a
quest’ultima di una certa quantità di moto. Altri interventi di Dio nel mondo, _______________________________
oltre al primo atto di creazione, non sono richiesti; Dio ha creato la materia e
l’ha dotata di una certa quantità di moto, dopo di che l’universo continua ad
esistere esclusivamente retto dalle leggi del moto e dello spazio.
17
L’immagine dell’universo elaborata da Cartesio è paragonabile a quella di un
immensa macchina composta da vari pezzi che si muovono meccanicamente.
Questa macchina, dopo essere stata messa in moto da Dio, continua a muoversi
da se stessa in base alle sole leggi meccaniche. Poiché i suoi diversi pezzi si
muovono in quanto costretti dal meccanicismo generale, il loro comportamento
non è determinato dal loro avere uno scopo o una finalità. Scopo e finalità,
infatti, non potrebbero influenzare le leggi della meccanica e finirebbero per
reintrodurre concetti antropomorfici, quali la volontà, che per Cartesio sono un
modo d’essere della sostanza pensante.
L'universo, descritto dalla fisica cartesiana come una grande macchina, è composto di pezzi o ingranaggi che si muovono meccanicamente da sé, secondo le
leggi naturali. In tal modo non è necessario alcun intervento "attivo" di Dio dopo
la creazione. Tutto accade necessariamente, secondo leggi meccaniche, che
escludono qualsiasi elemento finalistico. I fenomeni naturali sono perciò
spiegabili esclusivamente sulla base di un rigido meccanicismo. Dio
semplicemente garantisce che la materia si conservi e che la quantità di moto
dentro la materia stessa rimanga costante.
Cartesio giustifica questa posizione “conservativa” di Dio in base
all'immutabilità del volere divino: altrimenti Dio non sarebbe perfetto. La
conseguenza — abbastanza pericolosa sul piano dei rapporti con l'autorità
ecclesiastica — è che, una volta impresse nella materia le leggi naturali, non è
possibile alcun intervento da parte di Dio che modifichi o sospenda quelle leggi.
In questo senso è da escludere ogni possibilità di miracolo.
L’universo come _____________________
I fenomeni naturali spiegabili con
____________________________
Immutabilità Dio = immutabilità
_____
_________________________
No ____________________________
CARTESIO E I PROBLEMI POSTI DAL NUOVO SAPERE
1 giustificazione nuovo sapere: la scienza è vera ed assoluta perché _______________________________________________________
_____________________________________________________________________________________________________________
Ruolo soggetto:________________________________________________________________________________________________
_____________________________________________________________________________________________________________
2 il metodo scientifico: __________________________________________________________________________________________
_____________________________________________________________________________________________________________
3 la concezione della realtà: _______________________________________________________________________________________
_____________________________________________________________________________________________________________
4 Dio: _____________ ____________________________________________________________________________________(deismo)
IL MECCANICISMO:LA NUOVA
CONCEZIONE DELL’UOMO
La costruzione del mondo fisico di Cartesio è molto importante dal punto di vista
metodologico per l'impostazione meccanicistica. Questa costruzione non L’importanza del _____________________
resisterà nei suoi contenuti all'impostazione newtoniana 5 e verrà presto superata,
così come la teoria fisiologica.
5
Newton con la legge di gravitazione universale giunse a formulare una sola legge capace di spiegare
contemporaneamente il comportamento di una mela che cade sulla Terra, quello dei pianeti attorno al Sole o il
fenomeno delle maree. Ne risultava un quadro unitario del mondo e una irreversibile riunione della fisica
terrestre e della fisica celeste. Cadeva il dogma di una differenza essenziale fra i cieli e la terra, fra la
meccanica e l'astronomia; veniva anche spezzato quel «mito della circolarità» che aveva condizionato per più
di un millennio lo sviluppo della fisica. La fisica newtoniana faceva però ricorso a un’«azione a distanza» (intesa
come un principio) che non sembrava immediatamente riconducibile a un modello meccanico. Ai seguaci di
Cartesio in Europa e allo stesso Leibniz sembrò che Newton avesse reintrodotto nella fisica le «qualità
18
Tuttavia la ricostruzione interamente meccanica del corpo umano ha offerto un
modello e tuttora influente per la comprensione dell'uomo.
Cartesio si interessa dell'uomo-macchina e sostiene che gli animali e l'uomo, fino
al punto in cui coincide con essi, sono equivalenti a delle macchine.
Cartesio presenta ancora la sua esposizione come una "favola", come un'ipotesi
riguardante altri uomini che non coincidono con noi, ma sono del tutto analoghi
a noi: «Come noi questi uomini saranno formati di un'anima e di un corpo. E,
prima di ogni altra cosa, è necessario che vi descriva il corpo; poi, essa pure a
parte, l'anima; e infine che vi mostri come queste due nature devono essere
congiunte e unite per formare uomini che ci rassomiglino».
La posizione di Cartesio è condizionata dal suo dualismo metafisico: ci sono due
sostanze, ma tali sostanze - il corpo e la mente - sono congiunte.
Cartesio intende spiegare la fisiologia e non la genesi dell'uomo. E, di nuovo, la
spiega sulla base di un primo motore meccanico: il calore prodotto nel cuore. Il
cuore, secondo ' Cartesio, ha la funzione di produrre il calore necessario al
movimento dell'organismo. La fisiologia cartesiana si basa su una concezione
del corpo umano come sistema meccanico-idraulico.
La concezione meccanicistica è alla base della spiegazione di tutti i fenomeni
che riguardano i corpi, animati o inanimati che siano, e tutte le funzioni vitali si
spiegano come il risultato di movimenti meccanici. Su questa base è possibile
allora spiegare la natura vivente senza fare ricorso a principi immateriali.
Nella macchina umana così immaginata non è necessaria la presenza di un'anima
vegetativa, né di un'anima sensitiva, e neppure di principi di movimento e di
vita che non siano il sangue, la sua circolazione, gli effetti che questa produce.
In questa prospettiva, che fa della biologia una branca della fisica, l'unica
differenza tra l'uomo e gli altri esseri viventi è il possesso dell'anima, identificata
con il pensiero, dalla quale vengono escluse tutte quelle funzioni vegetative e
sensitive attribuitele dalla tradizione aristotelico-scolastica. Di conseguenza gli
animali, in quanto privi di anima, cioè di intelligenza, sono soltanto corpi, cioè
macchine fisiche, semplici automi senza coscienza e senza alcuna capacità
intellettiva. La loro sensibilità è perciò costituita da pure reazioni meccaniche, ed
è quindi solo apparente.
Alla macchina umana, che è parte della res extensa, è congiunta l'anima, la res
cogitans, infusa direttamente da Dio. L'anima è una sostanza per sé autonoma,
indipendente dal corpo, e perciò sottratta al rigido meccanicismo delle leggi
naturali; di qui, le sue caratteristiche di libera volontà e di immortalità. L'uomo
appare dunque una realtà divisa fra anima e corpo, spirito e materia, libertà e
necessità meccanica, azione (componente attiva) e passione (componente
passiva).
Ma che rapporto c'è tra questo corpo e la mente? Secondo Platone sono due
sostanze distinte, mentre secondo Aristotele la mente è forma del corpo, e quindi
mente e corpo formano un'unica sostanza. Cartesio attinge sia all'uno sia
all'altro: è giusto ritenere, come ha fatto Platone, che le due sostanze siano
realmente distinte; ma è anche giusto ritenere, come ha fatto Aristotele, che vi
sia una forte unione tra le due sostanze stesse, e che quindi «io non sia solamente
alloggiato nel mio corpo, come un pilota nel suo battello, ma che gli sia
strettissimamente congiunto, e talmente confuso e mescolato da comporre come
un sol tutto». In altri termini, mente e corpo sono realmente distinti, ma sono
uniti in modo da formare una vera e propria terza sostanza. L'anima è congiunta
a tutto il corpo, ma esercita le sue funzioni in modo specifico in una parte del
corpo: la ghiandola pineale (la moderna ipofisi), situata nel cervello, che può
quindi essere definita «principale sede dell'anima». Per mezzo di questa
ghiandola gli «spiriti animali», piccolissime particelle di sangue che dal cuore
La favola degli _______________
______________________________
L’UOMO = 2 SOSTANZE (_______________
_____________) CONGIUNTE
A - Il corpo = un sistema _____________
_____________________________
No principi _______________________
anima = ______________________
No funzioni ______________________ e
______________________________
animali = no ______________________
no _____________  solo _____________
B - ____________________ (il pensiero)
indipendente __________  no leggi
_____________________ = libertà e
_____________________________
IL RAPPORTO ____________ - __________
Platone = __________________________
Aristotele = ________________________
Cartesio = ______________________ ma
____________________________
il punto di congiunzione = _____________
distinzione anima / ___________ 
__________________________
occulte» della Scolastica, dalle quali la nuova scienza si era con tanta fatica liberata, e avesse quindi
abbandonato il solido terreno sul quale la nuova fisica aveva potuto affermarsi e progredire.
19
giungono al cervello diffondendosi poi nei muscoli e nei nervi, comunicano con
l'anima. Attraverso la distinzione reale tra mente e corpo, Cartesio giustifica
l'innatismo e la conoscenza chiara e distinta di origine non sensibile. Attraverso
l'unione sostanziale tra mente e corpo, giustifica invece la presenza in noi di idee
oscure e confuse di origine sensibile. Queste sono le motivazioni che hanno
spinto Cartesio a percorrere una terza via tra Platone e Aristotele. Rimanevano
comunque molte difficoltà nel concepire il rapporto tra l'anima e il corpo, cioè
tra due sostanze eterogenee. Cartesio era consapevole che non era affatto
semplice spiegare come l'anima, inestesa, potesse essere influenzata dal corpo,
esteso, e viceversa.
Cartesio finì con l'ammettere che era «la cosa più difficile da spiegare». Ma
l'esperienza secondo lui parlava chiaro: di fatto c'è un'interazione psico-fisica,
com'è dimostrato dalle passioni. A questo tema Cartesio ha dedicato un
importante trattato, Le passioni dell'anima (1649). Le «funzioni» dell'anima,
ossia i nostri pensieri, si distinguono in azioni e passioni: le azioni sono gli atti
volontari, mentre le passioni sono le percezioni che sono in noi. Il trattato
cartesiano si occupa in senso stretto delle passioni, cioè delle «percezioni, o
sentimenti, o emozioni dell'anima» causate dal corpo. Proprio perché causate dal
corpo, l'anima non è padrona delle passioni. La volontà non può eccitarle o
sopprimerle direttamente.
Cartesio fa ricorso al contatto fra gli spiriti animali e la res cogitans nella
ghiandola pineale anche per spiegare l'origine delle passioni umane, cioè degli
stati in cui il soggetto viene a trovarsi sotto l'influsso di qualcosa di altro da sé e
della sua capacità modificante. Al contrario delle azioni, che l'uomo compie
volontariamente, le passioni sono la conseguenza, vissuta in modo passivo, della
spinta di un fattore esterno sul soggetto.
Cartesio individua tre tipi di passioni, in base al diverso ruolo che giocano di
volta in volta la componente corporea, sensoriale e la componente della volontà,
espressione della res cogitans.
Ci sono le passioni che si formano per l'influenza dominante del corpo e della
sensazione fisica, come il piacere e il dolore, che possiamo chiamare passioni
fisiologiche.
Ci sono le passioni che scaturiscono da un certo equilibrio della sensazione e
della volontà, come l'amore e l’odio che possiamo chiamare passioni
psicologiche. Ci sono infine le passioni in cui la volontà vince sull’immediatezza
sensibile come la generosità, che possiamo chiamare passioni morali.
Su questa base si apre la via per costruire una morale che vada oltre le regole
provvisorie indicate nel Discorso. Di questa morale definitiva, tuttavia, Cartesio
indica solo i principi generali, secondo cui la volontà deve seguire la ragione,
alla quale è affidato il compito di governare le passioni, che, agitando l'anima,
limitano la libertà umana e spesso causano valutazioni errate. L'anima deve
dunque acquistare una conoscenza chiara e distinta delle passioni e dei loro
meccanismi, per cercare di tenerle sotto controllo e di guidarle saggiamente, in
modo da assicurarsi un'esistenza tranquilla e felice.
Cartesio afferma così il primato della ragione sulle passioni, dell'anima sul
corpo, e invita ad assecondare le passioni morali, in quanto danno maggiore
spazio alla volontà rispetto alle sensazioni. Fra le passioni morali ha un ruolo
privilegiato la generosità, perché porta a riconoscere negli altri la stessa
componente razionale, fatta di volontà e libertà, che riconosciamo in noi stessi, e
quindi a stabilire con gli altri rapporti di solidarietà.
congiunzione ______________ / corpo 
___________________________________
Congiunzione ___________ / ___________
indimostrabile ma ____________________
 PASSIONI
Passione __________________ dal corpo
e non ________________________
______________
passive
azioni
______________
Tipologia delle passioni:
1- passioni _________________________
2 - _______________________________
3 - ________________________________
LA MORALE ________________________
La ragione deve ____________________
le passioni per ______________________
generosità  riconoscere negli altri ______
__________________  ______________
LA SCIENZA MODERNA E IL
MECCANICISMO
LA VISIONE MECCANICISTA
Anche il termine "meccanicismo" (così come accade per tutti i termini che
finiscono in ismo) è una parola elastica, non facilmente definibile in modo
univoco e che finisce con l'assumere significati molto vaghi.
1 - natura = _________________________
in _________________________
20
La cosiddetta filosofia meccanica (che prima dell'età di Newton non coincideva
affatto con quella parte della fisica che oggi chiamiamo meccanica) è fondata su
alcuni presupposti: 1) la natura non è la manifestazione di un principio vivente,
ma è un sistema di materia in movimento retto da leggi; 2) tali leggi sono
determinabili con precisione matematica; 3) un numero assai ridotto di tali leggi
è sufficiente a spiegare l'universo; 4) la spiegazione dei comportamenti della
natura esclude di principio ogni riferimento alle forze vitali o alle cause finali.
Sulla base di questi presupposti spiegare un fenomeno vuol dire costruire un
modello meccanico che "sostituisce" il fenomeno reale che si intende analizzare.
Questa ricostruzione è tanto più vera (tanto più adeguata al mondo reale) quanto
più il modello sarà stato costruito mediante elementi quantitativi e tali da potere
essere ricondotti alle formulazioni della geometria.
Il mondo immediato dell'esperienza non è reale ed è comunque del tutto
irrilevante per la scienza. Reali sono la materia e i movimenti (che avvengono
secondo leggi) dei corpuscoli che costituiscono la materia. Il mondo reale è
contesto di dati quantitativi e misurabili, di spazio e di movimenti e relazioni
nello spazio. Dimensione, forma, stato di movimento dei corpuscoli (per alcuni
anche l'impenetrabilità della materia) sono le sole proprietà riconosciute insieme
come reali e come principi esplicativi della realtà. La tesi della distinzione fra le
qualità oggettive e soggettive dei corpi è variamente presente in Bacone e
Galilei, in Cartesio e Pascal, in Hobbes e Locke. Essa costituisce uno dei
fondamentali presupposti teorici del meccanicismo.
I riferimenti agli orologi, ai mulini, alle fontane, all'ingegneria idraulica sono,
nella fisiologia e nella medicina di questo periodo, insistenti e continui. Per molti
secoli era stata accettata, e in molti periodi storici era stata prevalente,
l'immagine di un universo non solo creato per l' uomo, ma strutturalmente simile
o analogo all'uomo. La dottrina dell'analogia microcosmo-macrocosmo aveva
dato espressione a un'immagine antropomorfica della natura. Il meccanicismo
elimina invece ogni prospettiva di tipo antropomorfico nella considerazione della
natura. Il metodo caratteristico della filosofia meccanica apparve ai suoi sostenitori così potente da essere applicabile a tutti gli aspetti della realtà: non solo al
mondo della natura, ma anche al mondo della vita, non solo al moto degli astri e
alla caduta dei gravi, ma anche alla sfera delle percezioni e dei sentimenti degli
esseri umani. Il meccanicismo investi anche il terreno di indagine della fisiologia
e della psicologia. Le teorie della percezione apparvero per esempio fondate
sull'ipotesi di particelle che, attraverso invisibili porosità, penetrano negli organi
di senso producendo moti che vengono trasmessi dai nervi al cervello.
Fatta esclusione per la teologia, nessun dominio del sapere poteva, di principio,
essere sottratto alla filosofia meccanica. Muovendosi in questa direzione,
Thomas Hobbes colloca anche la politica sotto il segno della filosofia
meccanica.
Nella fisiologia (o psicofisiologia) di Cartesio (esposta nella quinta parte del
Discorso sul metodo e nell' Uomo) ciò che è vivente non si pone più come
alternativo o contraddittorio rispetto a ciò che è meccanico. Gli animali sono
macchine. Il riconoscimento dell'esistenza di un'anima razionale serve a tracciare
una linea di demarcazione non tra le macchine e gli organismi viventi, ma tra le
macchine viventi e alcune particolari funzioni di quelle particolari macchine
(uniche nell'universo) che sono gli uomini, le quali sono, esse sole, in grado di
«pensare» e di «parlare». Solo queste due funzioni appaiono agli occhi di
Cartesio, una volta che si sia assunto il modello della macchina, non spiegate in
modo del tutto soddisfacente. Non solo gli animali, ma tutta la vita fisiologica
dell'uomo è spiegabile con la metafora della macchina e può essere ricondotta
alla macchina.
I maggiori filosofi naturali del Seicento che si fecero sostenitori e propagandisti
del meccanicismo ammiravano Democrito, gli antichi atomisti e il poeta romano
Lucrezio, che avevano costruito un'immagine del mondo di tipo meccanico e
2 – retto da _________________________
___________________ (leggi del moto)
3 - ________________________________
_________________________________
4 – no __________________________
e _________________________________
No _____________________________,
_________________________________
e _________________________________
(qualità ____________________________)
Dall’universo simile _________________
all’universo _______________________
applicabile a _________________, vita.
____________________, sentimenti
Hobbes la spiegazione meccanicista
_____________________________
Il modello della ___________________
spiega _____________________ ma non
________________ e ________________
L’universo-macchina e il ___________
_______________________________
21
corpuscolare. Ma dalle conseguenze empie o ateistiche che si potevano ricavare
dalla tradizione del materialismo intendevano mantenersi, nella grandissima
maggioranza dei casi, accuratamente lontani. Intendevano cioè rifiutare quelle
filosofie che negavano l'opera intelligente di un Creatore e ascrivevano l'origine
del mondo al caso e al fortuito concorso degli atomi. L'immagine della macchina
del mondo implicava per loro l'idea di un suo Artefice e Costruttore, la metafora
dell'orologio rinviava al divino Orologiaio. Lo studio accurato e paziente della
grande macchina del mondo era la lettura del Libro della Natura, da affiancare a
quella del Libro della Scrittura. Entrambe le indagini tornavano a gloria di Dio.
II filosofi dai quali prendere le distanze, innumerevoli volte respinti e
condannati, sono Thomas Hobbes e Baruch Spinoza. Il primo ha esteso il
meccanicismo all'intera vita psichica, ha concepito il pensiero come una sorta di
istinto un po' più complicato di quello degli animali, ha ricondotto al movimento
tutte le determinazioni e trasformazioni di una realtà intesa esclusivamente come
corpo. Facendo dell'estensione un «attributo» di Dio, Spinoza ha empiamente
negato la millenaria distinzione fra un mondo materiale e un Dio immateriale, ha
negato che Dio sia persona e che possa avere scopi o disegni. Ha affermato che
questi sono la grossolana proiezione in Dio di esigenze soltanto umane. Ha
affermato l'inseparabilità di anima e corpo. Ha visto nell'universo una macchina
eterna, priva di senso e di scopi, che è espressione di una causalità necessaria e
immanente.
La presa di distanza dai possibili esiti ateistici e materialistici del cartesianesimo
assumerà in Isaac Newton (1642-1727) forme diverse, ma resterà un tema
dominante. La posizione di Newton è espressa con grande chiarezza: un «cieco
destino» non avrebbe mai potuto far muovere tutti i pianeti allo stesso modo in
orbite concentriche, e la meravigliosa uniformità del sistema solare è effetto di
«un disegno intenzionale». I pianeti continuano a muoversi nelle loro orbite per
le leggi della gravità, ma «la posizione primitiva e regolare di queste orbite non
può essere attribuita a queste leggi: l'ammirevole disposizione del Sole, dei
pianeti e delle comete può essere solo opera di un Essere onnipotente e
intelligente». Newton distingue fra origine delle cose e regolare corso della
natura. Se è vero che «le particelle solide furono variamente associate nella
prima creazione per il consiglio di un Agente intelligente», se è vero che esse
sono «state messe in ordine da Colui che le ha create», allora «non v'è ragione di
ricercare una qualche altra origine del mondo o pretendere che esso possa essere
uscito fuori da un Caos, a opera delle mere leggi di natura». Le leggi naturali
cominciano a operare solo dopo che l'universo è stato creato. La scienza di
Newton è una descrizione rigorosa dell'universo così come esso è: in quanto
compreso fra la creazione del mondo narrata da Mosè e il forale annichilamento
previsto dalle Apocalissi. Newton e i newtoniani non accetteranno mai l'idea che
il mondo possa essere stato prodotto da leggi meccaniche.
I PERICOLI DEL MECCANICISMO:
1 estendere la spiegazione meccanicista al
___________________ (vedi __________)
2 – negare l’esistenza di ________________
e ___________ scopi dell’universo (vedi
_________________)
Newton:
destino CTR _________________________
le leggi naturali _________________solo
dopo la __________________________
22
2 - Hobbes: la ragione come calcolo
HOBBES: LA RAGIONE COME
CALCOLO
Dalla nuova scienza alla nuova politica
Empirismo e materialismo: la giustificazione della nuova scienza
La teoria della conoscenza
Nominalismo, fenomenismo e convenzionalismo
La ragione come capacità di calcolo
L’interpretazione materialista e meccanicista dell’uomo
La fama di Thomas Hobbes (1588-1679)6 è legata soprattutto al pensiero politico:
egli, infatti, è noto come il costruttore della prima teoria dello Stato moderno.
Le radici di questa opinione possono essere rintracciate negli stessi
contemporanei di Hobbes. L'interesse di questi ultimi appare, infatti, già
sbilanciato a favore della produzione politica del filosofo inglese, considerata
come l'equivalente - in politica - dell'opera di rifondazione svolta da Cartesio.
L'accostamento tra Cartesio e Hobbes, così formulato, rischia però di mettere in
ombra il contributo originale apportato dal secondo non solo in tema di filosofia
politica, bensì anche alla discussione sul cosmo e sulla scienza innescata dalla
rivoluzione scientifica. Hobbes dedica, infatti, gran parte del proprio tempo e
delle proprie energie al tentativo di comprendere la scienza moderna - nel
momento stesso in cui nasceva - e di elaborare una visione complessiva del
cosmo a essa conforme. Visione che merita di essere presa in considerazione, in
quanto rappresenta forse la principale e più radicale alternativa alla filosofia di
Cartesio elaborata nel corso del XVII secolo.
Con Cartesio Hobbes condivide l'idea di mettere in discussione la
verosimiglianza tra i concetti della mente e le cose esterne, per cui indica nei
primi l'unico oggetto accessibile in maniera immediata alla conoscenza umana.
A partire da questo presupposto, egli arriva però a conclusioni opposte rispetto a
quelle cartesiane.
Sotto il profilo ontologico, infatti, Hobbes sostiene un monismo materialistico secondo il quale l'unica cosa reale sono i corpi in movimento - diametralmente
opposto rispetto alla metafisica cartesiana, fondata sull'autocoscienza del
soggetto in quanto sostanza pensante e sull'idea di Dio.
Hobbes elabora inoltre una concezione della ragione come procedimento
puramente formale di connessione di nomi e concetti, anch'essa completamente
diversa rispetto alla concezione cartesiana della ragione: concezione che è alla
base di una visione della scienza come costruzione convenzionale.
Scienza non è solo la conoscenza dei corpi naturali, ma anche la conoscenza dei
corpi politici. Anzi, la scienza politica consegue risultati più certi di quella
naturale, in quanto i corpi politici (gli Stati) sono costruiti dall'uomo, mentre
quelli naturali esistono indipendentemente dall'azione umana: più semplice,
dunque, conoscere "ciò che è stato fatto" (l'artificiale) che conoscere "ciò che è
già dato" (il naturale).
In tutte le sue trattazioni Hobbes utilizza un rigoroso metodo deduttivo, fondato
in particolare su due principi essenziali: il corpo e il movimento. In questo modo
mira a eliminare ogni traccia di spiritualismo dal suo sistema filosofico, per
giungere a una concezione integralmente materialistica e meccanicistica della
realtà, all'interno della quale devono essere interpretati tutti i fenomeni, anche
quelli relativi alla volontà e alle passioni umane.
Il pensiero hobbesiano è caratterizzato da una concezione pessimistica della
DALLA NUOVA SCIENZA ALLA
NUOVA POLITICA
HOBBES E __________________
Hobbes applica alla ________________
il metodo _______________________ di
Cartesio
Hobbes condivide con Cartesio il dubbio
__________________________________
Diversità:
- concezione della realtà:
Cartesio: sostanza _________________ +
sostanza ________________ + ________
Hobbes: solo ___________________ in
_________________________________
- ragione:
Cartesio: ____________ metafisica
Hobbes: capacità di __________________
ALTRE CARATTERISTICHE DELLA FILOSOFIA DI
HOBBES
La politica come ________________
______________________ e meccanicismo
CTR
_______________________________
6
L’esposizione sistematica del pensiero di Hobbes è contenuta in tre opere “Il corpo”(1655), dedicata
alla filosofia della natura e della conoscenza, “L’uomo”(1658), ai problemi antropologici, e “Il cittadino”
(1641) ai problemi politici. Per la vita e le opere di Hobbes vedi pag. 83.
23
natura umana: famosa attraverso i secoli è infatti la sua espressione «homo
homini lupus». Altrettanto famosa è la sua immagine dello stato di natura, in cui Il pessimismo sulla ____________________
la naturale aggressività umana genera la «guerra di tutti contro tutti». A questa
può porre riparo solo l'instaurazione di uno Stato assoluto, fondato da un conEMPIRISMO E MATERIALISMO: LA
tratto sociale liberamente sottoscritto dagli individui.
GIUSTIFICAZIONE DELLA NUOVA
SCIENZA
Hobbes ritiene fallito il tentativo di Cartesio di utilizzare il metodo dimostrativo
matematico per fondare una metafisica come scienza. Mentre accetta il cogito
ergo sum come ragionamento per arguire che chi pensa deve esistere, rifiuta
senza concessioni che se ne possa dedurre l'esistenza di una res metafisica, una
sostanza incorporea pensante e addirittura che questa venga con disinvolta sinonimia chiamata Io, Anima, Coscienza. Da empirista antimetafisico, obietta a
Cartesio che il pensare è una funzione del corpo, del suo cervello, e che per
questo non si può considerare come realtà indipendente, altrimenti ogni attività
umana potrebbe diventare una sostanza: se col pensare diveniamo una res
cogitans allora, egli sostiene, passeggiando diventeremmo una passeggiata.
Inoltre, sulle orme degli empiristi e dei nominalisti della tarda Scolastica, come
Ockham, Hobbes ritiene che la dimensione metafisica (Dio, l'anima, l'eternità
ecc.) appartenga esclusivamente alla fede e alle Sacre Scritture e sia totalmente
fuori dell'orbita della ragione, la quale trova il proprio ambito esclusivo di
efficacia in rapporto all'esperienza umana, che riguarda o corpi fisici o fatti
storici. Quindi la teologia razionale è impossibile come scienza e porta a risultati
assurdi. È illuminante a questo proposito la critica corrosiva di Hobbes alla
definizione di Dio come Sostanza Incorporea. Dire "sostanza incorporea" è come
dire "corpo incorporeo" cioè " realtà inesistente", infatti ciò che non ha corpo
non esiste. Ora poiché per fede Dio esiste, pensa Hobbes, la sua natura
incorporea è solo articolo di fede, non di ragione e scienza.
Separate in questo modo la filosofia e la scienza dalla teologia Hobbes può
procedere all’elaborazione di una concezione della conoscenza razionalista, in
quanto come Cartesio assegna un ruolo fondamentale alla ragione, ma che non si
fonda sulla metafisica tradizionale, come in Cartesio, bensì su una rigorosa
visione materialistica e meccanicistica.
Infatti, riflettendo sulla nuova scienza galileiano e ponendola alla base della sua
concezione della realtà (vedi problema 3, schema pag. 3) Hobbes ritiene che la
realtà debba essere intesa come costituita dai corpi in movimento.
Corpo è tutto ciò che, esterno a noi e non dipendendo dal nostro pensiero,
occupa spazio. Proprio perché i corpi sono esterni a noi, la loro sostanzialità
materiale va distinta dalle loro qualità sensibili (accidenti). Le qualità sono
modi d'essere provvisori che possono cessare senza che cessi la corporeità: un
corpo caldo, come la cera, può diventare freddo senza smettere di esistere
come corpo. Solo l'estensione e il movimento, inteso come passaggio da un
luogo ad un altro, sono proprietà permanenti o primarie.
Poiché crede che tutta la realtà è corporea, Hobbes è materialista. Egli rifiuta
dunque il dualismo cartesiano delle sostanze (res cogitans e res extensa) e critica
il passaggio cartesiano dal cogito al riconoscimento di una res cogitans. L'attività
della mente — afferma è una forma di moto in alcune parti del corpo organico,
quindi non può avere nessuna autonomia nei confronti della materia estesa.
Ritenendo che i corpi, le realtà estese, siano gli unici oggetti esistenti e
conoscibili, Hobbes elimina la res cogitans cartesiana.
Ma Hobbes è anche meccanicista; crede cioè che ogni cambiamento che avviene
nella realtà si riduca a un movimento di corpi o di parti all'interno di essi: tutta la
realtà è sottoposta alle leggi del movimento.
La risposta di Hobbes ai problemi posti dalla scienza si inquadra all’interno
di questa concezione materialista che, in quanto ripropone una concezione
della realtà che si oppone a quella religiosa tradizionale, costituisce una
LA CRITICA DELLA METAFISICA CARTESIANA
il rifiuto di passare dall’________________
alla ______________________________
il pensare come _______________________
____________________________________
La separazione tra ____________________
e _______________________
la ragione si applica solo _______________
_____________________________
Dio = ______________________________
l’irrazionalità della ____________________
____________________________________
IL MATERIALISMO E __________________
la realtà = _________________________
____________________________________
La distinzione tra _____________________
____________________________________
Prospettiva di Hobbes:
materialista: ______________________
_________________________________
_________________________________
__________________________________
Prospettiva di Cartesio: ______________
_________________________________
24
prospettiva opposta a quella cartesiana. In effetti la posizione di Hobbes, in
quanto in odore di ateismo, finì per rimanere per lungo tempo isolata e
trascurata ed essere quindi ripresa e rielaborata solo molto più recentemente.
LA TEORIA DELLA CONOSCENZA
Anche quello umano, ovviamente per Hobbes, è un corpo fisico i cui moti
complessi si manifestano come vita, sensazione, mente e conoscenza, così
come tipi speciali di moto sono gli istinti (primo fra tutti quello di
conservazione) e i sentimenti.
La conoscenza è quindi il frutto di un duplice movimento meccanico: 1)
l'azione delle cose sull'apparato sensorio, che lascia come segno delle
impressioni o sensazioni; 2) un moto di reazioni del corpo umano, che
risponde con la produzioni di un fantasma, una immagine o idea, alla
quale attribuiamo per etichetta un nome.
Oltre alle immagini delle singole sensazioni, nella memoria rimangono anche
le connessioni tra una sensazione e l’altra e quindi tra un immagine e l’altra:
nella ricostruzione di queste connessioni consiste l’attività del pensiero.
Pensare, infatti, non significa altro che ricercare i nessi che collegano
un’immagine, un’idea a un’altra; ad esempio collegare l’idea della pioggia
con quella della sua causa (le nuvole) o con quella dei suoi possibili effetti (il
bagnarsi).
Il tipo di conoscenza che deriva dal ricercare la connessione delle immagini
sensoriali conservate nella memoria. è, secondo Hobbes, comune agli uomini e agli
animali: anche il cane prevede il dolore alla vista del bastone nella mano
dell'uomo o il piacere in presenza dell'osso che gli si offre. Ma, che cosa
permette di passare da questo tipo inferiore di conoscenza al ragionamento
discorsivo, proprio soltanto degli uomini? Ciò che, secondo Hobbes, rende
possibile questo passaggio è il linguaggio.
La caratteristica principale del linguaggio consiste nell'imporre dei nomi alle cose, o
meglio alle immagini delle cose. I nomi, secondo Hobbes, svolgono due funzioni
fondamentali. Quali?
1) La prima è la funzione mnemonica: i nomi - in quanto note - hanno il compito di
ricordare all'uomo le connessioni che egli ha stabilito tra le singole cose. Ad esempio,
dopo aver dimostrato che gli angoli di una figura composta da tre lati sono uguali a
due angoli retti, è sufficiente imporre a quella figura il nome di «triangolo» (o
qualunque altro nome convenzionale, poiché l'imposizione dei nomi per Hobbes è
arbitraria), per ricordarsi di questa proprietà ogni volta ci si trovi di fronte a una
figura simile, senza dovere ripetere daccapo la dimostrazione.
2) La seconda è la funzione comunicativa: i nomi - in quanto segni - servono a far
comprendere agli altri uomini le cose da noi pensate e le connessioni tra esse stabilite.
Ad esempio, quando dico «triangolo», tutti sanno che intendo una figura con tre
lati, la cui somma degli angoli interni è uguale a due angoli retti.
Come si può notare, il ragionamento discorsivo opera sui nomi, e non sulle cose,
infatti, osserva Hobbes, se l'intero mondo scomparisse (argomento
dell'annihilatio mundi), ma restasse un uomo con la memoria viva delle
immagini della propria esperienza precedente, quest'uomo saprebbe continuare a
pensare in modo corretto, cioè ad elaborare le immagini della propria mente,
perché pensare è elaborare fenomeni, immagini interne (fenomenismo).
Infatti, le idee e i nomi pur derivando dall’azione delle cose esterne sui
nostri organi di senso sono qualcosa di interno alla nostra mente, quel che
a noi appare di quella alterazione che l’oggetto opera nel nostro cervello.
Accentuando in senso soggettivistico la distinzione galileana tra qualità
primarie e secondarie, Hobbes conclude che tutti i concetti derivati dai
sensi, e quindi tutte le nostre conoscenze, ineriscono al soggetto e non
all’oggetto. La nostra conoscenza non ha a che fare direttamente con una
supposta realtà esterna, ma solo con i fenomeni, ovvero le cose come
NOMINALISMO
La conoscenza come processo __________
___________ dovuta a:
1 __________________________________
___________________________________
2 __________________________________
___________________________________
Pensare = ___________________________
____________________________________
La continuità tra ____________________ e
___________ = ______________________
____________________________________
Il salto tra ___________ e _____________=
il ____________________________
le funzioni del ________________________
1- _________________________________
____________________________________
2 __________________________________
L’argomento dell’ ____________________
_____________ : il ragionamento opera
sui _______________e non _____________
Le conoscenza sono relative a come ______
___________________________________
25
appaiono, si manifestano alla nostra mente.
La ragione, quindi, non è uno strumento di verità assoluta, ma piuttosto un
mezzo pratico che costruisce i concetti sulla base di sensazioni soggettive
che vengono attivamente organizzate in vista delle nostre necessità
pragmatiche. Il valore oggettivo e universale delle nostre conoscenze è,
per Hobbes, il frutto di una convenzione linguistica (convenzionalismo)
che attribuisce un valore univoco ai nomi per cui l’esperienza del singolo
finisce con il coincidere con quella degli altri.
Ora se la mente opera con i nomi che hanno un legame solo arbitrario con
il mondo esterno, il contenuto delle conclusioni dei discorsi scientifici non
potrà mai venire riferito ad un ambito diverso da quello dei nomi stessi,
non potrà pretendere di corrispondere ad una realtà extra-mentale.
Hobbes non pensa che il linguaggio della natura sia quello della scienza,
come voleva Galilei, perché il linguaggio della scienza è un’invenzione
della mente umana, nè che la realtà abbia le caratteristiche oggettive
dell’estensione e del moto, come voleva Cartesio, essendo la materia, il
moto e lo spazio nostre ipotesi razionali che ci servono per spiegare la
realtà (vedi problema 1, schema pag. 3).
F ENOMENISMO E CONVENZIONALISMO
Azione oggetti esterni
Sensazioni soggettive
capacità ___________________________
____________________
elaborazione della ragione
scienza:
1 – riguarda le _________________________
convenzioni
Valore universale del sapere
e
non ___________________________
- opera dell’ ______
- sapere __________
2 – organizzata in vista ___________________
e non __________
3 – seguendo ____________________________
- valore _________
e non _________
La filosofia di Hobbes cerca pertanto di conciliare l'empirismo con il razionalismo.
Da un lato, infatti, i suoi presupposti gnoseologici sono sensistici: senza esperienza
Empirismo e ________________________
sensibile non sono possibili né i concetti né la conoscenza. D'altro lato, la
conoscenza al suo più alto livello - la scienza - è un sapere che, pur ricavando dall'esperienza il materiale conoscitivo, si fonda su un sistema di rapporti logici costruito
dalla ragione. Hobbes però, e in questo sta la sua modernità, non ha una
concezione metafisica della ragione che è vista come una semplice
capacità operativa dell’uomo.
Da questo punto di vista Hobbes può sottolineare il carattere
LA RAGIONE COME CAPACITÀ DI CALCOLO
essenzialmente umano, costruttivo, operativo del sapere.
La ragione umana non è una sostanza metafisica quanto invece una
capacità operativa destinata ad elaborare i risultati delle sensazioni. Il
linguaggio è lo strumento che essa utilizza per individuare, selezionare i
dati sensoriali, il pensiero organizza i dati che possono essere combinati
seguendo determinate regole, legate, come vedremo, all’oggetto della
conoscenza.
Il ragionare è, per Hobbes, un connettere o disgiungere nomi, definizioni,
proposizioni conformemente a delle regole fissate per convenzione.
Ragionare è calcolare, anzi più propriamente, un sommare e sottrarre. Per
esempio:
Sensazioni, ________________________ e
____________________________
Ragionare come ______________________
e _________________________
26
uomo = corpo animato + razionale
animale = corpo animato - razionale
Hobbes non esclude che il ragionare sia anche moltiplicare e dividere, ma
ritiene che tali operazioni siano comunque riconducibili l’una, la
moltiplicazione, al sommare e l’altra, la divisione, al sottrarre.
Questa concezione del ragionare, inteso come “comporre”,“scomporre” e
“ricomporre”, basato sui segni linguistici, nonché il relativo sfondo
convenzionalista, sono di una eccezionale modernità. Infatti, ad esempio,
uno dei principi su cui si fondano i tentativi odierni di costruire “macchine
pensanti” è quello di considerare il pensiero umano come una serie di
funzioni, governate dalle regole dell’analisi logico-matematica che
decompone e ricompone in infinite combinazioni i propri dati.
Anche il ragionamento causale, su cui si fondano la scienza e la filosofia, è
una forma di calcolo, in quanto dire che tra due vocaboli vi è un rapporto
di antecedenza o conseguenza significa aggiungere al primo, l’antecedente,
il secondo come conseguenza; viceversa negare questo rapporto significa
sottrarre il secondo al primo.
La filosofia e le scienze in quanto basate sul ragionamento causale saranno
conoscenze delle cause generatrici e il loro valore e il metodo
dipenderanno dal tipo di oggetto a cui si applicano (vedi problema 2,
schema pag. 3).
Una conoscenza certa e assoluta si può ottenere solo in quelle scienze che
si occupano di oggetti creati dall’uomo stesso. Infatti, in questo caso, è
possibile partire dalle cause/principio e produrre/conoscere tutti gli effetti
con un ragionamento di tipo deduttivo. Tale ragionamento è applicabile
solo alle scienze geometrico-matematiche e alle scienze politiche. Infatti, è
l’uomo stesso che costruisce le figure geometriche e che crea sulla base di
una convenzione liberamente stabilita lo Stato.
Proprio perchè geometria e politica si occupano entrambi di oggetti creati
dall’uomo, Hobbes ritiene che il metodo deduttivo della geometria
euclidea possa essere applicato anche alla politica.
Per tutti quegli oggetti che invece non dipendono dall’uomo, perché non
sono da lui prodotti, si potrà avere solo una conoscenza ipotetico-deduttiva
che dagli effetti risale alle possibili/ipotetiche cause. E questo è il caso
delle scienze naturali.
Inoltre, la filosofia e la scienza potranno esclusivamente applicarsi allo
studio dei corpi, di ciò che e materiale, poiché soltanto ai corpi si può
attribuire un processo di generazione.
Di conseguenza Dio, gli angeli e in generale tutte le cose incorporee
risultano inconoscibili e non possono essere oggetto della filosofia e della
scienza, ma solo di fede e della rivelazione.
Coerentemente con questa visione materialistica della conoscenza, Hobbes
ritiene che anche lo “spirito umano”debba venir spiegato in termini di
materia e movimento e sostiene una concezione rigidamente deterministica
della volontà e della libertà dell'uomo.
Computer:
il pensiero come _____________________
Il ragionamento ___________________:
stabilire relazioni di _________________ e
__________________________________
Filosofie e ____________________ =
1 - conoscenze delle ___________________
a – oggetti _________________________
ragionamento ____________________ =
conoscenza ________________________
scienze: _____________________________
___________________________________
b - _________________________________
ragionamento ________________________
_______ certa
scienze ____________________________
2 - ________________________________
_________________________________
la visione __________________________ e
________________________ dell’uomo
L’INTERPRETAZIONE MATERIALISTA
E MECCANICISTA DELL’UOMO
Come abbiamo detto Hobbes distingue i corpi in naturali e artificiali, a seconda
L’uomo come ente _________________:
che siano prodotti dalla natura o dall'uomo.
L'uomo costituisce in questa classificazione un termine medio, dal momento che
- naturale (_________________)
è indubbiamente un corpo naturale, e anzi il più perfetto, ma al tempo stesso è
l'artefice del corpo politico e degli altri corpi artificiali.
- _________________ (_______________)
Come si può dedurre dalla gnoseologia hobbesiana, l'essere umano è caratterizzato dalla sensibilità, da cui prende il via tutta l'attività conoscitiva: la sensazione, in quanto azione meccanica di corpi su altri corpi, fa sì che l'uomo si trovi
immerso nell'universo materiale dei corpi, condizionato dai meccanismi di
27
LA SPIEGAZIONE MECCANICISTA DEL
interazione causale in esso agenti. L'uomo è dunque un corpo che subisce e
COMPORTAMENTO UMANO
agisce il movimento, sente e reagisce: la sua natura è essenzialmente un
crogiuolo di sensazioni e passioni.
Una simile visione porta Hobbes a ricondurre i fenomeni psicologici alla logica
della corporeità e del movimento, semplificando al massimo la natura umana.
L'uomo è sostanzialmente un essere sensibile, i cui pensieri e azioni sono
ricostruibili secondo schemi causali necessari. Poiché infatti l'uomo è spinto ad
agire da impulsi egoistici di autoconservazione, la sua esistenza è governata
dalla ricerca dell'utile, i cui meccanismi sono per Hobbes assolutamente rigidi e
scientificamente spiegabili.
Se una cosa facilita la conservazione della sua esistenza, essa provoca
nell'individuo un sentimento di piacere, che ripetendosi si tramuta in desiderio;
se una cosa ostacola invece l'autoconservazione, essa provoca un sentimento di
dolore, che, consolidandosi, si trasforma in avversione.
Da un punto di vista fisiologico, i sentimenti di piacere e dispiacere sono
connessi con il mantenimento o lo stravolgimento degli equilibri corporei. Il
movimento suscitato negli organi del corpo umano dall'oggetto della sensazione
incontra la tendenza inerziale all'autoconservazione che muove il corpo stesso. Il
movimento prodotto dalla sensazione, a seconda che faciliti o ostacoli il
movimento vitale dell'autoconservazione, si traduce sul piano psicologico in
piacere o dispiacere.
Proprio perché riconducibili alla struttura materiale e meccanica del corpo uomo,
le passioni, effetti e causa di un movimento meccanico, determinano il
comportamento umano. L'azione umana, fondata sulle passioni, non si distingue
dunque in modo radicale dai meccanismi dell'agire animale.
Da queste considerazioni risulta che le nozioni di bene e male non sono affatto
assolute, ma del tutto relative alle esigenze autoconservative contingenti: bene è
ciò che un uomo desidera, male è ciò da cui fugge. L'unico fine (e in questo
senso il bene supremo) che regola il comportamento umano è appunto
l'autoconservazione, e sulla base della conformità a questo fine vengono
calcolati il singolo bene o il singolo male.
Tale lettura delle passioni impedisce di giudicare moralmente le azioni e di
codificare norme di azione, dal momento che non vi sono criteri assoluti su cui
poterle fondare. Allo scienziato morale rimane solo il compito di elencare,
classificare e descrivere gli atteggiamenti, i comportamenti e le passioni
dell'uomo.
I costumi sono solo l'effetto di una stabilizzazione di alcuni calcoli di bene e
male. Dunque i vizi e le virtù, che sulla base di questi costumi vengono distinti,
sono anch'essi relativi, come il bene e il male da cui derivano.
Meccanicamente determinate da desideri e avversioni sulla base della loro
positività o negatività ai fini dell'autoconservazione, le azioni non sono frutto di
libere scelte.
La volontà è infatti il necessario risultato di un contrasto di movimenti interni,
quindi non si può volere diversamente da come si vuole. L'uomo è libero solo LA _______________ DELL’UOMO
nel senso che, una volta determinatasi la volontà, egli può fare ciò che vuole,
l’uomo è libero non nel _____________
cioè non vi sono impedimenti al compimento dell'azione.
Ogni volta che opero una scelta, c'è sempre una causa. Quella che gli uo- ma nel poter ________________________
mini, in genere, chiamano libertà, per Hobbes consiste nell'assenza di vincoli
esterni, non nell'assenza di cause. Ad esempio: bevo perché ho sete. Certo,
potrò considerarmi libero se nessuno mi impedirà di farlo, ma non sono
comunque "libero di non avere sete". Da questo punto di vista l'uomo è
identico a tutti gli altri animali.
A parere di Hobbes, se le passioni manifestano la tendenza autoconservativa
dell'uomo, tuttavia il caos emotivo non consente di trovare gli strumenti più
La guida della ______________
adeguati per raggiungere tale scopo.
Perché sia garantita la conservazione è invece necessaria la guida della ragione,
28
che consente all'uomo il riconoscimento delle azioni realmente utili o dannose,
permettendogli una valutazione più pacata e previdente di quella esclusivamente
basata sull'irruenza delle passioni, che lo inclina alla scelta di un bene apparente
e immediato.
La ragione non fa però parte della natura essenziale dell'uomo, che è appunto La ragione come ________________
sensibile, ma è piuttosto una capacità che l'uomo acquisisce dopo una lunga
pratica. Il linguaggio, strumento della ragione, ne è l'elemento distintivo, poiché acquisita
consente all'uomo, a differenza degli animali che non ne dispongono, di
enunciare previsioni e perciò di subordinare il desiderio immediato all'utile
futuro, più durevole e significativo.
La ragione, quindi, indica all'uomo quali sono i mezzi più adeguati per la propria
conservazione, individuando come condizione preliminare della sua
realizzabilità la pace.
La convivenza civile e la sottomissione allo Stato scaturiscono allora da un
istinto utilitaristico: la ragione fornisce la strategia per il raggiungimento
dell'istintivo scopo autoconservativo. È su queste basi antropologiche che
Hobbes costruisce la sua scienza politica ovvero la «filosofia civile»7.
LA SPIEGAZIONE MECCANICISTA DEL COMPORTAMENTO UMANO
Nell’uomo il comportamento è dettato da _____________________________________
No
avversione
Autoconservazione
___________________
= __________
 ______________________________
SI
____________________
costumi = _______________________________
_______________
causa _____________  passioni
= _____________
uso _________________ = prevedere futuro:
 ______________________
_______________
Conseguenze: 1 relatività __________________________________
2 ______________________________________________
HOBBES
________________
1subordinare _____________________
2 stabilire __________ per
l’autoconservazione: a) _____________
pacifica b) ________________________
E I PROBLEMI POSTI DAL NUOVO SAPERE
1 giustificazione nuovo sapere: la scienza è __________________ ________________________________________________________
_____________________________________________________________________________________________________________
Ruolo soggetto:________________________________________________________________________________________________
_____________________________________________________________________________________________________________
2 il metodo scientifico: __________________________________________________________________________________________
_____________________________________________________________________________________________________________
3 la concezione della realtà: _______________________________________________________________________________________
_____________________________________________________________________________________________________________
4 Dio: _____________ ___________________________________________________________________________________________
7
Per il pensiero politico di Hobbes vedi la dispensa “14 - La filosofia moderna e la politica”
29
3 - John Locke: l’esperienza come fonte della conoscenza
La risposta non tradizionale degli empiristi
Uno sguardo generale
L’indagine sull’intelletto
L’origine empirica della conoscenza:sensazione e riflessioni
Idee semplici e idee complesse
La critica dell’idea di sostanza
La conoscenza umana tra certezza e probabilità
JOHN LOCKE: L’ESPERIENZA COME
FONTE DELLA CONOSCENZA
LA RISPOSTA NON TRADIZIONALE
DEGLI EMPIRISTI
L’empirismo è una risposta meno tradizionale di quella di Cartesio rispetto
all’elaborazione di una nuova concezione della realtà in accordo con le scoperte
scientifiche e alla giustificazione di queste scoperte e del ruolo dell’individuo nel
processo conoscitivo, in quanto non vuole ricorre, come anche Hobbes, a
concetti metafisici. Gli empiristi si propongono di basare le loro considerazioni
esclusivamente sulle osservazioni relative al nostro modo di elaborare le
conoscenze e sulla nostra reale esperienza del mondo esterno. Questa scelta
viene motivata in base al fatto che in questo modo procede anche la scienza. Gli
empiristi ritenendo che questo sia il metodo scientifico, riducono il metodo
scientifico a quello induttivo. La posizione empirista è stata proposta dapprima
da John Locke (1632-1704) e in seguito approfondita e radicalizzata nelle sue
conseguenze più scettiche da David Hume (1711-1776).
Dai concetti ________________________
alle ______________________ del nostro
____________________________________
____________________________________
(come procede la _______________)
Locke e ___________
LOCKE: UNO SGUARDO GENERALE
TRA EMPIRISMO E RAZIONALISMO
John Locke (1632-1704)8 è considerato il fondatore del cosiddetto empirismo
inglese moderno, nettamente contrapposto al razionalismo di Cartesio, Spinoza e
Leibniz, benché in realtà si proponga piuttosto di riformare il razionalismo,
cercando di fondere esperienza e ragione.
Alla base di questo tentativo vi è certo una concezione della ragione e della
conoscenza profondamente diversa rispetto a quella di Cartesio. Si è visto che
per quest'ultimo la ragione è una facoltà conoscitiva assoluta, fondata
sull'elemento metafisico della res cogitans («sostanza pensante») e dunque al di
sopra di ogni condizionamento empirico. Così intesa, la ragione è ritenuta capace
di attuare un processo conoscitivo interamente a priori e intuitivo-deduttivo. Per
Locke, invece, la ragione è una funzione conoscitiva condizionata
dall'esperienza, dalla quale deriva tutto il materiale su cui essa opera e da cui le
possibilità conoscitive dell'uomo risultano strutturalmente limitate.
Prendendo le mosse da questi presupposti, Locke pone al centro della propria
indagine filosofica la questione di comprendere e definire in maniera rigorosa
quale sia l'estensione della conoscenza umana: questione cui è dedicata la sua
opera principale, il Saggio sull'intelletto umano. Il ruolo determinante nella
genesi dell'indagine lockiana sui limiti dell'intelletto umano è giocato però
soprattutto da esigenze di carattere pratico, ossia che riguardano l'agire concreto
in campo morale e/o religioso.
Il filo che collega l'indagine gnoseologica e l'indagine etico-religiosa di Locke è
costituito dalla questione della tolleranza e della possibilità di una convivenza
pacifica tra uomini di diverse confessioni religiose e diverse visioni politiche.
Locke riconduce, infatti, gran parte dell'odio settario sprigionatosi durante la
Locke e _________________
Cartesio:
conoscenza _____________________
non dipendente da _________________
metodo ________________________
Locke:
conoscenza _____________________
dipendente da _________________
metodo ________________________
L'INDAGINE GNOSEOLOGICA E L'INDAGINE
ETICO-RELIGIOSA
Il problema di Locke:
_________________________________
in campo ______________________
8
Tra le opere di Locke ricordiamo: “Il saggio sull’intelletto umano” (1688), per quanto riguarda la teoria
della conoscenza. Per la vita e le opere Locke vedi pag. 83.
30
guerra civile inglese - e ancora radicato in molti suoi contemporanei - alla
presunzione di ritenersi possessori di verità indubitabili. Di conseguenza, per
estirpare l'intolleranza, egli ritiene indispensabile eliminare questa forma di
presunzione attraverso un'analisi del funzionamento della mente umana.
Per Locke, l'acquisizione della consapevolezza del fatto che su alcuni problemi
nessuno è in possesso di risposte definitive, né mai potrà esserlo, dovrebbe
renderci più tolleranti nei confronti delle opinioni altrui.
Il Saggio sull'intelletto umano è, in effetti, una specie di ricognizione all'interno
della mente, che nasce dalla riconosciuta necessità di un'indagine preliminare
alla riflessione sui temi etico-politici e religiosi, che interessano primariamente
Locke.
Nella Epistola al lettore9, premessa al Saggio, egli ricostruisce il motivo primo
delle sue indagini sul problema della conoscenza, suggerite dalle discussioni con
un gruppo di amici su argomenti di carattere morale e religioso, discussioni
senza sbocco a causa dei dubbi e delle divergenze di opinione, che non si riusciva a dissipare.
«Dopo esserci affaticati per qualche tempo, senza avere fatto un passo avanti
nella soluzione dei dubbi preliminare sull'intelletto che ci imbarazzavano, mi
venne fatto di pensare che eravamo su una strada sbagliata; e che, prima di impegnarci in ricerche di quel genere, era necessario esaminare le nostre stesse
capacità, e vedere quali oggetti siano alla portata della nostra intelligenza, e quali
invece siano superiori alla nostra comprensione. Sottoposi questo pensiero alla
compagnia, e tutti senz'altro mi approvarono.»
Locke si propone di chiarire quali siano le reali possibilità di conoscere degli
uomini, si propone cioè di accertare le competenze, i campi di applicazione, i
limiti della conoscenza umana. Prima di guardare alla realtà, è il suo invito,
guardiamo al nostro intelletto. E per fare un'opera che sia utile a molti, scrive in
inglese, con linguaggio chiaro e semplice, pressoché privo di tecnicismi 10.
Il Saggio condivide con il Discorso sul metodo di Cartesio l'intento di dare
indicazioni pratiche a chi si appresta a imboccare la via della conoscenza. Le
posizioni di Locke sono però lontane da quelle cartesiane. Di fronte a sistemi
filosofici come quelli di Cartesio (e di Spinoza), secondo cui ogni cosa può
essere conosciuta, dedotta, ordinata dentro il quadro sistematico del sapere,
Locke avanza dei dubbi e invita a mutare l'orientamento delle indagini,
analizzando prima di tutto il modo di funzionare, l'affidabilità, i confini della
conoscenza umana.
al fine di __________________________
Emerge nel Saggio un nuovo modo di intendere la ragione, che non appare più
come uno strumento universalmente valido, del tutto sicuro nel suo procedere
matematico, in perfetta corrispondenza con le strutture oggettive del reale (nel
parallelismo fra la res cogitans e la res extensa, fra l'ordine delle idee e l'ordine
delle cose).
La ragione umana non è universale — come dimostra la varietà delle opinioni —
La nuova immagine della _____________:
dovuta a presunzione __________________
___________________________________
Dalle riflessioni _________________
e ___________________ al problema della
_________________________________
L’intento di ________________________
_____________ (come in ______________)
L’INDAGINE SULL’INTELLETTO
L’ORIGINE EMPIRICA DELLA
CONOSCENZA:SENSAZIONE E RIFLESSIONI
non _________________________, _____
_________________, _________________
__________________________________
9
Vedi “A – Che cos’è la filosofia? 0 – Socrate, Cartesio, Kant, Nietzsche, Horkheimer, Locke e la pratica
filosofica”
10
La prospettiva filosofica che assume come oggetto gli strumenti della conoscenza chiedendosi che cosa
e come l'uomo può conoscere, è designata con il termine «criticismo». Con esso si indica l'indagine sulle
possibilità e i limiti della conoscenza umana, per la quale ci si chiede non che cosa sia la realtà, ma in che
misura e come i nostri strumenti ci consentano di conoscerla. Il criticismo verrà compiutamente definito
da Kant, anche se nella Critica della ragion pura egli accusa Locke di voler derivare dall'esperienza i
concetti generali e lo considera soltanto come un rappresentante dell'empirismo. Una delle conseguenze
principali del criticismo è la necessità, una volta determinati i limiti della conoscenze umana, di
rinunciare ad affrontare ciò che supera tali limiti e non è quindi conoscibili con gli strumenti che l'uomo
possiede: in particolare, supera tali limiti l'intero ambito tradizionalmente compreso nella metafisica.
31
né infallibile, né autosufficiente, tanto da avere bisogno di una base empirica per
funzionare, e non è nemmeno lo specchio del mondo reale nella sua struttura
profonda.
Nel primo libro del Saggio, Locke sottopone a critica le dottrine che sostengono
l'esistenza di idee e di principi speculativi e morali innati nella mente umana,
come per esempio afferma Cartesio a proposito delle verità matematiche e dei
principi logici.
La confutazione lockiana delle idee innate risponde all'intento più generale di
combattere l'accettazione cieca dei principi, deleteria sia in quanto ostacolo allo
sviluppo della scienza sperimentale, sia in quanto base di tutte le forme di
oppressione politica. Secondo Locke, infatti, l'innatismo avrebbe costituito un
pretesto per sottrarre alcune idee a ogni possibile discussione, facendole passare
per principi da assumere in maniera incondizionata, senza sottoporli ad alcuna
verifica.
La fortuna incontrata dall'innatismo sarebbe poi da imputare principalmente alla
pigrizia della maggior parte degli uomini, poco propensi a impegnarsi in un
esame critico dei fondamenti della propria visione del mondo e della propria
condotta.
In questa prospettiva, la critica di Locke all'innatismo risulta dunque,
innanzitutto, come' una esortazione al libero uso della propria ragione e
all'elaborazione autonoma delle proprie esperienze.
La critica di Locke si basa su due ordini di considerazioni. In primo luogo: se
anche ammettiamo l'esistenza di alcune verità sulle quali tutti gli uomini si
trovano d'accordo, ciò non significa di per sé che tali verità siano innate, se si
può dimostrare che esiste un motivo per cui sì è venuti a quelle concordanze.
Inoltre, non è vero che almeno su alcuni principi teorici, morali o religiosi, ci sia
un comune accordo fra gli uomini. Basta pensare — osserva Locke — ai
bambini, agli ignoranti, agli idioti (che non hanno alcuna idea, per esempio, del
principio di identità o di non contraddizione) per verificare come tali principi
non siano da sempre impressi nella mente. Così per quanto riguarda i principi
della morale o le idee religiose: molti popoli non conoscono quelle leggi etiche»
che noi consideriamo irrinunciabili e hanno consuetudini a nostro giudizio
orrende, come dimostrano le recenti testimonianze provenienti dai viaggi nei
nuovi continenti, o l'assenza dell'idea di Dio. Locke, però, tiene a precisare che
negare il carattere innato dell'idea di Dio non equivale a negare la sua esistenza,
così come il fatto che gran parte dell'umanità non abbia né la nozione di calamita
né un nome per designarla non prova in nessuna maniera la sua inesistenza.
Anticipando un'eventuale obiezione dei sostenitori dell'innatismo, ovvero che le
categorie di persone citate come prova dell'inesistenza di idee innate potrebbero
disporre di tali idee in forma latente, implicita e inconscia, Locke ribatte che
l'ipotesi non è sostenibile, in quanto il pensiero consiste nel possesso di idee, e
possedere un'idea vuol dire essere coscienti di essa.
È vero che nel conoscere umano sono presenti idee e principi generali, ma essi
derivano tutti dal piano empirico, dal contatto con le cose. La mente umana in
origine è come un foglio bianco sul quale non è scritto nulla, e solo
gradualmente si riempie di segni grazie all'esperienza, la quale è anche lo strumento che garantisce la validità delle idee che si vanno formando nella mente.
L'esperienza che sta a fondamento del conoscere è duplice. L'esperienza esterna
o sensazione fornisce le idee che provengono, tramite i cinque sensi, dagli
oggetti esterni, dai corpi fisici esistenti fuori di noi. L'esperienza interna o
riflessione fornisce le idee relative ai fatti psichici interni, come gli stati d'animo
e le passioni, le operazioni della mente, percepire, dubitare, credere, gli atti della
volontà. Questa percezione interna è originata da una specie di senso, anch'esso
interno, comune a tutti gli uomini, che è in grado di percepire e osservare
(«riflettere») la mente mentre compie le proprie operazioni. Gli uomini hanno
quindi un accesso privilegiato a tutti i propri atti mentali (volizioni, pensieri,
LA CRITICA ALL’INNATISMO
Innatismo deleterio perché:
2 accettazione _______________________
1 ________________________________
___________________________________
accettato per ________________________
Le critiche all’_____________________:
1 – se esistono idee _______________
è possibile dimostrare _________________
2 – non ____________________________
come dimostrano __________________
_____________________________
non ______________________________
comuni come dimostrano ______________
______________________________
le idee sono ________________________
La mente come _____________________
32
credenze, memorie ecc.).
La sensazione e la riflessione sono le uniche fonti del conoscere. Di qui,
l'infondatezza di ogni sapere che pretenda di fare a meno dell'esperienza.
idee = _____________________________
Locke usa il termine idea per designare qualsiasi contenuto della mente, secondo
il significato cartesiano dell'idea come oggetto immediato del pensiero. Noi non idee ≠ _______________
conosciamo direttamente le cose, ma le idee delle cose, in quanto le idee sono il
riflesso nella nostra mente della realtà esterna, sono rappresentazioni, immagini,
che stanno al posto delle cose e costituiscono il vero e proprio oggetto della
mente. Ma a differenza di Cartesio, per il quale esistono delle idee innate, Locke
afferma che tutte le idee hanno origine e fondamento nell'esperienza.
IDEE SEMPLICI E I DEE COMPLESSE
Una volta chiarita l'origine empirica delle nostre conoscenze, Locke procede alla
ricognizione sistematica e all'analisi dei vari tipi di idee indagando da dove
provengano le idee che si presentano via via all'uomo.
Le idee originarie che provengono dalla percezione degli oggetti esterni e dalle
operazioni interne del nostro spirito sono definite da Locke idee semplici rispettivamente di sensazione e riflessione -, poiché contengono una sola qualità
sensibile, o un solo fatto psichico, esse sono semplici perché non ulteriormente
scomponibili in altre idee.
Nei confronti di questo tipo di idee lo spirito si comporta passivamente, cioè le
recepisce come un dato: la nostra mente non può né sottrarsi all'idea semplice, né
inventarne o crearne una.
Dunque le idee semplici pongono la mente in contatto con qualcosa che essa non
ha prodotto, consentendo il riconoscimento dell'esistenza di un mondo esterno.
Su questo presupposto si fonda il realismo di Locke: l'ancoraggio dell'esperienza
a una realtà esterna, che genera le impressioni che producono le idee, è
assolutamente necessario, dal momento che da sé la mente non sarebbe in grado
di costituire le idee semplici, mattoni essenziali di ogni conoscenza.
All'interno delle idee semplici che vengono dal mondo esterno, Locke distingue
le idee di qualità primarie e quelle di qualità secondarie. Le prime appartengono
propriamente agli oggetti, da essi inseparabili; sono le idee di solidità,
estensione, figura, quiete, moto. Le altre dipendono dalle condizioni soggettive
della sensibilità, come gli odori e i colori. Le idee di qualità primarie
riproducono la realtà esterna, le idee di qualità secondarie sono un fatto interno
della mente umana.
Avvertiamo intuitivamente — afferma Locke — che alcune proprietà
appartengono a un oggetto indipendentemente dal fatto che esso ci appaia in un
certo modo, mentre altre proprietà si manifestano grazie alla nostra capacità
soggettiva di percepirle. Per esempio: una cosa è rotonda, pesante, solida
indipendentemente dal fatto che appaia così a chi le sta di fronte; ma essa risulta
dolce, colorata in un certo modo, dotata di certe caratteristiche sonore, perché
appare dolce, colorata, sonora all'osservatore. Il sapore, il colore, la sonorità
sono qualità secondarie.
Ritroviamo in Locke la distinzione fatta da Galilei e da Cartesio fra le qualità
oggettive, esistenti nei corpi, e le qualità soggettive, esistenti solo in noi, nei
nostri sensi o nel nostro pensiero. È la distinzione con cui i pensatori dell'età
moderna segnano una linea di confine tra il mondo come lo vede la scienza (il
mondo delle sole qualità primarie) e il mondo come appare nelle nostre
percezioni quotidiane (tutto pervaso di qualità secondarie).
Tuttavia, mentre tale distinzione risulta coerente in Galilei e in Cartesio, appare
meno fondata in Locke, dal momento che secondo lui è possibile conoscere le
cose solo attraverso le idee — perché noi non conosciamo direttamente le cose,
ma le idee delle cose — e quindi manca qualsiasi criterio per sostenere che certe
qualità — la cui esistenza non può che essere testimoniata dalle idee —
appartengono realmente alla realtà esterna (oggettive) mentre altre non le
idee
≠ _______________ ma
realtà  ________________
qualità primarie = _________________
____________________
qualità ___________ = _______________
____________________
ma poiché non ____________ le cose ma
__________ delle cose come distinguerle?
33
appartengono (soggettive).
Oltre alle idee semplici, Locke ammette un altro tipo di idee: le idee complesse,
vale a dire quella grande varietà di idee derivanti dalla combinazione e
comparazione delle idee semplici conservate nella memoria. Riguardo a questo
tipo di idee la mente umana non si comporta in maniera meramente passiva e
recettiva: esse sono infatti il frutto dell'attività del nostro intelletto, che nella sua
opera di composizione e comparazione ha come unico limite l'esperienza, fonte
delle idee semplici.
Le idee complesse non sono idee generali o universali, come i concetti
aristotelici, perché hanno sempre per oggetto una realtà particolare. Per esempio,
l'idea di un singolo fiore è un'idea complessa che nasce dall'unione di idee
semplici relative alla forma e al colore dello stelo, delle foglie, dei petali, e così
via.
Nell'ambito delle idee complesse Locke distingue tre gruppi: idee di modo, di
sostanza, di relazione.
Le idee di modo sono rappresentazioni di ciò che è percepito come non esistente
per sé ma come dipendente da qualcosa, una sostanza, di cui costituisce un modo
LA CONOSCENZA UMANA
mente
_________
esperienza ______________ ___________________  idee __________________ di ______________________
+
qualità
__________
________
esperienza ______________  ___________________  idee __________________ di ______________________
fonti della __________________________
attività ___________: idee __________________  idee ________________________:
1 – idee di ____________: ciò che è percepito _____________________________________________ (un modo di essere di ___________)
2 – idee di _____________: _________________________________________________________________________________________
3 – idee di ______________: stabiliscono un _________________ fra idee: a - ____________________ b - ________________________
di essere, una determinazione. Per esempio, l'idea della bellezza o quella della
generosità non possono esistere se non in relazione all'idea di una persona che
sia bella o generosa.
Spazio e tempo sono per Locke idee semplici, provenienti, nel caso dello spazio,
dalla sensazione che percepisce la distanza fra due punti, nel caso del tempo,
dalla riflessione, che percepisce la successione interna delle idee.
Le idee di sostanza sono le rappresentazioni di ciò che è percepito come
sussistente per sé (fiore, uomo, mondo), a cui sono riferite le qualità espresse
dalle idee semplici. Infine, le idee di relazione, che nascono dal confronto o dal
rapporto fra due idee. Nell'ambito delle idee di relazione hanno particolare
importanza l'idea del rapporto fra causa ed effetto e l'idea dell'identità di una
cosa con se stessa.
Con il termine causa Locke indica ciò che produce qualunque idea, semplice o
complessa; con il termine effetto, ciò che ne è prodotto. Per spiegare il rapporto
di causalità egli ricorre a un esempio: consideriamo la sostanza chiamata cera;
verifichiamo che la fluidità — un'idea semplice che inizialmente non appare —
si produce quando viene applicato un certo calore; allora diciamo che l'idea
semplice di calore è la causa della fluidità della cera e la fluidità è l'effetto del
calore.
L'identità riguarda in generale il rapporto di una cosa con se stessa, considerata
in tempi e/o luoghi diversi. Caso particolare dell'identità è quello dell'Io, il
34
soggetto del pensiero, consapevole di essere sempre identico a sé, nel variare
delle percezioni.
LA CRITICA DELL’IDEA DI SOSTANZA
La principale delle idee di sostanza è l'idea stessa di sostanza11. Per definire che
cos'è una sostanza, bisogna considerare il modo in cui, secondo Locke, si formano le idee.
Nella nostra esperienza osserviamo che molte idee semplici si presentano sempre
unite fra loro e questo spinge a considerarle una sola idea semplice. Per esempio,
la luminosità, il calore, la forma tondeggiante, la regolarità del moto nel cielo si
presentano sempre unite in quello che chiamiamo sole; presumendo che quelle
idee appartengano alla stessa cosa, vengono chiamate con un solo nome. Si crede
poi che a questo nome corrisponda una sola idea semplice (mentre il nome sta al
posto di un insieme di idee semplici). E poiché le idee semplici sono sempre
riferite agli oggetti di cui sono qualità, siamo indotti a presupporre l'esistenza di
qualcosa che faccia da fondamento oggettivo dell'idea semplice che abbiamo
erroneamente immaginato. Il presunto oggetto di quella falsa idea semplice è ciò
che viene comunemente chiamato sostanza: il sostrato comune, il sostegno delle
varie qualità percepite (nel senso aristotelico per cui la sostanza è il sostrato
degli accidenti, ciò che "sta sotto" agli accidenti). Per esempio, la sostanza
«sole» è ciò che fa da sostrato alle qualità luminoso, caldo, tondeggiante ecc.
L'idea di sostanza è perciò l'idea di un (oscuro) sostrato delle qualità.
Le idee delle specie particolari di sostanze (uomo, albero, cavallo ecc.) sono le
idee di ciò che si suppone "stia sotto" alle varie collezioni di idee, o di qualità,
che si presentano sempre congiunte insieme.
Se io elimino mentalmente a una a una le qualità di una sostanza (per esempio,
se elimino dalla sostanza «sole» la luminosità, il calore, la forma rotonda, e così
via), come se sfogliassi una cipolla strato dopo strato alla ricerca del nucleo, alla
fine non trovo la presunta sostanza, perché non mi resta nulla.
Ne consegue che delle sostanze (uomo, cavallo) non abbiamo alcuna idea chiara
e, in riferimento a ciascuna di esse, possiamo solo parlare dell'unione costante di
un certo numero di idee semplici. Perciò è inutile andare alla ricerca di forme
sostanziali che permettano di conoscere la vera essenza delle cose; noi possiamo
conoscere solo l'essenza nominale, cioè il significato del nome a cui ricorriamo
per identificare una determinata sostanza, ovvero una determinata collezione di
idee; ma il nome indica soltanto, non spiega che cos'è una determinata cosa.
Così come si presenta, l'idea di sostanza è un'idea oscura, che si riferisce a
qualcosa che nessuno ha visto né vedrà mai, un presupposto che sta al di là
dell'esperienza umana, la quale fornisce direttamente solo idee semplici,
attraverso la sensazione e la riflessione. Essa perciò oltrepassa le capacità
conoscitive dell'uomo. Se pure esiste, la sostanza è dunque inconoscibile; facendo riferimento a essa, gli uomini pretendono di spiegare ciò che non
conoscono con qualcosa che è a sua volta inconoscibile.
11
Locke ha di mira la tradizione di pensiero risalente ad Aristotele, che aveva utilizzato il termine
«sostanza» in diverse accezioni, riconducibili però essenzialmente a tre significati: in primo luogo, nel
senso di «sostrato», vale a dire di soggetto che regge i diversi predicati dell'essere; in secondo luogo,
come sinonimo di «forma», cioè di essenza necessaria e universale, insita nelle cose sensibili e
fondamento della possibilità della scienza intesa come conoscenza certa e immutabile, sottratta
all'ondeggiare dell'opinione; infine, nel significato di "questo qui", vale a dire di sostanza individuale,
che è unità inscindibile di forma e materia.
Nella tradizione filosofica medievale il nesso tra la sostanza come sostrato e come essenza a necessaria
era stato ulteriormente rafforzato, provocando la divisione della realtà in due piani: da un lato, le
manifestazioni esteriori, cangianti e accidentali della sostanza; dall’altro, l'essenza o il sostrato delle cose,
intesa come il fattore nascosto che spiega la compresenza necessaria degli attributi in un oggetto,
rendendo possibile la conoscenza scientifica di esso.
35
Esperienza = unione costante di + idee ______________ riferite a un _____________ di cui sono _____________  __________ di
cosa particolare
genera la presunzione della sostanza = _______________ delle qualità inconoscibile perché
se eliminiamo ciascuna __________________________ non resta nulla
idea complessa
se comune a più ________  idea ___________ o ______________
Il discorso di Locke sulla conoscibilità della sostanza è strettamente connesso
con l'analisi delle idee generali e dei termini corrispondenti, vale a dire i termini
generali o universali che costituiscono la componente principale di tutte le lingue
(come uomo, animale, e così via): analisi che costituisce il nucleo del III libro
del Saggio sull'intelletto umano, dedicato al linguaggio.
Per Locke, infatti, le nostre idee delle varie specie particolari di sostanza - come
l'idea di uomo o di cavallo - sono idee generali, che lo spirito forma a partire da
idee complesse di sostanze individuali, astraendo dalle circostanze determinate
in cui queste gli si sono presentate e connettendo una serie di caratteri in cui esse
concordano. Per esempio, l'idea di uomo è per Locke necessariamente preceduta,
nella nostra mente, dall'idea di Pietro, Paolo, Marco ecc., vale a dire da idee
complesse di individui che hanno una pluralità di caratteri, di cui alcuni comuni
e altri differenti. Solo in un secondo momento, lo spirito forma l'idea di uomo,
astraendo dai tratti peculiari di ciascun individuo (i capelli rossi di Marco o gli
occhi verdi di Paolo) e connettendo invece quelli in cui essi concordano.
Per Locke la mente può formare idee generali solo a partire da quelle particolari,
in quanto nell'esperienza - che è l'unica fonte della nostra conoscenza - non si dà
alcuna entità universale. Nella realtà che osserviamo esistono solamente cose
particolari. Gli universali sono unicamente delle costruzioni convenzionali
dell'intelletto umano, cioè le idee astratte e i termini generali che l'uomo adopera
per designarle.
Riprendendo la concezione convenzionalistica del linguaggio - avviata da
Guglielmo di Ockham e continuata da Hobbes -, Locke ritiene infatti che tutte le
parole non siano altro che segni sensibili esterni che gli uomini stabiliscono in
maniera convenzionale per fissare, ricordare e comunicare le idee invisibili di
cui sono composti i loro pensieri.
In base a quanto detto, risulta che nella prospettiva lockiana la nostra
classificazione delle cose in generi e specie non rispecchia un ordine gerarchico
oggettivo di essenze reali, fisse e stabili: le essenze reali - cioè la sostanza - sono
per Locke inconoscibili. Egli ritiene, di contro, che i termini generali che
adoperiamo per designare le specie esprimano solo le idee astratte, frutto di una
creazione autonoma dell'intelletto e dunque suscettibili di variazione. Il
progresso scientifico e la ricerca sperimentale possono consentirci di scoprire un
carattere in più posseduto dai membri di una determinata specie. Questo
carattere nuovamente acquisito può e deve essere incluso nella definizione di
un'idea astratta, che può tranquillamente essere ampliata o corretta.
Questa operazione di ampliamento e correzione non è invece possibile partendo
dalla concezione tradizionale della sostanza come essenza necessaria, cara alla
tradizione: secondo tale teoria, infatti, un ente eterno e necessario non può subire
arricchimenti né variazioni. Da quanto detto, emerge in modo chiaro come la
trattazione lockiana della sostanza abbia un obiettivo positivo: quello di
impostare su nuovi fondamenti - vale a dire i fondamenti della ricerca
LA CONCEZIONE _____________________
DEL LINGUAGGIO
esperienza = _____________________
idee _________________________
idee _____________ di sostanze individuali
caratteri
_____________
idee di ___________ (________________)
= __________________
= segni ________________
________
Classificazione __________ / __________:
no ____________________ , no ordine
_________________________
ma _____________________ in base alla
_________________________
importanza per _____________________
36
sperimentale empirica - la scienza della natura. Affermando l'inconoscibili della
sostanza, Locke critica l'impostazione dei naturalisti tradizionali che, convinti di
riflettere con le loro classificazioni un ordine gerarchico di essenze stabili e fisse,
erano poco aperti ai dati dell'esperienza.
La critica di Locke porta a escludere che le sostanze possano essere conosciute
dalla mente umana, ma non esclude la loro esistenza. Anzi la riafferma, considerando che la sensazione e la riflessione inducono rispettivamente a pensare che
esistano sostanze materiali, solide ed estese, e sostanze spirituali, dotate di
pensiero e volontà.
La stessa distinzione fra qualità primarie e secondarie fa intravedere l'esistenza
di caratteri che appartengono oggettivamente ai corpi estesi — le qualità
primarie — al di là del loro rapporto con il soggetto, mentre solo le qualità
secondarie dipendono dalla sensibilità soggettiva. Ma se la sostanza è
inconoscibile, come si può affermarne l'esistenza al di fuori della mente umana?
Ovvero: come è possibile distinguere fra qualità primarie e qualità secondarie?
Nonostante queste incertezze le argomentazioni di Locke avranno larga
influenza sullo sviluppo del pensiero filosofico successivo, la cui conseguenza
più rilevante è la crisi delle dottrine metafisiche, che ammettono l'esistenza di
realtà sostanziali oggettivamente presenti al di fuori della mente umana.
La critica dell'idea di sostanza si riflette anche sulla concezione dell'animasostanza, che in varie forme è presente nell'intero arco del pensiero filosofico
fino a Cartesio (per il quale l'anima è res cogitans, cioè appunto sostanza).
L'anima-sostanza costituisce il sostrato permanente delle diverse percezioni di
un individuo e come tale garantisce l'identità dell'Io nel corso del tempo.
Proprio la sicura presenza dell'anima-sostanza che fa da sostrato consente di
cogliere l'unità di esperienze che avvengono in successione: per esempio, l'unità
dell'Io che ora si perde nella contemplazione di un tramonto e che poco fa era
impegnato a programmare un lavoro e prima ancora a discutere con un amico, e
così via. Se, in seguito alla critica dell'idea di sostanza, non si può più fare
riferimento all'anima-sostanza-sostrato, com'è possibile ritrovare l'unità dell'Io al
di là dei suoi vari eventi vissuti, del trascorrere del prima e del poi?
Locke è costretto a reimpostare il problema in termini nuovi, fondando l'identità
dell'individuo sull'identità della coscienza, dell'Io, cioè sulla consapevolezza di
sé che persiste nel variare delle percezioni soggettive. È una consapevolezza che
dal presente si apre sia verso il passato sia verso il futuro, tramite un
doppiosguardo, all'indietro, retroattivo, e in avanti, in prospettiva: verso il
passato, sotto forma di memoria, verso il futuro, sotto forma di preoccupazione
per il proprio destino. Ma la memoria non è in grado di trattenere e far rivivere
Locke: le ________________ inconoscibili
ma _______________________
ma fine filosofica delle ________________
UNA NUOVA VISIONE DELL’IDENTITÀ
PERSONALE
UNA NUOVA VISIONE DELL’IDENTITÀ PERSONALE
Metafisica ________________ (Cartesio) :
anima = ___________ - ____________ della molteplicità _____________________________________
Locke
identità ________________ = _______________________________________________________________________________
passato
_____________________
incompleta
________________ _______________________
futuro
_____________________________
Identità personale:
da ___________________________________________________ a ____________________________________________________
37
tutto intero il passato; nello stesso tempo lo sguardo al futuro si accompagna a
un senso di precarietà e incertezza.
La coscienza, allora, non appare più come una cosa strutturata, al pari della
sostanza, bensì come un elemento mobile, che solo attraverso un impegno
laborioso e costante può tenere vive e unite le sue diverse esperienze; ovvero, la
coscienza si costruisce, si consolida e si evolve nel tempo e perciò non è mai
compiuta.
Possiamo rappresentare così la differenza fra la visione propria della metafisica
tradizionale e quella di Locke: da un lato l'anima, in quanto forma compiuta, si
pone come saldo punto di riferimento verso cui converge la pluralità delle `vite'
vissute dal singolo, che nell'anima appunto trovano la loro unità; dall'altro la
coscienza come movimento aperto deve sforzarsi ininterrottamente di ricucire,
nei limiti del possibile, quelle “vite”.
In questo senso Locke apre la via a una nuova concezione dell'identità personale
come continua riconquista di sé (ma anche come riconoscimento della piena
responsabilità dei propri atti “dispersi” nel tempo) da parte del singolo individuo,
ovvero un'identità che appare sempre meno come qualcosa di “dato” e sempre
più come qualcosa di “costruito”.
LA CONOSCENZA UMANA TRA CERTEZZA E
PROBABILITÀ
Il compito di verificare le nostre capacità cognitive, che Locke si era proposto
all'inizio dell'indagine, è così condotto a termine: l'impossibilità di conoscere la
sostanza, l'essenza profonda delle cose, segna i limiti del sapere umano. Non
conoscendo l'essenza, la forma sostanziale delle cose (di uomo, oro, sole),
quando formuliamo delle proposizioni su di esse non possiamo essere sicuri
della loro verità: per esempio, come si può essere certi che determinate qualità si
trovino nell'oro, se non si sa che cos'è l'oro? Perciò non è possibile enunciare
proposizioni universali sulla natura delle cose; la nostra mancanza di idee
relative alle essenze reali — afferma allora Locke — ci rimanda continuamente
alle cose stesse. L'esperienza interviene là dove la ragione non ha mezzi adatti;
solo attraverso l'esperienza è possibile, per esempio, sapere con certezza se quel
corpo giallo, pesante e luminoso che chiamiamo oro sia o non sia malleabile,
ovvero solo l'esperienza mi fa conoscere quali altre qualità coesistono con quelle
di una determinata idea complessa che ho nella mente. In questo senso, per la
funzione attribuita all'esperienza nel processo conoscitivo, la filosofia di Locke è
una forma di empirismo.
L'esperienza tuttavia mi dice solo che una determinata qualità coesiste con altre
in un certo numero di casi sperimentati, non è in grado di dire se - al di là delle
circostanze esaminate - sempre e necessariamente una certa qualità coesiste con
altre qualità. Da ciò deriva la conseguenza che le scienze della natura (la
chimica, la fisica, la medicina) non hanno un valore assoluto - inteso soprattutto
come universale e cioè valido per ogni tempo e luogo - e che dunque le leggi
fisiche, per essere valide, devono essere costantemente confermate da
esperimenti.
La dottrina lockiana delle idee è un modello di empirismo radicale: si è visto,
infatti, che nell'analisi e nella classificazione delle idee Locke è guidato
principalmente dall'intento dimostrare che l'esperienza costituisce l'unica fonte
delle nostre idee - anche di quelle complesse - e che, dunque, fornisce alla mente
tutto il materiale della nostra conoscenza. Tuttavia, si è detto che nel pensiero di
Locke l'empirismo, non si oppone al razionalismo, bensì piuttosto si fonde con
esso. Ciò risulta in modo chiaro se si considera la dottrina lockiana della
conoscenza, esposta nel IV e ultimo libro del Saggio.
Locke non identifica, infatti, conoscenza ed esperienza, poiché così ridurrebbe la
prima alla percezione sensibile delle idee. Di contro, egli concepisce la
conoscenza come la percezione dell'accordo o del disaccordo delle idee tra di
loro, affermando che tale accordo può essere colto in maniera molto più
Sostanza ______________________
allora
conoscenza deriva ___________________
ma la conoscenza non può avere
___________________________________
Esperienza e ______________________
no conoscenza = _________________
conoscenza = __________________ /
______________________ idee
colto dalla _____________________
attraverso:
38
adeguata attraverso le facoltà intuitivo-razionali piuttosto che attraverso i sensi.
La percezione di un accordo o di un disaccordo tra le idee avviene in due modi:
attraverso l'intuizione, quando l'accordo (o il disaccordo) fra le idee è colto
immediatamente; attraverso la dimostrazione, quando è colto in modo mediato,
discorsivo, per mezzo di un ragionamento.
Nel primo caso la conoscenza è certa, perché risulta dall'accordo o dal
disaccordo fra idee confrontate direttamente senza l'introduzione di altri elementi
(per esempio, quando dico: «Il cerchio non è un triangolo»). Nel secondo caso,
invece, l'accordo o il disaccordo fra idee, che non sono direttamente
confrontabili, è certificato attraverso il ricorso a idee intermedie o prove, come
avviene nei ragionamenti, dove la certezza delle conclusioni dipende dalla
correttezza dei passaggi.
Intuizione e dimostrazione costituiscono il campo della nostra conoscenza, tutto
ciò che ne è al di fuori non è altro che fede o opinione.
Nella certezza intuitiva rientra l'esistenza dell'Io, perché anche per Locke, come
per Cartesio, io sono certo di esistere per il fatto stesso di pensare e di dubitare.
Nella certezza dimostrativa rientra l'esistenza di Dio, in quanto l'intelletto mi
indica che il mondo, non avendo in sé la ragione del suo essere, non potrebbe
esistere senza una causa intelligente, onnipotente, eterna.
Dopo avere affermato che possiamo essere certi dell'esistenza, oltre che delle
idee, anche dell'Io (inteso come attività della coscienza, non come sostanza
spirituale) e di Dio, si apre per Locke il problema dell'esistenza delle cose
esterne, che non è oggetto di intuizione (perché non si tratta di un'idea), né di
dimostrazione (perché oltrepassa il campo delle idee).
Locke non si sente però di ridurre la conoscenza del mondo esterno a semplice
opinione. Perciò introduce, accanto all'intuizione e alla dimostrazione, la
conoscenza sensoriale, la percezione sensibile attuale, considerata cioè nel
momento stesso in cui accade, quando gli oggetti sono presenti ai nostri sensi. In
quel preciso momento si ha una percezione vivissima della realtà esterna (ovvero
delle idee semplici che costituiscono l'oggetto della conoscenza sensoriale), tanto
viva da avvicinarsi all'intuizione. Per mezzo della sensazione noi veniamo a
conoscere l'esistenza delle cose. E sebbene per questa via non si raggiunga il
grado di certezza proprio della conoscenza intuitiva dell'Io e della dimostrazione
dell'esistenza di Dio, il livello di evidenza che la percezione sensibile garantisce
permette pur sempre di parlare di conoscenza.
Quando però la percezione non è più attuale, quando per esempio non ho più
davanti il fiore, di cui prima vedevo la forma, i colori e sentivo il profumo, ma
ne conservo solo il ricordo, allora non posso più essere sicuro dell'esistenza del
fiore, e la certezza sfuma nella probabilità. Rientra nell'ambito del probabile
anche l'esistenza di altri esseri pensanti, ricavata dall'analogia con me che penso.
L'intuizione, la dimostrazione, la percezione sensoriale attuale esauriscono il
campo della conoscenza certa. Il loro grado di certezza è tuttavia diverso:
l'intuizione, che coglie immediatamente il legame o il contrasto tra idee, è
assolutamente sicura; la dimostrazione, che arriva al risultato attraverso un
procedimento discorsivo di uno o più passaggi, può talvolta cadere in errore; la
percezione attuale, pur essendo superiore alla probabilità, è decisamente meno
sicura delle altre due.
La conoscenza certa si riferisce comunque a un settore relativamente ristretto
della nostra vita quotidiana, che di fatto si svolge in gran parte al di fuori della
certezza, sotto il segno della probabilità. La maggior parte delle nostre conoscenze sono proprio di questo tipo, eppure, osserva Locke, noi non nutriamo
alcun dubbio sulla loro verità; anzi le accettiamo in modo tanto convinto da
regolarci nella vita e agire praticamente in base ad esse.
Per esempio, quando schiaccio l'interruttore per accendere la lampada, non ho la
prova vera e propria che il circuito elettrico si apra e faccia passare la corrente; il
suo funzionamento è, da un punto di vista rigoroso, solo una probabilità, eppure
A - ___________________________
__________________ immediata, certa
ad es. _________________________
assolutamente __________________
B - ______________________________
___________________ mediata certa se
___________________________________
ad es. __________________
può ___________________________
C - ________________________________
1 - attuale
certezza __________________________
delle _____________
non del tutto ______________________
2 – non _________________
conoscenza ___________________
la più ________________________
39
io mi comporto come se fosse una certezza. In altre parole: do un assenso,
riconosco come vero ciò della cui verità non ho alcuna certezza. D'altra parte, se
in ogni momento dovessi verificare tutto — che la sedia su cui mi siedo sia in
grado di reggere il mio peso, che il computer funzioni, che la lampada rimanga
accesa, e così via — non potrei fare alcunché, utilizzare le cose cui dispongo,
rendono possibile ____________________
insomma vivere la mia vita di tutti i giorni.
Di qui, l'importanza delle conoscenze solo probabili, perché, sebbene non siano
sicuramente fondate, hanno valore dal punto di vista pratico. Sarebbe altrimenti
impossibile per gli uomini agire senza credere in qualche modo nel mondo in cui
si muovono.
Nell'insieme articolato delle conoscenze certe e delle opinioni — solo probabili Funzioni ____________________________
ma assolutamente necessarie alla vita — si concretizza il lavoro della ragione, la
facoltà umana a cui fanno capo, secondo Locke, le attività indispensabili «sia per
estendere la nostra conoscenza, sia per regolare il nostro assenso». La ragione,
dunque, guida l'uomo a scoprire le prove della verità o della probabilità di una
proposizione, a ordinare e cogliere la connessione fra le idee, a formulare
conclusioni corrette.
Con l'indagine condotta nel Saggio, Locke giunge così a chiarire le capacità e i
limiti del nostro conoscere, i campi dove è possibile avere certezze assolute e
dove invece ciò non è possibile. Su queste basi può allora affrontare i temi etici,
politici e religiosi, che lo interessano maggiormente12.
LOCKE
E I PROBLEMI POSTI DAL NUOVO SAPERE
1 giustificazione nuovo sapere: la scienza è __________________ ________________________________________________________
_____________________________________________________________________________________________________________
Ruolo soggetto:________________________________________________________________________________________________
_____________________________________________________________________________________________________________
2 il metodo scientifico: __________________________________________________________________________________________
_____________________________________________________________________________________________________________
3 la concezione della realtà: _______________________________________________________________________________________
_____________________________________________________________________________________________________________
4 Dio: _____________ ___________________________________________________________________________________________
12
Per il pensiero politico di Locke vedi la dispensa “14 - La filosofia moderna e la politica”
40
4 – Leibniz: le monadi come specchio dell’universo
Il rifiuto del meccanicismo
La fisica leibniziana: oltre il meccanicismo
La metafisica leibniziana: l’universo delle monadi
La monade: la sostanza che sta alla base di tutta la realtà
I regni delle cause efficienti e delle cause finali e l'ipotesi
dell'«armonia prestabilita»
La teoria della conoscenza
Le verità di ragione, le verità di fatto e il principio di ragion sufficiente
In un famoso passo autobiografico, Leibniz13 racconta che, appena quindicenne,
passeggiava in un bosco nei dintorni di Lipsia incerto se mantenersi fedele
all'interpretazione della natura degli scolastici o accettare la nuova filosofia dei
meccanicisti: preferì il meccanicismo, ma nella ricerca delle basi del
meccanicismo finì col tornare alla metafisica. Più volte in seguito si soffermò su
questo complesso itinerario che lo aveva condotto a rifiutare i presupposti
fondamentali del meccanicismo e a recuperare nozioni del passato ripudiate dalla
fisica a lui contemporanea.
Tra queste le forme sostanziali di ascendenza scolastica. Leibniz concepisce la
forma sostanziale come qualcosa di analogo all'anima, all'io, perché dà unità e
identità al corpo al quale si unisce. Leibniz ritiene che le forme sostanziali siano
conciliabili con le acquisizioni dei filosofi e degli scienziati moderni, perchè è
convinto che, nella comprensione della realtà, sia necessario distinguere un
piano fisico da uno metafisico. È consapevole di proporre «un gran paradosso»
riabilitando le forme sostanziali, dato che sono «quasi bandite», e afferma di
aver molto meditato sulla filosofia moderna, di essere stato a lungo convinto
della vanità di queste entità, e di essere stato costretto, alla fine, a recuperarle suo
malgrado. Senza dubbio, ammette, le forme sostanziali di Tommaso e della
scolastica non servono a niente in fisica e non vanno impiegate nella spiegazione
dei fenomeni; gli scolastici hanno sbagliato credendo di rendere ragione delle
proprietà dei corpi mediante forme e qualità, come se ci si potesse accontentare
di dire che un orologio ha la "qualità orodittica" (cioè di segnare le ore)
derivante dalla sua forma, senza chiedersi in che cosa consista. L'errore
commesso dagli scolastici, però, non è un motivo valido per respingere
completamente — come fanno i moderni — le forme sostanziali, perché la
natura del corpo non consiste unicamente nell'estensione, cioè nella grandezza,
figura e moto, come volevano Cartesio e il meccanicismo. La conoscenza delle
forme sostanziali è infatti fondamentale in metafisica, per conoscere le nature
incorporee e le meraviglie di Dio. I due ambiti, fisico e metafisico, devono,
quindi, essere rigorosamente distinti e hanno una loro autonomia. Un fisico può
benissimo rendere ragione delle esperienze, servendosi o delle esperienze più
semplici già svolte o delle dimostrazioni geometriche e meccaniche, senza
ricorrere a considerazioni generali, che fanno parte di una sfera diversa. Un
conto, però, è occuparsi dei fenomeni particolari della natura, che possono essere
spiegati matematicamente o meccanicamente, un altro conto è occuparsi dei
principi generali della natura corporea e della stessa meccanica, che sono più
metafisici che matematici. Questi due punti di vista non si escludono a vicenda,
ma possono e devono integrarsi.
LEIBNIZ: LE MONADI COME
SPECCHIO DELL’UNIVERSO
IL RIFIUTO DEL
MECCANICISMO
Dal ________________________ al ritorno
alla ____________________ scolastica
A - IL RECUPERO DELLE ________________
Come ciò che ______________________
al corpo
non per la spiegazione dei ______________
___________________________________
perché possono essere spiegati __________
_____________ o ____________________
ma per spiegare ______________________
____________________________________
13
Tra le sue opere: Principi della filosofia o Monadologia, Princìpi della natura e della grazia fondati
sulla ragione, entrambi del 1714 , i Nuovi saggi sull'intelletto umano, del 1704 e del 1710 i Saggi di
teodicea o Teodicea. Per la vita e le opere Leibniz vedi pag. 83.
41
I filosofi moderni non hanno bandito dalla fisica soltanto le forme sostanziali,
ma anche le cause finali, e questo ha dato luogo a conseguenze che Leibniz
giudica pericolose. Pensare, ad esempio, che vediamo perché ci è capitato di
avere gli occhi, negando che gli occhi siano stati fatti per vedere, e quindi
attribuire tutto alla necessità della materia o al caso, rende difficile riconoscere
un autore intelligente della natura. Dato che l'effetto deve corrispondere alla
causa, lo si conosce meglio conoscendo la sua causa. Che senso ha ritenere che
esista un'intelligenza sovrana ordinatrice delle cose, se poi, anziché rifarsi alla
sua saggezza, ci si serve soltanto delle proprietà della materia per spiegare i
fenomeni? Sia coloro che cercano di spiegare meccanicamente i fenomeni, sia
coloro che per spiegarli si appellano alle cause finali contribuiscono a far nascere
ammirazione verso ciò che è stato foggiato dal Grande Artigiano, e a fare
scoperte utili in fisica. È quindi auspicabile che questi due modi diversi di vedere
le cose si integrino: l'abilità di un operaio viene riconosciuta ed esaltata
mostrando non soltanto di quali strumenti si è servito per produrre ciascun pezzo
della sua macchina, ma anche quale disegno si è prefisso nel produrli. Bisogna
eliminare dalla filosofia meccanica gli aspetti di profanità di cui la si accusa.
Quando Leibniz sostiene che il meccanicismo è una prospettiva dagli esiti
pericolosi pensa soprattutto alla filosofia di Cartesio da cui prende chiaramente
le distanze. In filosofia — scrive in una lettera del 1680 — dobbiamo a Galilei e
a Cartesio quasi altrettanto che a tutta l'antichità, ma alcune idee cartesiane sono
decisamente pericolose. In particolare il tentativo di spiegare i fenomeni
ricorrendo soltanto delle proprietà della materia appare a Leibniz pericoloso
perché è il fondamento della filosofia atea: infatti questo significa distruggere
indirettamente la saggezza e la giustizia di Dio, equivale a sostenere che Dio non
fa nessuna scelta del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto. Secondo Leibniz,
la vera filosofia ci dà una nozione completamente diversa della perfezione di
Dio, e non esclude — come avviene nella filosofia cartesiana — le cause finali
dalla fisica, dato che la causa efficiente delle cose è intelligente.
Di qui, la ricerca leibniziana di una sintesi capace di tenere insieme le verità
della tradizione aristotelico-scolastica e quelle della scienza moderna. La sintesi
consiste nell'utilizzare il concetto di forma sostanziale per conoscere i principi
primi e generali delle cose e nell'utilizzare invece la teoria meccanicistica per
spiegare i comportamenti dei fenomeni, riducendo i corpi alle loro proprietà
misurabili. Leibniz chiarisce che la natura può essere conosciuta attraverso due
tipi di sapere: la filosofia e la scienza. La prima indaga i principi universali, ma
non fornisce alcuna conoscenza specifica dei fenomeni della natura. La seconda
descrive la natura in modo oggettivo sulla base dei suoi aspetti più
immediatamente conoscibili, cioè quelli quantitativi misurabili, ma rinuncia a
indagarne i principi ultimi.
B - IL RECUPERO ______________________
Visione meccanicista  spiegazione di
_________________________________
+
visione _______________  spiegazione
del ________________________________
=
glorificazione del ____________________
+
scoperte _______________________
LA __________________ DI CARTESIO
Spiegazione _______________  filosofia
___________________
accettazione _____________________ 
___________________________________
LA SINTESI TRA _____________
E SCIENZA
scienza = _______________________ 
spiegazione _______________________
filosofia = indagine sui ________________
_______________________
LA FISICA LEIBNIZIANA: OLTRE IL
MECCANICISMO
LA NOZIONE DI FORZA
Dal punto di vista scientifico, Leibniz accetta in linea di massima
l'interpretazione meccanicistica che riconduce i corpi alle loro quantità
misurabili, ma delinea un quadro più dinamico dell'universo, introducendo,
accanto alla nozione di estensione, anche quella di forza. Che i corpi non siano
pura estensione risulta innanzitutto dalla loro impermeabilità, cioè dalla
resistenza opposta da ciascun corpo alla presenza di altri corpi nello spazio da
esso occupato e dalla loro forza d'inerzia, cioè dalla resistenza allo spostamento.
Per spiegare fenomeni di questo genere, non basta l'estensione, bisogna
presupporre anche l' esistenza di una forza, grazie alla quale un corpo può
opporsi alla penetrazione di altri corpi e al movimento indotto da altri corpi.
Perciò la vera essenza della materia si rivela essere la forza. La massa materiale
di un corpo, la sua capacità di opporre resistenza, è indicata da Leibniz come
forza passiva, mentre il principio dinamico, l'energia che anima le cose, è
Corpi = estensione (_______________)
+
_______________ passiva (capacità di
_______________________)
+
forza attiva o ________________________
(_________________________________)
come finalità ________________________
42
indicato come forza attiva o anche entelechia.
Il termine entelechia è ripreso da Aristotele, che con esso definisce lo stato di
perfezione di un ente che ha raggiunto il proprio fine, attuando pienamente il suo
essere in potenza. La finalità cui allude in tal modo Aristotele non è una finalità
estrinseca (per cui un essere è orientato verso un fine fuori di sé, come per
esempio il raggiungimento di un determinato bene), ma intrinseca, cioè una
finalità immanente al soggetto (in quanto non esce fuori da lui) che rappresenta il
compimento della sua natura: la finalità intrinseca dell'occhio, per esempio, è di
vedere. Il termine è adottato da Leibniz appunto per sottolineare il principio di
attività interna che anima le sostanze esistenti.
L'estensione, che secondo Cartesio coincide con la materia, per Leibniz è piuttosto il modo in cui la materia si manifesta alla sensibilità, o, nel linguaggio
leibniziano, è un fenomeno (dal greco phainòmenon, "ciò che appare"), che egli
definisce «bene fondato», intendendo qualcosa che appare veramente, non una
semplice apparenza in contrapposizione alla realtà.
Per spiegare questo concetto, Leibniz ricorre spesso all'esempio dell'arcobaleno.
Cos'è l'arcobaleno? È una cosa effettivamente esistente? Sì, perché l'arcobaleno
non è un'illusione; ma esso esiste come fenomeno, cioè come il modo di apparire
all’occhio umano di un insieme di goccioline che riflettono la luce bianca e la
scompongono. Il mondo esteso esiste allo stesso modo dell'arcobaleno: come
fenomeno.
Così viene meno la distinzione fra qualità primarie e secondarie: le une e le altre
sono fenomeni, cioè sono il modo di apparire di sostanze che non sono in sé
estese, come non sono colorate o profumate o sonore. Inoltre, con la riduzione
delle proprietà della materia a fenomeni, si ridefiniscono i concetti di spazio e di
tempo: lo spazio è l'ordine delle coesistenze, cioè l'ordine in cui si collocano i
corpi che esistono insieme contemporaneamente; il tempo è l'ordine delle
successioni, cioè l'ordine in cui si dispongono i corpi fra loro successivi. Leibniz
prende in tal modo le distanze dalla concezione newtoniana dello spazio e del
tempo come dimensioni assolute.
Nel complesso l'universo fisico tratteggiato da Leibniz appare popolato di corpi
che sono dei veri e propri centri di energia. Essi si presentano alla nostra
sensibilità come estesi, impenetrabili, ordinati in serie secondo lo spazio e il
tempo, ma soprattutto dotati di una forza che «rende la materia capace di agire e
di resistere». È un universo vivo e dinamico, di cui il meccanicismo può spiegare
solo le manifestazioni più esterne e superficiali, cioè la realtà come appare, come
fenomeno. Per comprendere le cose più profondamente, al di là dell'apparire
fenomenico, bisogna aprirsi a un punto di vista più alto, a un piano ontologico
superiore all’esterno al mondo fisico. Il concetto di forza si presta a questo
doppio intento: da un lato, la forza può essere considerata come una pura forza
fisica, misurabile, e perciò capace di spiegare, in un quadro meccanicistico,
determinati effetti, di cui essa è la causa efficiente; dall'altro, essa si pone come
un concetto metafisico — corrispondente alla forma sostanziale — che esprime
un'attività spontanea e una tendenza di carattere finalistico (indicata da Leibniz
con il termine conatus), le quali oltrepassano la percezione sensibile e le
possibilità di misurazione tecnico-scientifica.
All'indagine metafisica spetta il compito di spiegare la forza viva che va oltre
l'apparire fisico, l'attività spontanea che non, è oggetto della scienza. Chiariti i
rispettivi campi di indagine, scienza moderna, di carattere quantitativo, e la
metafisica che ricorre alla nozione di forma sostanziale non sono incompatibili.
estensione = ______________________
_____________________ alla sensibilità
_________________ ben fondato
esempio = _________________________
qualità _____________________ e _______
____________ = ____________________
spazio e tempo non __________________
ma relativi alla ____________________ dei
corpi (_________________) e alla loro
_______________________ (___________)
DALLA FISICA ALLA METAFISICA
un universo____________________: i corpi
come ______________________________
spiegabili con il concetto di ____________
inteso in duplice modo
LA DUPLICE CONCEZIONE DELLA FORZA
A - ______________________: misurabile, _______________ dei fenomeni  spiegazione ___________________  ___________
B – attività ________________: forza viva, forma __________ dei fenomeni  spiegazione ___________________  ___________
43
Se ogni corpo è qualcosa di unitario e compatto, non un semplice fenomeno
come l'arcobaleno o un'unità casuale come un mucchio di pietre, «bisogna
concepire qualcosa che si chiama forma sostanziale», ovvero un principio di
unità e di attività, analogo allo spirito che tiene insieme le parti materiali come
un magnete tiene insieme la limatura di ferro. L'elemento costitutivo delle cose è
perciò di natura spirituale. Nell'universo sussiste una pluralità di sostanze, centri
di energia privi di materia, assolutamente semplici, che Leibniz chiama
dapprima sostanze individuali, quindi monadi (un termine già usato da Giordano
Bruno per indicare un'unità reale priva di estensione, quindi spirituale).
L'antica teoria atomistica è riveduta e corretta sostituendo agli atomi materiali le
monadi, sostanze semplici, non divisibili in parti, inestese e perciò non
percepibili attraverso i sensi, intese come centri di forza privi di estensione —
cioè come atomi di energia e non di materia.
La monade — è scritto nella Monadologia (1714) — è una sostanza semplice,
cioè senza parti, che entra nelle cose composte, cioè nei corpi. Siccome esistono
cose composte, devono necessariamente esistere sostanze semplici: il composto
altro non è che un aggregato di semplici. Monas — precisa Leibniz nei Principi
della natura e della grazia, fondati nella ragione (1714) — è termine greco che
significa l'unità o ciò che è uno. Non avendo parti, le monadi non avranno né
estensione, né figura, né divisibilità. Non avendo parti, non possono avere, per
via naturale, né un inizio, né una fine: possono iniziare e finire soltanto tutt'a un
tratto ad opera di Dio, cioè iniziare per creazione e finire per annientamento,
mentre le cose composte iniziano e finiscono per composizione e dissoluzione
delle parti. Soprattutto, non avendo parti, le monadi non possono agire le une
sulle altre. Ciò che è semplice, uno, senza parti non può subire modificazioni da
un agente esterno. Per negare l'esistenza di rapporti diretti tra le monadi, Leibniz
si serve di una metafora efficace: le monadi — afferma — non hanno finestre
dalle quali possa entrare o uscire qualcosa. Non sarebbe possibile trasporre nulla
nella monade, né si può immaginare in essa un movimento interno impresso,
diretto, accresciuto o diminuito: tutto questo è invece possibile nel composto, nel
quale si danno mutamenti tra le parti.
Leibniz, però, insiste non soltanto sulla semplicità delle monadi, ma anche sulla
loro diversità qualitativa. Questi due aspetti non sono incompatibili. La
semplicità esclude soltanto la molteplicità di parti. La sostanza semplice, anche
se sprovvista di parti, ha una molteplicità di affezioni e relazioni. Se alle monadi
mancassero le qualità, sarebbero indistinguibili le une dalle altre. E invece
ciascuna monade deve essere concepita come differente da ogni altra, perché in
natura non esistono due esseri identici. È questo il principio dell'identità degli
indiscernibili: se ci fossero due esseri indiscernibili, coinciderebbero, sarebbero
un unico e identico essere.
Senza la diversità qualitativa tra le sostanze semplici, non sarebbe possibile
spiegare il mutamento delle cose. Ciò che è nel composto può derivare soltanto
dai suoi ingredienti semplici. La monade è soggetta a mutamento così come lo è
ogni essere creato. Dato che, come si è detto, le monadi non hanno rapporti
diretti tra loro, il mutamento è determinato da un principio interno alle monadi
stesse. Leibniz parla di appetizione e percezione: con questi termini indica l'attività di ogni monade, le sue qualità e azioni interne. L'appetizione è l’impulso
interno che spinge la monade alla percezione. Percepire significa rappresentare:
la percezione è lo stato interiore della monade che si rappresenta le cose esterne.
Le monadi sono tutte dotate di percezione, ma non sono tutte uguali. Alcune
sono semplicemente capaci di percezione e sono quelle costituenti gli esseri
naturali di grado inferiore, altre sono consapevoli di questa percezione, o, nel
linguaggio leibniziano, sono dotate di appercezione. A loro volta le monadi
dotate di appercezione possono avere solo sensibilità e memoria, come le anime
degli animali, o anche intelligenza, come quelle degli uomini, i quali sono
consapevoli della propria identità di spiriti dotati di ragione.
LA METAFISICA LEIBNIZIANA:
L’UNIVERSO DELLE MONADI
LA
MONADE: LA SOSTANZA CHE STA ALLA
BASE DI TUTTA LA REALTÀ
Monade = ________________ di unità e
_______________ = centri di __________
dagli atomi __________________ agli
atomi centri ____________________
Le caratteristiche delle monadi:
a - _________________________
quindi non hanno parti componenti per cui:
1 - non hanno ________________________
___________________________________
2 - possono iniziare solo per ____________
____ finire per ______________________
3 - ________________________________
___________________________________
le monadi non hanno __________________
b - diversità _______________________
se no __________________________
il principio ________________________
___________________________________
I PRINCIPI DEL MUTAMENTO: _____________
_______________________________
sono ________________ alla monade
44
L'appercezione - quella che verrà chiamata dopo Leibniz autocoscienza consente anche gli atti riflessivi, ossia i pensieri rivolti a ciò che è in noi. Da
I PRINCIPI DEL MUTAMENTO:
1 . ___________________________: impulso ______________ che spinge a ___________________________
2 . ___________________________: rappresentazione _________________ delle cose _____________________
solo __________________  __________________________
3. ____________________________: consapevolezza ______________________________ (___________________________)
sensibilità + memoria +  ____________________ ; sensibilità + memoria + ____________________  ____________
_____________________
riconoscendosi come Io
______________________
consapevolezza _____________________________  atti riflessivi:
pensieri rivolti a _____________________ (Io, ____________,
________________, semplice e composto, _______________, Dio
questi è possibile ricavare non solo l'idea di un Io, ma concetti fondamentali che
scaturiscono «pensando se stessi», come l'essere, la sostanza, il semplice e il
composto, l'immateriale, Dio. L'anima intelligente, inoltre, ha una sussistenza
metafisica maggiore delle altre anime; riconoscendosi come Io costituisce
l'identità personale e con essa anche la responsabilità morale. Conservando il
«fondamento della conoscenza di ciò che sono» le anime intelligenti sono, infatti, tenute a rendere conto delle loro azioni, ed entrano così in un ordine
diverso, in cui castigo e ricompensa hanno un senso.
Leibniz chiarisce che percezione non è sinonimo di coscienza, e per spiegare
concretamente a che cosa si riferisca fa spesso l'esempio di quelle che possiamo
chiamare le nostre percezioni inconsapevoli, come il rumore di un fiume
avvertito sullo sfondo. Percezione è l'attività della monade che si colloca nel
mondo come forza rappresentativa, cioè come capacita di rappresentare, fare
presente a se stessa il mondo, raccogliendo nella propria unita il molteplice.
La monade si pone allora come un punto di vista sull'universo, uno specchio che
riflette, dal proprio angolo visuale, l'intero universo, ovvero riflette nei minimi
particolari gli aspetti infinitamente molteplici dell'universo cui appartiene.
L'intero universo è per Leibniz un sistema rappresentativo: non è soltanto la
mente umana a essere capace di rappresentazione, ma ogni sostanza semplice è
per lui «un perpetuo specchio vivente dell'universo». L'universo, si può dire, è
un gioco di specchi, perché i rapporti reciproci di rappresentazione (o di
espressione, come dirà Leibniz) ne costituiscono la struttura profonda.
Dio è, da questo punto di vista, l'unico sguardo panoramico e universale che
garantisce la concordanza delle percezioni individuali, ma ciò non toglie nulla
alla perfezione della rappresentazione delle singole monadi, perché il mondo si
esplica e si riconosce solo nello specchio della monade, non c'è altro mondo «là
fuori», che non sia già frutto di una duplicazione speculare.
Percepire = rappresentare _____________
il mondo
le monadi come __________________
l’universo come ___________________
Dio come __________________________
I REGNI DELLE CAUSE _________ E DELLE
Dobbiamo, quindi, concepire il mondo delle monadi e il mondo dei fenomeni CAUSE FINALI E L'IPOTESI _______________
come due mondi distinti, così come distinti sono i nostri modi di conoscerli. Per
conoscere il mondo dei fenomeni, possiamo servirci di nozioni meccaniche, i due __________________:
come massa, moto, causa efficiente; mentre, per conoscere il mondo delle
monadi, dobbiamo riferirci a principi finalistici. Leibniz distingue così «due 1. ___________________:
regni», delle cause efficienti e delle cause finali: il mondo dei fenomeni si fonda ___________________________________
sul mondo delle monadi così come il meccanicismo si fonda sul finalismo.
Secondo Leibniz, questi due regni sono in armonia tra loro. Ciò risolve il
45
problema dei rapporti tra anima e corpo, cioè tra la monade dominante e
l'insieme delle monadi che le sono subordinate e che fanno da corpo. Leibniz
introduce, a questo proposito, l'ipotesi dell'«armonia prestabilita». L'anima e il
corpo seguono ognuno leggi proprie; l’anima agisce secondo le leggi delle cause
finali, attraverso appetizioni, fini e mezzi, mentre il corpo agisce secondo le
leggi delle cause efficienti; tuttavia si accordano in virtù dell'armonia
prestabilita. In questa ipotesi, i corpi agiscono come se non vi fossero anime, le
anime agiscono come se non vi fossero corpi, ed entrambi agiscono come se si
influenzassero a vicenda. Dio ha regolato anima e corpo all'inizio dei tempi in
modo che a certi eventi nel corpo corrispondano necessariamente certi eventi
nell'anima.
L'illustrazione più celebre di questa dottrina è l'immagine di infiniti orologi
perfettamente sincronizzati, che dunque segnano tutti sempre la medesima ora.
Dio, al momento della creazione delle monadi, ha infuso loro questo
sincronismo, cioè ha stabilito ab initio il fatto che in questo preciso momento
avrebbero provato rispettivamente determinate sensazioni, apparentemente
attribuibili al contatto con altre sostanze. Dio non interviene in ogni circostanza a
regolare gli orologi delle monadi, come pretendevano le teorie occasionaliste 14,
poichè Dio ha dato dal principio a ciascuna monade una regola di sviluppo che si
accorda con quella delle altre.
C'è quindi, più in generale, un legame, un accordo, un adattamento tra tutte le
cose create. Questa armonia universale fa in modo che ogni monade rappresenti
tutte le altre. Ciascuna monade può, quindi, essere definita perpetuo specchio
vivente dell'universo, che essa esprime a suo modo, così come una medesima
città è rappresentata diversamente a seconda delle posizioni di chi la osserva. Ciò
che la monade rappresenta più distintamente è il corpo che le appartiene, e, dato
che questo corpo esprime tutto l'universo, l'anima rappresenta tutto l'universo
anche rappresentandosi il corpo. Ogni porzione di materia è in grado di
esprimere l'universo perché non è soltanto divisibile all'infinito, ma è di fatto
divisa all'infinito. Vi è, quindi, un mondo di creature, di viventi in ogni minima
parte della materia. Ogni sua porzione è come un giardino pieno di piante, uno
stagno pieno di pesci; e ogni ramo della pianta, ogni membro dell'animale è a
sua volta un tale giardino o un tale stagno. Di conseguenza, non vi è nulla di
morto nell'universo, e non vi è caos o confusione, se non apparentemente.
2. ______________________:
cause _______________________
i rapporti ______________ - _________
corpo: leggi ________________________
anima: leggi ________________________
ma concordanza per __________________
garantita di ______________
gli orologi __________________________
senza ___________________________
L’armonia_________________________
ogni monade ________________________
ogni frammento di ___________________
come ______________________________
LA TEORIA DELLA CONOSCENZA
IL CAMMINO DELLA CONOSCENZA
L’_________________________
L'autosufficienza metafisica della monade, per cui ciascuna porta in sé, fin dal
principio, tutto ciò di cui è capace, dal punto di vista gnoseologico si traduce in
una teoria innatista. Se ogni monade trae da se stessa ogni sua attività, senza
apporti e interventi esterni, le monadi dotate di appercezione devono sviluppare
in sé e da sé tutta la conoscenza di cui sono capaci.
Leibniz riconosce un ruolo alla conoscenza sensibile, sui cui dati si costruisce la
conoscenza razionale; ma questi dati devono essere organizzati da un principio
attivo, di carattere non empirico. La formula empirista (derivata dalla Scolastica)
nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu («non c'è niente nell'intelletto
che non sia prima passato attraverso i sensi») diventa, nella dottrina leibniziana,
nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu nisi intellectus ipse («...se
non lo stesso intelletto»). Ovvero, nella mente sussistono dei principi innati.
isolamento + ____________________
 __________________________
Conoscenza = dati ________________ +
principi ________________ innati
non _____________ ma _______________
14
Occasionalismo, dottrina che, nel rapporto di dipendenza di un fenomeno da un altro fenomeno, vede
soltanto una ‘causa occasionale’ rispetto all’unica causa reale costituita dall’azione dell’universale
principio divino. In particolare, l’occasionalismo . è il complesso di dottrine che, dopo la distinzione
cartesiana delle due sostanze (res cogitans e res extensa), cercò di spiegare il rapporto tra psichico e
corporeo facendolo derivare da un accordo stabilito tra essi da Dio. Il più celebre occasionalista è N.
Malebranche (1638–1715).
46
Tali principi non sono però intesi da Leibniz come delle idee, delle conoscenze
già formate, bensì come delle attitudini, delle funzioni o delle disposizioni che
portano la mente a operare in un certo modo. Innati, perciò, non sono i contenuti,
ma le forme e i principi del pensare, che guidano la conoscenza umana nella sua
attività; si tratta quindi di virtualità che si esplicano via via, secondo lo sviluppo
interno della monade.
La gnoseologia leibniziana discende dalla concezione delle monadi, tutte dotate
di percezione, che è un'attività conoscitiva, e di appetizione, che è la naturale
tendenza delle sostanze a passare da una percezione all'altra. Su queste basi,
riprendendo per certi versi la dottrina aristotelica delle anime (vegetativa,
sensitiva, intellettiva), Leibniz delinea il cammino della conoscenza, che si
sviluppa per gradi successivi
All'inizio stanno le percezioni non accompagnate da coscienza, che Leibniz
chiama piccole percezioni o percezioni oscure, definibili come percezioni
inconsce. In questo modo egli rompe l'identificazione tra pensiero e coscienza,
ossia la tesi che ogni nostro atto mentale è sempre accompagnato dallo "sguardo
interiore" della coscienza, aprendo la strada all'indagine sulle rappresentazioni
inconsce che avrà in seguito un notevole sviluppo.
Le piccole percezioni vengono identificate con percezioni parziali che non siamo
in grado di distinguere di per sé e che quindi non sono oggetto della nostra
attenzione. Leibniz fa l'esempio del rumore del mare: per udirlo è pur necessario,
sostiene, sentire il rumore di ciascuna onda che ne fa parte, anche se ognuno di
questi rumori non è percepibile isolatamente, ma lo è soltanto nell'insieme di cui
fa parte.
Le percezioni insensibili rivestono una grande importanza nel sistema di
Leibniz: costituiscono quel "non so che" che spesso ci fa valutare la qualità delle
cose e determinano i nostri gusti; caratterizzano inoltre e costituiscono
l'individuo stesso, che conserva delle tracce dei suoi stati precedenti collegandoli
con quelli presenti, senza che questa operazione sia consapevole, e senza che se
ne conservi memoria in senso proprio; sono anche quelle che ci muovono in
molte occasioni, che possono guidare le nostre azioni e che danno anche corpo a
quella "inquietudine" che costituisce per Leibniz un tono continuo del nostro
desiderio e del nostro piacere, e che differisce dal dolore solo per la misura.
Infine, le piccole percezioni sono anche ciò che costituisce il legame che ogni
essere ha con tutto il resto dell'universo: con l'eccezione dell'anima umana, il
rispecchiamento del mondo è dato da queste percezioni non consapevoli. La
stessa armonia prestabilita tra mente e corpo, che costituisce un aspetto
importante del pensiero leibniziano, è fondata sulle percezioni inconsapevoli.
Individuare questa dimensione nascosta del rappresentare serve a Leibniz anche
a sottolineare quella che egli chiama «l'immensa sottigliezza delle cose», che
egli vede dispiegarsi nella natura graduale e progressiva dei processi
rappresentativi. La conoscenza umana si colloca su una dimensione continua che
procede da gradi bassi fino alle forme superiori di intelligenza.
Su un gradino superiore si collocano le percezioni che, con un'espressione
apparentemente contraddittoria, Leibniz chiama chiare ma confuse. Sono le
percezioni coscienti, la memoria e l'immaginazione, proprie degli animali.
Chiare, perché, a differenza delle percezioni inconsce, danno la possibilità di
riconoscere la cosa rappresentata. Confuse, perché non sono in grado di
enumerare uno per uno i caratteri che distinguono una determinata cosa dalle
altre.
Infine il grado più alto della conoscenza, proprio degli esseri dotati di
razionalità, è costituito dalle percezioni chiare e distinte, cioè dalle appercezioni,
che arrivano a cogliere le caratteristiche essenziali delle cose.
II cammino della conoscenza consiste proprio nello sforzo continuo dell'anima di
elevarsi dalle percezioni oscure e confuse a quelle chiare e distinte.
Leibniz tratteggia così un'originale dottrina della conoscenza, che si distanzia sia
I gradi della ______________________:
1. PERCEZIONI _________________
no pensiero = ___________________
non oggetto di _____________________
- determinano _______________________
- costituiscono ______________________
- guidano ___________________________
- sono l’______________________ che sta
dietro _____________________________
- sono il __________________ che ogni
cosa ha ____________________________
- Fondano ________________________ tra
mente e corpo
2. _________________________________
coscienti
chiare perché ________________________
__________________________________
confuse perché ______________________
___________________________________
3. _________________________________
colgono ___________________________
__________________________________
LEIBNIZ, LOCKE E CARTESIO
in comune: le idee e non _______________
oggetto della conoscenza
47
da quella empirista di Locke, che da quella innatista di Cartesio, con i quali pure
condivide la tesi che le idee sono il vero oggetto della conoscenza umana. Come
tutte le altre monadi, infatti, l'anima conosce l'universo solo dentro di sé, nella
rappresentazione che se ne forma e dunque nelle idee, mentre non ha rapporti
diretti con le cose. Di Locke, Leibniz rifiuta la teoria dell'origine della
conoscenza dalla sola esperienza umana: la ragione non è una tabula rasa, ma un
principio attivo, il cui funzionamento è indipendente dal lavoro dei sensi. Tutto
ciò che vi è di generale e necessario nella conoscenza precede l'esperienza e non
deriva dall'esperienza. I sensi forniscono sempre e soltanto esempi, cioè verità
particolari. E gli esempi che confermano una verità generale, per quanti siano,
non sono in grado di stabilire la sua necessità universale. Questo per un motivo
molto semplice: non è assolutamente detto che ciò che è accaduto accadrà
sempre nel medesimo modo. Tuttavia egli non esclude il valore della conoscenza
sensibile, in quanto il cammino del conoscere umano si sviluppa come costante
processo di passaggio dall'oscurità alla chiarezza, dai sensi alla ragione.
Di Cartesio, rifiuta la riduzione di tutta l'attività conoscitiva a qualcosa di
pienamente cosciente; alla chiara evidenza delle idee innate cartesiane, già
definite e da sempre presenti nell'anima, egli oppone il lavorio ininterrotto della
mente umana, che trae alimento anche dal fondo oscuro delle piccole percezioni,
impegnando le proprie capacità innate nel portarle a livello di coscienza. Di
Cartesio, Leibniz rifiuta anche il dubbio metodico come un'inutile cerimonia e il
semplicismo del metodo, le cui regole — osserva con sarcasmo — assomigliano
a quelle di un tale chimico che diceva: «Prendi quello che devi, opera come devi
e otterrai ciò che desideri».
differenze con _________________:
la ____________________ fonte della
conoscenza
i sensi non stabiliscono _______________
___________ perché non è detto ________
___________________________________
ma la conoscenza inizia dai ____________
differenze con __________________:
- idee _____________________ di Cartesio
ctr
percezioni ____________
- dubbio metodico ____________________
- regole metodo ______________________
VERITÀ DI RAGIONE E VERITÀ DI
FATTO, NECESSITÀ E CONTINGENZA
Secondo Leibniz, esistono fondamentalmente due tipi di giudizi: le «verità di
ragione», la cui fonte è l'intelletto, e le «verità di fatto», la cui fonte sono invece
le esperienze dei sensi.
Le prime sono proposizioni la cui negazione è contraddittoria; esse perciò sono
non solo vere, ma anche necessarie; per esempio, la proposizione «il tutto è
maggiore della parte» è una verità di ragione; negandola ci si contraddice. Le
verità di ragione sono tutte riconducibili a proposizioni identiche, cioè a
proposizioni in cui c'è identità fra il soggetto e il predicato; esse sono vere
appunto in forza del principio di identità, secondo il quale ogni cosa è identica a
se stessa: A = A. La formulazione in termini negativi del principio di identità
costituisce il principio di non contraddizione, il quale afferma che nessuna cosa è
identica alla propria negazione: A non è non A.
Al contrario, le verità di fatto sono proposizioni vere la cui negazione non è
contraddittoria, e quindi, pur essendo vere, non sono necessarie. Per esempio, la
proposizione «Alessandro il Grande sconfisse Dario» è vera in quanto riflette un
fatto veramente accaduto, ma che avrebbe anche potuto non accadere, poiché la
sua negazione — Alessandro il Grande non sconfisse Dario — non è
contraddittoria.
Su che cosa si basano le verità di fatto per affermare il proprio carattere di
verità? Sul principio di ragion sufficiente, cioè sul principio secondo cui niente
accade senza che sia possibile rendere ragione, trovare motivazioni sufficienti a
chiarire perché una cosa accade così e non in altro modo. La vittoria di
Alessandro contro Dario si giustifica non in base all'impossibilità del suo
contrario — in linea di principio, avrebbe potuto essere Dario il vincitore —, ma
a qualche ragione sufficiente a spiegarla, per esempio le doti militari di
Alessandro.
Sulla base del principio di ragion sufficiente, Leibniz arriva a formulare il
concetto di sostanza individuale, in quanto il soggetto che compare nelle verità
di fatto, e che come tale deve contenere la ragione sufficiente del predicato che
48
gli è congiunto, è sempre qualcosa di reale, di effettivamente esistente. Il
soggetto delle verità di fatto è ciò che con termine aristotelico viene indicato
come sostanza individuale. Ovvero la sostanza individuale è il corrispettivo
metafisico del soggetto logico.
Nel concetto aristotelico di sostanza individuale, infatti, sono presenti un aspetto
logico e un aspetto ontologico, per cui a ogni individuo effettivamente esistente,
dotato di certe caratteristiche, corrisponde sul piano logico il soggetto a cui si
riferiscono certi predicati.
Secondo Leibniz, la nozione compiuta di ogni sostanza individuale deve avere in
sé la ragione sufficiente a spiegare tutti i predicati che possono esserle attribuiti.
Per esempio, la nozione compiuta dell'individuo Giulio Cesare deve includere
ogni cosa che lo caratterizza: passare il Rubicone, essere il vincitore della
battaglia di Farsalo, essere il dittatore di Roma, morire pugnalato, e anche essere
un discendente dell'ennesima generazione di Adamo,essere ucciso a Roma più di
un secolo prima del martirio dell'apostolo Paolo, e così via.
Una mente infinita, che abbia la nozione compiuta della sostanza individuale,
può cogliere in essa tutti i suoi possibili predicati e `leggere' per così dire
attraverso di essi tutta la sua storia La mente umana finita, invece, deve
ricostruire a posteriori, attraverso l'esperienza e la percezione dell'accadere
effettivo, la storia, ovvero l'insieme degli eventi che coinvolgono una
determinata sostanza.
In tal modo Leibniz non separa in modo radicale le verità di fatto e le verità di
ragione, perché anche nelle verità di fatto — dal punto di vista di una
conoscenza assoluta — è possibile vedere come il predicato sia identico al
soggetto; per esempio, come il predicato «passò il Rubicone» sia contenuto nel
soggetto «Giulio Cesare».
La differenza tra i due tipi di verità sta nel fatto che, mentre l'identità di soggetto
e predicato nelle verità di ragione è immediata (o mediata da un numero limitato
di passaggi intermedi) e quindi conoscibile anche dalla mente umana finita, nelle
verità di fatto tale identità presuppone un numero infinito di passaggi e quindi è
conoscibile solo da una mente infinita come quella di Dio. Dal punto di vista di
Dio non c'è dunque differenza fra le verità di fatto e le verità di ragione.
VERITÀ DI RAGIONE
VERITÀ DI FATTO
fonte:
__________________________________
__________________________________
negazione
___________________________________
__________________________________
valore di verità
vere e _____________________________
___________ ma non _________________
verità dipende da principio ___________________________
__________________________________
soggetto verità di fatto (piano _____________) = ________________________________ (piano __________________)
caratteristiche ________________________  _____________________ del soggetto
la ragione _________________ spiega tutti i ___________________ possibili del _______________________
identità di soggetto e predicato:
verità di ragione: _________________ o pochi passaggi  conoscibile ___________________________ finita è immediata
verità di fatto: _____________________  conoscibile da mente infinita a priori dagli ______________ possibili
ricostruibile da mente umana ____________ a _______________ attraverso _____________
49
Il fatto che una mente infinita possa cogliere nella nozione di una sostanza
individuale, intessuta di una fitta trama di connessioni, la storia di quella sostanza, significa che tutte le verità sono fra loro concatenate in modo necessario,
così che dall'ultima è possibile risalire alla prima e viceversa. Da qui deriva la
prospettiva leibniziana che ammette molti sistemi possibili di verità, i quali si
differenziano fra loro a seconda delle proposizioni base cui si riferiscono.
Ciascun sistema è caratterizzato da un ordine interno basato sulla necessità, ma
nessuno di essi è necessario in assoluto, cioè tale da realizzarsi necessariamente.
Ciascuno di questi sistemi può realizzarsi a condizione che non abbia
contraddizioni interne, cioè che le proposizioni che lo compongono siano fra
loro coerenti, ma non tutti possono realizzarsi contemporaneamente, perché in
alcuni possono essere contenute proposizioni che contraddicono quelle di un
altro sistema. Nella mente infinita di Dio tali sistemi diventano mondi possibili,
ciascuno dei quali può realizzarsi, se Dio decide di renderlo reale.
Leibniz teorizza così la possibilità di sistemi logici diversi, tutti composti da
proposizioni fra loro coerenti e tutti formali, cioè non necessariamente
corrispondenti alla realtà di fatto. È un altro aspetto della logica leibniziana che
prepara la strada alla logica formale moderna.
L'ammissione del principio di ragione sufficiente solleva problemi fondamentali,
innanzitutto quello della libertà. Dato che tutto ciò che accade ha una ragione,
evidentemente anche ogni azione umana ha una ragione, cioè per Leibniz una
causa: se è così, com'è possibile sostenere che gli uomini sono liberi? Leibniz
ritiene che una delle conseguenze del principio di ragion sufficiente sia che ogni
azione umana è determinata. Allo stesso tempo, però, cerca di dimostrare che il
determinismo è compatibile con la libertà, cioè che ogni azione, pur essendo
determinata, viene eseguita liberamente. E vero, dice, che ci si può definire liberi
soltanto quando le nostre azioni sono volontarie, spontanee e deliberate, ma non
si è mai indifferenti di fronte alle scelte da compiere. È illusorio, ad esempio,
pensare che sia indifferente voltare a destra o a sinistra. Siamo sempre sottoposti
a innumerevoli impulsi, che molto spesso neppure avvertiamo. Alla fine uno di
questi riesce a imporsi sugli altri, inclinandoci ad agire in un senso piuttosto che
in un altro. Ma essere inclinati — questo è l'argomento centrale di Leibniz —
non significa essere necessitati. L'inclinazione non coincide con la necessità
logica o assoluta. Non è contraddittorio, infatti, pensare che, pur essendo
sottoposti a un impulso prevalente che ci inclina a voltare a destra, si svolti a
sinistra; mentre l'opposto di ciò che è necessario implica una contraddizione.
Il ragionamento di Leibniz è sicuramente lineare, ma non è certo convincente: ha
senso dire che siamo liberi se di fatto non ci possiamo sottrarre all'impulso
prevalente che ci inclina a voltare a destra? Sapere che la scelta di voltare a
sinistra non implica nessuna contraddizione basta a persuaderci che siamo liberi?
Ovviamente, Leibniz si rende corto dei problemi posti dal suo tentativo di
coniugar determinismo e libertà, e che si è davvero liberi soltanto se la
possibilità di sottrarsi all'impulso prevalente è reale e non meramente logica. La
soluzione che prospetta non è priva di ambiguità: pur continuando a negare che
ci possa sottrarre all'impulso prevalente, si sforza di dimostrare che, con qualche
artificio, si potrebbe arrivare a farlo. Ad esempio, supponiamo — come fa
Leibniz nei Saggi di teodicea (1710) — che l'imperatore Augusto, irato contro il
senatore Fabio Massimo, sia pronto a condannarlo morte. Se, grazie
all'insegnamento di un saggio filosofo Augusto si abituasse a recitare l'alfabeto
greco prima prendere una qualunque decisione dettata dall'ira potrebbe sottrarsi
all'impulso prevalente che lo inclina a condannare Fabio Massimo. In ogni caso,
per Leibniz resta vero che, quando siamo sottoposti a un impulso prevalente, di
fatto non ci possiamo sottrarre; possiamo però in un altro momento e con
l'esercizio, rafforzare uno stimolo non prevalente fino a farlo diventare
prevalente.
MOLTI _______________________ E …
Storia = connessioni _______________
tra ________________________________
≠ proposizioni partenza  ≠ ___________
_________  ≠ sistemi ______________
…. TANTI _________________________
Ciascun sistema realizzabile se non ha
________________________________
ma non tutti ________________________
perché si ___________________________
_____ decide quali realizzare
LA ___________________ UMANA?
principio di ragion sufficiente  agire
uomo = __________________________
impulsi  __________________  scelta
ma inclinazione _______________ non
__________________________ quindi
liberi (?)
Libertà: rendere più ____________ uno
stimolo non ________________________
50
LEIBNIZ
E I PROBLEMI POSTI DAL NUOVO SAPERE
1 giustificazione nuovo sapere: la scienza è __________________ ________________________________________________________
_____________________________________________________________________________________________________________
Ruolo soggetto:________________________________________________________________________________________________
_____________________________________________________________________________________________________________
2 il metodo scientifico: __________________________________________________________________________________________
_____________________________________________________________________________________________________________
3 la concezione della realtà: _______________________________________________________________________________________
_____________________________________________________________________________________________________________
4 Dio: _____________ ___________________________________________________________________________________________
5 - Hume e l’empirismo inglese: l’esperienza come fonte della conoscenza
Dall’indagine sulla mente all’indagine sull’uomo
La teoria della conoscenza
La critica al principio di causalità
Credenze e abitudini
La critica alla metafisica e alla concezione tradizionale della realtà e dell’io
HUME E L’EMPIRISMO INGLESE:
L’ESPERIENZA COME FONTE DELLA
CONOSCENZA
DALL’INDAGINE SULLA MENTE
ALL’INDAGINE SULL’UOMO
Una delle innovazioni maggiormente significative dell'empirismo consiste nello
spostare il focus della filosofia dalla realtà al soggetto: non ci si chiede più, cioè,
come è fatto il mondo, ma quali sono gli strumenti conoscitivi del soggetto
conoscente, per individuare che cosa è possibile conoscere con tali strumenti.
Hume (1711-1776)15 prosegue in questa stessa direzione, ampliando però
l'oggetto della ricerca: lo studio preliminare non deve riguardare solo
l'intelligenza, ma più in generale la natura umana, perché sia nella conoscenza,
sia soprattutto nella morale, nell'estetica, nella religione ecc., non interviene
soltanto la ragione, ma anche il sentimento: con Hume prende corpo la necessità
di una «scienza dell'uomo».
Infatti, l' importanza del pensiero di David Hume risiede nell'originalità della
sua indagine sulla natura umana, considerata non soltanto sotto il profilo della
conoscenza, ma anche dal punto di vista della vita emotiva (le passioni) e
dell'esperienza morale (i fondamene della virtù e le leggi del comportamento).
Diciottenne, alla ricerca di una propria via filosofica, Hume concepisce il progetto di una nuova filosofia, che, sviluppandosi sul terreno gnoseologico e su
quello morale, porti alla fondazione di una «scienza della natura umana»,
secondo il metodo sperimentale. Gli autori a cui guarda con interesse sono
Bacone16, che ha teorizzato il metodo induttivo e dato avvio alla filosofia
Empirismo: dalla _____________ al
soggetto _______________________
______________: dal ________________
____________ (ragione) all’____________
(emozioni e comportamento)
La scienza ___________________________
15
La teoria della conoscenza di Hume è contenuti in due testi: “Trattato sulla natura umana” (1739) e
“Ricerca sull’intelletto umano” (1748). Per la vita e le opere di Hume pag. 84.
16
Vedi la dispensa “13 - La filosofia moderna: l’emergere della soggettività”
51
sperimentale, e Newton, che ha messo a punto il metodo di indagine basato sul
rifiuto delle ipotesi non empiricamente verificate La «nuova scena del pensiero»
— sono parole dello stesso filosofo — che si manifesta al giovane Hume è
innanzitutto la necessità di una critica al procedere dell'indagine filosofica
tradizionale relativa all'uomo, che si presenta come mera precettistica e retorica
morale o, in teorie più rigorose ma comunque insoddisfacenti, come
considerazione dell'uomo esclusivamente nei suoi tratti razionali.
Hume si propone di sostituire a questo approccio una ricerca sperimentale che, a
partire dall'esperienza, costruisca un'immagine articolata e non riduttiva
dell'uomo. Occorre dunque fondare una scienza dell'uomo che faccia propri i
tratti caratteristici della scienza newtoniana e le conquiste dell'empirismo,
calandosi nel reale, studiando le situazioni in cui la natura umana si manifesta,
così come la fisica analizza i propri fenomeni.
La lezione newtoniana e quella empiristica insegnano inoltre a non oltrepassare i
limiti dell'esperienza.
La scienza dell'uomo — così come Hume la concepisce — deve avere un
carattere sistematico, secondo l'approccio riduzionistico newtoniano: occorre
spiegare con pochi principi comuni e leggi fondamentali, da cui deriva ogni
ulteriore complessità, il maggior numero possibile di fenomeni. Bisogna pertanto
reperire, ricorrendo all'esperienza, i caratteri essenziali dell'uomo che ne
spiegano tutti i possibili modi di essere e operare.
Da Newton e dall'empirismo inoltre Hume raccoglie l'esigenza di rifiutare ogni
ipotesi di una causa ultima del reale, poiché l'esperienza non autorizza simili
conclusioni.
Lo spunto nuovo e originale della filosofia humiana sta appunto nel voler
applicare la filosofia sperimentale newtoniana, che ha già dato buoni frutti nello
studio della natura fisica, alla natura umana, come base necessaria di un nuovo
sapere unitario.
Il progetto originario del filosofo scozzese prevede dunque l'impiego di un
nuovo metodo, fondato sull'esperienza ma rivolto alla definizione di leggi
generali della mente, analoghe a quella della gravitazione universale nel mondo
fisico. Operando nella tradizione empiristica inaugurata da Locke Hume cerca di
spiegare i processi attraverso i quali la mente tende a costruire, sulla base delle
impressioni e delle relative idee, combinate secondo leggi di associazione, un
visione stabile del mondo esterno e una certezza altrettanto solida dell'identità
personale. Ma tali costruzioni si rivelano, a un esame più approfondito, come
finzioni elaborate dall'immaginazione, sulla spinta di bisogni soggettivi e di
inclinazioni istintive. Hume ammette che le sue analisi minano le certezze del
senso comune e producono conclusioni scettiche: l'esempio più famoso è dato
dalla critica del procedimento induttivo e del concetto di causa intesa come
connessione necessaria e invariabile fra due eventi. A differenza degli scettici
antichi, tuttavia, lo scopo di Hume è non tanto di distruggere le certezze dei
filosofi e di diffondere il dubbio, quanto di comprendere i motivi che inducono a
errori, anzi li rendono inevitabili e addirittura necessari per la vita.
Sulla base delle conclusioni raggiunte nel Trattato sulla natura umana (17391740), Hume abbandona l'idea di costruire un sistema e riconosce l'impossibilità
di conciliare i criteri più rigorosi dell'indagine filosofica con gli impulsi spontanei della credenza. Non per questo rinuncia al suo metodo d'indagine, fondato
sull'osservazione e sulla descrizione obiettiva delle varie manifestazioni della
natura umana. Lo estende anzi, nelle opere della maturità, anche ai campi dell'esperienza estetica (il gusto), della storia della civiltà e della religione. Questi
filoni di ricerca corrispondono a orientamenti diffusi nella cultura scozzese
intorno alla metà del Settecento, dove il modello della storia naturale era applicato anche ai fenomeni morali e sociali.
Metodo:
_____________ e Newton: il metodo _____
___________________________________
CTR
Uomo = ________  precetti __________
1 – partire dalle situazioni reali in cui si
manifesta ___________________________
2 – non andare oltre ___________________
3 – utilizzare pochi __________________ e
____________ per spiegare i fenomeni.
4 – rifiutare _________________________
dalla _________________ di Newton alla
____________________________ di Hume
esperienza  ________________________
esperienza  leggi di ________________
 mondo e Io ____________________
ma
bisogni _____________ e istinti (non ____
______)  _________________________
allora ____________________________
ma non rinuncia a ____________________
52
Sulla base dell’analisi di Locke, Hume considera come materiale su cui opera la
mente i dati forniti dai sensi. Queste percezioni sono suddivisibili in impressioni
e idee. Le impressioni sono le percezioni sensoriali nel momento in cui sono
attuali, che hanno quindi la massima evidenza, le idee sono, invece, le immagini
che conserviamo nella memoria dopo che l’impressione attuale è svanita.
Locke e Hume ritengono che le idee siano sempre riconducibili alle impressioni,
stabilendo una priorità delle impressioni sulle idee: le idee sono sempre una
copia delle impressioni. In base alla priorità delle impressioni sulle idee, Hume
trae alcune
conclusioni che rappresentano quattro posizioni tipiche
dell’empirismo:
-se si vuole giudicare la fondatezza di un’idea bisogna sempre risalire alle
impressioni di cui essa si compone, poiché le impressioni sono l’unica fonte
della conoscenza. L’idea è da considerare falsa o quando non si trovano
impressioni ad essa corrispondenti (e quindi è un principio metafisico) o quando
le impressioni giustificano solo in parte le idee (come, ad esempio, gli animali
fantastici). Questa posizione giustifica il rifiuto degli empiristi di ricorrere a
concetti metafisici per spiegare la realtà.
- i concetti, le idee astratte non potendo essere considerati il frutto delle
impressioni, devono essere considerate il prodotto dell’abitudine ad adoperare un
nome comune per indicare delle idee particolari che si assomigliano. Per quel che
riguarda l'origine dei concetti, Hume assume una posizione nominalista. Ritiene
infatti, come Ockham e Hobbes, che il concetto di uomo, ad esempio, non sia
altro che 1a somma di certe impressioni tra loro analoghe, classificate sotto lo
stesso nome. L'esperienza, insomma, ci mostra soltanto realtà particolari; quelli
che i filosofi medievali chiamarono universali sono costruzioni umane.
-si esclude l’esistenza di idee innate: se esistessero, esse sarebbero infatti
indipendenti dalle impressioni sensoriali.
-dando la priorità alle percezioni, l’empirismo considera centrale nel processo
conoscitivo il ruolo dell’esperienza.
Non essendo dotata di conoscenze innate e procurandosi le sue conoscenze
tramite l’esperienza, per Hume e gli empiristi, la mente umana è paragonabile a
un foglio bianco su cui l’esperienza, tramite le impressioni, lascia delle
immagine, come impressionando una pellicola fotografica.
La nostra mente però, oltre a registrare passivamente delle immagini, può
stabilire collegamenti e relazioni fra le idee. Essa non è però del tutto libera, né
le relazioni vengono stabilite casualmente. Nella sua attività, l'immaginazione è
guidata da un «principio universale» che opera uniformemente, in maniera
regolare e metodica: il principio di associazione, per cui nella mente umana
opera una specie di «forza gentile» che favorisce determinate associazioni
piuttosto che altre. Si tratta di una forza naturale, di un istinto che spinge a
connettere determinate idee e che si consolida via via come abitudine,
associando le idee secondo regole precise.
A proposito della tendenza associativa delle idee, Hume prospetta l'ipotesi che le
idee tendano ad associarsi fra loro in modo analogo a quello con cui, nella fisica
newtoniana, i corpi tendono ad attirarsi reciprocamente. E, come nella fisica
questo fenomeno è spiegato in base alla forza di gravità, così l'attrazione o
l'associazione fra le idee è guidata da un principio universale, il principio di
associazione, che presiede al funzionamento della mente umana: non un
principio intellettuale, ma una forza istintiva, sia pure sottoposta a regole.
Le regole che presiedono all'associazione delle idee si esprimono attraverso tre
leggi: 1) la legge di somiglianza, per cui si associano idee di cose fra loro simili:
per esempio, un ritratto richiama naturalmente l'originale; 2) la legge di
contiguità spazio-temporale, per cui si associano idee di cose vicine nello spazio
e nel tempo: per esempio, il ricordo di una stanza fa pensare all'intera casa, o
quello di una particolare vicenda agli sviluppi che ne sono seguiti; 3) la legge di
causalità per cui si associano idee di cause e di effetti: per esempio, l'idea del
LA TEORIA DELLA CONOSCENZA
Contenuti _______________ =
Percezioni  ______________ (attuali)
____________ (__________)
La priorità ___________________________
1- idea vera = impressione _____________:
il rifiuto dei __________________________
____________________
2 – idee astratte = nome comune per
____________________________________
_______________________
3 – no ______________________________
4 – centralità ______________  centralità
____________________________________
La mente come _______________________
L’elaborazione delle ___________________
(l’associazionismo)
associazione di idee e _________________
___________________________
Le idee sono messe in relazione a causa di:
1 __________________________________
2 __________________________________
3 __________________________________
53
bruciore connessa a quella del fuoco. Sulla base di queste leggi, la mente umana
costruisce dei sistemi di idee complesse, dando vita sia alle scienze sia a insiemi
puramente fantastici
La spiegazione associazionistica della formazione delle idee è da Hume ritenuta
la sua scoperta più importante. Egli ritiene che questo principio riesca a spiegare
la formazione delle idee senza ricorrere a cause esterne alla
mente
dell’individuo, poiché l’effetto di tali cause esterne non sarebbe osservabile, e La scientificità dell’___________________
inoltre non si possono ritenere le idee frutto del caso. Hume ritiene questo un
principio scientifico, poiché è basato sulle osservazioni, su impressioni sensoriali
relative al nostro modo di usare le idee.
LA CRITICA AL PRINCIPIO DI
CAUSALITÀ’
Il principio di casualità è, come abbiamo visto, un principio di associazione
delle idee, è alla base di tutte le conoscenze in ambito scientifico o storicosociale ed è, inoltre, alla base dei nostri ragionamenti quotidiani; infatti in Importanza __________________________
ognuno di questi casi si tende a stabilire relazioni di causa-effetto, per cui noi
vediamo un fenomeno come la causa di determinati effetti o come effetto di una
causa.
Occorre secondo Hume stabilire la fondatezza di questo principio: se è certo,
allora sono fondate anche le conoscenze che su esso si basano.
Palle da _____________________________
Per esaminare la fondatezza del principio di causa-effetto Hume analizza una
situazione concreta in cui questo principio è applicato: due palle da biliardo di
cui quella in movimento urtando quella ferma la mette in moto. Osservando
situazioni di questo genere, noi arriviamo alla conclusione che ogni qual volta
una palla urta un’altra la seconda si mette in movimento.
Hume si propone di analizzare la fondatezza di questa conclusione. Secondo il
metodo empirista, per accertarsi della fondatezza di un’idea occorre individuare
le impressioni sensoriali su cui essa si basa.
Per giungere alla conclusione che “Ogni qualvolta una palla in movimento
colpisce un’altra palla questa si mette in movimento” noi ci basiamo su tre
Per concludere che ogni qual volta __________________________________________________________________________________
ci basiamo su:
1 - __________________________________ fra causa e ___________________
IMPRESSIONI _____________
+
2 – rapporto di ___________________________________________ per cui:
la causa ______________________________________________________________
3 ___________________________________per cui ____________________________
_______________________________________________________________________
CONNESSIONE ____________________________ per cui ogni qualvolta _______________________________________________________
che:
a) si riferisce al ________________________ per cui non può fondarsi _____________________________________________
b) non è ______________________________________________________________________________
c) non è _____________________________________
è il frutto di ____________________________________
utilità  _________________________  _____________________________
percezioni sensoriali: la contiguità spaziale fra la causa e il suo effetto (occorre
che le due palle si incontrino); il rapporto di successione temporale per cui la
54
causa precede l’ effetto (il movimento della prima palla precede quello della
seconda); la congiunzione costante fra causa e effetto (tutele volte che abbiamo
visto una palla colpirne un’altra questa si è mossa).
Oltre a queste impressioni basate sull’ esperienza, quando si stabilisce una
relazione di causa-effetto si stabilisce anche un rapporto di connessione
necessaria, per cui ogni qualvolta una palla viene colpita da un’ altra si muoverà.
Per Hume quest’ultima considerazione non può fondarsi su alcuna sensazione
sensoriale in quanto si riferisce al futuro, di cui non abbiamo ancora avuto
esperienza. La connessione necessaria, e con essa il principio di causalità, non
può essere quindi considerata fondata poiché ad essa non corrisponde alcuna
impressione sensoriale; inoltre, non può essere oggetto di dimostrazione
razionale che si basi sull’ analisi della causa, in quanto non c’è nella causa (la
palla in movimento) nulla che possa spiegare l’ effetto, per sapere che una palla
colpita si mette in moto, devo per forza avere avuto tale esperienza; infine, non
può essere considerata un’ idea innata, in quanto le idee si fondano sempre sulla
esperienza.
Conseguenze? L'impossibilità di mostrare il carattere necessario del nesso di
causa-effetto ha conseguente rilevanti da diversi punti di vista. Per quanto
riguarda la fisica, viene meno un principio fondamentale nella sua costruzione
come scienza. Per quanto riguarda la teologia razionale, senza il ricorso al
principio di causalità non è possibile dimostrare l'esistenza di Dio a partire dalle
cose esistenti, come loro causa prima. Per quanto riguarda la stessa concezione
della realtà, non è possibile affermare l'esistenza di un mondo esterno quale
causa delle nostre percezioni delle cose sensibili.
Nella vita pratica, scompare il fondamento di certezze consolidate: che la palla A
metta necessariamente in movimento la palla B, che l'acqua spenga il fuoco, che
il sole sciolga la neve, e così via. Non è detto che ciò che finora si è verificato,
avvenga anche in futuro.
Qual è il fondamento delle previsioni che si basano sull'esperienza passata?
Essendo il nesso di causa-effetto una semplice congettura, da che cosa nasce la
sicurezza, o meglio la fiducia, che le cose andranno in futuro così come abbiamo
finora sperimentato? Nasce dall'abitudine: avendo più volte percepito in passato
che certi eventi, fra loro simili, sono seguiti da certi altri eventi, pure fra loro
simili (per esempio tutte le volte che qualcuno, preso dalla sete, ha bevuto acqua,
si è dissetato), ci si aspetta che, verificandosi un evento x, si verifichi l'evento y
come conseguenza del primo.
Solo l'abitudine, secondo Hume, induce a supporre che il futuro sia conforme al
passato, che il corso della natura continui a essere come è sempre stato.
CREDENZE E ABITUDINI
Nessuna prova, dunque, attesta la regolarità dei fenomeni naturali e la certezza di
un rapporto causale fra due fatti non ha fondamento logico; essa ha piuttosto un
valore psicologico, in quanto l'abitudine, la quale spinge a credere che a un
determinato fatto x segua un altro determinato fatto y come già sperimentato
precedentemente, fornisce elementi utili a orientare le nostre azioni. Se non ci
fosse l'abitudine noi dovremmo limitarci a considerare le sole questioni di fatto
immediatamente presenti alla percezione sensibile, senza poter “programmare”
in alcun modo il futuro.
Dall'abitudine si genera la credenza (belief), la fede nella regolarità degli eventi,
ovvero un sentimento, un'inclinazione naturale di straordinaria importanza nella
vita pratica, che infonde certezza là dove la ragione lascia un vuoto, che ci
indirizza, per esempio, a ricorrere con sicurezza all'acqua per spegnere un
incendio, o, se si gioca a biliardo, a cercare di colpire in un certo modo la palla A
perché a sua volta metta in movimento la palla B.
Questa aspettativa è fondata sulla credenza relativa alla regolarità dei fenomeni,
Abitudini = non valore ________________
ma __________________  orienta
___________________________
abitudine  __________________ nella
______________________________ 
__________________  azione
ma ____________________ infondata
perché _____________________________
55
e ci porta a pensare che la natura si comporti in modo uniforme. Ma anche
questa uniformità non è giustificata, in quanto dovrebbe riferirsi a esperienze
future che non possiamo avere.
L'abitudine spiega la congiunzione che noi poniamo tra due fatti, spiega la nostra
fede nei nessi causali, ma ciò non fonda razionalmente la necessità del rapporto
di causa-effetto. Si viene così ad affermare, dal punto di vista gnoseologico, la
priorità della credenza sulla conoscenza rigorosa, del sentimento istintuale sulla
ragione. Come l'istinto degli animali, l'abitudine e la credenza costituiscono una
guida sicura nella vita pratica, ma non danno alcuna giustificazione razionale.
La critica al concetto di causa è il risultato di un rigoroso atteggiamento
empirico.
Questa analisi, che porta ad evidenziare come nelle nostre conoscenze abbiano
un ruolo importante non solo i fattori logico-razionali, ma anche le tendenza
psicologiche (abitudini e credenze), spinge Hume ad abbandonare esplicitamente
la pretesa che la scienza arrivi ad una verità assoluta, certa, sfociando in uno
scetticismo che l’autore stesso definisce non radicale, in quanto non vuole
screditare la scienza, ma delimitarne il campo di validità (vedi problema 1,
schema pag. 3).
Pur nei suoi limiti, la scienza rimane la miglior forma di conoscenza a causa
della sua utilità pratica e perché le nostre credenze si impongono in modo
prerazionale e fanno parte della nostra psicologia. Pur non avendo alcuna
garanzia metafisica, e non essendo assolute e completamente razionali, queste
credenze devono essere accettate con la consapevolezza che possono essere
fallaci.
Questo significa che una componente d'irrazionalità è alla base anche
della moderna scienza della natura, galileiana e newtoniana la quale, come si
sa, è qualificata giustappunto dalle spiegazioni causali e dal ragionamento
induttivo, che predice il futuro generalizzando esperienze particolari del
passato. Dal punto di vista di Hume, i ragionamenti induttivi hanno una
grande efficacia psicologica ma sono privi di necessità logica, perciò possono
avere tutt'al più un valore probabilistico.
Questo, però, non significa che dobbiamo smettere di ricercare nessi di causa ed
effetto tra gli eventi e dobbiamo rassegnarci all'imprevedibilità del futuro;
significa piuttosto, per Hume, che la ragione non ha, nell'organizzazione pratica
della nostra vita, il ruolo preponderante attribuitole da gran parte della
tradizione filosofica. Insomma, noi siamo, e tutto sommato ci conviene essere,
degli animali irrazionali: se ci affidassimo soltanto alla ragione, non avremmo
elementi per decidere se al trentesimo piano di un grattacielo sia preferibile
salire a piedi o in ascensore, volendo fare prima e affaticarci di meno, ecc.
Le espressioni antiche dello scetticismo, che risalgono alle tradizioni ispirate al
mitico Pirrone di Elide (circa 360-275 a.C.) e alla tarda Accademia platonica (III
secolo a.C.), avevano conosciuto un periodo di rinnovata fortuna a partire dal
Rinascimento e avevano trovato varie utilizzazioni, non escluso il rifugio nella
fede come unica soluzione di fronte a difficoltà inaccessibili alla ragione. Hume
stabilisce però una differenza fondamentale fra il ricorso al dubbio metodico da
parte dei moderni, esemplificato nell'opera di Cartesio, e i procedimenti
distruttivi del filosofo «accademico» antico: il primo ha per scopo la ricerca di
una nuova certezza intorno al fondamento delle scienze, i secondi sono esercizi
estremi della ragione che finisce con il distruggere se stessa. Se da un lato la
ragione esercita la sua legittima funzione critica mettendo in evidenza le
contraddizioni implicite nelle dottrine tradizionali, dall'altro rischia di esaurirsi
in elaborazioni sterili e perdere di vista l'obiettivo fondamentale della ricerca
filosofica, la comprensione del mondo umano.
_________________________________
CTR
_______________________________
scienza = ________________________
__________________ non radicale:
non _________________________ ma
____________________ il campo di validità
della scienza
valore ________________________ della
scienza
la praticità di essere __________________
scetticismo antico: ________________
distrugge se stessa
scetticismo moderno: ricerca del ________
___________ della scienza
56
Altrettanto radicale è la critica che Hume rivolge ad alcune delle idee più
prestigiose della tradizione metafisica.
La concezione antimetafisica derivante dall'empirismo radicale humiano mette
infatti in crisi sia l'oggettività del mondo esterno e la sua persistenza nel tempo
come qualcosa di unitario, sia la soggettività umana intesa come cosa per sé
esistente.
Seguendo la via di Locke e Berkeley17, Hume affronta il problema della
sostanza18 e arriva ad affermare che non esiste alcuna impressione
corrispondente all'idea di sostanza, sia materiale che spirituale.
La nostra idea di sostanza materiale, oggettiva, è in realtà quella di una
collezione di qualità particolari (la forma, il colore, il peso, la solidità ecc.),
ovvero una collezione di impressioni sensibili unite fra loro dall'immaginazione.
L'idea di una rosa, per esempio, non è che l'insieme di impressioni particolari (la
forma, il colore, il profumo), senza alcun riferimento a un che di unitario che si
possa definire sostanza. Anche in questo caso interviene l'abitudine a legare
insieme impressioni diverse e a farne una cosa esterna alla mente e distinta da
essa.
Inoltre, la costanza con cui si presentano certi insiemi di impressioni (come, nel
caso della rosa, forma, colore, profumo) spinge a immaginare che le cose fuori di
noi abbiano un'esistenza stabile, continua e ininterrotta, indipendente da noi,
anche quando non sono immediatamente presenti ai nostri sensi. Tanto che, se
anche ogni essere umano con le sue capacità percettive fosse annientato, le cose
continuerebbero comunque a esistere.
In realtà noi cogliamo nel corso del tempo degli insiemi fra loro simili di
impressioni, che non sono sempre presenti, ma si manifestano a intervalli di
tempo più o meno lunghi. Vedo un insieme di impressioni forma-colore-profumo
cui do il nome di rosa; distolgo lo sguardo più o meno a lungo; quindi mi ritrovo
davanti un insieme di impressioni forma-colore-profumo, simile a quello
LA CRITICA ALLA METAFISICA E
ALLA CONCEZIONE TRADIZIONALE
DELLA REALTÀ E DELL’IO
LA CRITICA ALLA CONCEZIONE ___________
percezione di _______________________
abitudine  ________________________
______________________ delle percezioni
 esistenza ______________________
17
George Berkeley (1685 –1753) è stato un filosofo e teologo irlandese, uno dei tre grandi empiristi
britannici assieme a John Locke e David Hume. Si laureò a Dublino nel 1707 e ben presto formulò il
principio fondamentale della sua metafisica: l'immaterialismo. Per Berkeley l'unico scopo autentico della
filosofia è quello di confermare e avvalorare la visione della religione: è Dio, infatti, l'unica causa della
realtà naturale. Berkeley era contro l'esistenza delle idee astratte e fautore di un nominalismo radicale.
Infatti secondo l'irlandese non esistono idee generali o universali, ma semplici idee particolari usate come
segni, appartenenti ad un gruppo di altre idee particolari tra loro affini. Gli oggetti che noi crediamo
esistere sono in realtà delle astrazioni ingiustificate; non esistono oggetti corporei, ma soltanto collezioni
di idee che ci danno una falsa impressione di materialità e sussistenza complessiva. La celebre formula
che riassume la filosofia di Berkeley, «Esse est percipi», significa "l'essere è essere-percepito", ossia:
tutto l'essere di un oggetto consiste nel suo venir percepito e nient'altro. La teoria immaterialistica così
enunciata sentenzia che la realtà si risolve in una serie di idee che, per essere considerate esistenti, hanno
bisogno di essere percepite da uno spirito umano. È Dio, spirito infinito, che ci fa percepire sotto forma di
cose e fatti le sue idee calate nel mondo. Idee, in un certo senso, "umanizzate", e in quanto tali
"percepibili". La dottrina di Berkeley esclude in virtù di questo principio l'esistenza assoluta delle cose.
Secondo il teologo irlandese tutto ciò che esiste è o idea o spirito, quindi le cose non sono altro che le
idee. Se esistesse una materia, essa sarebbe soltanto un limite alla perfezione divina. In questo senso
anche la scienza di Newton non ha altro valore che quello di una mera ipotesi, che ci aiuta a fare
previsioni per il futuro, ma non ha alcun riferimento con la realtà materiale, che non solo non è
conoscibile, ma non esiste affatto. Le idee, secondo Berkeley, vengono impresse nell'uomo da uno spirito
infinito, cioè Dio. Inoltre lo stesso Dio si configura come la Mente infinita grazie a cui le idee esistono
anche quando non vengono percepite. Berkeley porta quindi alle estreme conseguenze l'empirismo di
Locke, giungendo a negare l'esistenza di una sostanza materiale perché non ricavabile dall'esperienza, e
recidendo così ogni possibile legame tra le nostre idee e una realtà esterna. Egli anticipa lo scetticismo di
Hume, ma se ne mette al riparo ammettendo una presenza spirituale che spieghi l'insorgere di simili idee
dentro di noi, rendendocele vive e attuali, sebbene prive ormai di un fondamento oggettivo.
18
L’idea di sostanza sta alla base della concezione della realtà di Aristotele: per lui l'essere, in senso
stretto, è la sostanza, ovvero "ciò che non dipende da altro per esistere". Tutte le proprietà che attribuiamo
a qualcosa - il possedere quattro zampe, l'essere bianco, ruvido, dolce, razionale ecc. - si dicono - e sono di una sostanza
57
percepito precedentemente. Dal punto di vista empirico, niente mi assicura che
sia lo stesso di quello di prima. Tuttavia noi siamo portati a vedere come
un'identità la somiglianza fra i raggruppamenti che si susseguono, siamo cioè
portati a credere che non si tratti di raggruppamenti simili, bensì dello stesso
raggruppamento che si presenta in maniera intermittente, ma che continua a
esistere anche durante gli intervalli in cui non è presente all'esperienza. In altri
termini, quando parliamo di corpi, oggetti ecc., questi sono i nomi che diamo ad
un certo set di percezioni: "mela" equivale a un certo colore più una certa forma
spaziale più un certo gusto, e così via (vedi lettura n. 13).
L'abitudine e l'immaginazione spingono a credere all'esistenza unitaria e
continua degli oggetti, di cui non abbiamo in realtà alcuna certezza razionale.
Come nel caso della causalità, il fatto di supporre l'esistenza dei corpi è un
prodotto dell'abitudine, la quale induce ad associare determinate impressioni e
conseguentemente a credere nell'esistenza di determinati oggetti, a ritenere la
realtà esterna come qualcosa di sussistente per sé, anche al di là delle nostre
percezioni. Ma di questa esistenza unitaria e continua non sussiste alcuna prova
oggettiva, perché non c'è alcuna prova che all'origine delle nostre percezioni ci
siano delle cose esistenti nella realtà esterna, nel mondo materiale. Noi non
percepiamo corpi, ma solo impressioni, a cui la mente, per abitudine, attribuisce
un'esistenza corporea. Questo è ciò che comunemente si intende come sostanza.
Nonostante la ragione non fornisca alcuna certezza intorno all'esistenza dei corpi
esterni, il senso comune è indotto, come per istinto, a credere a quell'esistenza.
(vedi problema 3, schema pag. 3).
Se il mondo esterno si risolve in una serie di impressioni, non diversamente
accade per la coscienza che l'uomo ha di sé come soggetto. Che cos'è il nostro Io
se non il flusso delle nostre percezioni? Solo la spinta dell'abitudine induce a
unificarle, facendo credere nell'esistenza di un Io sostanziale che, di fatto, non è
altro che un fascio di percezioni particolari in continuo cambiamento.
Scrive Hume: “Noi non abbiamo alcuna idea di una sostanza di qualsiasi genere,
perché non abbiamo alcuna idea che non sia derivata da qualche impressione e
non abbiamo impressione alcuna di qualsiasi sostanza, materiale o spirituale che
sia. Noi conosciamo soltanto qualità particolari. Come la nostra idea di un corpo,
per esempio di una pesca, non è che l'idea di un particolare sapore, colore,
figura, grandezza, solidità ecc., così la nostra idea di una mente non è che quella
di particolari percezioni, senza la nozione di quello che chiamiamo sostanza,
semplice o composta che sia.” (Estratto del Trattato sulla Natura umana)
Ovvero: noi non abbiamo esperienza del nostro Io come di un tutto unitario, ma
solo dei nostri stati di coscienza (sensazioni, idee, sentimenti, passioni, desideri,
ricordi, aspettative); noi non siamo una sostanza sempre identica a se stessa, un
soggetto dotato di una propria identità, ma un fascio di impressioni particolari
che si susseguono nel tempo, alternandosi fra loro, senza mai presentarsi tutte
insieme, e lasciando spazio a più o meno ampie interruzioni, come nel sonno o
negli stati di perdita di coscienza. Solo la convinzione che ciascuno di noi ha di
essere la stessa persona, al di là del mutare degli stati di coscienza, fonda l'idea
dell'identità personale, che persiste anche quando non è attiva.
Radicalizzando la posizione di Locke, Hume ritiene che l'abitudine a riferire a
noi stessi le impressioni di cui facciamo successivamente esperienza spinga
ciascuno a credere di essere un soggetto non riducibile alle sue percezioni; ma di
fatto questo soggetto non è più reale di quanto lo siano i corpi esterni. L'identità
personale non può essere attribuita a una sostanza materiale o spirituale, ma
soltanto alla memoria che ogni individuo conserva del suo passato; si tratta di
un'identità provvisoria e discontinua, che non è sufficiente a caratterizzare l'io
come soggetto unitario di conoscenza e di azione. Hume cerca poi di delineare la
possibilità di ricavare dal flusso delle percezioni un'identità «fittizia», fondata
sugli elementi che permettono di definire l'io almeno come un'entità collettiva,
del tipo di una parrocchia o di una repubblica, unita da una continuità di rela-
________________ = nomi che
identificano _________________________
l’impossibilità di provare ______________
__________________________
LA CRITICA ALLA CONCEZIONE __________
Flusso di ____________________ 
abitudini  ______________________
l’impossibilità di avere esperienza _______
__________________________________
identità personale = __________________
del ___________________
l’identità «fittizia» = unità di ___________
_______________________________
58
zioni e di funzioni piuttosto che dalla sopravvivenza dei medesimi componenti.
Si tratta però di un'identità che non ha nulla da vedere con l'esistenza di un'anima
immateriale o di una sostanza pensante, intesa come fondamento indistruttibile
della coscienza.
Non essendo possibile provare l'esistenza dell'Io, se non come unità di gruppi di
impressioni che si susseguono nel tempo, non è neppure possibile parlare di
immaterialità e di immortalità dell'anima.
È evidente da queste tesi che per Hume la metafisica, intesa come conoscenza
razionale a priori di certi oggetti o realtà - tutte le cosiddette sostanze, compreso
Dio - non ha fondamento.
Credere all'esistenza del mondo, alla regolarità dei fenomeni nello spazio e nel
tempo, ripensare il passato in vista dell'avvenire è un bisogno irrinunciabile
dell'uomo. La capacità di agire nel mondo, di programmare il futuro, di avere un
rapporto con se stessi sarebbe impossibile senza la nostra credenza nel mondo
esterno e nell'unità della coscienza soggettiva. In altri termini: le esigenze della
vita pratica spingono l'uomo al di là dei limiti della razionalità, a credere
all'esistenza di qualcosa che va oltre l'ambito della percezione: il mondo esterno,
l'Io. L'uomo non può però pretendere di possedere verità rigorose e indubitabili
relative al mondo esterno e alla propria soggettività, perché le sue conoscenze in
proposito sono solo presunte verità, finzioni, anche se finzioni utili alla vita.
Proprio per questo la filosofia non deve sradicarle, deve piuttosto chiarire il loro
significato, il loro ruolo di semplici congetture, eliminando i motivi di inutili e
infinite controversie, di fanatismi e forme di intolleranza, che si scatenano
intorno alla verità.
Possiamo così cogliere il senso “doppio” dello scetticismo humiano: uno
scetticismo radicale, dal punto di vista teoretico, nei confronti di ogni dottrina
che tenda a superare indebitamente i confini dell'esperienza; moderato, dal punto
di vista pratico, in quanto riconosce l'utilità, per la concreta vita quotidiana, delle
credenze umane pur teoreticamente infondate.
HUME
identità non ______________________
lo scetticismo di Hume
credere per poter __________________
ruolo della filosofia = dimostrare che le
nostre _____________ sono ___________
_____________ e non ________________
E I PROBLEMI POSTI DAL NUOVO SAPERE
1 giustificazione nuovo sapere: la scienza è __________________ ________________________________________________________
_____________________________________________________________________________________________________________
Ruolo soggetto:________________________________________________________________________________________________
_____________________________________________________________________________________________________________
2 il metodo scientifico: __________________________________________________________________________________________
_____________________________________________________________________________________________________________
3 la concezione della realtà: _______________________________________________________________________________________
_____________________________________________________________________________________________________________
4 Dio: _____________ ___________________________________________________________________________________________
59
6 - Kant
La risposta di Kant e i suoi presupposti
Il superamento dell’opposizione ragione-esperienza: il nuovo ruolo del soggetto
La rivoluzione copernicana di Kant: la centralità delle strutture mentali
Il criticismo e la filosofia trascendentale: il tribunale della ragione
Struttura della mente e messa in “forma” dell’esperienza
Le forme a priori della conoscenza e la rivoluzione copernicana di Kant
La critica della ragione pura
L’articolazione della Critica della ragione pura
La tipologia dei giudizi
L’estetica trascendentale: le forme a priori della conoscenza
La logica trascendentale
Meriti e limiti dell’analisi kantiana
KANT: LE FORME A PRIORI DELLA
CONOSCENZA
LA RISPOSTA DI KANT: LA
VALORIZZAZIONE DEL SOGGETTO
La risposta di Immanuel Kant (1724-1804) 19 è quella che più valorizza il ruolo
Limiti di:
che il soggetto della conoscenza, cioè l’uomo, svolge nel processo conoscitivo.
Cartesio aveva posto l’esistenza del soggetto come prima certezza, ma aveva
- Cartesio: soggetto + bontà _____________
dovuto ricorrere a Dio per superare l’ ipotesi di essere ingannato. Gli empiristi
non erano ricorsi a Dio per dimostrare la validità delle conoscenze umane, ma - empiristi: passività _________________
avevano ridotto il ruolo del soggetto a quello di un registratore passivo
dell’esperienza.
Kant parte dai seguenti presupposti: la centralità del ruolo del soggetto
(condivisa dai razionalisti come Cartesio e Hobbes); la necessità di fondare la
conoscenza senza ricorrere ad entità metafisiche (condivisa con gli empiristi); le
conoscenze scientifiche sono: assolute, necessarie e universali. Assolute: quindi
sono certe, valide; necessarie: quindi non possono essere diverse da quelle che
sono; universali: ovvero uguali e vere per tutti.
Le conoscenze non possono quindi essere fondate sulla sola esperienza, infatti se
si accetta l’ esperienza come base su cui fondare la conoscenza, dobbiamo,
seguendo Hume, ammettere che esse non sono completamente certe, né
necessarie e universali. Per giustificare la conoscenza è quindi necessario
ammettere qualcosa oltre all’esperienza. Per individuarlo Kant si propone di
mettere al centro della sua analisi il rapporto fra il soggetto e l’oggetto della
conoscenza, per stabilire l’apporto che queste due entità danno al processo
conoscitivo.
I PRESUPPOSTI DI KANT:
1 - ____________________________________________________________ 2 – non ricorrere a ________ _______________________
3 le conoscenze scientifiche sono: assolute, _________________________ e _____________________
4 per giustificare le conoscenze occorre ammettere: 1 _____________________ + _____________________________
da individuarsi nel rapporto _____________________
19
Le opere principali di Kant sono rappresentate dalle tre Critiche, ovvero “La critica della ragion pura”
(1781), dedicata ai problemi della conoscenza scientifica di cui ci occuperemo in questa sezione, “La
critica della ragion pratica” (1788), dedicata all’analisi del comportamento pratico e quindi della morale,
di cui parleremo nella sezione dedicata al problema di Dio nella filosofia moderna, e, infine, “La critica
del giudizio” (1790), il cui oggetto è costituito dai giudizi estetici. Per la vita e le opere di Kant vedi pag.
85.
60
La filosofia europea del secolo XVIII è animata dalle due grandi correnti del
pensiero moderno: quella che fa riferimento alla ragione come organo di una
conoscenza assolutamente sicura, basata sul metodo matematico-deduttivo (che
ha la sua radice nel modello razionalista cartesiano), e quella che vede nella
ragione un principio critico che lavora su un elemento mobile e aperto come
l'esperienza, secondo il modello empirista di Locke e di Hume. La ragione
matematica e la ragione empirica hanno entrambe pregi e limiti. La prima
rappresenta un sapere certo, incontrovertibile, che tuttavia non gioca un ruolo
significativo nella vita reale. Al contrario, la ragione empirica, che mantiene un
saldo legame con l'esperienza concreta, non può garantire un valore assoluto alle
sue affermazioni.
Da questo quadro Kant trae conclusioni pessimistiche per il destino della
filosofia e in particolare della metafisica: da un lato, i fautori della razionalità
matematico-deduttiva, sicuri dei loro sillogismi, elaborano ragionamenti su
ragionamenti che sfociano in sistemi metafisici sempre più lontani dalla realtà;
dall'altro, gli empirici, persi nella miriade di dati offerti dall'esperienza, non
riescono a costruire un sapere dalle solide fondamenta e aprono la via allo
scetticismo.
Se è vero che nel conoscere non si può fare a meno dell'esperienza, l'esperienza
non è tutto; per dare stabilità e valore universale ai contenuti del sapere,
l'esperienza non basta, come ha messo in rilievo Hume con la critica al concetto
di causa: l'esperienza mi dà probabilità, non certezze; l'esperienza attesta ciò che
è, ma non dice che è così necessariamente (e che non potrebbe essere
altrimenti). Bisogna allora trovare una via alternativa sia alle “'vuotaggini” della
metafisica razionalista, sia all'empirismo radicale, che rischia di minare le basi
non solo della metafisica ma anche della scienza, quella scienza che agli occhi
di Kant rappresenta un fatto positivo.
Il proposito di Kant è allora di condurre un'indagine rigorosa sulla conoscenza
umana, per vedere se e come sia possibile individuare un modello “terzo” di
ragione che garantisca la certezza delle sue affermazioni e nello stesso tempo
non sia priva del contatto con l'esperienza. In questo senso egli raccoglie i
diversi fili del pensiero moderno, delineando un sistema filosofico al centro del
quale sta la ragione come facoltà critica, insieme rigorosa, secondo il modello
matematico-deduttivo, e aperta alla verifica empirica.
A questo fine bisogna cogliere gli aspetti validi sia del razionalismo che
dell'empirismo. Con gli empiristi Kant condivide la convinzione che non sia
possibile “saltare” il rapporto con l'esperienza, anche se l’esperienza da sola non
garantisce alcuna conoscenza stabile; con i razionalisti condivide la necessità di
dare alla conoscenza un sicuro fondamento, che come tale non può essere di
origine empirica, bensì a priori. L'a priori non deve però essere inteso come
presenza di verità innate nella mente umana, perché in tal modo si riproporrebbe
l'errore tipico del dogmatismo, che ritiene di poter fare a meno dell'esperienza.
Kant si muove perciò lungo una doppia linea, che da un lato mantiene il contatto
con l'esperienza, dall'altro, individua delle coordinate stabili (che in quanto tali
non derivano dall'esperienza) capaci di dare fermezza alle proposizioni
filosofiche e scientifiche. La sua gnoseologia si sviluppa così come una
complessa ricerca per individuare degli elementi a priori (indipendenti
dall'esperienza) sia a livello della sensibilità che dell'intelletto, cioè per
entrambe le fonti del conoscere umano, elementi che, proprio perché di origine
non empirica, possano garantire un sicuro fondamento alle nostre conoscenze.
Questi elementi sono di origine non empirica perché elementi a priori che non
provengono dagli oggetti, dal mondo esterno. Da dove, allora? Inevitabilmente
dal soggetto. Esistono cioè, secondo Kant, delle strutture interne alla
soggettività, che costituiscono il quadro stabile entro cui si collocano i dati
provenienti dal mondo degli oggetti. La molteplicità dei dati dell'esperienza
viene sottoposta a un processo di ordinamento, di unificazione, di sintesi, che si
IL SUPERAMENTO
DELL’OPPOSIZIONE RAGIONEESPERIENZA: IL NUOVO RUOLO DEL
SOGGETTO
LA FILOSOFIA MODERNA TRA ____________
______________________________
ragione matematica = ________________
ma poco ___________________________
ragione ________________ = _________
___________________________________
Metafisica:
razionalisti = sistemi lontani ___________
empiristi = _________________________
La ricerca di ________________________
IL
FILO CONDUTTORE
KANTIANA
DELLA
FILOSOFIA
certezza della ____________________ +
_______________________________
dagli empiristi: l’importanza dell’_______
_______ ma non _______________
dai razionalisti: l’importanza dell’_______
_________ ma non ____________________
La ricerca degli elementi _______________
non provengono ____________________
ma dal __________________________
= strutture del ___________________
che elaborano i dati __________________
61
sviluppa per gradi successivi.
La ricerca di principi a priori che assicurino stabilità ai contenuti del sapere
viene poi estesa dal campo gnoseologico alla morale, all'estetica, alla natura, alla
religione, alle leggi e alla convivenza civile, alla forma dello Stato, ai rapporti
internazionali. In tal modo la filosofia kantiana prende forma come una
costruzione coerente, guidata da un unico filo conduttore, alla luce di tre
domande:
Che cosa posso sapere?
Che cosa posso fare?
Che cosa posso sperare?
Domande che coinvolgono gli aspetti fondamentali della vita umana: la
conoscenza, l'agire pratico, il fine dell'esistenza.
Alle risposte del triplice interrogativo nel quale, secondo Kant, è contenuto il
compito della filosofia il filosofo tedesco ha dedicato le sue opere principali:
Critica della ragione pura, Critica della ragione pratica e la Critica del giudizio.
Il quadro risultante dalle prime due Critiche e dagli scritti di argomento affine si
può così sintetizzare: l'intelletto comanda nella conoscenza della natura, mentre
la ragione sovrintende all'operare della libertà.
Se relativamente alla conoscenza la ragione deve muovere dall'esperienza e non
può andare oltre essa, in ambito pratico (ovvero morale) la ragione deve
determinare la volontà (attraverso la quale l'uomo agisce come essere morale)
indipendentemente da ogni circostanza specifica, da ogni condizionamento
dell'esperienza e da ogni motivazione esterna.
Le due prime Critiche producono due mondi eterogenei: da un lato quello della
conoscenza scientifica, basato sulla necessità; dall'altro il mondo morale, basato
sulla libertà, senza la quale verrebbe meno ogni responsabilità personale e
quindi la morale stessa. Come si conciliano questi due mondi eterogenei?
Secondo Kant, dobbiamo poter sperare che il mondo non sia solo un
meccanismo perfettamente regolato, ma che abbia un «senso» per il soggetto
(ovvero l'uomo). Kant può così tornare a proporre, nella terza Critica, l'ipotesi
di una finalità immanente alla natura che porta a intravedere nel mondo
l'espressione di una volontà analoga a quella umana, ma a questa infinitamente
superiore, e nell'uomo lo scopo della creazione, in quanto unico essere dotato di
moralità.
Questa concezione finalistica dell'uomo e del mondo, presente anche nelle opere
etico-politiche di Kant, non può estendere la nostra conoscenza, ma arricchisce
la nostra interpretazione del mondo naturale e umano.
Kant nel rispondere alle tre domande cerca di analizzare i fondamenti di ogni
sapere. Un suo risultato centrale sarà la rottura di un'apparente uniformità dei
discorsi umani, attraverso la individuazione di forme diverse di discorso.
Conoscenze scientifiche, conoscenze filosofiche, asserzioni morali, fedi
religiose, valutazioni estetiche, prospettive politiche si rivelano forme di
discorso che hanno principi di legittimazione diversi.
Il compito della ragione e quindi della filosofia è innanzitutto quello di fare
chiarezza su tali principi, esaminarne criticamente la loro fondatezza.
Da questo punto di vista il progetto filosofico di Kant è sicuramente
l’espressione dello spirito dell’Illuminismo che egli vede incentrato sull'idea di
un uso autonomo della ragione: un atteggiamento che richiede il coraggio di
uscire da uno stato di «minorità» intellettuale.
È una ragione che avanza la pretesa di orientare la vita umana e che per Kant
deve essere libera e pubblica: la libertà di comunicare pubblicamente i propri
pensieri è per Kant una condizione necessaria per poter pensare. Il tribunale
della ragione al quale si richiama l'epoca dell'Illuminismo è la comunità degli
esseri razionali; a essi è affidato l'esame, svincolato da ogni autorità, della
legittimità di ogni affermazione.
IL QUADRO GENERALE DELLA FILOSOFIA
KANTIANA
Le tre domande:
Le tre critiche:
La critica della _______________________
La critica della _______________________
La critica della _______________________
Il dualismo di Kant:
1 - conoscenza scientifica  dipendenza dai
dati dell’_________________  _______
_____________________
2 - agire ___________  ______________
incondizionata  ___________________
+ finalismo  sperare che ___________
_________________________________
non conoscenza _____________________
ma _____________________________
la rottura dell’ ______________________
dei discorsi
≠ discorsi hanno ___________________
________________________ ≠
Kant e ___________________________
L’uso ______________________ della
ragione ____________ e _______________
62
«A un genio che vive in provincia può accadere di impegnarsi in problemi che
in una grande capitale nessuno prenderebbe più sul serio». Il filosofo italiano
Vittorio Mathieu (1923-) sintetizza in questo modo la particolare posizione di
Kant nella cultura dell'epoca. Qual era il problema "fuori moda" affrontato da
Kant nella sua opera maggiore? La metafisica. L'intento di Kant nello scrivere la
prima delle tre Critiche è appunto quello di trasformare la metafisica in scienza,
così come Newton era riuscito a fare della fisica una scienza. A questo scopo era
necessario anzitutto mettere fine alla vecchia metafisica dogmatica.
Riprendendo argomenti già affrontati nel periodo precritico20, nella Critica della
ragione pura (1781) Kant mette a confronto lo stato fallimentare in cui versa la
metafisica con i successi registrati dalle scienze.
Nella «Prefazione» alla prima edizione dell'opera, egli sottolinea le difficoltà
della ragione umana, lacerata tra la sua naturale aspirazione metafisica a
conoscere la totalità delle cose e l'impossibilità di affrontare problemi che
oltrepassano il suo potere conoscitivo. Il disagio della ragione si riflette in quella
scienza che esprime al massimo grado l'ideale della razionalità, cioè la
metafisica, il cui stato di crisi è sotto gli occhi di tutti. Incalzata da domande che
la spingono sempre più in alto, verso i massimi orizzonti della realtà, la ragione
perde i contatti con l'esperienza e, priva di riscontri empirici, produce discorsi
non verificabili.
Nascono così sistemi di pensiero fragili, senza fondamento, per lo più in
contraddizione fra loro, perché ciascuno, non costretto alla severa disciplina
della verifica empirica, si ritiene legittimato ad affermare ciò che vuole. Perciò
la metafisica si presenta non come un discorso unitario e compatto, ma come un
campo di lotte senza fine, dove ciascuno propone le tesi più varie e lontane fra
loro.
Di qui, i dubbi sulla scientificità della metafisica e conseguentemente l'esigenza
di istituire un tribunale della ragione, che sottoponga la ragione stessa a un
esame critico, accertando l'estensione e i limiti delle sue conoscenze. Prende
così forma il progetto di una «critica della ragione pura», dove l'aggettivo
«pura» significa: indipendente dall'esperienza, non toccata da alcun elemento
empirico; tale è infatti la facoltà con cui si intende costruire una metafisica.
Nella metafora del tribunale, la ragione si ritrova al tempo stesso nel ruolo di
giudice e in quello di imputata. Il genitivo che compare nell'espressione «critica
della ragione pura» è infatti al tempo stesso oggettivo, per cui il tribunale che
esamina ha per oggetto la ragione pura, e soggettivo, per cui il soggetto che
indaga è la ragione stessa.
L'intento dell'indagine non è di scoprire qualcosa di nuovo a proposito della
razionalità umana, ma di capire se e quali elementi al suo interno la rendano
capace di cogliere con metodo scientifico la realtà.
La «filosofia critica» voleva avere, nelle intenzioni di Kant, una funzione
propedeutica: sarebbe servita «non ad allargare, ma solo a purificare la nostra
ragione, a liberarla dagli errori». Kant dunque pensava alla prima Critica come a
un'opera preparatoria a un sistema metafisico della ragione che sarebbe seguito.
Di questo sistema diede un saggio nei Primi principi metafisici della scienza
della natura (1786), ma l'opera venne presto dimenticata, la Critica della ragion
pura venne subito considerata la vera filosofia di Kant, non la preparazione al
sistema: la sua funzione liquidatoria nei confronti della metafisica prevalse 21.
LA RIVOLUZIONE COPERNICANA DI
KANT: LA CENTRALITÀ DELLE
STRUTTURE MENTALI
IL
CRITICISMO
TRASCENDENTALE:
RAGIONE
E
IL
LA
FILOSOFIA
TRIBUNALE
DELLA
Lo scopo di Kant: fare della _____________
una scienza come ____________ di Newton
la critica della _______________________
_____________________:
- aspirazione e ______________________
di conoscere _______________________
- non ______________________________
L’esigenza di _____________________
_______________ della ragione pura =
indipendente ______________________
il duplice ruolo della ragione: ___________
__________________________________
scopo non scoprire _________________ma
cosa rende razionale il metodo scientifico
da funzione _________________________
a funzione definitiva: __________________
della metafisica
20
Il termine si riferisce alle opere e al pensiero di Kant antecedenti la pubblicazione della prima Critica
(1781).
21
Come si vede da queste prime notazioni, e come le due prefazioni della Critica della ragion pura
evidenziano in modo particolare, una delle massime preoccupazioni kantiane è ancora il problema
metafisico. L'atteggiamento anche del Kant più maturo verso la metafisica appare piuttosto ambiguo. Da
un lato interi capitoli e sezioni della Critica della ragion pura (si pensi alla Dialettica trascendentale) ne
63
Il criticismo consiste dunque nel sottoporre a esame i fondamenti della
conoscenza. «Critica», in senso kantiano, è quella filosofia che si chiede come
sia possibile il conoscere, sotto quali condizioni ed entro quali limiti la
conoscenza sia legittima. Tale è il compito della filosofia critica: indicare
possibilità e limiti della conoscenza.
Questo anche il senso dell'introduzione di un concetto chiave della filosofia
kantiana: il «trascendentale». «Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si
occupa non di oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti». Kant
adotta quindi il termine trascendentale come sinonimo di a priori e di puro, per
indicare ciò che precede ogni esperienza — essendone anzi la condizione — e
non contiene in sé alcun elemento empirico22.
Questo presupposto critico, che intende analizzare il funzionamento della mente
prima di ogni analisi degli oggetti del mondo, inaugura la filosofia
trascendentale.
Come si vede, la questione della possibilità della metafisica risulta subito
allargata a un problema più ampio: il problema di un esame dei fondamenti
teorici della conoscenza in quanto tale. A sua volta, questo problema si configura come un riflessione sopra la «ragion pura», ovvero a quell'insieme di
condizioni e regole generali formali del sapere che sembrano sussistere
autonomamente dalla materia empirico-particolare del sapere stesso. Come mai?
Per qual motivo un'indagine sulla conoscenza si identifica con un'indagine sulla
ragione? Che ne è dell'esperienza? Tali interrogativi ci portano a uno degli
assunti centrali del pensiero kantiano. Secondo Kant la conoscenza è certo
costituita anche dall'esperienza: però, «nonostante che ogni conoscenza cominci
coll'esperienza, non perciò proviene tutta da questa». Per Kant (in ciò
idealmente vicino a Leibniz) essa proviene anche da principi che sono
inderivabili dall'esperienza. E invero, come non vedere che alcuni principi hanno a tal punto questo carattere da apparire essi una condizione indispensabile
affinché l'esperienza stessa si renda possibile? Come non vedere, ad esempio,
che la spazialità, ben lungi dall'appartenere a questo o quel corpo determinato,
sembra una forma generale che va in qualche modo presupposta onde esperire
tale corpo?
L'ipotesi gnoseologica kantiana parte dunque da un doppio riconoscimento: 1)
ogni nostra conoscenza comincia con l'esperienza, cioè ogni processo
conoscitivo ha il suo primo stimolo nella conoscenza sensibile, determinata
dall'azione che gli oggetti esercitano sui nostri sensi; 2) ma non tutta la nostra
conoscenza deriva dall'esperienza.
IL _____________________
esaminare i ____________________ della
conoscenza per stabilirne _______________
e __________________________
LA FILOSOFIA _______________________
lo studio del nostro ____________________
gli ________________________
STRUTTURA DELLA MENTE
“FORMA” DELL’ESPERIENZA
E
MESSA
IN
L’assunto centrale di Kant:
le nostre conoscenze nascono dall’ ______
______________________ che viene
“_______________________” dal soggetto
rifiutano le ambizioni e gli assunti scientifico-cognitivi: la metafisica non può essere, appunto, una
scienza. Dall'altro essa viene difesa e valorizzata. Non solo per l'ausilio al vivere pratico che offrono le
sue tesi, ma anche perché si tratta di «un sapere, del quale non possiamo assolutamente far senza». La
metafisica, si legge altrove, è «sapere non fisico [...], sapere derivato dall'intelletto puro e dalla ragion
pura», si occupa di «conoscenze a priori», alle quali giunge mediante procedimenti suoi propri. La
«critica» è considerata come la «preparazione necessaria allo svolgimento di una metafisica ben
fondata». Come si vede, per Kant (o almeno per un certo Kant) la metafisica non è affatto qualcosa di
cui ci si possa e ci si debba sbarazzare sbrigativamente.
22
Il termine trascendentale era stato usato dagli scolastici medievali per indicare alcuni predicati
generalissimi, l'essere e le sue proprietà universali (come il vero e il bene), che trascendono, cioè vanno
al di là, in quanto universali, delle stesse categorie — o generi sommi — individuate da Aristotele.
Anche Kant attribuisce al termine trascendentale un valore di universalità, ma a differenza degli
scolastici, che lo riferiscono alle realtà per sé esistenti, lo riferisce alle forme con cui opera la ragione, e
quindi al soggetto che conosce. Il temine trascendentale non va confuso con quello di trascendente, pure
di origine scolastica, che indica ciò che va oltre il mondo dell'esperienza, ciò che sta sopra la realtà
sensibile, come Dio; anche per Kant trascendente significa ciò che va oltre l'esperienza e quindi non può
essere sottoposto alla verifica empirica: tali sono l'anima-sostanza, il mondo come totalità, Dio.
64
Sulla base di questi due punti fermi si può ipotizzare che la conoscenza empirica
sia il risultato delle impressioni che riceviamo dall'esterno e insieme di qualcosa
che viene aggiunto dalla facoltà soggettiva del conoscere, stimolata dalle
impressioni sensibili; ovvero, che l'esperienza sia “messa in forma” da una
componente di origine non empirica.
Ci sono tanti oggetti di fronte a noi, a noi esterni: prescindendo dalle diverse
valutazioni individuali, in questi oggetti esistono delle caratteristiche che
cogliamo tutti allo stesso modo, come mette in rilievo lo sviluppo delle scienze.
Perché? Secondo Kant, perché la mente umana è “strutturata” allo stesso modo
in tutti i soggetti, al di là delle differenze psicologiche che contraddistinguono
ciascun individuo (i gusti, l'educazione, le circostanze e i modi di vita ecc.) e
funziona allo stesso modo in tutti, così che le conoscenze di ciascuno arrivano a
“coincidere” — almeno nel caso delle scienze — con quelle degli altri. Si tratta
allora di definire in che modo lavora la mente `”comune” e a quali oggetti si
applica, cioè su quali aspetti della realtà esterna è possibile raggiungere una
conoscenza condivisa.
Se tutto ciò è vero, il primo compito di una critica della ragione deve consistere,
per citare un altro importante enunciato programmatico di Kant, in un
«inventario di tutto ciò che possediamo per mezzo della ragion pura,
sistematicamente ordinato». Dobbiamo, cioè, individuare tutte le forme e le
funzioni che, palesemente inderivabili dall'esperienza, non possono non essere
ammesse, se si vuole fondare e legittimare persuasivamente la nostra
conoscenza.
Nel 1787, presentando la seconda edizione dell'opera, Kant aggiunge una a
nuova prefazione, in cui riprende il tema della controversa scientificità della
metafisica e ne approfondisce i motivi del suo diverso destino rispetto alle
scienze matematico-fisiche.
La matematica e la fisica hanno vissuto una sorta di rivoluzione, per cui non è il
soggetto conoscente che deve adeguarsi all'oggetto, ma viceversa è l'oggetto che
deve uniformarsi al soggetto. Ovvero la matematica e la fisica hanno assunto
una struttura scientifica quando ci si è resi conto di un fatto fondamentale: che la
ragione conosce un oggetto in modo scientifico, sulla base di proposizioni
necessarie e universali, quando ritrova in esso i concetti e le connessioni che
essa stessa vi ha posto e che sono a priori, universali e necessari, proprio in
quanto provengono dalla ragione, non dall'esperienza.
Relativamente alle scienze matematico-geometriche la consapevolezza della
centralità del soggetto nel processo conoscitivo si forma quando nell'antica
Grecia gli studiosi scoprono che per dimostrare le proprietà delle figure
geometriche è necessario costruirle secondo criteri stabiliti appunto dal soggetto,
darne cioè le definizioni e da qui dedurne le proprietà. Analogamente, la fisica
assume una struttura scientifica quando Galilei comprende che per costruire una
scienza della natura bisogna interrogarla attraverso l'esperimento e verificare se
essa si comporta così come affermano le leggi matematiche stabilite dalla
ragione.
In un celebre passo partendo dal metodo galileiano fondato sull’iterazione tra
osservazioni, esperimento e teoria così Kant stesso descrive il nuovo ruolo del
soggetto: “Allorché Galilei fece rotolare lungo un piano inclinato le due sfere, il
cui peso era stato da lui stesso prestabilito, e Torricelli fece sopportare all'aria un
peso, da lui precedentemente calcolato pari a quello d'una colonna d'acqua nota,
…. una gran luce risplendette per tutti gli indagatori della natura. Si resero allora
conto che la ragione scorge soltanto ciò che essa stessa produce secondo il
proprio disegno, e compresero che essa deve procedere innanzi coi principi dei
suoi giudizi secondo leggi stabili, costringendo la natura a rispondere alle
proprie domande, senza lasciarsi guidare da essa, per così dire, con le redini. In
caso diverso le nostre osservazioni casuali, fatte senza un piano preciso, non
cogliamo allo stesso modo gli oggetti perché
abbiamo ________________________
allo stesso modo
L’inventario delle ____________________
________ che non derivano _____________
LE FORME A PRIORI DELLA CONOSCENZA E LA
RIVOLUZIONE COPERNICANA DI KANT
La scientificità della __________________
________________________
__________________ e connessi posti dalla
____________ e non dall’_______________
geometrie: il soggetto ________________ le
figure
Galilei: ___________________ la natura
attraverso gli _____________________
65
trovano connessione in alcuna delle leggi necessarie di cui invece la ragione va
alla ricerca e ha impellente bisogno. È pertanto indispensabile che la ragione si
presenti alla natura tenendo, in una mano, i principi in virtù dei quali soltanto è
possibile che i fenomeni concordati possano valere come leggi e, nell'altra
mano, l'esperimento che essa ha escogitato in base a questi principi; e ciò al fine
di essere sì istruita dalla natura, ma non in veste di scolaro che stia a sentire tutto
ciò che piace al maestro, bensì di giudice che nell'esercizio delle sue funzioni
costringe i testimoni a rispondere alle domande che egli loro rivolge. Pertanto la
fisica è debitrice della rivoluzione del modo di pensare che le ha arrecato tanti
vantaggi solo all'idea che la ragione deve (senza indulgere in fantasticherie)
cercare nella natura, in conformità a quanto essa stessa vi pone, ciò che vuole
sapere intorno a essa, e che a nessun titolo potrebbe ritrovare in se stessa. In tal
modo la fisica è stata posta per la prima volta sulla via sicura della scienza,
mentre per tanti secoli non aveva fatto altro che procedere brancolando”.
In tal modo nella matematica e nella fisica è avvenuta un'inversione di
prospettiva che sposta il fondamento della conoscenza dall'oggetto al soggetto,
una «rivoluzione copernicana», ossia un ribaltamento simile a quello compiuto
da Copernico nell'astronomia spostando il centro dell'universo dalla Terra al
Sole23.
Se tale operazione di cambiamento di prospettiva, ovvero di ribaltamento del
rapporto fra soggetto e oggetto, ha consentito alla matematica e alla fisica di
costituirsi come scienze, allora esso deve essere considerato alla base della
conoscenza. A questo spingono, come abbiamo visto, le difficoltà derivanti dal
tentativo di spiegare la conoscenza supponendo che siano gli oggetti a imporre
le proprie regole al soggetto.
In questa prospettiva Kant vuole rispondere alla domanda di fondo della Critica
della ragione pura, a quali condizioni è possibile una conoscenza oggettiva?
Dove oggettiva significa una conoscenza comune fra i diversi soggetti,
condivisa e comunicabile.
Ricapitolando: le conoscenze non possono essere fondate sulla sola esperienza,
infatti se si accetta l’ esperienza come base su cui fondare la conoscenza,
dobbiamo, seguendo Hume, ammettere che esse non sono completamente certe,
né necessarie e universali. Per giustificare la conoscenza è quindi necessario
ammettere qualcosa oltre all’esperienza. Per individuarlo Kant si propone di
mettere al centro della sua analisi il rapporto fra il soggetto e l’oggetto della
conoscenza, per stabilire l’apporto che queste due entità danno al processo
conoscitivo. Di conseguenza non ci si deve più occuparsi degli oggetti in se
stessi, bensì degli elementi a priori che consentono al soggetto di conoscere gli
oggetti, affermando così il nuovo punto di vista, che sposta lo sguardo dalle cose
al modo in cui il soggetto conosce le cose stesse e che, come abbiamo detto,
costituisce il punto di vista trascendentale.
Il processo cognitivo richiede, per Kant, i dati sensoriali che costituiscono il
contenuto della conoscenza che derivano dall’esperienza e rappresentano
l’apporto dell’oggetto della conoscenza. Però, conoscere non significa solo
ricevere dati, ma elaborarli, occorre quindi ammettere che il soggetto possiede
degli schemi che gli consentono questa elaborazioni. Kant chiama questi schemi
forme a priori (strutture mentali).
Le forme a priori non derivano dall’esperienza e devono essere considerate
proprietà innate nella ragione, non in quanto idee possedute dalla ragione (vedi
Cartesio), quanto invece come strutture di cui si serve per elaborare le
informazioni. Inoltre, sono universali e necessarie in quanto tutti gli uomini le
L’inversione di prospettiva
prima: ____________  _____________
dopo: ____________  _____________
= __________________________________
Conoscenza = ___________________ +
strutture _____________________
(elementi a ____________)
IL PROCESSO COGNITIVO E
LE FORME A PRIORI
DELLA CONOSCENZA
Conoscere = ____________________ i dati
_________________________ +
____________________  apporto del
________________ = schemi /___________
_________ = forme a __________________
23
A differenza di Locke, Kant non affronta il problema a partire dal funzionamento della mente umana,
ma dai saperi riconosciuti come scientifici, chiedendosi quali caratteristiche abbiano. In altri termini, Kant
parte dalla constatazione che esistono alcune scienze, in particolare la fisica (ma anche la matematica), e
si chiede da quali dinamiche conoscitive derivino, che cosa occorre ammettere per spiegarne l'esistenza.
66
possiedono e le applicano allo stesso modo. Sono, infine, feconde in quanto se
applicate ai dati dell’esperienza, sono in grado di estendere le nostre
conoscenze.
LE FORME A PRIORI
1 innate perché __________________________________________________________________________________________
2 universali e __________________ perché ____________________________________________________________________
3 feconde perché __________________________________________________________________________________________
Le forme a priori possono essere paragonate all’effetto di un paio di occhiali
colorati o al funzionamento del computer. Se noi avessimo incorporate delle
lenti blu, vedremmo il mondo filtrato da quel colore; allo stesso modo le nostre
strutture mentali ci consentono di vedere il mondo filtrandolo attraverso il loro
funzionamento. Oppure, esse possono essere paragonate ad un software che
contiene le istruzioni per elaborare i dati, sono infatti queste ultime a
determinare, insieme ai dati in entrata, i risultati che si otterranno.
All’interno del processo cognitivo, infatti, il soggetto non è passivo, ma svolge il
ruolo di elaborazione dei dati tratti dall’esperienza, di conseguenza sia la
percezione dei dati che la loro elaborazione sono condizionate dalle strutture
percettive e mentali che il soggetto possiede, ovvero da quelle che Kant chiama
le forme a priori.
Il fondamento del processo conoscitivo deve essere, dunque, ricercato nelle leggi
che regolano il funzionamento delle forme a priori tipiche del soggetto. Queste
leggi non potranno mai essere smentite dall’esperienza perché sono esse stesse,
insieme alle forme a priori, a consentirci di concepire e pensare l’esperienza.
Un’esperienza che le contraddica non è quindi possibile.
Il considerare le strutture mentali del soggetto come fondamentali nel processo
cognitivo consente a Kant di superare lo scetticismo di Hume (vedi lettura n. 13),
fondato sulla convinzione che la conoscenza ha origine dall’esperienza, e che
quindi le nostre conoscenze non sono certe in quanto non possiamo conoscere le
nostre esperienze future. Ritenendo invece che le strutture mentali, che ci
consentono di fare esperienza, siano immutabili, se è vero che non possiamo
conoscere le esperienze future siamo però certi
di come le interpreteremo.
Questa nuova interpretazione costituisce quella
che Kant stesso definisce una rivoluzione
copernicana: come Copernico ha cambiato il
modo di intendere l’universo, capovolgendo il
ruolo del sole e della terra, così questa nuova
concezione cambia il modo di vedere il rapporto
fra il soggetto e l’oggetto della conoscenza.
Prima si pensava che l’oggetto si imponesse al
soggetto che rimaneva quindi passivo, mentre
Kant propone l’idea che l’oggetto si adatti alle
strutture mentali del soggetto.
Una figura ambigua può essere un buon esempio
Figura ambigua
di come sia necessaria l’elaborazione da parte
delle strutture mentali; una figura ambigua può infatti essere interpretata in modi
diversi: le linee rimangono le stesse, ma a seconda di dove cade l’ occhio si
vedono figure diverse. Ovvero ciò che noi vediamo dipende da come elaboriamo
le linee che percepiamo. Allo stesso modo guardando due oggetti con un occhio
chiuso o con entrambi gli occhi aperti le loro reciproche distanze non rimangono
invariate: allora quale sarà la reale distanza tra i due oggetti?
Il significato della rivoluzione copernicana emerge nel confronto con le correnti
LE FORME A PRIORI
Forme a priori e ______________________
Forme a priori e ______________________
Forme a priori e ruolo _________________
del ________________________________
Forme a priori e ______________________
La risposta di Kant a ______________:
siamo certi di come ___________________
______ le nostre esperienze _____________
La rivoluzione _______________________
di Kant: da oggetto  ____________
a soggetto  ____________
Figure ______________________ e
distanze tra ________________________
67
della filosofia moderna prima di Kant. Fino a Cartesio il pensiero filosofico IL SIGNIFICATO DELLA RIVOLUZIONE
ritiene che la realtà esista indipendentemente dal pensiero e che sia possibile COPERNICANA
conoscere con certezza la realtà così com'è in se stessa, indipendente dal
soggetto. A partire da Cartesio, si avanza il dubbio che la realtà in quanto idea,
oggetto del pensiero, possa non corrispondere alla realtà che esiste per sé, al di
fuori del pensiero. Le correnti razionaliste sono comunque convinte che sia
possibile dimostrare il nesso che unisce e raccorda il soggetto pensante e la realtà
esterna.
Il Dio di Cartesio si pone come garante della verità delle idee soggettive. Nella
sostanza divina, secondo Spinoza, c'è perfetta corrispondenza fra l'ordine delle
idee e l'ordine delle cose. Nell'universo gnoseologico leibniziano l'armonia
prestabilita garantisce l'accordo fra le rappresentazioni delle diverse monadi. In
questo senso tali correnti sostengono la possibilità di una conoscenza sicura,
accertata, della realtà per sé esistente, e fondano questa possibilità sull'esistenza
di Dio, sostanza trascendente per Cartesio e Leibniz, immanente per Spinoza.
La prospettiva cambia nell'ambito dell'empirismo. Per Locke, che pure
presuppone le cose come sussistenti fuori di noi, indipendenti dal pensiero,
l'esistenza della realtà esterna è affermata in base all'azione causale da essa
esercitata sulla mente dell'uomo, imprimendovi il “segno” delle cose. Poiché
l'unico raccordo fra la mente e la realtà esterna è costituito dall'esperienza
sensibile, in questa prospettiva non è garantita alcuna conoscenza certa, cioè
necessaria e universale. La conoscenza delle cose naturali, costruita
sull'osservazione empirica, non ha carattere scientifico, ma solo probabile e
congetturale.
Per Hume l'unica verità viene dall'analisi dei contenuti della mente, che non
sottostanno ad alcuna legge necessaria, ma si associano fra loro secondo delle
regole che esistono di fatto, ma che potrebbero anche essere diverse o
modificarsi o addirittura non esistere. La conseguenza è che dal punto di vista
humiano non solo la metafisica, ma anche ogni conoscenza razionale della
natura risulta priva dei caratteri di universalità e necessità e dunque priva di
valore scientifico.
Il punto di vista tradizionale, che considera l'oggetto come qualcosa di dato,
esterno e indipendente dal soggetto, porta inevitabilmente verso le soluzioni
classiche del razionalismo e dell'empirismo, le quali possono essere
schematizzate così: per la prima, nel costituirsi della conoscenza l'oggetto ha un
ruolo secondario, in quanto le basi fondanti del conoscere sono nei principi
soggettivi innati; per la seconda, l'oggetto è ciò che, producendo delle
impressioni nel soggetto, sta alla base di ogni conoscenza. Nella nuova
prospettiva kantiana non esiste “prima” un oggetto esterno che “poi” il soggetto
conosce, ma l'oggetto si costituisce come oggetto del pensiero secondo le
modalità determinate dalle funzioni trascendentali del soggetto, posto al centro
del processo conoscitivo dalla rivoluzione copernicana.
Perché esista un sapere scientifico, occorre che non sia la mente umana a
regolarsi sulla natura degli oggetti, ma al contrario che siano gli oggetti a
conformarsi alla natura della mente. Di qui la necessità della rivoluzione
copernicana, dalla quale consegue, insieme alla centralità del soggetto,
l'impossibilità di conoscere le cose come sono in sé. Infatti, gli oggetti che si
regolano sulla mente umana non possono essere le cose in sé (noumeno),
indipendenti dal pensiero, ma sono necessariamente i fenomeni, gli oggetti come
appaiono nell'esperienza, nel rapporto con il soggetto.
68
IL SIGNIFICATO DELLA RIVOLUZIONE COPERNICANA
Prima di Cartesio: realtà esiste ____________________ dal pensiero; conoscenza ______________ indipendente dal soggetto
Dopo Cartesio: messa in dubbio la _______________________ tra la realtà _______________________ e la realtà che esiste per sé
Razionalisti: superamento ________________: _______________tra soggetto pensante e la realtà garantito da:
Cartesio: __________________________; Leibniz: ____________________________  verità ____________________
________________ della conoscenza: ruolo _____________
Empiristi: superamento ________________: realtà esterna garantita da ___________________________________________________
Locke: esperienza  conoscenza ________________ ; _________: leggi associazioni non ________________  verità _____________
oggetto della ____________________: ruolo fondante: ______________  impressioni  ____________________
Kant: l’oggetto esterno è costruito dalle funzioni ____________________ del soggetto; gli oggetti si conformano alla ______________
Conseguenze della _____________________________ (soggetto  ___________)
1 - centralità del _____________________ 2- impossibilità di conoscere ___________________: distinzione tra ___________________
Il fenomeno è la realtà così come ci appare tramite le forme a priori. Non è pura
apparenza illusoria, in quanto corrisponde a qualcosa che risulta reale, ma solo
nel rapporto con il soggetto. Il fenomeno è quindi la cosa ‘per noi’. Il noumeno è
la realtà indipendente dal soggetto. La cosa in sé è inconoscibile. La nostra
conoscenza non può quindi considerarsi oggettiva. Essa risulta vera solo per
noi; ma se tutti possediamo le stesse forme a priori la conoscenza risulta assoluta
e necessaria e universale.
Per quanto riguarda l’altra conseguenza della rivoluzione copernicana Kant
risolve il problema della conoscenza riconducendo tutta la responsabilità dei
processi conoscitivi all'uomo. Al contempo non nega in alcun modo l'esistenza
della realtà esterna al soggetto, tuttavia irraggiungibile nella sua purezza di cosa
in sé. In questo senso la rivoluzione gnoseologica kantiana opera in modo
esattamente opposto a quella cosmologica copernicana: Copernico, ipotizzando
il movimento terrestre e ponendo il Sole al centro del sistema, aveva sottratto
all'essere umano ogni pretesa di centralità e di privilegio nell'ordine cosmico.
Kant invece porta il soggetto umano al centro dei processi conoscitivi e, nelle
opere successive, anche della condotta morale e della valutazione della bellezza
e finalità naturali.
Tale rivoluzione per un certo aspetto porta a compimento una tendenza propria
di tutta la filosofia moderna, intesa come affermazione del soggetto: pur essendo
finito e privo di fondamenti trascendenti del proprio operare e conoscere, il
soggetto è comunque in grado di trovare garanzie, se non definitive, almeno
sufficienti a sorreggere le proprie attività.
Kant prende così le distanze sia dai razionalisti, convinti che si possano
conoscere le cose in sé, sia da Hume, per il quale le conoscenze scientifiche
hanno valore solo probabilistico.
Noumeno = _____________________
indipendentemente dal _________________
non _____________________________
Fenomeno = la realtà __________________
____________________
conoscenza non ___________________ ma
vera, ________________, _____________,
__________________ solo _____________
Copernico  - centralità ___________
Kant  + ______________________
La filosofia moderna e ________________
________________________________
LA CRITICA DELLA RAGIONE PURA
La Critica della ragione pura si presenta come un trattato sistematico, dove il
L’ARTICOLAZIONE DELLA CRITICA DELLA
carattere di sistematicità non risponde solo alle esigenze di un certo modello
RAGIONE PURA
espositivo, ma garantisce il rigore del suo contenuto; secondo Kant, infatti, solo
l'unità sistematica fa di un semplice complesso di nozioni un complesso Sistematica perché ___________________
scientifico. La sistematicità è anche la struttura portante della ragione umana, la
quale nella Critica della ragione pura costituisce nello stesso tempo il soggetto e ___________________________________
l'oggetto dell'indagine; perciò la critica della ragione non può procedere in modo
69
casuale ma deve rispecchiare la struttura effettiva del conoscere.
Ogni nostra conoscenza — afferma Kant — parte dai sensi, da qui va
all'intelletto, per finire nella ragione. Si delinea così il quadro della conoscenza
umana e delle sue componenti: in primo luogo la sensibilità, in cui gli oggetti ci
sono dati per mezzo dei sensi; in secondo luogo l'intelletto, attraverso cui
pensiamo gli oggetti per mezzo delle categorie, cioè dei concetti generali della
LA STRUTTURA DELLA CRITICA DELLA RAGIONE PURA
Componenti della conoscenza umana: 1 - _____________________________  acquisizione dei ________________tramite ________
2 - _____________________________  unificazione dei ________________ tramite ________
3- ______________________________  oltre _______________ tramite spiegazione _________
Struttura del testo:
Oggetto
1- Dottrina trascendentale ___________________
1 -___________________ 2 - ____________________ della ragione umana
A - ___________ trascendentale
1 - ________ _______ trascendentale
____________________
________________________  conoscenza ____________
B - Logica _________________
2 - _______________ trascendentale
_________________________  spiegazioni ___________
2 - Dottrina trascendentale _______________________
nostra mente; quindi la ragione, attraverso cui cerchiamo una spiegazione
complessiva della realtà, andando oltre l'esperienza ».
Di qui il prospetto dell'articolazione interna di quella scienza specifica che è la
critica della ragione pura, ossia della facoltà in cui risiedono i princìpi a priori,
puri, della conoscenza.
L'analisi kantiana si divide innanzitutto in due parti: la Dottrina trascendentale
degli elementi, che prende in esame le componenti della ragione umana e il
modo in cui essa conosce a priori i suoi oggetti; la Dottrina trascendentale del
metodo, che analizza come tali elementi sono applicati secondo un metodo,
ovvero tratta del modo in cui la ragione costruisce il sistema complessivo delle
proprie conoscenze.
La sezione più importante, quella che ha maggior spazio nell'opera kantiana, è la
prima, che a sua volta si articola in Estetica trascendentale e Logica
trascendentale. L'estetica24 ha per oggetto la sensibilità (dal greco aisthésis,
"sensazione"); la logica tratta dell'altra componente della conoscenza, cioè il
pensiero, in cui Kant distingue l'intelletto, che è la facoltà del conoscere scientifico, e la ragione in senso vero e proprio, che è la facoltà di pensare l'assoluto.
In questa prospettiva il termine ragione ha un significato specifico, diverso da
quello ampio attribuitogli all'interno del discorso kantiano per indicare l'insieme
delle facoltà conoscitive.
LA TIPOLOGIA DEI GIUDIZI
unità minima della conoscenza: _________
La ricerca kantiana inizia con una rigorosa distinzione dei diversi tipi di giudizi
in quanto il giudizio è per Kant lo strumento del conoscere; conoscere è concetto soggetto + concetto ___________
24
Intitolando Estetica trascendentale la prima sezione della Critica, dedicata alla sensibilità, Kant usa il
termine "estetica" nel suo significato originario di dottrina della sensibilità, un significato
progressivamente messo in ombra, e quindi tolto di mezzo dall'emergere di un altro, introdotto dal
filosofo tedesco Alexander Gottfried Baumgarten (1714-1762), che alla metà del Settecento in un'opera
intitolata Estetica aveva utilizzato il termine per indicare la dottrina del bello.
70
giudicare. Per giudizio non intende un giudizio di valore, in cui si valuta
positivamente o negativamente qualcosa, ma il nesso tra soggetto e predicato in
una proposizione.
La componente minima della conoscenza è il concetto. Tuttavia il concetto non
costituisce una conoscenza, per Kant esso è una rappresentazione generale; il
concetto si può cioè riferire a una pluralità di oggetti ("albero" può riferirsi a tutti
gli alberi). Ma il concetto, da solo, non dice nulla: è solo «il predicato di un
giudizio possibile». L'unità minima di conoscenza è appunto il giudizio. Il
giudizio è secondo Kant l'unione a di due concetti: un "soggetto" e un
"predicato" (per esempio, "gli alberi sono piante").
Il rapporto tra soggetto e predicato in un giudizio può essere di tipo «analitico»
se il predicato esprime qualcosa che è già contenuto nel soggetto. Ad esempio "il
tutto è maggiore della parte" è un giudizio analitico perché l'essere maggiore
della parte è compreso nel concetto di tutto: il predicato non aggiunge nulla. Il
rapporto è invece «sintetico» se il predicato si trova interamente fuori del
concetto espresso dal soggetto. "Il cielo è azzurro" è un giudizio sintetico, perché
va oltre il concetto di cielo e aggiunge una conoscenza che proviene
dall'esperienza.
II giudizi analitici sono «a priori» perché la loro validità è universale, cioè
valgono in tutti i casi, a prescindere dall'esperienza. I giudizi sintetici sono
normalmente «a posteriori» perché il loro valore è particolare, cioè non valgono
in tutti i casi, ma solo in quelli di cui abbiamo esperienza.
Quanto a Kant, non è del tutto soddisfatto né dai giudizi analitici a priori, nè dai
giudizi sintetici a posteriori. O meglio, egli vorrebbe un terzo tipo di giudizio, il
quale avesse da un lato la capacità di questi ultimi di ampliare la conoscenza, e
dall'altro la prerogativa dei primi di essere universali e necessari. Solo così si
fonderebbe adeguatamente il sapere — più esattamente il solo sapere che a Kant
appare degno di questo nome, ossia il sapere di tipo newtoniano (capace di
produrre aumenti di conoscenza empirica secondo principi assolutamente
rigorosi). Orbene, questi giudizi sono possibili, e sono quelli che Kant chiama
giudizi sintetici a priori. Se io dico «tutto ciò che accade ha la sua causa», quanto
è indicato nel predicato (la causa) non è contenuto analiticamente nel soggetto:
infatti nel concetto del semplice accadere non è inclusa la causalità, che è cosa
diversa dall'accadere. D'altra parte tale giudizio contiene, per Kant, una sua
evidente universalità e necessità. E se questo duplice carattere non proviene
dall'esperienza, esso non potrà non provenire da una sfera meta-empirica fatta di
condizioni pure a priori.
Non si tratta, occorre notare, di un mero ragionamento ipotetico. Come sempre
fa nel corso della sua indagine, Kant presenta come tesi “pure” qualcosa ch'egli
in verità ha trovato (o ritiene di aver trovato) nel più rigoroso sapere moderno.
Così, nel caso in questione, i giudizi sintetici a priori non sono “inventati”: si
danno concretamente, e sono quelli della matematica e della fisica generale.
LA TIPOLOGIA DEI GIUDIZI
1 – giudizio ________________: il predicato è ______________________________  il predicato non aggiunge nulla alla conoscenza
«a priori»  validità ______________________ a prescindere dall'esperienza  _____________________ e ________________
2 – giudizio _________________: il predicato è _____________________________________________ amplia _________________
«a posteriori»  validità ________________________ solo nei di cui abbiamo esperienza
3 – giudizio ___________________: il predicato ______________________________________  amplia _________________
«a priori»  validità ______________________ a prescindere dall'esperienza  _____________________ e ________________
adoperati da: ______________________________________________________________
71
Alla luce di quanto precede, possiamo indicare con maggior precisione qual è
l'obiettivo (e il metodo) di fondo della Critica della ragion pura. Kant intende
riesaminare la conoscenza evidenziando un dato di fatto e (soprattutto)
ponendosi una questione di diritto. Il dato di fatto è che forme di conoscenza
scientificamente valida (connesse con determinate strutture sensibili e con
determinate funzioni intellettuali) esistono. La questione di diritto consiste nel
domandarsi come tali forme di conoscenza sono possibili: quali principi
dobbiamo ammettere onde giustificare l'esistenza (in sé indubitabile) di dette
conoscenze — conoscenze, si badi, che devono avere i requisiti dell'universalità
e della necessità (e dunque dell'oggettività). Sullo sfondo, si profila poi un
interrogativo che già conosciamo: l'interrogativo se la metafisica sia costituita
secondo gli stessi principi, e dunque possa legittimamente aspirare al rango di
conoscenza rigorosa. Solo rispondendo a queste questioni si potranno porre le
basi di una scienza che eviti lo scetticismo
Ed è per capire come sono possibili giudizi sintetici a priori che Kant decide di
indagare le strutture che rendono possibile la conoscenza. Alla caccia
dell’«inventario (di cui abbiamo già detto25) di tutto ciò che possediamo per
mezzo della ragion pura, sistematicamente ordinato» cioè, per individuare tutte
le forme e le funzioni che, palesemente inderivabili dall'esperienza, non possono
non essere ammesse, se si vuole fondare e legittimare persuasivamente la nostra
conoscenza Kant esamina le tre facoltà della conoscenza.
Obiettivi della __________________
1 – evidenziare il __________________
dell’esistenza di _____________________
2 – questione di ____________________:
principi da ammettere per ______________
___________________________________
3 – la _________________________ della
metafisica
L’inventario delle ____________________
________ che non derivano _____________
L’ESTETICA TRASCENDENTALE: LE FORME A
PRIORI DELLA SENSIBILITÀ
La percezione sensoriale o sensibilità consente di acquisire i dati che provengono
dalla realtà esterna tramite l’esperienza. Per quanto la percezione sia
essenzialmente passiva, essendo deputata a ricevere i dati, essa risulta ricettiva
sola ai dati che sono collocabili all’interno delle forme a priori (strutture
percettive) di cui risulta dotata. Tale forme a priori sono costituite dallo spazio,
poichè gli oggetti esterne sono collocati sempre in una dimensione spaziale, e il
tempo, poichè gli atti percettivi si collocano all’interno del flusso della nostra
coscienza in una successione temporale.
A meno che non applichiamo i concetti di spazio e tempo alle impressioni che
riceviamo, il mondo è incomprensibile, non è che un guazzabuglio
caleidoscopico di colori, forme, rumori, odori, dolori e sapori senza significato.
Pertanto, noi percepiamo gli oggetti in un certo modo grazie alla nostra
applicazione di intuizioni a priori quali spazio e tempo; ovvero lo spazio e il tempo
sono forme che applichiamo ai dati nel momento in cui li riceviamo dall'oggetto
che li produce. Le forme a priori hanno la loro origine nella natura umana, per
cui non sono causati dall'oggetto percepito né gli conferiscono la sua esistenza, ma
LA PERCEZIONE
_____________________
LA PERCEZIONE SENSORIALE
ricezione dei dati coglibili dalle ___________________________________ del:
a) _____________________ (oggetti esterni sono sempre collocati nello __________)
b) _____________________ (atti percettivi inseriti _____ _______________________________ della nostra _________________)
Spazio e tempo come ________________________ del soggetto di percezione ___________________________________ per cui:
1 soggettivi rispetto _______ _______________________ _________________________________
2 _______________ rispetto alle ______________________________________________________
3 indipendenti dall’_________________________________________________________________
25
Vedi pag. 65
72
forniscono una specie di vaglio per i dati sensoriali che accetteremo. Quella che
noi consideriamo realtà è una sintesi continua tra gli elementi fissi delle forme a
priori e i dati sempre mutevoli dei nostri sensi.
Spazio e tempo non sono dunque, per Kant, qualità oggettive appartenenti alla
realtà quanto invece modalità che consentono al soggetto di percepire gli oggetti;
sono di conseguenza soggettivi rispetto all’oggetto in sé (vedi diversità dello
spazio bidimensionale rispetto a quello tridimensionale), ma oggettivi rispetto
alle cose come appaiono a noi, poichè tutti possediamo le forme a priori del
tempo e dello spazio.
Spazio e tempo inoltre risultano indipendenti dall’esperienza (a priori), in quanto
costituiscono le strutture che ci consentono di percepire l’esperienza. Infatti,
possiamo essere sicuri che tutti gli oggetti del mondo di cui possiamo avere
esperienza attraverso i nostri sensi saranno sempre posti nello spazio e nel
tempo, non possiamo sapere, invece, quel che nello spazio possiamo trovare
mediante le nostre esperienze future. Poiché è l’esperienza che ci consente di
riempire di contenuti (i dati) le strutture percettive deputate a ricevere tali dati, i
due elementi concorrono indissolubilmente ad accrescere le nostre conoscenze.
Secondo Kant l’universalità e la necessità della matematica e della geometria
derivano dal fatto che entrambe si fondano, non sul contenuto dell’esperienza,
bensì sulle forme a priori del tempo, la matematica (ad esempio la
moltiplicazioni si presenta come una successione di addizioni), e dello spazio la
geometria.
Concludendo l'Estetica trascendentale, Kant afferma di avere chiarito il ruolo
delle intuizioni pure dello spazio e del tempo, cioè un punto essenziale per la
soluzione del problema: come sono possibili giudizi sintetici a priori. I dati elaborati dalle forme pure della sensibilità, tuttavia, non sono ancora vere e proprie
conoscenze. È vero che la sensibilità offre un complesso di dati empirici (forme,
colori, suoni, e così via), ordinatamente collocati nello spazio e nel tempo, ma
questi non sono ancora organizzati in modo da rappresentare gli oggetti
dell'esperienza: alberi, case, uomini, e così via.
In altri termini: ai dati molteplici delle intuizioni sensibili mancano la
connessione e l'unitarietà che caratterizzano la conoscenza delle cose. Bisogna
allora che intervenga un tipo di attività capace di mettere ordine nelle
rappresentazioni sensibili, già organizzate nello spazio e nel tempo,
raccogliendole in concetti. Il compito di unificare i dati della sensibilità, di
connettere fra loro le molteplici rappresentazioni sotto una rappresentazione
comune, spetta all'intelletto, che opera tramite concetti.
C'è uno stretto rapporto, secondo Kant, fra sensibilità e intelletto, in quanto
nessuno dei due può svolgere un ruolo all'interno del processo conoscitivo senza
l'apporto dell'altro: le intuizioni sensibili senza l'organizzazione concettuale
resterebbero una massa di dati dispersi e perciò inutili, perché incapaci di
rappresentare gli oggetti; a loro volta, i concetti dell'intelletto, privi del materiale
empirico fornito dalla sensibilità, non avrebbero niente da unificare e verrebbero
così svuotati della loro funzione propria, quella unificante. Con le parole di
Kant: le intuizioni senza concetti sono cieche, i concetti senza intuizioni sono
vuoti.
Non possiamo sapere __________________
_________________________ (esperienza)
ma siamo sicuri che sarà collocato ________
_______________________
Matematica  forme a priori del _________
_____________  forme a priori dello
_____________
i dati _____________________ non sono
___________________________
intelletto  ___________________ dei
dati _____________________________
Il rapporto ____________________ ____________________________
sensi senza _________________: dati
_________________________
intelletto senza _____________: mancanza
di ____________________
LA LOGICA TRASCENDENTALE
I contenuti della percezione sensibile, già organizzati dalle strutture spaziotemporali ma ancora frammentari e parziali (vedi l’esempio della figura),
vengono elaborati dall’intelletto costruendo i concetti empirici (uomo, animale,
la biro e il foglio del nostro esempio), o elaborando le leggi che ne regolano il
comportamento.
L’ANALITICA DEI CONCETTI: LE FORME A
PRIORI DELL’INTELLETTO
73
Un esempio: una biro scrive su un foglio.
L’intelletto si comporta come un soggetto che riceva dei messaggi, per esempio
delle lettere (i dati sensoriali della percezione), da un corrispondente sconosciuto
(l’oggetto, la “cosa in sé” di Kant) e cerchi di ricostruire l’identità del mittente
sconosciuto collegando tra i loro tutti i messaggi; l’unificare i messaggi è l’unico
modo per riuscire a pensare, a identificare il loro autore.
Kant chiama “categorie” le modalità di funzionamento del nostro pensiero che ci
consentono di elaborare i dati della percezione raggruppando e collegando tra
loro la molteplicità dei dati sensoriali. Tale funzione raggruppante consente al
pensiero di pensare gli oggetti, cioè di riferire i diversi dati sensoriali agli oggetti
di cui abbiamo esperienza.
Kant procede quindi identificando le diverse categorie. Siccome i concetti,
ovvero il prodotto delle categorie, sono i predicati di possibili giudizio (esempio,
“ogni uomo (soggetto) è un animale (predicato)”), le categorie vengono ricavate,
recuperando la logica aristotelica, da una classificazione dei possibili predicati,
utilizzando, quindi, il criterio della diversa maniera tramite cui risulta possibile
attribuire un predicato a un soggetto. Le modalità fondamentali di attribuzione di
un giudizio sono raggruppabili in quattro gruppi dal momento che è possibile
esprimere un giudizio che affermi, o neghi o limiti una certa qualità (tipo di
giudizio: qualità); inoltre un giudizio può riguardare tutti i casi, un solo caso o
alcuni casi (tipo di giudizio: quantità); oppure possiamo giudicare
dell’appartenenza a una certa cosa di una determinata proprietà , che un certo
fatto è causa di un altro o che due fatti interagiscono (tipo di giudizio: relazione);
infine, posiamo esprimere un giudizio sulle modalità di esistenza che può
risultare contingente o necessaria, reale o non reale, possibile o impossibile (tipo
di giudizio: modalità). All’interno di ognuno dei quattro gruppi di possibili
giudizi Kant individua tre categorie che risultano quindi in tutto dodici.
All’interno dei giudizi di relazione Kant colloca le categorie della sostanzialità e
L’INTELLETTO
L’intelletto e il mittente ________________
______________________
dai dati all’______________
LE CATEGORIE
____________________________ dei dati
Categorie ________________________ e
_____________________
Le 4 modalità di attribuzione dei
___________________________
1 - ________________________________
2 __________________________________
3 __________________________________
4 __________________________________
74
della causalità che ci consentono di affermare l’appartenenza a una certa cosa di
determinate proprietà (sostanzialità) e che una certa cosa è causa di un’altra
(causalità). In tal modo facendo della sostanza e della causa delle categorie a
priori nega, contro Hume, che esse possano essere dedotte dall’esperienza,
poiché esse diventano ciò che ci consente di fare esperienza, la condizione
universale e necessaria della stessa esperienza.
Pertanto le leggi scientifiche (la fisica per Kant, essendo la scienza meglio
formalizzata ai suoi tempi), basate sulla relazione causa ed effetto, non sono
soltanto l’espressione di un abitudine, come voleva Hume, ma delle conclusioni
universali e necessarie dal momento che tali sono le modalità di funzionamento
del pensiero.
Le dodici categorie in pratica vengono individuate da Kant, oltre che attraverso
la propria riflessione sul sapere scientifico, attraverso l'analisi delle forme del
giudizio intellettivo classificate dalla logica tradizionale. Non solo il nome, ma la
suddivisione formale di queste categorie (quantità, relazione, qualità, modalità)
derivano dalla tradizione aristotelica (anche se Aristotele ne ammette non dodici
ma dieci). Bisogna peraltro distinguere molto nettamente le categorie
aristoteliche da quelle kantiane. Per Aristotele le categorie sono al tempo stesso
strumenti di conoscenza e strutture oggettive del reale. Per Kant esse hanno
invece una natura esclusivamente conoscitivo formale. Sono mere «funzioni»,
anzi «regole»: regole d'azione «per un intelletto, il quale nulla conosca da sé, ma
soltanto unifichi e ordini la materia, del conoscere — l'intuizione — che
dev'essergli data dall'oggetto». Da sole, anzi, non sussistono nemmeno, o non
sussistono che astrattamente e lacunosamente: «di nessuna di esse sappiamo dare
una definizione reale [...] senza ricorrere subito a condizioni della sensibilità,
cioè alla forma dei fenomeni, come quelli ai quali di necessità devono limitarsi,
come a loro unico oggetto». Le categorie, insomma, sono propriamente identificabili solo nel momento e nell'atto in cui l'intelletto elabora i coordinamenti, le
organizzazioni del materiale sensibile: di tale coordinamento e organizzazione
esse sono gli schemi, le norme.
Già quest'ultimo cenno esplicativo suggerisce che la “modestia” con cui le categorie vengono talvolta presentate nella Critica della ragion pura non deve trarre
in inganno. Ad esse, in realtà, è affidato un compito estremamente impegnativo e
ambizioso. Le categorie sono nulla meno che le «condizioni a priori
dell'esperienza». In altre parole, tutta l'esperienza umana è pensabile solo nelle
forme e nelle articolazioni indicate dalle (dodici) categorie. Ancora: le categorie
«prescrivono leggi a priori ai fenomeni, e perciò alla natura come insieme di tutti
i fenomeni». In altre parole, a livello intellettuale l'intero universo dei dati e
degli eventi si dà a noi attraverso le (dodici) categorie — e in nessun altro modo.
Infine, in modo lapidario: «noi non possiamo pensare alcuno oggetto, se non
attraverso le categorie».
A questo punto sorge però un problema: in che modo le condizioni soggettive
del pensiero hanno una validità oggettiva? Problema che si scinde in due in
quanto riguarda sia le modalità che garantiscono l'uniformità delle conoscenze
del soggetto, sia che cosa garantisce che possiamo istituire una perfetta
corrispondenza tra le categorie e i fenomeni naturali.
Il problema nasce dal fatto che l'intelletto non produce i suoi oggetti, li trova, per
così dire, belli e fatti di fronte a sé; però li condiziona, in quanto li pensa sulla
base delle proprie categorie. Di qui la domanda di fondo: cosa consente alla
nostra esperienza di presentarsi come unitaria e non molteplice, ovvero cosa
garantisce il fatto che l’unificazione dei dati avviene sempre nello stesso modo,
permettendo di confermare ogni volta la nostra esperienza? E, inoltre, cosa
giustifichi che l’unificazione dei dati corrisponda ai fenomeni naturali?
Alla prima domanda Kant risponde attraverso la deduzione trascendentale delle
Giudizi di ______________ e la categoria
della ____________________________
La risposta di Kant a _____________
leggi scientifiche = conclusioni __________
____________e ______________________
Le categorie di Kant e ________________
la derivazione ______________________
ma per ____________________ sono:
1 - ________________________________
2 - ________________________________
per Kant: sono __________________ di
funzionamento della _________________
ovvero
- condizioni _________________ della
esperienza
- la modalità di ____________________
i dati dell’_________________________
(ci consentono di fare ________________)
L’ANALITICA DEI PRINCIPI: GLI SCHEMI
TRASCENDENTALI
Due problemi:
1- Cosa garantisce _________________
dell’esperienza del soggetto? ( i dati
vengono __________________ sempre allo
stesso modo)
LA DEDUZIONE _________________ ____
DELLE CATEGORIE
ovvero la _________________________,
legittimazione dell'opera unificante delle
________________________
75
categorie. L'atto del dedurre non significa qui, come nell'uso corrente, ricavare
una conclusione da determinate premesse, ma — secondo il lessico giuridico —
legittimare una pretesa, giustificare, e precisamente giustificare le categorie nella
loro funzione unificante. Tale giustificazione, ovvero la legittimazione dell'opera
unificante delle categorie, è data secondo Kant dall'unità del soggetto che pensa.
Perché le categorie possano legittimamente svolgere la loro attività unificante, è
necessario che esse siano espressione di una unità originaria, la quale costituisce
il fondamento ultimo di ogni unificazione. Questa unità originaria è l'Io penso,
il principio supremo di tutti i principi sintetici a priori, l'autocoscienza che il
soggetto acquisisce quando, all'atto dell'unificazione, si riconosce come il punto
di riferimento unitario di tutte le rappresentazioni. Riprendendo il termine
leibniziano di appercezione, che sottolinea l'elemento di consapevolezza nel
conoscere, Kant definisce la coscienza soggettiva anche come Appercezione
trascendentale.
In quanto riferisce a sé ogni rappresentazione e opera come l'elemento unificante
di esse, l'Io penso o Appercezione trascendentale costituisce la più alta funzione
dell'intelletto. Esso sta a fondamento della costituzione unitaria degli oggetti e
dei rapporti intercorrenti fra loro; il mondo dei fenomeni è dunque conoscibile
grazie all'originaria funzione sintetica del soggetto.
Se non potessimo ricordarci dell’esperienza e riconoscerla come nostra e,
correlativamente, aspettarci un futuro non ci sarebbe nessuna esperienza, ma
solo una successione disorganizzata di singoli stati d’animo. Oltre alle
rappresentazioni mentali prodotte dalle categorie deve quindi esistere anche
l’autocoscienza o Io penso, perchè senza un centro mentale unificatore le
rappresentazioni non avrebbero modo di essere pensate e quindi non
esisterebbero e, osserva Kant “ io dovrei avere un me stesso variopinto e
differente, alla stessa stregua delle rappresentazioni delle quali ho coscienza”,
ovvero coincidente con la sola rappresentazione attuale.
Occorre, infine, sottolineare che l’Io penso non è l’io psicologico di ciascun
soggetto empirico, la psiche di questo o quella persona, ma una struttura del
pensiero, comune a ogni soggetto pensante e cosciente.
Quando parla di soggetto Kant non intende, infatti, questo o quel soggetto, cioè
un soggetto individuale empirico, ma il principio unificante del pensiero, che è
presente allo stesso modo in tutti i soggetti e rende possibile la conoscenza.
Ma in cosa consiste specificamente la funzione dell'Io penso? Consiste, per
l'appunto, nel pensare. Sembra poco, ma è tutto. Pensando, infatti l'Io penso
obbliga tutte le rappresentazioni a unificarsi entro un medesimo orizzonte. Le
obbliga, cioè, a disporsi in un'area, l'area soggettiva-unitaria, che è governata
dalle categorie. Nessuna categoria come tale poteva svolger questa decisiva e
preliminare funzione. Solo l'Io penso offre la precondizioni indispensabile al
lavoro delle categorie.
Con la dottrina dell'Appercezione trascendentale, la rivoluzione copernicana
raggiunge una forma compiuta. L'intelletto non coglie direttamente ciò a cui si
riferiscono le varie rappresentazioni e quindi non coglie direttamente la struttura
unitaria dell'oggetto; spetta al soggetto conoscente il compito di dare unità alle
varie rappresentazioni, perché siano legittimamente considerate rappresentazioni
dell'oggetto. Ovvero: all'unità dell'oggetto, per sé inconoscibile, si sostituisce
l'unità del soggetto che unifica le rappresentazioni. E solo in quanto il soggetto è
autocoscienza originaria, a cui vengono riferite tutte le rappresentazioni, esso
può riconoscere tali rappresentazioni come proprie.
L'Io penso kantiano, così delineato, si differenzia profondamente dal soggetto di
Hume, ridotto a un fascio di impressioni, ma anche dal soggetto-sostanza di
Cartesio, che pure privilegia la centralità del pensiero, della res cogitans, di
fronte agli oggetti.
L'Io kantiano non ha più la rigidità della sostanza, non è una res cogitans, in
quanto si caratterizza con un'attività che si esplica nell'organizzare la
l'unità del _____________________ =
l’_____________ (___________________)
il soggetto si riconosce _________________
_______________ unitario di tutte le
___________________________________
un centro mentale __________________
CTR
un me stesso ________________________
L’Io penso non _____________________
ma ________________________________
Io ______________ e __________________
il compimento della ___________________
______________________
dall’__________________ dell’oggetto (__
______________________) all’ unità del
_________________ che ______________
___________________________________
Kant _____________________________
Hume 
Io = ____________________
________________________
Cartesio  Io = sostanza (_________)
76
conoscenza, nel mettere ordine nelle rappresentazioni mentali, nell'elaborare le
regole attraverso cui si conosce il mondo, regole che il soggetto non ricava dalla
realtà, ma individua in se stesso e impone autonomamente ai fenomeni per
inquadrarli in un ordine razionale.
Prodotta la prima dimostrazione (quella relativa all’unitarietà dell’esperienza del
soggetto), resta il secondo e più grave problema: che cosa garantisce che
possiamo istituire una perfetta corrispondenza tra le categorie e i fenomeni
naturali? O almeno: in che modo concreto l'intelletto sottopone alle sue leggi i
dati empirici? La questione appariva particolarmente delicata sia per la posta in
gioco, sia perché in effetti sembrava di cogliere tra i due termini sul tappeto una
notevole eterogeneità. Ci voleva allora, in qualche modo, un terzo termine
mediatore. Kant lo ha elaborato attraverso la teoria dello «schematismo
trascendentale».
Questa teoria dice che v'è una facoltà, l'immaginazione (non a caso collocata da
Kant fra l'intelletto e la sensibilità), la quale produce degli «schemi», riguardanti
i fenomeni. Lo schema è certo qualcosa di sensibile, ma insieme contiene anche
qualcosa del concetto puro dell'intelletto. Esso è definito «quella
rappresentazione mediatrice fra sensibilità e intelletto che è pura, senza alcunché
di empirico, ed è omogenea da un lato con le categorie, dall'altro col fenomeno».
Non è qui il caso di esaminare analiticamente i vari schemi pensati da Kant in
rapporto alle varie categorie. Occorre solo notare che gli schemi sono tutti
realizzati, per quanto riguarda il loro lato sensibile, nella forma sensoriale più
generale, quella del tempo (più generale di quella dello spazio in quanto tutta
l'esperienza è ricevuta attraverso la sensibilità nella sua forma temporale). In tal
modo, attraverso questi schemi tutte le categorie possono mediarsi con la sensibilità (ad esempio la categoria della sostanza si media con la sfera sensibile
mediante lo schema temporale della permanenza; quella di causa mediante lo
schema temporale della successione, e così via). Ora, poiché tutta l'esperienza è
ricevuta attraverso la sensibilità nella sua forma temporale, ne consegue che tutta
l'esperienza medesima può essere recepita, grazie agli schemi, dalle categorie
dell'intelletto. In tal modo quest'ultimo ha davvero la possibilità di entrare in
rapporto effettivo coi fenomeni empirici. È in base a tutto ciò che Kant non esita
a proclamare nei termini più solenni la prerogativa legislatrice dell'intelletto nei
confronti dei fenomeni naturali. In effetti, grazie allo schematismo, ciò che il
soggetto si trova dinanzi non è un complesso di enti eterogenei rispetto ai propri
strumenti cognitivi, ma è una natura ordinata (e non già, si badi, idealisticamente
creata) da questi stessi strumenti: ”L'ordine e la regolarità dei fenomeni, che noi
chiamiamo natura, siamo noi stessi ad introdurli. D'altronde, noi non potremmo
certo trovarli nella natura, se noi stessi (o la natura del nostro animo) non li
avessimo originariamente introdotti.”.
In questo modo siamo arrivati ad una delle conclusioni della Critica della ragion
pura. Kant ritiene infatti di avere esaurito l'«inventario» dei vari principi a priori
inderivabili dall'esperienza, e di avere correlativamente dimostrato sia per le
forme della sensibilità sia per le categorie dell'intelletto che si tratta di funzioni
le quali possono e debbono essere pensate come condizioni fondative e
giustificative del sapere valido. In secondo luogo l'individuazione delle forme
spazio-temporali, la «deduzione» delle categorie intellettuali e dell'Io penso e la
teoria dello schematismo consentono di affermare che le discipline in grado di
applicare sul piano dell'esperienza empirica le forme e le categorie di cui sopra
sono perfettamente fondate: possono cioè, almeno de iure (giacché de facto si
possono verificare evidentemente degli errori di esecuzione), pretendere di
esprimere verità scientificamente corrette e valide, cioè universali e necessarie.
È perfino superfluo ripetere che questa conoscenza deve mantenersi entro il solo
orizzonte dei fenomeni empirici, riconoscendo l'inattingibilità — dal punto di
vista cognitivo — dei noumeni. Più importante ribadire che ciò che emerge dalla
Critica della ragion pura non è tanto un modello “neutrale” e “puro” di sapere,
Kant  Io = ________________________
__________________________________
2 – Cosa garantisce la _________________
tra l’unificazione dei dati e i ___________
_______________________ ?
LO ____________________
TRASCENDENTALE
Lo ________________________:
rappresentazione __________________ fra
___________________________________
utilizzano la forma a priori del __________
(___________________) per rendere
recepibile l’______________________
dalle ___________________ entrando in
contatto con ____________________
lo _______________________ rende
intellegibile la _____________________
rendendo i _______________ omogenei
agli ___________________ cognitivi
fine dell’_____________________
77
quanto piuttosto la legittimazione, in sede filosofica, della scienza di tipo
newtoniano. In effetti, l'assolutezza/unicità dello spazio e del tempo (sia pure
L’INVENTARIO DELLE ____________________________ CHE NON DERIVANO ________________________
1 - __________________________ (_______________________) 2 - ____________________________ (____________________)
3 - __________________________ 4 - ___________________________________
- devono essere applicate __________________________________
Costituiscono:
- le condizioni _______________________ del sapere valido per cui le scienze che le utilizzano sono ________________________
- la legittimazione della scienza di tipo ________________________ poiché:
1 – considerano il ____________________________ l'assoluti e _______________________ ( «soggettivamente» fondati )
2 – permettono la possibilità/necessità di ____________________________________________
3 – giustificano la categoria della _____________________________
«soggettivamente» fondati), la vigorosa difesa della possibilità/necessità di leggi
universali, la riabilitazione della categoria della causalità («solo in quanto
sottoponiamo — insiste Kant — la successione dei fenomeni, cioè dei mutamenti, alla legge di causalità, è possibile l'esperienza, cioè la conoscenza empirica degli stessi...») configurava, alla fine del secolo XVIII, un'immagine del
sapere che, esplicitamente o implicitamente, contrapponeva determinate “certezze” epistemologiche seicentesche - di cui Newton appariva a Kant l'interprete
più prestigioso— a tutte le inquietudini e i dubbi teorici espressi soprattutto da
Hume.
IL NOUMENO
Al termine dell'Analitica, Kant si sofferma su un punto decisivo del suo
pensiero: la distinzione fra fenomeno e noumeno.
Fenomeno è l'oggetto dell'esperienza, l'oggetto come appare al soggetto che
conosce. Così definito come «ciò che appare», il fenomeno rimanda
inevitabilmente a qualcos'altro che non appare, che sta dietro il fenomeno: la
cosa in sé o noumeno. Il noumeno è inconoscibile e tuttavia svolge un proprio
ruolo nel processo conoscitivo, una specie di regia dietro le quinte.
Dalle cose in sé — come si è visto — provengono le impressioni che modificano
sensibilmente il soggetto, dando origine alle sensazioni; queste non sono altro
che la reazione o la modificazione del soggetto in seguito all'azione esercitata nei
suoi confronti dalle cose in sé. Per esempio dalla cosa in sé «albero» giungono
dei “messaggi” (sotto forma di impressioni) che determinano delle modificazioni
specifiche, diverse da quelle prodotte dalla cosa in sé «libro» o dalla cosa in sé
«tavolo», e dunque determinano specifiche rappresentazioni sensibili.
L'intelletto poi pensa le rappresentazioni sensibili come modificazioni soggettive
provocate dall'azione delle cose in sé sul soggetto, e nel fare ciò l'intelletto
riferisce le rappresentazioni sensibili alle cose in sé, ai noumeni, i quali, pur
restando inconoscibili, svolgono appunto un ruolo di registi nell'ombra. Il
noumeno può essere semplicemente pensato dall'intelletto, come d'altra parte
dichiara il nome di «noumeno», che significa: pensabile, intelligibile; non può
però essere conosciuto perché esso non è dato nell'intuizione sensibile.
La figura del noumeno è fra le più complicate della filosofia kantiana proprio per
la sua collocazione `doppia': da una parte il noumeno è l'in sé, l'inconoscibile,
dall'altra esso è qualcosa che può comunque essere pensato, e cioè rappresentato
dal pensiero, seppure in forma del tutto indeterminata.
78
Intorno al noumeno si intrecciano da subito interpretazioni diverse e discussioni,
ma anche ripensamenti da parte dello stesso Kant.
Stando alla stesura definitiva della Critica, possiamo dire che il concetto di noumeno può essere inteso in due sensi. In un primo senso — negativo — esso
designa l'oggetto di cui non abbiamo intuizione sensibile e che perciò — in base
alla concezione kantiana della conoscenza, che è sempre sintesi di sensibilità e
intelletto — è inconoscibile. In un secondo senso — positivo — esso è l'oggetto
di una intuizione intellettuale (non sensibile); ma intendere il noumeno in questo
secondo senso significherebbe andare al di là delle competenze dell'intelletto
umano finito. Il pensiero umano non può conoscere l'essenza del noumeno,
perciò non può averne una conoscenza positiva.
Al contrario, inteso in senso negativo il concetto di noumeno svolge una
funzione utile in quanto concetto-limite, che segna i confini delle pretese
conoscitive dell'uomo. La nostra conoscenza, sia quella comune che quella
scientifica, è circoscritta all'ambito dell'esperienza, mentre gli oggetti al di là del
mondo sensibile — che pure sappiamo essere esistenti — restano inconoscibili
alla mente umana.
NOUMENO E __________________________
Oggetto
Cosa in sé
Soggetto
____________________________
______________________
Rappresentazioni sensibili
__________________________
_______________
Inconoscibile ma _______________________
MERITI E LIMITI DELL’ANALISI
KANTIANA
È certo superfluo rilevare la straordinaria ricchezza e profondità dei temi teoricoepistemologici affrontati nella Critica della ragion pura. Troppo spesso, però, il
capolavoro kantiano è stato assunto come un blocco unitario — e come un
blocco rappresentante, sia filosoficamente che storicamente, il `superamento'
delle precedenti dottrine empiristiche e razionalistiche.
In realtà occorre riconoscere che il capolavoro kantiano è un'opera molto
eterogenea. Essa è percorsa da una serie di tensioni bipolari irrisolte: tra
l'adesione e la critica nei confronti della metafisica; tra la pressione esercitata
dalla «rivoluzione copernicana» verso un'autentica fondazione del sapere sulla
soggettività e il mantenimento più o meno sostanziale di forme di realismo
ontologico (la cosa in sé) e di oggettivismo formale-puro (le categorie, strumenti
situati sì nella soggettività, ma adibiti a funzioni rigidamente oggettive e
oggettivanti, che non hanno alcun rapporto di rilievo con la dimensione del
soggetto e della coscienza); e, soprattutto, tra un'istanza autenticamente criticistica in ambito gnoseologico-epistemologico (quali le condizioni cui devono
soddisfare la conoscenza e il sapere per essere validi) e una più o meno implicita
legittimazione e universalizzazione acritica della struttura del sapere scientifico
esistente e privilegiato nell'età di Kant.
Su un piano generale, i motivi più positivamente innovatori della Critica della
ragion pura parvero subito (e probabilmente sono) la «rivoluzione copernicana»,
l'istanza criticistico-dialettica e la teoria del trascendentale. Col primo tema,
come si è detto altrove, Kant rovesciava in modo estremamente stimolante e
pregno di sviluppi futuri il modo tradizionale di guardare il rapporto cognitivo
tra soggetto e oggetto, e alla sua fondazione. Col secondo, egli colpiva con
illuministica radicalità le pretese della metafisica di porsi come scienza. Col
terzo, veniva proposta un'indagine profondamente nuova, volta non già ad
I ___________________________:
- adesione e __________________ alla
metafisica
2 - _____________________ / realismo
3 – criticismo e _______________________
___________________________________
MOTIVI VALIDI E _______________________
1 - _________________________________
il rovesciamento del rapporto ___________
__________________________________
2 – il _____________________________
negazione della ____________________
79
indagare ontologicamente l'essenza dei fenomeni o ad accertare empiricamente
la validità delle singole scienze, bensì ad individuare le condizioni di possibilità
(e di pensabilità) del sapere in generale, nella sua istanza di universalità e
oggettività rigorosa. Considerata dal punto di vista storico, questa `proposta'
kantiana ha sollecitato il pensiero moderno e contemporaneo ad approfondire lo
studio dei possibili principi a priori che consentono e giustificano determinate
esperienze cognitive. Ha sollecitato, cioé, ad affrontare da un punto di vista non
più ontologico ma gnoseologico-critico quella che è stata definita la
problematica dei fondamenti. Insomma: che cosa permette all'uomo di accostare
e di interpretare i fenomeni in un certo modo?
D'altra parte, questa stessa impostazione correva tre rischi che non sempre Kant
e il pensiero post-kantiano hanno saputo evitare. Il primo consiste nell'ancorare
troppo strettamente la riflessione filosofica al solo piano delle forme a priori e
delle categorie universali pure: con la pretesa di cercare/trovare solo lì, a quel
livello distante dalle pratiche scientifiche particolari-concrete, i principi
necessari e definitivi di tali pratiche. Come abbiamo visto (vedi l’interpretazione
di T. Khun della rivoluzione scientifica26), invece, l’epistemologia del
Novecento evidenzierà i fattori extrarazionali che condizionano l’evolversi della
scienza.
Un altro (e più grave) rischio consiste nel ricercare, magari in modo assai sottile,
i fondamenti a priori — e dunque, si badi, la legittimazione universale-definitiva
— di scienze o di posizioni epistemologiche non adeguatamente valide, oppure
un po' invecchiate. Per quanto possa apparire curioso, il criticista Kant non
sottopone ad una appropriata analisi critica quelle scienze che pure assume come
punto di riferimento esclusivo per la propria individuazione dei principi a priori
della conoscenza. Ne deriva, in Kant, un abbastanza sconcertante atteggiamento
`positivistico' nei confronti delle scienze. La loro realtà e la loro possibilità sono
provate «dalla loro esistenza di fatto»; la loro validità non è mai discussa; di
scienze o linee epistemologiche alternative a quelle da lui assunte a paradigma
assoluto del sapere scientifico (matematica e fisica newtoniana) non si parla
nemmeno.
Tutto ciò pare in qualche misura legittimato dal fatto che Kant dice di partire da
principi a priori, indipendenti dalla realtà empirica delle scienze. Il percorso
ch'egli asserisce di compiere è il seguente: a) individuazione di determinati
principi puri; b) scoperta della presenza degli stessi in certe scienze; c)
conclusione che, dunque, quelle scienze sono fondate, universali e necessarie.
In realtà, il percorso effettivamente compiuto sembra piuttosto il seguente: a)
analisi di alcune scienze assunte acriticamente (cioè senza un'adeguata discussione preliminare) come universalmente valide; b) individuazione di certi
loro principi; c) sussunzione/generalizzazione degli stessi a livello di fondazione
a priori di tutto il sapere in quanto tale. Così ad esempio, assunto tacitamente che
la geometria è una scienza `perfetta' dello spazio, Kant si chiede «quale
dev'essere la rappresentazione dello spazio affinché sia possibile di esso una tale
rappresentazione». In realtà, la geometria non è `perfetta': o almeno non è, non
può essere quella scienza universale-assoluta che consente di individuare
principi universali-invarianti-assoluti, e soprattutto unici. A questo proposito,
giova ricordare che in anni non troppo distanti da quelli nei quali Kant
universalizzava (irrigidendola) la geometria — la geometria euclidea — CarlFriedrich Gauss avrebbe studiato per l'appunto nuovi tipi di geometria, nuovi
modelli di spazio, che contraddicevano l'assolutezza teorizzata con tanta
sicurezza da Kant. In tal modo Kant dà talora l'impressione di star costruendo un
grandioso edificio teorico esplicitamente considerato il fondamento sempiterno,
universale e necessario per scienze non eterne e non universali-necessarie. Per
alcuni il suo `errore' è stato appunto quello di innalzare scienze illustri ma, pur
26
3 – la _______________________________
L’indagine non della realtà ma della
__________________________ della realtà
I LIMITI
1 – ignora i _________________________
_______________________ (vedi T. Khun)
2 – l’accettazione ___________________
delle scienze
L’esempio della ____________________
per Kant geometria euclidea universale e
__________________
ma ________________________________
Vedi dispensa “Il Rinascimento e la nascita della scienza moderna” cap. 5 “La rivoluzione scientifica"
80
esse determinate e contingenti (a cominciare dalla fisica newtoniana) a
paradigmi assoluti, tali da consentire al filosofo la correlativa individuazione dei
Fondamenti Assoluti del Sapere.
Certo non era facile sottrarsi al fascino di Newton. Ma qualcuno l'aveva fatto,
anche a prezzo di lacerazioni personali: si pensi a Hume. E nell'atteggiamento
assunto dinanzi a questa tendenza che Kant rivela il suo atteggiamento filosofico
di fondo: che è, nonostante tutte le possibili eccezioni, un atteggiamento per più
aspetti conservatore. Si è già visto, a questo proposito, in qual misura la
posizione kantiana verso la metafisica sia ambigua. Ma c'è un passo della
prefazione alla seconda edizione della Ragion pura che rivela in modo assai
significativo una almeno delle ispirazioni di fondo dell'indagine kantiana:
“Soltanto dalla critica possono essere tagliati alla radice il materialismo, il
fatalismo, l'ateismo, l'incredulità dei liberi pensatori, il fanatismo, la superstizione, che possono diventare perniciosi a tutti, e infine anche l'idealismo e lo
scetticismo, che sono dannosi più specialmente alle scuole.”
Questo passo colloca obiettivamente Kant vicino all'indirizzo filosofico-culturale
impegnato a difendere una concezione assai moderata (o, appunto,
conservatrice) del pensiero dei lumi. Kant è insomma, almeno per certi versi,
un filosofo `restauratore', impegnato a difendere un sapere moderno ma non
più modernissimo, tamponando le falle aperte in esso da alcune precise dottrine. Nella prospettiva aperta dal passo appena citato si inseriranno, direttamente o indirettamente, tutta una serie di posizione da parte di Kant. Innanzitutto la duplice difesa dell'immagine meccanicisticodeterministica del mondo e, insieme, di quella che viene definita la «necessaria
regolarità della natura»: due assunti senza i quali, a ben guardare, l'intera
gnoseologia kantiana non poteva tenersi in piedi, e che viceversa alla fine del
Settecento non apparivano più — almeno ad alcuni — così indiscutibili come
pareva a Kant.
Ma anche la tesi che l'Io penso deve poter accompagnare tutte le mie
rappresentazioni, «poiché altrimenti in me verrebbe rappresentato qualcosa, che
non potrebbe venir pensato» è abbastanza singolare. Kant sembra non ammettere
l'esistenza dell’“impensabile”, del “non-categorizzabile” in noi. Eppure vari
pensatori e scrittori del suo tempo (ad esempio Leibniz) avevano aperto gli occhi
sia sull'esistenza dell'inconscio (in termini kantiani: qualcosa che è
presente/rappresentato in me, ma che non è pensato).
Lo stesso sistema delle categorie nasceva palesemente un pò “vecchio” e risulta
astorico. Probabilmente il sapere procede con categorie molto più numerose e
flessibili, molto meno universali e formali, molto più storiche e concrete di
quanto sia scritto nella Critica della ragion pura. Invece Kant insiste, come
sappiamo, proprio sull'universalità, la formalità e la coattività del sistema
categoriale.
Possiamo in effetti evidenziare qui due limiti dell’impostazione kantiana:
innanzitutto il fatto che le indagini si situano su un piano esclusivamente
individuale, si fondano cioè sull’analisi della percezione e concettualizzazione
come facoltà del singolo. Nel corso del Novecento, invece, si è definitivamente
affermata una concezione delle conoscenze come un patrimonio elaborato dalla
collettività e l’idea per cui una conoscenza trova il suo significato solo se
collocata nell’insieme della cultura a cui appartiene (vedi brano di U. Eco ‘I
segni’).
Il secondo limite è il non aver colto la storicità della conoscenza umana. Anche il
riconoscimento dell’evoluzione storica della cultura e della conoscenza è
avvenuto solo nell’Ottocento (Hegel, Marx), generalizzandosi poi nel
Novecento.
3 – il ______________________________
- impegnato a difendere un sapere ________
___________________ contro il
materialismo, l'ateismo e lo scetticismo dei
liberi pensatori
- non ammettere l'esistenza ____________
________________
- categorie sono meno ______________ e
più
_________________________
infatti
- per Kant l’indagine si riferisce a un piano
_______________________
CTR
conoscenze come un patrimonio _________
_________________________
- Kant non riconosce _________________
- Kant generalizza a tutto lo scibile i
modelli elaborati dalla ______________
e dalla ___________________
81
Cartesio e Kant consideravano infatti assolute le conoscenze, indipendenti da
qualsiasi tipo di evoluzione, che in qualche modo le renderebbe contingenti, cioè
valide solo adesso27.
Infine, il sistema categoriale kantiano finisce coll'edificare un modello
epistemologico molto severo, che lascia entrare nella cittadella del sapere solo
un certo tipo, molto limitato e delimitato, di proposizioni e cognizioni. La
scienza kantiana accetta solo fenomeni intuiti in un determinato spazio e tempo,
articolati da certe categorie e non altre, da organizzare in unità sistematiche
crescenti, rette da leggi rigorose di tipo universale. Si tratta, inutile ripeterlo, di
un sapere che si vuole `puro' e distante dalle pratiche e dagli interessi umani. Un
sapere, insomma, che intende generalizzare a tutto lo scibile i modelli elaborati
(ma per la sola geometria) da Euclide e (ma per la sola fisica) da Newton.
KANT
Lorenz e la lettura ___________________
delle forme a priori:
forme a priori = __________ ____________
che sono: a priori rispetto all’ __________
__________ a posteriori rispetto alla _____
evoluzione specie = conoscenza non
__________________ (vedi nota 27)
E I PROBLEMI POSTI DAL NUOVO SAPERE
1 giustificazione nuovo sapere: la scienza è __________________ ________________________________________________________
_____________________________________________________________________________________________________________
Ruolo soggetto:________________________________________________________________________________________________
_____________________________________________________________________________________________________________
2 il metodo scientifico: __________________________________________________________________________________________
_____________________________________________________________________________________________________________
3 la concezione della realtà: _______________________________________________________________________________________
_____________________________________________________________________________________________________________
4 Dio: _____________ ___________________________________________________________________________________________
VITA E OPERE
René Descartes (latinizzato in Cartesius e italianizzato in Cartesio) nacque da una famiglia
della piccola nobiltà a La Haye nel 1596. Studiò nel celebre collegio dei gesuiti a La Flèche,
dove apprese la filosofia scolastica. Viaggiò per tutta l'Europa partecipando anche alla guerra
dei Trent'anni come volontario nelle truppe di Maurizio di Nassau prima e dell'elettore di
Baviera poi. La notte del 10 novembre 1619, presso Ulm, ebbe una sorta di visione e intuì i
fondamenti del suo sistema. In Olanda nel 1630 scrisse il trattato I l mondo o trattato della
luce che però decise di non pubblicare quando apprese della condanna di Galileo da parte del
Sant'Uffizio. Sette anni dopo pubblicò il Discorso sul metodo concepito come introduzione
ad alcuni saggi scientifici. Nel 1641 uscirono a Parigi le Meditazioni metafisiche, poi
ristampate insieme alle Obiezioni mossegli dai suoi lettori e alle Risposte alle obiezioni
dell'autore. Morì di polmonite a Stoccolma, nel 1650, dove era ospite delle regina Cristina di
Svezia.
27
Ancora recentemente l’etologo K. Lorenz (1903-89), considerato uno dei fondatori dell’etologia, ha
ripreso le tesi di Kant in “L’altra faccia dello specchio” (1973) dove ha cercato di dare una lettura in
chiave biologica delle forme a priori di Kant, vedendole come schemi istintuali innati che costituiscono
un a priori rispetto all’individuo, ma sono a posteriori rispetto alla specie. Ovvero, l’evoluzione della
specie comporta l’evoluzione delle strutture mentali che l’individuo si ritrova come dotazione naturale.
Ammettendo una forma di evoluzione, le conoscenze non possono comunque più essere considerate
assolute, in quanto sono fissate in una certa forma che in futuro potrebbe cambiare (vedi lettura n 15).
82
Thomas Hobbes nasce a Malmesbury del 1588, viene educato a Oxford, dove si dedica
allo studio dei classici e, soprattutto, di Tucidide. Diviene precettore dei conti di
Cavendish e, grazie a questa carica, ha modo di viaggiare ed entrare in contatto con il
mondo intellettuale europeo. Nel 1636 Hobbes incontra Galileo, di cui ammira
profondamente il progetto di matematizzazione. Hobbes partecipa attivamente alle
lotte politiche che sconvolgono la società inglese del tempo. Pur sostenendo il re,
viene accusato dai realisti più convinti di formulare in modo troppo debole l'assolutismo, con la conseguenza di favorire Cromwell. Nel 1640 Hobbes scrive gli Elementi
di legislazione naturale e politica che ha una circolazione limitata ma sufficiente a fargli
temere reazioni negative, in particolare a causa del principio ivi sostenuto di indivisibilità
del potere sovrano senza diritto divino. In quello stesso anno Hobbes decide perciò di
stabilirsi a Parigi, dove entra presto in corrispondenza con i maggiori filosofi francesi
dell’epoca. Tuttavia, dopo la restaurazione della monarchia, Hobbes può godere della
protezione di Carlo II. Contro Cartesio scrisse le Obiezioni alle Meditazioni. Nel 1651,
dopo la pubblicazione del Leviatano, Hobbes rientra in Inghilterra. Qui scrive la trilogia
composta da De Cive, De corpore e De homine. Hobbes muore a Londra nel 1679.
John Locke nacque nel villaggio di Wrington, vicino a Bristol, nel 1632. Compì gli
studi universitari, e successivamente insegnò, nel prestigioso Christ Church College di
Oxford. Ad Oxford, dove trovò un ambiente accademico dominato dall'aristotelismo - in
contrapposizione alla scuola platonica di Cambridge - Locke si indirizzò agli studi
scientifici, scegliendo la facoltà di medicina. Particolarmente influenti sulla sua
formazione saranno l'incontro con Robert Boyle, che in quegli anni conduceva ad Oxford
ricerche sperimentali di chimica. È con questa formazione scientifico-pratica che Locke
incontrò, in occasione di vari viaggi in Francia, il pensiero di Cartesio e Pierre
Gassendi. Le lezioni tenute da Locke nel 1664 sul fondamento della giustizia (recentemente raccolte sotto il titolo di Saggi sulla legge naturale) testimoniano già del suo
passaggio da posizioni filoassolutistiche - espresse in precedenti scritti - ad una
prospettiva più moderata. Nel 1666 Locke conobbe Lord Ashley, futuro conte di
Shaftesbury, attivamente impegnato contro la politica assolutistica degli Stuart e tra i
fondatori del partito whig Da allora e per più di quindici anni, la vita di Locke e la sua
produzione filosofica dipesero dalle alterne fortune del conte, di cui fu amico e
segretario, oltre che medico personale e precettore del nipote Anthony. Di questi anni
è il Saggio sulla tolleranza (1667). L'accusa di alto tradimento rivolta a Shaftesbury mise
in pericolo anche Locke, che nel 1683 doveva rifugiarsi in Olanda, dove avrebbe trascorso
cinque anni. Il clima di tolleranza e pluralismo che trovò in Olanda e la libertà dagli
impegni politici offrirono a Locke l'opportunità di dare forma organica alle sue idee
filosofiche, in risposta alle due grandi questioni che caratterizzano la sua opera
complessiva: la questione gnoseologica e la questione etico-politica. Nel 1688 esce in
francese un'edizione ridotta di quello che sarà poi il Saggio sull'intelletto umano. Del
1689 è l'Epistula de tolerantia, pubblicata anonima. Nello stesso anno, ormai tornato in
Inghilterra, Locke pubblica il Saggio e, anonimi, i Due trattati sul governo, la versione
inglese della Epistula e la Seconda lettera sulla tolleranza. L'intensa attività filosofica
dell'ultimo quindicennio della sua vita mise Locke in contatto epistolare con importanti
personalità del tempo (fra cui Newton, di cui divenne stretto amico) e gli conferì
impareggiata celebrità, anche internazionale. Di questi anni sono la Terza lettera sulla
tolleranza (1692), i Pensieri sull'educazione (1693), La ragionevolezza del Cristianesimo
(1695) e quattro edizioni del Saggio (una quinta uscirà postuma). Locke si spense a
Oates nel 1704.
Gottfried Wilhelm Leibniz nasce a Lipsia nel 1646 in una famiglia protestante. Nella
biblioteca del padre, professore universitario, comincia precocemente a leggere i classici
e a sviluppare in modo autonomo propri interessi culturali.
Grazie al brillante curriculum di studi, gli viene offerta la nomina a professore, che egli
rifiuta attratto da altre prospettive; la sua versatile attività intellettuale si svolgerà non negli ambienti universitari, ma presso le corti e nel circuito delle nuove istituzioni culturali,
cioè le accademie.
Leibniz dà un grande contributo alla nascita dell'Accademia delle Scienze di Berlino
(1700 e diventa membro della Royal Society e dell'Académie Royale des Sciences. Il suo
ideale è la formazione di una "repubblica delle lettere", a cui collaborino studiosi di
83
diversi Paesi, attraverso le singole accademie, nell'intento di programmare e promuovere
una ricerca scientifica allargata, che unifichi gli sforzi di tutti.
L'aspirazione di Leibniz a un sapere capace di congiungere la teoria e la pratica è
testimoniata dalle sue esperienze sia di imprenditore sia di inventore, come dimostrano la
realizzazione di una calcolatrice più sofisticata della pascalina e gli studi per mulini a
vento a rotazione orizzontale.
Nel 1705, con la morte di Sofia Carlotta di Hannover, sua grande protettrice, inizia per
Leibniz una fase di declino, che si accentua quando nel 1713 viene ingiustamente
accusato dalla Royal Society di avere copiato gli studi newtoniani sul calcolo
infinitesimale. La vita di Leibniz si conclude in solitudine a Hannover nel 1716.
Nella produzione di Leibniz non c'è un'opera di ampie dimensioni in cui egli abbia
esposto in maniera sistematica il proprio pensiero, forse a causa della vita movimentata e
dei molteplici impegni impostigli dalle funzioni di uomo di corte. I punti fondamentali
della sua filosofia sono presentati in modo rigoroso in brevi scritti, come i Principi della
filosofia o Monadologia (titolo con cui è universalmente noto il testo) e i Princìpi della
natura e della grazia fondati sulla ragione, entrambi del 1714 (ma pubblicati postumi).
Le sue opere filosofiche, quali il Discorso di metafisica o il Nuovo sistema della natura
— scritte per lo più in francese, lingua che tende ormai a sostituire il latino come mezzo
di comunicazione all'interno del mondo scientifico-culturale — sono spesso motivate da
circostanze d'occasione. Nei Nuovi saggi sull'intelletto umano, del 1704, discute criticamente il Saggio di Locke (ma la sopravvenuta morte di questi lo distoglie dalla
pubblicazione dell'opera). Nel 1710, in risposta alle critiche rivoltegli dal filosofo
francese Pierre Bayle, scrive i Saggi di teodicea o Teodicea, la sua opera di maggiore respiro, in cui tratta i problemi relativi al rapporto fra necessità e libertà e alla
giustificazione del male nel mondo.
David Hume nasce a Edimburgo nel 1711 da una famiglia calvinista della nobiltà di
toga. Trascorsa l'adolescenza nella proprietà di famiglia di Ninewells, si trasferisce a
Edimburgo per frequentare il college. Studia all'università di Edimburgo fino all'età di
15 anni acquisendo un'imponente cultura umanistica. Sebbene incoraggiato dalla
famiglia ad intraprendere la carriera di giurista, manifesta presto il serio proposito di
dedicare la sua vita alla filosofia. Il periodo dal 1727 al 1734 è di grande importanza
per la sua formazione filosofica; Hume legge gli empiristi e i moralisti inglesi e,
attraverso Bayle, viene a conoscenza delle dottrine di Spinoza. Appena compiuti 18
anni, Hume ha già chiaro in mente il progetto di rinnovamento del metodo filosofico:
applicare il metodo sperimentale allo studio della natura umana, così da istituire una
scienza dell’uomo. È questo un periodo di grande fermento intellettuale per Hume, ma
anche di incertezze religiose e professionali. Si decide infine a partire per Parigi. Il
Trattato sulla natura umana è composto in Francia e pubblicato anonimamente nel 1739
e 1740. II trattato riceve scarsa attenzione, probabilmente a causa dello stile letterario
sistematico; Hume si decide perciò a pubblicare anonimamente nel 1740 un Estratto e a
rivedere l'opera nella sostanza. Miglior fortuna ha la pubblicazione delle Ricerche, nelle
quali Hume espone la formulazione compiuta della sua dottrina. La Ricerca sull'Intelletto
Umano, del 1748, è intesa come una versione rivista e più accessibile dei primi due
libri del Trattato; il libro terzo del Trattato viene ripresentato, corretto nella Ricerca sui
principi della Morale nel 1751. A causa del suo progressivo allontanamento
dall'ortodossia calvinista a Hume viene rifiutato il riconoscimento accademico. Nel
1752 divenne conservatore della biblioteca di Edimburgo e si dedicò prevalentemente a
studi storici. Fu segretario privato dell'ambasciatore inglese a Parigi, dal 1763 al 1766 e
da 1767 al 1768 sottosegretario di stato. Il periodo parigino vede Hume intrecciare
rapporti con gli enciclopedisti e, soprattutto, con Rousseau. Il sodalizio con il
tormentato filosofo ginevrino avrà però una risoluzione drammatica: invitato a Londra
da Hume, Rousseau cominciò a nutrire risentimenti verso di lui e ad accusarlo di
complotto con i suoi nemici.
L'ostilità che si era procurato con la pubblicazione della Storia naturale della
religione, nel 1757, lo costrinse a rimandare la pubblicazione dei Dialoghi sulla religione
naturale, che uscirono postumi. Hume raggiunse però la fama che meritava con la
pubblicazione della Storia di Inghilterra, 1756-1761. Nel mondo intellettuale del tempo,
David Hume era conosciuto e benvoluto sia per la sua brillante intelligenza sia per la
sua socievolezza. Con serenità Hume affronti la malattia e la morte che sopraggiunse
nel 1776.
84
Immanuel Kant nacque nel 1724 a Königsberg (oggi Kaliningrad, in Lituania), allora
capoluogo della Prussia orientale. Figlio di un sellaio, fu educato dapprima secondo lo
spirito religioso del pietismo, di cui era adepta la madre, nel Collegium Fridericianum. Dal
1740 studiò filosofia, matematica e teologia all'università di Königsberg. Le sue prime opere,
risalenti al decennio 1750-60, trattano per lo più argomenti di scienza naturale, come la
celebre Storia universale della natura e teoria del cielo (1755), in cui si sostiene l'ipotesi della
formazione dell'universo, secondo le leggi della meccanica newtoniana, da una nebulosa
originaria. Indipendentemente da Kant, la stessa ipotesi fu formulata alla fine del secolo da
Laplace, ed è nota perciò come "ipotesi di Kant-Laplace". L'interesse filosofico prevale
invece nel decennio successivo, di cui vanno segnalati in particolare i Sogni di un visionario
chiariti con sogni della metafisica (1766), dove vengono anticipati i motivi della critica alla
metafisica sviluppata successivamente nella Critica della ragion pura. Dopo aver tenuto per
qualche anno l'incarico di sottobibliotecario presso la biblioteca reale, nel 1770 ottenne la
cattedra di logica e metafisica. Sino alla morte, avvenuta nel 1804, Kant non si allontanò mai
da Königsberg, dove peraltro condusse anche, finché le condizioni di salute glielo permisero,
una brillante vita mondana, circondato da rispetto e prestigio. Dopo un lungo silenzio, le tre
Critiche uscirono nel decennio compreso tra il 1781 (prima ed. della Critica della ragion pura)
e il 1790 (Critica del giudizio, preceduta due anni prima dalla Critica della ragion pratica).
Nel 1793, dopo la pubblicazione de La religione nei limiti della semplice ragione, ebbe fastidi
con la censura prussiana, che gli proibì di pubblicare ancora su argomenti religiosi. L'anno
dopo uscì Per la pace perpetua. Kant si spense a Königsberg nel 1804.
85
11 - CARTESIO - COME UN UOMO CHE CAMMINA DA SOLO E NELLE
TENEBRE …
Mi trovavo allora in Germania, richiamatovi dalle guerre che colà ancora si combattono, fui costretto dall'inverno incipiente ad acquartierarmi in una località dove, non essendo distratto da alcuna conversazione e non essendo turbato, per
fortuna, né da preoccupazioni né da passioni, trascorrevo tutto il giorno da solo
chiuso in una stanza ben riscaldata da una stufa, dove avevo tutto l'agio di intrattenermi con i miei pensieri.
Tra questi, uno dei primi fu di considerare che spesso le opere costituite di più
parti e realizzate dall'apporto di diversi artefici, non raggiungono quel grado di
perfezione che hanno invece le opere dovute alla mano di un solo maestro. Si vede
così che gli edifici iniziati e compiuti da un solo architetto, sono di solito più belli
e meglio ordinati di quelli che molti hanno cercato di riadattare, recuperando
vecchi muri, costruiti a suo tempo per altri scopi.
Così quelle vecchie città che da semplici borgate, quali erano all'inizio, sono
divenute con il passar del tempo grandi centri urbani, si presentano di solito così
male disegnate se raffrontate agli spazi regolari tracciati liberamente da un
ingegnere in una pianura, che, per quanto i loro edifici considerati a uno a uno
mostrino spesso un'arte pari o anche maggiore degli altri, pure, osservando
come sono disposti, qui uno grande là uno piccolo, e come rendano le strade
tortuose e ineguali, si direbbe che è stato il caso piuttosto che la volontà di
alcuni uomini forniti di ragione, ad averli in tal modo disposti...
E pensavo ancora che per il fatto stesso che noi tutti siamo stati fanciulli prima
di essere uomini, e che per lungo tempo abbiamo dovuto seguire le regole dei
nostri appetiti e dei nostri precettori spesso in contrasto tra di loro, e forse non
sempre, tanto gli uni quanto gli altri, capaci di consigliarci per il meglio, è
quasi impossibile che i nostri giudizi siano così puri e così solidi quanto lo
sarebbero stati se fin dalla nascita avessimo avuto l'intero uso della nostra
ragione, e fossimo stati sempre e soltanto diretti da essa.
È vero che mai abbiamo visto demolire le case di una città all'unico scopo di
farle in un'altra maniera, e di renderne più belle le strade; ma purtuttavia constatiamo che molti fanno abbattere le proprie abitazioni per ricostruirle, e che
anzi sono talvolta costretti a farlo, quando esse corrono il pericolo di cadere da
sole e le fondamenta non sono più solide. In base a questo esempio mi persuasi
che non sarebbe stato certamente ragionevole che un privato progettasse di
riformare uno Stato, cambiando tutto dalle fondamenta e abbattendolo per
ricostruirlo; e neppure di riformare l'intero corpo delle scienze o l'ordine stabilito
nelle scuole per insegnarle; ma che io, riguardo a tutte le opinioni in cui avevo
fino ad allora creduto, non potevo far niente di meglio se non accingermi, una
buona volta, a toglierle di mezzo, per stabilirne in seguito delle altre migliori, o
anche le stesse, dopo averle rese conformi alla ragione. Credetti fermamente che
in tal modo sarei riuscito a condurre la mia vita assai meglio di quanto avrei
potuto fare se avessi costruito su vecchie fondamenta e mi fossi appoggiato sui
principi che avevo accolto nella mia giovinezza senza averne mai esaminato la
verità.
Infatti tutte le difficoltà che pur notavo in questo mio proponimento, non erano
insormontabili né confrontabili con quelle alle quali si va incontro se si vogliono riformare, sia pure di poco, le cose che riguardano le società ....
E se della mia opera, che mi è piaciuta molto, ho voluto mostrarvi il progetto, non
per questo voglio consigliare a chicchessia di imitarla. Coloro che Dio ha voluto
favorire più di me con i suoi doni, avranno forse progetti più elevati; ma temo che
questo mio, per molte persone sia già sin troppo ardito. La semplice decisione di
disfarsi di tutte le opinioni precedentemente accolte non è un esempio che tutti
debbano seguire. L'umanità è quasi completamente formata da due specie di persone alle quali un simile esempio non si attaglia affatto; coloro cioè che, ritenen-
86
dosi più abili di quello che effettivamente sono, non possono trattenersi dal formulare con troppa precipitazione i propri giudizi, né avere sufficiente pazienza per
condurre con ordine i loro pensieri, per cui, una volta presasi la libertà di dubitare
dei principi ricevuti e di allontanarsi dalla solita via, non riuscirebbero a seguire il sentiero che si deve prendere per procedere diritti, rimanendo così smarriti
per tutta la vita; e coloro che, avendo sufficiente ragione o modestia per giudicare
di essere meno capaci di distinguere il vero dal falso che non altri dai quali possono venir istruiti, debbono contentarsi di seguire le opinioni di costoro, piuttosto
che cercarne essi stessi delle migliori ...
Come un uomo che cammina da solo e nelle tenebre, decisi perciò di procedere
così lentamente e di usare tanta circospezione in ogni circostanza, che se anche
avessi fatto dei minimi progressi, avrei tuttavia evitato almeno di cadere. Anzi
non volli neppure iniziare rifiutando radicalmente tutte le opinioni che tempo addietro si erano potute introdurre nel mio animo senza l'esame della ragione, prima
di aver meditato a lungo il progetto che mi accingevo a compiere e prima di aver
ricercato il metodo per pervenire alla conoscenza di tutte le cose di cui il mio ingegno sarebbe stato capace.
R. Cartesio, “Discorso sul metodo”
87
12 - L’ILLUMINISMO E LA CRITICA DELLA TRADIZIONE
Bayle – “La critica delle superstizioni”
D’Alembert – “La rivoluzione culturale alla metà del secolo XVIII”
BAYLE – LA CRITICA DELLE SUPERSTIZIONI
I presagi delle comete non hanno alcun fondamento
Tutti i giorni sento molte persone discutere sulla natura delle comete e, quantunque io non sia un astronomo né per vocazione né per professione, non trascuro di
studiare accuratamente tutto quello che i più esperti hanno pubblicato su questo
argomento; ma bisogna che vi confessi, signore28, che di tutte le loro affermazioni
mi sembra convincente soltanto quella contro la superstizione popolare, secondo
cui le comete minacciano il mondo di un'infinità di malanni.
Ecco perché non so convincermi che un dottore come voi siete, il quale per il
semplice fatto di essere riuscito a predire con precisione il ritorno della nostra
cometa, dovrebbe essere convinto non trattarsi altro che di corpi soggetti alle leggi
ordinarie della natura e non di prodigi che non seguono nessuna regola, si sia nondimeno lasciato trascinare dalla corrente e creda, conformemente all'opinione generale, nonostante le ragioni addotte da un ristretto numero di persone scelte, che
le comete siano come degli araldi che vengono da parte di Dio a dichiarare la guerra
al genere umano. Se voi foste un predicatore potrei perdonarvi perché tali pensieri
sono molto adatti per propria natura ad essere rivestiti dei più pomposi e patetici
ornamenti dell'eloquenza, e fanno quindi più onore a colui che li declama e molta
più impressione sulla coscienza degli uditori, che non cento altre proposizioni provate dimostrativamente. Ma non posso ammettere che un dottore, il cui compito
non è di esercitare doti di persuasione sul popolo e il cui nutrimento spirituale
dovrebbe essere esclusivamente la pura ragione, consideri con rispetto idee tanto
poco fondate e si appaghi della tradizione e di passi tratti dai poeti e dagli sto rici 29.
Non è possibile avere un peggiore fondamento. Cominciamo dai poeti; voi ben sapete, signore, quanto essi si ostinino a voler cospargere le loro opere di numerose
descrizioni pompose, come lo sono per l'appunto quelle intorno ai prodigi, e a voler
dare un carattere meraviglioso alle avventure dei loro eroi, al punto che per pervenire al loro scopo immaginano mille cose sbalorditive. Così, ben lontano dal credere sulla loro parola che la caduta della repubblica romana sia avvenuta per l'apparizione
di due o tre comete, sarei piuttosto propenso a non credere, se altri non l'avessero
affermato, che proprio in quel tempo siano apparse delle comete. Dobbiamo infatti
pensare che, se uno si decide a fare un poema, vuole impadronirsi nello stesso tempo di tutta la natura. Il cielo e la terra ormai non agiscono più se non per suo ordine, eclissi e naufragi avvengono a sua discrezione e tutti gli altri elementi si confondono se a lui sembra opportuno. Si vedono tanti eserciti sospesi nell'aria e tanti
mostri sulla terra quanti egli ne desidera; gli angeli e i demoni appaiono a ogni suo
comando. Gli stessi dei, issati su delle macchine, sono pronti a mettersi a sua
disposizione e, poiché c'è soprattutto bisogno di comete grazie alle superstizioni
che le circondano, le usa a proposito, se le trova belle e fatte nella storia; se non le
trova, le fabbrica da sé dando loro colore e forma tali che sia evidente quanto e
con quale interesse il cielo si è preso cura di tutta la faccenda. Dopo di che, chi
non riderebbe nel vedere tante persone intelligenti fornire come prova del carattere
maligno di questi astri eccezionali niente altro che il Terris mutantem regna
28
I Pensieri sulla cometa, da cui è tratto il brano, sono redatti in forma di lettera a un dottore
della Sorbona, che Bayle indica con le iniziali M.L.A.D.C.
29
Sin dalle prime pagine dell'opera è evidente l'impianto razionalistico del discorso di Bayle.
88
Cometen di Lucano; il Regnorum eversor, rubuit lethale Cometes di Silio Italico; il
Nec diri toties arsere Cometae di Virgilio; il Nunquam terris spectatum impune
Cometen di Claudiano e altre simili belle espressioni degli antichi poeti? 30
Riguardo agli storici, convengo che non si prendono la libertà di immaginare con
tanta facilità fenomeni straordinari; ma la maggior parte di essi rivelano una così
grande smania di riferire tutti i miracoli e tutte le visioni che la credulità dei popoli
ha sanzionato, che non sarebbe prudente credere a tutto quello che ci riferiscono
su questo argomento. Forse temono che le loro storie apparirebbero troppo semplici, se a ciò che avviene secondo il corso naturale delle cose non mescolassero
un certo numero di prodigi e di accidenti sovrannaturali 31; e forse sperano, con
questa specie di condimenti, tanto graditi all'inclinazione naturale dell'uomo, di
tenere sempre desto l'interesse dei lettori, fornendo loro continuamente cose di
cui stupirsi; o forse sono persuasi che il fortuito verificarsi di simili avvenimenti
miracolosi, renderà famosa la loro storia, nei tempi avvenire. Comunque sia, non si
può negare che gli storici trovino la massima compiacenza nel moltiplicare tutto ciò
che abbia soltanto l'odore del miracolo [...1.
Con tutto questo però, signore, non ritengo che si debba cavillare troppo sull'autorità degli storici; a mio parere la loro credulità non deve impedirci di credere
che siano veramente apparse delle comete tutte le volte che lo hanno riferito, e che
negli anni successivi alla loro apparizione siano effettivamente capitati tutti i mali
che essi ci raccontano. A questo posso prestar fede, ma non altro vi posso
concedere, e questo soltanto dovete ragionevolmente pretendere. Vediamo ora
quali ne siano le conseguenze. Intanto vi sfido a concludere con tutta la vostra
sottigliezza che le comete sono state la causa o il segno delle calamità che sono
seguite alla loro apparizione. In questo modo le testimonianze degli storici si
riducono soltanto a provare che sono comparse delle comete e che in seguito si
verificarono nel mondo un sacco di disordini; il che è ben diverso dal provare che
l'una di queste due cose sia la causa o il pronostico dell'altra 32. A meno che
non si voglia ammettere che una donna, che non si affaccia mai alla sua finestra
di via Saint-Honoré senza vedere passare delle carrozze, possa ritenersi, ogni volta
che si affaccerà alla finestra, la causa del loro passaggio o almeno presagio a tutto
il quartiere che passeranno ben presto delle carrozze. [...1
Dell'autorità della tradizione
Dopo tutto quello che ho detto, è completamente superfluo controbattere in
particolare il pregiudizio della tradizione; è infatti evidente che se la prevenzione
intorno alle comete, cui da tempi immemorabili si è rimasti legati, può avere
qualche fondamento legittimo, esso consiste esclusivamente sulla testimonianza
che le storie e gli altri libri hanno lasciato in tutti i secoli: ma se non si deve tenere
in nessuna considerazione questa testimonianza, come appunto ho dimostrato e come
apparirà ancor più chiaro da ciò che mi resta da dire, sarà necessario non tener
conto neppure del gran numero di approvazioni e di suffragi che su di essa
30
«La cometa che stravolge i regni della terra» (Lucano); «Diventò rossa la letale cometa,
sovvertitrice di regni» (Silio Italico); «Non tante volte si infiammarono le comete apportatrici
di sventure» (Virgilio); «II mondo non ha mai guardato impunemente una cometa»
(Claudiano).
31
Per Bayle è una naturale quanto funesta tendenza dell'uomo quella di cercare di spiegare come effetto soprannaturale ciò che è un semplice fenomeno della natura. Gli storici, in parte sono
anch'essi succubi di questa inclinazione, in parte se ne servono artatamente per rendere più
attraenti i loro racconti. Nella successiva parte del brano - che qui viene omessa - Bayle
polemizza contro coloro che considerano la storia come apparentata con la poesia.
32
Qui Bayle illustra uno dei requisiti della storiografia razionalistica. Oltre all'accertamento dei
fatti mediante l'analisi delle fonti, lo storico deve verificare la reale connessione causale tra
fatti accertati. In questa seconda operazione nulla è più utile dell'analisi razionale degli eventi.
89
hanno trovato il loro sostegno 33.
Peccato che non si possa vedere che cosa passi nella mente degli uomini quando
scelgono un'opinione! Son sicuro che, se questo fosse possibile, potremmo ridurre
il consenso di un'infinità di uomini all'autorità di due o tre persone, che, ritenute
profonde conoscitrici di una dottrina, sono riuscite a diffonderla, grazie al pregiudizio che si aveva dei loro meriti; esse hanno infatti convinto molti altri, e questi
a loro volta molti altri ancora, i quali, per pigrizia naturale, hanno preferito accet tare immediatamente a occhi chiusi tutto quello che veniva detto loro, piuttosto
che esaminarlo accuratamente. E poiché il numero dei seguaci creduli e
infingardi aumentava di giorno in giorno, si è trovato in ciò un sempre nuovo
invito a evitare la fatica di esaminare un'opinione che appariva tanto diffusa e di
cui in buona fede ci si convinceva che fosse divenuta tale per la solidità delle
ragioni che all'inizio erano servite a stabilirla; alla fine non c'è stata altra
scelta che credere in ciò in cui tutti credevano per non passare per dei faziosi che
vogliono sempre saperne più di tutti e contraddire la venerabile antichità; come
se fosse un merito non esaminare più nulla e rimettersi semplicemente alla
tradizione. Giudicate voi stesso, signore, se cento milioni di uomini, che si sono
convinti e radicati in una opinione nel modo che ho or ora spiegato, possano
renderla probabile, e se il pregiudizio che si fonda sul gran numero di seguaci
non debba invece essere ridimensionato, tendendo la dovuta giustizia all'autorità
di due o tre persone, le sole ad avere probabilmente esaminato ciò che
insegnavano. Ricordatevi allora, signore, di certe opinioni fantasiose cui si è data
la caccia in questi ultimi tempi, senza tener conto del numero dei testimoni su cui
poggiavano: si è infatti dimostrato come questi testimoni si fossero copiati l'un
l'altro senza avere per proprio conto esaminato ciò che citavano, e come, quindi,
dovessero contare solo per uno. Nessuna altra conclusione potrete dunque
trarne, se non che, quantunque molte nazioni e molti secoli si accordino
nell'accusare le comete di tutti i disastri che capitano nel mondo dopo la loro
apparizione, si tratta tuttavia di un'opinione che non ha maggiori probabilità di
quante ne avrebbe l'opinione di sette o otto persone, perché certamente non sono di più le persone che a essa danno o hanno dato il loro consenso, dopo
averla bene esaminata al lume dei principi della filosofia.
Per quale ragione non parliamo dell'autorità dei filosofi
Volete poi sapere, signore, perché non ho preso in considerazione l'autorità dei filosofi, come invece ho fatto per quella dei poeti e degli storici? Perché son
sicuro che se la testimonianza dei filosofi ha prodotto una certa impressione
sul vostro animo, ciò si è verificato per il carattere ancora più generale che una
simile testimonianza ha dato alla tradizione, e non per le ragioni su cui si è
fondata34. Siete troppo esperto per essere ingannato da un filosofo, chiunque
egli sia, purché veniate attaccato sul piano del ragionamento. Bisogna infatti
riconoscere che nelle cose da voi ritenute di pertinenza della ragione, non
seguite altro che la pura ragione; anche in tal caso perciò non sono certamente i
33
La funzione della tradizione è quella di trasformare in verità affermazioni prive di alcun valore
scientifico. Come si è visto prima, la testimonianza dei poeti è pura fantasia; quella degli
storici è o accorgimento narrativo o mancanza di critica nel valutare fonti e connessioni di
fatti. In ogni caso, il valore delle autorità scritte da cui proviene la credenza nel carattere funesto
delle comete è nullo.
34
La parte che la filosofia ha avuto nel consolidamento dell'errore relativo al significato delle
comete non consiste tanto nelle ragioni pseudo-razionali che essa ha addotto a favore della
perniciosità di tali fenomeni: queste ragioni sono logicamente molto deboli e provocano poco
guasto. Il danno maggiore è stato provocato dalla filosofia indirettamente, attraverso la difesa
non di questa particolare tradizione, ma del valore della tradizione in generale. Alla filosofia,
invece, Bayle vuole restituire la sua funzione critica e la sua capacità discriminante tra il vero e il
falso.
90
filosofi in quanto tali ad avere contribuito a porvi allo stesso livello del popolo;
perché non c'è un solo ragionamento da loro imbastito per provare le influenze
maligne che non faccia pietà. Volete dunque che io, da vostro vecchio amico, vi dica
perché accettate una opinione corrente senza consultare l'oracolo della ragione? 35
Perché siete convinto che in tutto ciò ci sia qualche cosa di divino, come già è
stato detto per alcune malattie dal famoso Ippocrate in poi; perché pensate che il
consenso generale di tante nazioni nel corso di tutti i secoli debba necessariamente
dipendere da una specie di ispirazione, vox populi, vox Dei; perché siete abituato,
per il vostro carattere di teologo, a non ragionare più, quando credete che ci sia
un mistero, arrendevolezza questa senz'altro molto lodevole, ma che talvolta, se
supera troppo certi limiti, usurpa, come ha tanto giustamente osservato Pascal, i
diritti della ragione; e infine perché, per la vostra stessa coscienza timorata, siete
portato facilmente a credere che la corruzione del mondo armi il braccio di Dio
dei più spaventosi flagelli, che tuttavia il buon Dio non si deciderebbe a scagliare
sulla terra senza essersi prima assicurato se gli uomini migliorerebbero, come
appunto fece prima di inviare il Diluvio. Tutto questo, signore, costituisce per il
vostro spirito un sofisma di autorità, contro cui, nonostante tutta la vostra abilità nel
districare i falsi ragionamenti dei logici, non sapreste difendervi36.
Stando così le cose, è inutile sperare di disingannarvi, ragionando con voi sui
principi della filosofia. O vi si abbandona sulle vostre posizioni, oppure dobbiamo
ragionare sui principi della devozione e della religione. E così farò (perché
non voglio che mi sfuggiate), dopo aver sottoposto alla vostra attenzione (debbo
pur rifarmi in qualche modo) molte ragioni, fondate sul buon senso 37, atte a
convincere di temerarietà la diffusa opinione sull'influenza delle comete. Cercate
intanto di indovinare, se vi riesce, quali siano quei principi di devozione che tengo
in serbo per voi; indovinatelo, se vi riesce, mentre nelle mie ore di libertà vi
preparerò una specie di preludio che verterà sui principi più comuni.
Bayle “ Pensieri sulla cometa” (1682)
D’ALEMBERT – LA RIVOLUZIONE CULTURALE ALLA METÀ DEL SECOLO
XVIII
Parrebbe che da circa trecento anni, la natura abbia destinato la metà di ciascun secolo
come epoca di una rivoluzione nello spirito umano. La presa di Costantinopoli, alla
metà del XV secolo, ha fatto rinascere le lettere in occidente. La metà del XVI ha
visto mutare rapidamente la religione d'una gran parte d'Europa... Infine Cartesio, alla metà del XVII, ha fondato una nuova filosofia, dapprima furiosamente
perseguitata, poi superstiziosamente seguita e oggi ridotta agli elementi più validi e
fecondi.
Ora, se appena si considera con un poco di attenzione la metà del secolo in cui
viviamo, gli eventi nei quali siamo impegnati, i nostri costumi, le nostre opere e
persino le nostre occupazioni più futili, è difficile non rendersi conto che si sta
verificando, sotto molti aspetti, un grande mutamento di idee che sembra annunciare, con la sua stessa rapidità, mutamenti ancora maggiori. Il tempo
rivelerà la natura e i limiti di tale rivoluzione, di cui la posterità conoscerà
meglio di noi i vantaggi e gli inconvenienti.
Ogni secolo che pensi bene o male, purché creda di pensare e pensi diversamente da quello precedente, ama fregiarsi del titolo di filosofo ; così come spesso
35
Segue un elenco dei pregiudizi che favoriscono la credenza nei malefici delle comete o, più
in generale, che impediscono un uso critico della ragione
36
Da notarsi: la forza della tradizione priva la ragione delle sue capacità critiche, pur
lasciando intatte le sue facoltà più «tecniche», come quelle logiche.
37
La ragione coincide per Bayle, come per la maggior parte degli illuministi, con il semplice
«buon senso».
91
onoriamo del titolo di saggi coloro che in realtà non ebbero altro merito che quello
di aver contraddetto i loro contemporanei. Ora, il nostro secolo si è proclamato
per eccellenza il secolo della filosofa...
Se si esamina senza prevenzioni lo stato attuale delle nostre conoscenze, è impossibile disconoscere i progressi della filosofia da noi. La scienza della natura acquisisce di giorno in giorno nuove ricchezze; la geometria, ampliando i propri confini, ha diffuso i suoi lumi anche nei domini limitrofi della fisica; il vero sistema
del mondo è stato conosciuto, sviluppato e perfezionato... la scoperta e l'uso di un
nuovo metodo di filosofare, l'entusiasmo che accompagna le scoperte, le idee
elevate prodotte in noi dallo spettacolo dell'universo, tutte queste cause hanno
prodotto negli spiriti un vivo fermento; questo, agendo per sua natura in ogni
direzione, ha violentemente influenzato tutto ciò con cui è venuto a contatto, come un
fiume che abbia spezzato gli argini.
Ora gli uomini... quanto più sono lenti a scuotere il giogo delle opinioni tradizionali, tanto più sono inclini - quando l'abbiano in qualche punto spezzato - a
spezzarlo totalmente... Così, dai principi delle scienze profane fino ai fondamenti
della rivelazione, dalla metafisica all'estetica, dalla musica alla morale, dalle dispute
scolastiche dei teologi alle attività commerciali, dai diritti dei principi a quelli dei
popoli, dalla legge naturale a quelle positive delle nazioni, in una parola, dalle
questioni che più ci toccano da vicino sino a quelle che ci interessano di meno,
tutto è stato discusso, analizzato, o almeno scosso nei suoi fondamenti.
D Alembert “Saggio sugli elementi di filosofia” (1759)
VITA E OPERE
Pierre Bayle nacque nel 1647 a Le Carla, nella Francia meridionale in una famiglia
protestante di bassa estrazione. L'opera del professore calvinista costretto a rifugiarsi a
Rotterdam dopo la chiusura nel 1681 delle scuole superiori protestanti ad opera di Luigi
XIV è, insieme ad altri influssi, all'origine dell'Illuminismo francese. Con i suoi Pensieri
sulla cometa (1682), che prendono a pretesto la comparsa di una cometa cui si accompagna l'opinione popolare di presagio di sventura, Bayle dà inizio ad una polemica
esplicita contro la superstizione, il fanatismo e l'intolleranza religiosa, giungendo ad
affermare che anche gli atei possono avere una vita moralmente ineccepibile e felice. Tale
coraggiosa presa di posizione, ribadita nel Trattato della tolleranza universale (1686-1687),
gli valse la persecuzione anche nel mondo riformato.
Egli tuttavia non arrestò la sua opera, che vide finalmente nel 1697 il suo coronamento con il
Dizionario storico-critico, dedicato ad estirpare pregiudizi e false interpretazioni presenti
negli altri dizionari del tempo. Tale scritto, che fungerà da modello per l'Encyclopédie e
soprattutto per il Dizionario filosofico di Voltaire, parte dal presupposto scettico che
ragione e fede siano inconciliabili, e che le religioni positive siano piene di errori e
contraddizioni. Muore a Rotterdam nel 1706.
Jean-Baptiste Le Rond d'Alembert nasce a Parigi nel 1717, figlio illegittimo poi riconosciuto dal padre, d'Alembert si formò in diritto, medicina e soprattutto in matematica,
diventando nel 1741 membro dell'Accademia della scienza. Negli anni ‘40 è autore di
numerosi trattati di matematica e fisica e sulla fine del decennio stringe con Diderot il sodalizio che porta alla nascita dell'Encyclopédie, impresa cui parteciperà sino al 1759. Il
contributo più famoso di d'Alembert all'opera, il Discorso preliminare, fissa i criteri
organizzativi e strutturali dell'insieme, ma descrive anche la concezione del sapere che vi è
sottesa. Per d'Alembert, come per Diderot, Locke e Bacone, la scienza deve basarsi sui fatti, e
una descrizione con spirito sistematico delle scienze deve basarsi sui loro legami reali
piuttosto che sulle astrazioni dei sistemi filosofici. Inoltre il Discorso affronta anche il tema
del rapporto fra intellettuali e potere, tema che verrà ripreso da d'Alembert nel Saggio sui
rapporti fra intellettuali e potenti (1753). D'Alembert si occupò di morale, di politica e di
storia con numerosi scritti (fra cui anche alcune voci dell'Encyclopédie di carattere non
scientifico e scritti di critica d'arte) e partecipò molto attivamente al dibattito culturale
europeo come ospite brillante dei salotti, interlocutore dei sovrani «illuminati» e ideale
capofila dei philosophes. Morì a Parigi nel 1783.
92
13 - R. M. PIRSIG – HUME, KANT E L’ARTE DELLA MANUTENZIONE
DELLA MOTOCICLETTA
"Quanto segue è basato su fatti realmente accaduti. Bénché molto sia stato
cambiato per finalità retoriche, nella sua essenza deve essere considerato realtà. Tuttavia
:non va in alcun modo assimilato al vasto corpo di dati relativi alle pratiche ortodosse
del buddhismo Zen. E neppure va associato troppo strettamente con la realtà pratica
delle motociclette." Questa è la nota che R. M. Pirsig premette al volume “Lo zen e
l'arte della .manutenzione della motocicletta”, pubblicato nel 1974, successo immediato
negli Stati Uniti e quindi in Europa e a cui è seguito una sola altra opera “Lila” nel
1991. Drammatico, classico, filosofico, “Lo zen e l'arte della manutenzione della
motocicletta “ è un racconto di enorme fascino, in apparenza la storia di un uomo
che, una mattina d'estate, sale sulla sua vecchia mo t o , i l f i gl i o u n di c e nn e s ul
s e l l i no , accanto a lui un'altra moto con due amici: un progetto di viaggio. È
l’inizio di una vacanza, é l’inizio di un itinerario alla ricerca di se stessi nel paesaggio
mutevole dal Minnesota al Pacifico: boschi, canyons, praterie si intrecciano con
pensieri, ragionamenti, emozioni. Che cos’è l a Qualità, quando e perché si stacca
dalla ragione ? Perché il fantasma della ragione ci angoscia? Dove e in quale vita
scienza, religione e umanesimo possono convivere, riconciliarsi e integrarsi?
Ora vorrei parlare di un altro tipo di vette: le vette della mente. Se
consideriamo l'insieme del sapere umano come un'enorme struttura gerarchica,
allora le vette della mente si troveranno nel punto più alto di questa struttura, tra
le considerazioni più generali e più astratte.
Sono pochi quelli che si spingono fin quassù. Dall'escursione in queste regioni non
si trae alcun particolare profitto, e tuttavia, come le montagne del mondo
materiale che ci circondano, esse hanno una loro austera bellezza che giustifica
per molti la fatica dell'ascesa.
Quassù bisogna assuefarsi all'aria più rarefatta dell'incertezza, all'immensità
delle domande e delle risposte. Gli spazi che si aprono davanti al pensiero sono
talmente più vasti di quanto la mente possa percepire che si esita persino ad
avvicinarsi, tale è la paura di perdersi.
Qual è la verità e come si fa a riconoscerla, se la si ha tra le mani?... Come
facciamo a sapere davvero qualcosa? C'è forse un «io», un'«anima » che sa, o
quest'anima non è altro che un insieme di cellule che coordinano i sensi? La realtà
è essenzialmente mutevole, o è statica e permanente? Quando si dice che
qualcosa significa qualcos'altro, che cosa s'intende?
Fin dai tempi dei tempi su queste catene montuose abbiano tracciato e dimenticato
molti sentieri che ci hanno dato molteplici risposte, tutte con la pretesa della
permanenza e dell'universalità; abbiamo così molte risposte diverse alle stesse
domande, e tutte si possono considerare vere nel loro contesto. Anche all'interno di
una singola cultura si continua a chiudere i sentieri vecchi per aprirne di
nuovi.
Si dice a volte che non c'è un progresso vero e proprio; che una civiltà che
uccide milioni di persone in guerre di massa, che inquina la terra e gli oceani
con quantità sempre maggiori di rifiuti, che distrugge la dignità degli individui
soggiogandoli a un'esistenza forzatamente meccanizzata, difficilmente può essere
definita un progresso rispetto all'esistenza più semplice delle società primitive. Ma
quest'argomentazione, benché abbia un suo fascino romantico, non regge. Le
tribù primitive permettevano una libertà individuale molto inferiore a quella
concessa dalla società moderna. Le guerre venivano perpetrate con molte meno
giustificazioni morali… E il quadro che i libri di scuola forniscono dell'uomo
primitivo omette a volte il dolore, le malattie, la fame, il lavoro stremante
che la mera sopravvivenza richiedeva. Il passaggio dalle sofferenze di
quell'esistenza cruda alla vita moderna si può definire un progresso senza
93
timore di esagerare, e l'unico fattore determinante di questo progresso è chiaramente la ragione stessa.
È facile vedere come i processi, sia naturali che formalizzati, dell'ipotizzare, dello
sperimentare, del trarre conclusioni, abbiano generato secolo dopo secolo le
gerarchie di pensiero che hanno eliminato la maggior parte dei nemici
dell'uomo primitivo. In una certa misura, la condanna romantica della razionalità
trae la sua origine proprio dall'efficacia della razionalità stessa nel sollevare
l'uomo dalle sue condizioni primitive. La razionalità è infatti un fattore della civilizzazione umana così potente ed egemonico che ha eliminato tutto il resto e ora
domina addirittura l'uomo. Questa è l'origine della protesta romantica.
Attraverso gli immani interrogativi sulla realtà e sul sapere erano passati
grandi personaggi, alcuni dei quali, come Socrate, Aristotele, Newton e
Einstein, erano universalmente noti, ma molti altri erano pressoché sconosciuti.
Fedro38 li studiò e si appassionò sempre di più al loro pensiero e alle loro
costruzioni teoriche. Seguì le loro tracce attentamente finché non persero
d'interesse, e allora li abbandonò. A quell'epoca, da un punto di vista
accademico, i risultati dei suoi studi erano mediocri, perché a quest'altezza più
si pensa più si procede a rilento. Fedro leggeva in modo più scientifico che
letterario, analizzando ogni frase, annotando dubbi da risolvere in seguito; ho la
fortuna di avere un intero baule dei suoi quaderni.
La cosa più sorprendente di questi appunti è che essi contengono quasi tutto
quello che Fedro disse anni dopo; ed è frustrante vedere come a quel tempo
egli fosse completamente ignaro dell'importanza di quello che stava dicendo.
Fedro come studioso era abominevole: dava giudizi avventati su ogni filosofo,
aveva da sindacare su qualsiasi testo, era sempre parziale. Voleva che i filosofi
seguissero una certa strada e s'infuriava quando non lo facevano.
Ho ancora un frammento di ricordo di lui seduto in una stanza, alle tre del
mattino, davanti alla famosa Critica della ragion pura di Immanuel Kant. La
studiava come un giocatore di scacchi avrebbe studiato una partita, vagliandone la
linea di sviluppo, cercando le contraddizioni e le incongruenze.
Fedro era un personaggio bizzarro rispetto agli americani del Midwest che lo
circondavano, ma quando studiava Kant lo era meno. Per Kant provava un
grande rispetto, non perché condividesse il suo pensiero, ma perché ammirava
l'eccezionale fortificazione logica che Kant aveva costruito intorno alle sue
posizioni. Kant è sempre superbamente metodico, perseverante, regolare e
meticoloso mentre si inerpica sulle vette nevose di un pensiero volto a stabilire
che cosa è nella mente e che cosa ne è fuori. E fu proprio su queste vette che a
Fedro si presentò per la prima volta la soluzione complessiva del problema
dell'intelligenza classica e dell'intelligenza romantica.
Per seguire Kant bisogna aver capito anche il pensiero di Hume. Hume aveva
affermato questo: se, per determinare la vera natura del mondo, ci si attiene
strettamente alle regole logiche dell'induzione e della deduzione, fondate
sull'esperienza, si deve giungere a determinate conclusioni. Il suo ragionamento si sviluppava secondo le traiettorie che risulterebbero dalla risposta a
questa domanda: prendiamo un bambino privo dalla nascita di tutte e cinque
le facoltà sensoriali, e supponiamo che venga nutrito per via endovenosa e
mantenuto in vita in questo stato fino a diciotto anni. Ci si può allora
chiedere: questa persona di diciotto anni ha un pensiero in testa? E se sì, da
38
Fedro, nel libro, è l'altro protagonista, ma è un protagonista assente-presente, morto, che rivive nel
ricordo e nello sforzo che il protagonista fa per comprenderlo. È l'emblema dell'uomo occidentale che
ha messo in discussione e cercato di superare i limiti e i dualismi dell'Occidente. Tra questi dualismi
quello, di cui si accennava prima e di cui si tornerà a parlare tra poco, tra l’intelligenza classica e
intelligenza romantica: quella che analizza, divide e coglie le relazioni e quella che coglie
l'insieme, lo contempla o lo critica; tra l’atteggiamento di chi difende il progresso, la tecnica e la
scienza e di chi vede in esse uno strumento di asservimento dell’uomo.
94
dove gli arriva?
Hume avrebbe risposto che il diciottenne non aveva pensieri di sorta, e dando
questa risposta si sarebbe definito un empirista, uno che crede che tutta la conoscenza derivi esclusivamente dai sensi. Il metodo scientifico della
sperimentazione è empirismo attentamente controllato. Il buon senso odierno
è empirismo, dato che la stragrande maggioranza concorderebbe con Hume,
benché in altre culture e in altri tempi la maggioranza avrebbe potuto non
essere d'accordo.
Il primo problema dell'empirismo, se nell'empirismo si crede, riguarda la
natura della «sostanza» 39. Se tutta la nostra conoscenza ci deriva dai dati
sensoriali, che cos'è esattamente questa sostanza che dovrebbe generarli? Se
cercate di immaginare che cos'è questa sostanza a prescindere da quello che
percepite non riuscirete a pensare a un bel niente.
Dato che tutta la conoscenza deriva da impressioni sensoriali e dato che non
esiste un'impressione sensoriale della sostanza stessa, ne segue logicamente che
della sostanza non abbiamo nessuna conoscenza. È tutta nella nostra mente.
In secondo luogo, se si parte dalla premessa che tutta la conoscenza ci viene
dai sensi, bisogna chiedersi: da quali dati sensoriali ci deriva la nostra consapevolezza del rapporto tra causa e effetto? In altre parole, qual è la base
empirica e scientifica della causalità?
La risposta di Hume è: «Nessuna». Nelle nostre sensazioni non c'è nessuna
prova della causalità. È un rapporto che immaginiamo quando a un fenomeno ne
segue con una certa regolarità un altro. Non ha un'esistenza reale nel mondo che
osserviamo. Se si accetta la premessa che tutta la conoscenza ci deriva dai sensi,
dice Hume, allora bisogna concludere logicamente che sia la «natura» sia «le
leggi della natura» sono creazioni della nostra immaginazione.
Quest'idea che il mondo intero è contenuto nella nostra mente potrebbe essere
scartata come un'assurdità se Hume si fosse limitato a proporla come base di
discussione. Invece lui faceva di essa un argomento irrefutabile.
Bocciare le conclusioni di Hume era necessario, ma sfortunatamente il modo in
cui egli ci era arrivato rendeva apparentemente impossibile farlo senza abbandonare l'empirismo scientifico per ritornare a barricarsi dietro a sistemi di
pensiero medioevali. E questo Kant non poteva accettarlo. Così fu Hume, disse
Kant, a «risvegliarlo dai suoi sonni dogmatici» e a indurlo a scrivere la Critica
della ragion pura.
Kant cerca di salvare l'empirismo scientifico dalle conseguenze della sua stessa
logica autodistruttiva. Segue dapprima il sentiero lungo il quale si era avviato
Hume. «Che tutta la nostra conoscenza inizi con l'esperienza è indubbio» egli
dice, ma presto si allontana da quel sentiero per negare che tutte le componenti della conoscenza provengano dai sensi al momento della percezione dei
dati sensoriali. «Benché tutta la conoscenza inizi con l'esperienza, non ne segue
necessariamente che essa derivi dall'esperienza».
Sulle prime potrebbe sembrare che Kant stia menando il can per l'aia, ma non
39
Nel linguaggio comune, come in quello filosofico, il termine sostanza indica l’essenza, l’essere
proprio di qualcosa, ciò senza il quale non si dà la cosa stessa; l'opposto di accessorio o accidente.
Sostanza viene dal latino substantia, da substare, «star sotto»; la sostanza è ciò che non muta anche se
mutano alcuni aspetti, che, appunto perché non-sostanziali, sono detti «accidenti», da accidere,
«accadere». La coppia sostanza/accidente è uno dei fondamenti della metafisica classica, ed è una
risposta a un problema reale, suggerito dal cambiamento, in un certo senso dalla sorpresa di constatare
che tutte le cose mutano, sono soggette al divenire, pur rimanendo sempre le stesse. Un corpo cresce, si
muove, si altera, si trasforma, ma la sostanza permane; anzi, tutte le alterazioni e le trasformazioni non
sarebbero possibili se non inerissero a un qualcosa che le sostiene e le "porta".
Questa accezione, sia nel senso comune che nel linguaggio filosofico, allude a qualcosa di intelligibile,
non a un oggetto d'esperienza, alla cosa in quanto tale, la quale si presenta sempre alla nostra osservazione
con i suoi caratteri accidentali.
95
è vero. Grazie a questa differenza, egli aggira l'abisso del solipsismo40 al quale
conduceva la via di Hume e procede su una strada propria, completamente
nuova e diversa.
Kant dice che ci sono aspetti della realtà che non sono forniti immediatamente dai
sensi e questi aspetti li chiama a priori.
Il tempo, per esempio, è un a priori. Non si vede, non si sente, non si odora, non
si gusta, non si tocca. Il tempo è quello che Kant chiama un'«intuizione», che
la mente fornisce quando riceve il dato sensoriale.
La stessa cosa vale per lo spazio. A meno che non applichiamo i concetti di spazio e
tempo alle impressioni che riceviamo, il mondo è incomprensibile, non è che un
guazzabuglio caleidoscopico di colori, forme, rumori, odori, dolori e sapori
senza significato. Pertanto, noi percepiamo gli oggetti in un certo modo grazie
alla nostra applicazione di intuizioni a priori quali spazio e tempo, ma questi
oggetti non sono creazioni della nostra immaginazione come vorrebbero gli
idealisti puri. Lo spazio e il tempo sono forme che applichiamo ai dati nel
momento in cui li riceviamo dall'ometto che li produce. I concetti a priori
hanno la loro origine nella natura umana, per cui non sono causati dall'oggetto
percepito né gli conferiscono la sua esistenza, ma forniscono una specie di vaglio
per i dati sensoriali che accetteremo. Per esempio, quando chiudiamo gli occhi, i
nostri dati sensoriali ci dicono che il mondo è scomparso. Ma questa idea viene
eliminata e non arriva mai alla nostra coscienza perché abbiamo in mente un
concetto a priori della continuità del mondo. Quella che noi consideriamo realtà
è una sintesi continua tra gli elementi di una gerarchia fissa di concetti a priori
e i dati sempre mutevoli dei nostri sensi.
Adesso cerchiamo di applicare alcuni dei concetti espressi da Kant a questa strana
macchina, a questa creazione che ci ha trasportato attraverso lo spazio e il tempo.
Hume, in pratica, diceva che tutto quello che so di questa motocicletta proviene
dai miei sensi. Deve essere così. Non c'è altra possibilità. Se dico che è fatta di
metallo e altre sostanze, lui domanda: «Che cos'è il metallo?». Se rispondo
che il metallo è duro, lucido, freddo al tatto e cambia forma senza rompersi
sotto i colpi di un materiale più duro, Hume dice che ho espresso soltanto dei
dati sensoriali legati alla vista, all'udito, al tatto. Non c'è sostanza. Dimmi cos'è il
metallo a prescindere da queste sensazioni. E allora, ovviamente, sono fritto.
Ma se non c'è sostanza, cosa possiamo dire dei dati sensoriali che riceviamo? Se
giro la testa a sinistra e guardo il manubrio, la ruota anteriore, il portacarte, il
serbatoio, ho un tipo di disposizione dei dati sensoriali. Se giro la testa a destra
ho una disposizione di dati sensoriali leggermente diversa. Se non c'è una base
logica per la sostanza, non c'è neanche una base logica per concludere che quel che
ha prodotto queste due visioni è la medesima motocicletta.
Siamo a un punto morto. La nostra ragione, che dovrebbe renderci le cose più
comprensibili, fa esattamente il contrario, e quando la ragione viene meno ai
suoi scopi in questo modo, vuol dire che qualcosa nella sua struttura deve
essere cambiato.
Kant ci viene in aiuto dicendo che il fatto di non poter percepire
immediatamente una «motocicletta» come qualcosa di distinto dai suoi colori e
dalle sue forme non è affatto una prova che la motocicletta non ci sia. Noi
abbiamo in mente una motocicletta a priori che ha una continuità nel tempo e
nello spazio e può cambiare aspetto a seconda della nostra posizione, e
pertanto non viene contraddetta dai dati sensoriali che riceviamo.
La motocicletta di Hume, quella che non ha nessun senso, salterà fuori se il
nostro ipotetico paziente di prima, quello sprovvisto delle facoltà sensoriali, le
riacquistasse all'improvviso per una frazione di secondo e ricevesse il dato
sensoriale di una motocicletta per poi esserne di nuovo privato. A questo punto
40
Teoria filosofica per cui l’unica certezza assoluta è costituita dal soggetto pensante e considera la realtà
soltanto come momentanee percezioni del soggetto.
96
credo che egli avrebbe nella mente una motocicletta alla Hume, che non gli
fornirebbe alcuna prova dell'esistenza di concetti quali la causalità.
Ma, come dice Kant, noi non siamo quel ragazzo. Nella nostra mente abbiamo
un motocicletta a priori molto reale della cui esistenza non abbiamo motivo di
dubitare, la cui realtà può essere confermata in qualsiasi momento.
Questa motocicletta a priori si è formata nella nostra mente, nel corso di molti
anni, grazie a un numero enorme di dati sensoriali e cambia costantemente con
l'immissione di dati sensoriali nuovi. Alcuni dei cambiamenti nella specifica
motocicletta a priori che sto guidando sono molto rapidi e transitori, come per
esempio la sua posizione rispetto alla strada. Quando un'informazione non è
più utile la dimentico, perché ne arrivano di nuove a sostituirla. Altri
cambiamenti in questo a priori sono più lenti: il calo della benzina nel serbatoio.
L'usura delle gomme. L'allentarsi di viti e bulloni. La variazione del gioco tra
ganasce e tamburi dei freni. Altri aspetti cambiano così lentamente da
sembrare immutabili - la cromatura, i cuscinetti delle ruote, i cavi di comando -,
ma anch'essi cambiano costantemente. E per finire, alla lunga anche il telaio si
modifica leggermente in seguito ai colpi e agli sbalzi di temperatura, alle
sollecitazioni di fatica interna comuni a tutti i metalli.
Che razza di macchina, questa motocicletta a priori. I dati sensoriali la confermano,
ma i dati sensoriali non sono lei. La motocicletta che io credo esista aprioristicamente fuori di me è come i soldi che credo di avere in banca. Se andassi in
banca e chiedessi di vedere i miei soldi, i cassieri rimarrebbero piuttosto sorpresi.
Io mi accontento di sapere che il sistema bancario mi fornisce i mezzi per averli
sottomano quando ne ho bisogno. Così, anche se i miei dati sensoriali non
hanno mai prodotto nulla che si possa chiamare « sostanza », mi accontento del
fatto che in questi dati sensoriali è insita la capacità di ottenere dei risultati con
ciò che la sostanza genera, e che questi dati sensoriali continuano a concordare con
la motocicletta a priori che ho in mente. Per comodità dico che ho i soldi in
banca e per lo stesso motivo dico che la moto che sto guidando è composta di una
sostanza. La Critica della ragion pura si occupa essenzialmente delle modalità di
acquisizione di questa conoscenza a priori e del suo impiego.
La tesi di Kant che i nostri concetti a priori sono indipendenti dai dati
sensoriali e passano al vaglio quello che vediamo, Kant la chiama una
«rivoluzione copernicana». In seguito a questa rivoluzione non cambiò nulla,
e tuttavia cambiò tutto. O, per metterla in termini kantiani, il mondo oggettivo,
fonte dei nostri dati sensoriali, non cambiò, ma venne rovesciato il concetto a
priori che di esso avevamo. L'effetto fu travolgente. Fu proprio l'accettazione della
rivoluzione copernicana a distinguere l'uomo moderno dai suoi predecessori
medievali.
Copernico non fece altro che prendere il concetto a priori del mondo
universalmente riconosciuto nel suo tempo - e cioè che la terra fosse piatta e
ferma nello spazio -, proporre un concetto a priori alternativo, secondo il quale la
terra sarebbe sferica e girerebbe intorno al sole, e dimostrare che entrambi i
concetti a priori quadravano con i dati sensoriali a disposizione.
Kant sentì di aver fatto la stessa operazione in metafisica. Supponiamo che i
concetti a priori nella nostra testa siano indipendenti da quello che vediamo e
facciano da vaglio tra noi e la realtà. Questo equivale a prendere il vecchio
concetto aristotelico dello scienziato come osservatore passivo, una « tabula rasa », e
rivoltarlo. Kant e i suoi milioni di seguaci hanno sostenuto che grazie a questo
capovolgimento si ottiene una comprensione più soddisfacente del nostro modo di
arrivare alla conoscenza.
Mi sono dilungato su questo esempio soprattutto per preparare il terreno a
quello che Fedro fece in seguito. Anche lui effettuò un capovolgimento copernicano grazie al quale riuscì a proporre una demarcazione tra visione classica e
visione romantica del mondo. E mi pare che questo capovolgimento offra a sua
volta una comprensione molto più soddisfacente di quello che è il mondo.
97
All'inizio Fedro rimase elettrizzato dalla metafisica kantiana, ma poi essa
incominciò a perdere il suo fascino senza che lui capisse il perché. Ci pensò e
decise che forse era a causa delle sue esperienze in Oriente 41. Allora aveva
avuto la sensazione di essere fuggito da una prigione intellettuale, e adesso ci
era ritornato42. L'estetica di Kant dapprima lo deluse, poi lo mandò su tutte le
furie. Le idee espresse sul « bello » gli parevano così pervase di bruttezza che
lui non sapeva da che parte cominciare per attaccarla o liberarsene. La
bruttezza sembrava parte integrante del mondo kantiano. Non era solo una
bruttezza da diciottesimo secolo o una bruttezza «tecnica». Emanava da tutti i
filosofi che stava leggendo. L'università intera ne era impregnata. Era dentro di
lui e lui non sapeva come o perché. Era la ragione stessa a essere brutta e
sembrava non ci fosse modo di districarsene.
R. M. Pirsig “Lo zen e l'arte della .manutenzione della motocicletta”, Bompiani, pag. 128-33
Pirsig e il figlio sulla moto.
Il figlio è morto nel 1979, undici anni dopo il viaggio in moto
con il padre. Morto ammazzato da una coltellata in Haight
Street a San Francisco. Paradossalmente proprio in uno dei
luoghi simbolici della stagione hippy alle cui contraddizioni
Pirsig pensava di aver offerto una via d’uscita: un’idea di
ribellione alla cultura ufficiale che però non finisse nel
rifiuto assoluto e rassegnato, come spiega in una postfazione
del 1984 a una delle ristampe del suo libro.
41
Per Pirsig, come per molta della cultura degli anni ’60-‘70 del Novecento legata ai movimenti di
contestazione giovanile, la cultura occidentale si presenta come quella che è segnata da dualismi (soggettooggetto, mente-corpo), da contrapposizioni, conflitti e contraddizioni; l'Oriente, invece, ha molto vivo
e molto forte il senso della ricomposizione armonica degli opposti, del loro equilibrio, e la concezione
di una unità armonica di tutta la realtà, in tutti i suoi aspetti. In particolare, considera il corpo come
una manifestazione della mente, ha un senso profondo della loro unità.
Per Pirsig non si tratta di abbandonare la razionalità, di rifiutarla, ma il primo passo da fare è riconoscere che
quello che si riveste con il nome di "razionalità" è il fantasma della razionalità. Non è vera razionalità: è
confusione e insensatezza. Bisogna fare quello che l'Occidente in passato ha già fatto, ad esempio con
Newton, bisogna inventare una "nuova forma di razionalità", perché, in questa epoca di sconvolgimenti, le
vecchie forme di pensiero sono inadeguate.
La razionalità dell'Occidente non sa più indicare dei fini. E quando li indica e li persegue, sono fini e
ideali da pazzi. "Si vive più a lungo per vivere più a lungo". Cosa ci può essere di più insensato! Ma qual
è lo scopo della vita, dello stesso vivere più a lungo? Il fantasma della ragione occidentale non lo sa, non
lo cerca.
42
La figura di Fedro è sicuramente ricca di riferimenti al passato dell’autore con l’isolamento
dell’ambiente accademico che non sopportava la sua audacia teorica e esistenziale; Pirsig fu un bambino
precoce, questo fatto assieme alla balbuzie gli creò una situazione di difficoltà nel suo percorso
scolastico. Pirsig cominciò gli studi all'Università del Minnesota nel 1943, e dopo essere stato costretto a
ritirarsi e aver prestato servizio militare in Corea, ritornò negli Stati Uniti dove conseguì il diploma
universitario nel 1950. Frequentò l' università di Benares in India per approfondire ulteriormente la
filosofia orientale. Mantenendosi con lavori precari e insegnando l'inglese alle matricole, Pirsig tra il
1960 e il 1963 trascorse parecchi periodi in clinica per problemi psichici; fu curato anche con
l'elettroshock.
98
14 - K. LORENZ UN ETOLOGO E KANT A CONFRONTO
Tra le opere teoretiche di maggior importanza di Konrad Lorenz, considerato uno
dei fondatori dell’etologia nonché dell’ambientalismo, vi è senz'altro “L’altra
faccia dello specchio. Per una storia naturale della conoscenza”, saggio datato 1973
(anno di conseguimento del premio Nobel da parte del suo autore), da cui è tratto il
brano seguente e di cui lo stesso Lorenz ha scritto: “In questo libro ho compiuto il
tentativo, forse troppo audace, di dare una visione generale dei meccanismi
cognitivi nell'uomo”. Esso si presenta come il tentativo di un'analisi naturalistica
della conoscenza, della società e del comportamento umano, con tutti gli elementi
classici dell'etologia di Lorenz, in particolare la difesa dell'idea del comportamento
come l'intersecarsi di due elementi indispensabili ed irrinunciabili come l'istinto e
l'appreso.
Tesi centrale dell’opera, dedicata ad analizzare l’altra faccia dello specchio, cioè gli
apparati conoscitivi animali e umani, è che tutta l’evoluzione animale e umana
possa essere viste come un processo di conoscenza. Lorenz mostra come le
prestazioni più alte del conoscere e del comportamento umano, quelle che ancora
oggi molti tendono a separare radicalmente dalla realtà naturale che circonda
l’uomo, siano il risultato di un processo filogenetico e si manifestino anche in altre
forme del mondo animale; e, viceversa, come molti meccanismi dell’acquisizione
di informazione e della conoscenza, che vediamo operare un po’ in tutti i gradi
della scala zoologica, si ritrovino puntualmente come componenti del nostro
comportamento più differenziato.
In questo brano Lorenz, ci presenta la sua interpretazione, da un punto di vista
naturalista ed evoluzionista, delle forme a priori di Kant.
1 - Apparati percettivi, evoluzione e realtà extrasoggettiva
2 – Una spiegazione naturalista delle forme a priori dello spazio, del tempo e delle
categorie della sostanza e della causalità
Per il naturalista l'uomo è un essere le cui caratteristiche e le cui prestazioni,
compresa l'alta capacità del conoscere, sono un prodotto dell'evoluzione, di quel
processo svoltosi per epoche intere nel corso del quale tutti gli organismi viventi si
sono trovati a confronto con gli elementi del reale e durante il quale hanno dovuto,
come si suol dire, adattarsi ad essi. Questo evento filogenetico è un processo della
conoscenza; infatti ogni ' adattamento a ' un dato di fatto della realtà esterna
indica che una certa quantità di ' informazioni su ' è stata acquisita dal sistema
organico.
Anche nel corso dello strutturarsi del corpo, cioè nella morfogenesi, si formano
delle immagini del mondo esteriore: le pinne e il modo stesso di muoversi dei pesci
riproducono le caratteristiche idrodinamiche dell'acqua, che le sono proprie
indipendentemente dal fatto che al suo interno si agitino o meno delle pinne.
L'occhio, come ha giustamente visto Goethe, è una copia del sole e delle
caratteristiche fisiche proprie della luce, indipendentemente dalla circostanza che vi
siano degli occhi a vederla. Anche il comportamento degli uomini e degli animali,
proprio per il fatto di essersi adattato all'ambiente circostante, è un'immagine di
esso. L'organizzazione degli organi di senso e del sistema nervoso centrale mette in
condizioni gli esseri viventi di ottenere determinati dati, per essi rilevanti,
dell'ambiente circostante, e quindi di rispondere a essi in modo funzionale per la
propria sopravvivenza. Anche la reazione primitiva dello scansarsi nel paramecio
(Paramaecium), il quale, quando si scontra con un ostacolo, prima si ritira e poi
riprende a nuotare in avanti, in un'altra direzione scelta a caso, sa qualcosa di let-
99
teralmente ' oggettivo ' sul mondo esteriore. Objicere significa gettare contro:
l'oggetto è ciò che ci viene gettato contro durante il nostro movimento in avanti, è
l'imponderabile contro cui ci scontriamo. Dell'oggetto il paramecio sa soltanto che
esso gli impedisce di avanzare nella direzione di prima. Questa ' conoscenza '
resiste alla critica che noi potremmo formulare a partire dal punto di vista della
nostra assai più complessa e articolata visione del mondo. Noi potremmo
effettivamente consigliare spesso all'animaletto una direzione più opportuna di
quella che esso sceglie del tutto a caso, ma ciò che esso sa è assolutamente giusto:
non è possibile proseguire nella stessa direzione!
Tutto ciò che noi uomini sappiamo sul mondo reale deriva da meccanismi di
informazione di origine filogenetica che ci comunicano elementi rilevanti
dell'ambiente; essi sono costruiti in modo molto più complesso, ma secondo gli
stessi principi di quelli che scatenano la reazione di fuga nel paramecio. Nulla di
ciò che può essere oggetto delle scienze naturali è giunto alla nostra conoscenza
attraverso un processo diverso da quello sopra descritto.
Conseguenza di questa osservazione è che noi giudichiamo le possibilità
umane di conoscere la realtà diversamente da quanto hanno fatto finora i
teorici della conoscenza. Le nostre aspirazioni, per quanto riguarda la speranza
di comprendere il senso e i valori ultimi di questo mondo, sono molto
modeste. Invece teniamo molto, irremovibilmente, alla nostra convinzione che
tutto ciò che ci viene segnalato dal nostro apparato conoscitivo corrisponda a
dati di fatto reali del mondo extrasoggettivo.
Questa posizione gnoseologica deriva dal sapere che il nostro apparato conoscitivo
stesso è un elemento del mondo reale, il quale, proprio contrapponendosi e
adattandosi a elementi altrettanto reali, ha raggiunto la propria forma attuale. Su
questo stesso sapere si fonda la nostra convinzione che tutto ciò che il nostro
apparato conoscitivo ci comunica sulla realtà esteriore corrisponde a qualcosa di
reale. Gli 'occhiali ' del nostro modo di pensare e di vedere, cioè i nessi di
causalità e di sostanza, di spazio e di tempo, sono funzioni di un'organizzazione
neurosensoriale sviluppatasi al servizio della conservazione della specie.
Attraverso questi occhiali noi non vediamo quindi, come sostengono gli idealisti
trascendentali 43, una deformazione incontrollabile dell'essere in sé, un'immagine
che non presenta neppure una vaga analogia, neppure una parziale somiglianza,
con la realtà; ma piuttosto abbiamo di questa un'immagine reale, anche se
tale immagine è grossolanamente semplificata, secondo criteri utilitaristici.
Noi abbiamo infatti sviluppato un ' organo ' solo per quegli aspetti dell'esistente con i quali era di vitale importanza per l'uomo entrare in rapporto in
modo funzionale per la conservazione della specie, al punto da indurre, attraverso una pressione selettiva sufficientemente forte, la formazione di questo
speciale apparato della conoscenza. Da questo punto di vista la prestazione fornita dal nostro apparato conoscitivo non si differenzia da quanto un primitivo
e incolto cacciatore di foche e di balene sa sull'essenza della propria preda,
che è poi quanto ha un'importanza pratica per i suoi interessi. Quel poco però
che l'organizzazione dei nostri organi di senso e del nostro sistema nervoso
ci ha permesso di sapere è stato sperimentato attraverso un periodo di prova
durato epoche intere. Entro i suoi limiti, possiamo fare affidamento su di esso!
Infatti è per noi del tutto ovvio che l'esistente abbia innumerevoli altre facce,
che però per noi, per i barbari cacciatori di foche, non sono di importanza
vitale. Non abbiamo nessun organo per coglierle, proprio perché durante la
filoogenesi
non siamo stati costretti a sviluppare particolari forme di
adattamento nei loro confronti. E ovviamente siamo poi sordi alle molte
43
Kant ha definito la sua posizione come “idealismo trascendentale” per sottolineare la funzione
prioritaria svolta dalle forme a priori della nostra mente (idealismo), le quali sono indipendenti
dall’esperienza e anzi fondanti l’esperienza (trascendentale), in quanto solo attraverso di esse possiamo
ricevere i dati dell’esperienza.
100
lunghezze d'onda con cui il nostro 'apparato ricevente ' non è sincronizzato, e
non sappiamo, né potremo sapere, quante esse siano. Siamo ' limitati ', sia nel
senso letterale sia nel senso traslato del termine. …
.. Quasi fino al giorno in cui il destino fece sì venissi chiamato a succedere
alla cattedra che era stata di Immanuel Kant a Königsberg, io credevo infatti
che ciò che io chiamavo 1'apparato immagine del mondo e Popper44 il perceiving
apparatus potesse essere senz'altro identificato con l'a priori, nel senso di Kant.
Purtroppo quest'opinione è falsa. Per l'idealismo trascendentale di Kant non
esiste alcun rapporto di corrispondenza tra la (generalmente denominata al
singolare) cosa in sé e la forma con cui le nostre intuizioni a priori e categorie
concettuali la fanno apparire nella nostra esperienza 45. L'esperienza vissuta non
è, per Kant, un'immagine, per quanto semplificata e deformata, della realtà. Certo,
Kant riconosce che la forma di ogni esperienza possibile viene determinata
da strutture del soggetto esperiente e non da quelle dell'oggetto dell'esperienza,
ma nega che la costruzione del perceiving apparatus possa avere in qualche
modo a che fare con la realtà 46. A questo proposito scrive, nel § 11 dei
Prolegomeni a ogni futura metafisica: «Se qualcuno avesse un sia pur
minimo dubbio sul fatto che entrambe [cioè le forme intuitive dello spazio
e del tempo] non sono determinazioni inerenti alle cose in sé, ma soltanto
al loro rapporto con la sensibilità, allora vorrei sapere come si possa ritenere
possibile che noi sappiamo a priori, e quindi prima di ogni contatto con le
cose, prima cioè che esse ci siano date, come debba essere l'intuizione di esse,
il che appunto accade per quanto riguarda lo spazio e il tempo ».
Kant era evidentemente convinto che, in linea di principio, fosse impossibile
dare una risposta a questa domanda in termini scientifici. Riconoscendo che le
forme dell'intuizione e le categorie concettuali non vengono prodotte, come
credevano gli empiristi, e in particolare Hume, dall'esperienza individuale, Kant
vedeva in ciò la dimostrazione necessaria che esse erano in effetti « indispensabili
al pensiero » e che perciò non venivano affatto ' prodotte ' in senso proprio,
quanto piuttosto date a priori.
La risposta a questo problema, così ovvia per i biologi abituati a occuparsi dei
fatti dell'evoluzione, rimaneva inaccessibile al grande pensatore. Essa suona
così: l'organizzazione degli organi di senso e dei nervi, che permette agli esseri
viventi di orientarsi nel mondo deriva filogeneticamente dalla contrapposizione e
dal successivo adattamento a quegli elementi reali che essa ci fa esperire come
spazio fenomenico. Per l'individuo essa è pertanto un a priori, in quanto è
precedente a ogni esperienza, e necessaria al fine di permettere ogni esperienza. La
sua funzione però è storicamente determinata e non indispensabile al pensiero,
in quanto ci possono essere anche altre soluzioni; il paramecio, per esempio,
se la cava benissimo con la cosiddetta visione spaziale unidimensionale. Quante
dimensioni abbia poi lo spazio in sé non ci è dato di sapere.
Gli studi fisiologici hanno dimostrato quali meccanismi analizzabili con metodi
scientifici siano determinanti per una chiara percezione dello spazio tridimensionale euclideo. … Il labirinto nell'orecchio interno, con il suo utricolo e
i suoi canali semicircolari disposti in tre piani sovrapposti
perpendicolarmente tra di loro, ci comunica qual è il sopra e il sotto e in
44
K. Popper, tra i più importanti filosofi della scienza del Novecento.
Lorenz si riferisce qui alla distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno (cosa in sé). Il fenomeno è la
realtà così come ci appare tramite le forme a priori. Non è pura apparenza illusoria, in quanto
corrisponde a qualcosa che risulta reale, ma solo nel rapporto con il soggetto. Il fenomeno è quindi la
cosa ‘per noi’. Il noumeno è la realtà indipendente dal soggetto e in quanto tale risulta inconoscibile.
46
Per Kant infatti le forme a priori della percezione e dell’intelletto, e quindi la stesa mente umana, sono
pensati come qualcosa di dato indipendentemente da ogni forma di esperienza e di fisso e immutabile, in
quanto garanzia dell’assolutezza, della necessità e dell’universalità delle conoscenze umane.
45
101
quale direzione veniamo sottoposti ad accelerazioni rotatorie. Mi sembrerebbe
un'ipotesi astrusa che tutti questi organi, i quali così chiaramente si sono
formati in funzione di prestazioni necessarie alla conservazione della specie e
adattandosi a dati di fatto reali, e le loro prestazioni non abbiano nulla a che
fare con la nostra intuizione a priori dello spazio. Piuttosto mi sembra del
tutto naturale che su di essi si fondino l'intuizione dello spazio tridimensionale
euclideo e che anzi, in un certo senso, essi si identifichino addirittura con
questa intuizione. Noi sappiamo dai matematici che sono pensabili altre specie,
pluridimensionali, di spazi, e dagli studiosi della teoria della relatività e dai
fisici che è possibile provare l'esistenza di almeno quattro dimensioni dello
spazio. Noi però siamo in grado di avere l'esperienza intuitiva soltanto di
quella versione più semplice che la nostra specifica organizzazione degli organi di
senso e del sistema nervoso ci 'porta all'esperienza '.
Gli esempi che ho dato qui delle relazioni esistenti tra l'apparato fisiologico
preposto alla percezione spaziale e lo spazio fenomenico 47 in cui si muove
l'uomo, valgono, mutatis mutandis, anche per il rapporto esistente tra tutte le
forme innate di esperienza possibile e quegli elementi della realtà
extrasoggettiva che attraverso di esse ci è dato di sperimentare. Per quanto
riguarda ad esempio l'intuizione del tempo si verifica qualcosa di simile a
quanto accade per lo spazio : anche in questo caso la fisiologia conosce dei
meccanismi che, quasi una sorta di 'orologi interiori ', definiscono il corso del
tempo che noi sperimentiamo fenomenicamente.
Di particolare interesse per lo scienziato che si preoccupa dell'oggettività sono
poi quelle prestazioni della nostra percezione che ci trasmettono l’esperienza delle
qualità costantemente inerenti a particolari elementi del mondo circostante.
Quando vediamo una determinata cosa, ad esempio un foglio di carta che,
sotto le più diverse luci, appare sempre bianco, anche se le onde che esso
riflette possono essere diverse fra di loro, a seconda dei colore del fascio
luminoso, ciò dipende dal funzionamento di un apparato fisiologico
estremamente complesso, che dal colore del fascio luminoso e dal colore che
viene riflesso deduce quella caratteristica costante dell'oggetto che noi
definiamo semplicemente il colore della cosa in questione.
Altri meccanismi nervosi ci permettono di individuare la forma spaziale di
una cosa e di riconoscerla come la stessa se la guardiamo da varie parti,
sebbene l'immagine riflessa dalla nostra retina assuma volta a volta forme
molto differenti. E altri meccanismi ancora ci mettono in grado di riconoscere
come uguale a se stessa la grandezza di un oggetto che guardiamo da distanze
diverse, anche se ogni volta è diversa l'estensione dell'immagine retinica. Tutte
le prestazioni fisiologiche su cui si basano questi cosiddetti fenomeni di costanza,
presentano un grande interesse gnoseologico48 proprio perché sono rigorosamente analoghe alla prestazione del processo cosciente, razionale
dell'oggettivazione. Così, ad esempio, la percezione “costantizzante” del colore
della cosa prescinde dal tipo di illuminazione momentanea, per giungere ad
accertare una caratteristica riflessiva propria dell'oggetto. Questi processi
percettivi completamente inaccessibili alla nostra autoosservazione somigliano a
quelli coscienti dell'astrazione e dell'oggettivazione anche perché, proprio come
questi, ci permettono di individuare come ' cose ' o oggetti determinati elementi
del mondo circostante L’adattamento di parecchi meccanismi fisiologici a questa
unica prestazione contribuisce a rafforzarci nella nostra convinzione della realtà del
mondo esteriore. Io non capisco come si possa dubitare che, dietro a tali
fenomeni, che ci vengono segnalati concordemente da tanti apparati diversi, i
47
Da fenomeno (nella contrapposizione fenomeno/noumeno) e che quindi si riferisce a come appare al
soggetto
48
Da gnoseologia termine che indica la teoria filosofica della conoscenza.
102
quali lavorano in modo indipendente, e da testimoni indipendenti degni di affidamento, si nascondano effettivamente le medesime realtà extrasoggettive! ….
Al confronto fra i molti diversi apparati fisiologici che permettono a noi uomini
di esperire il mondo, circostante, si può affiancare il confronto con quei
meccanismi che, in diverse specie animali, provvedono affinché vengano ' portati
all'esperienza ' quegli elementi dell'ambiente che sono rilevanti per ognuna di
esse. È facilmente comprensibile che questi ' apparati immagine del mondo '
siano estremamente differenziati tra di loro nelle diverse specie animali. Essi
non differiscono gli uni dagli altri e non riproducono diversi elementi
particolari dell'ambiente soltanto a seconda del diverso livello evolutivo a cui è
giunta ogni singola specie ma ognuna di esse si mostra anche ' interessata ' ad
aspetti molto diversi della realtà extrasoggettiva. Per l'ape la costanza dei
colore è un elemento molto importante, dal momento che essa deve essere in
grado di riconoscere una particolare specie di fiore proprio dal colore che gli
appartiene costantemente; per i gatti, cacciatori prevalentemente crepuscolari,
il colore è completamente irrilevante, in cambio però essi necessitano di una
vista molto acuta per riconoscere tutto ciò che si muove; il gufo deve essere
in grado di localizzare rapidamente il fruscio prodotto da un topo e così via.
Proprio tenendo conto delle enormi differenze tra questi apparati immagine del
mondo ', una circostanza ci appare estremamente importante, ed è che fintantoché
i messaggi si riferiscono allo stesso elemento del mondo circostante essi non si
contraddicono mai tra di loro. Anche la già ricordata reazione dello scansarsi del
paramecio riproduce, come abbiamo già fatto notare, un dato di fatto
'oggettivo ' del mondo esteriore, che si presenta con le stesse caratteristiche
anche alla nostra visione, incomparabilmente più differenziata, del mondo.
Un caso confrontabile a questo in cui la più semplice e primitiva norma reattiva
degli animali si scontra evidentemente con la stessa realtà extrasoggettiva che si
manifesta all'estremamente più differenzi “apparato immagine del mondo”
dell'uomo si riferisce alla capacità che evidentemente è comparsa già molto
presto nel corso della filogenesi animale, di sviluppare reazioni
condizionate, e allo schema concettuale tipicamente umano della causalità.
Entrambe queste manifestazioni possono essere viste come adattamenti al dato di
fatto che in tutti i processi di trasformazione dell’energia viene sempre mantenuto un
certo ordine temporale degli eventi, il che rende possibile all'organismo di
valutare i primi fra questi eventi come segni attendibili della prossima comparsa
degli altri. …
La corrispondenza che constatiamo esistere tra le rappresentazioni del mondo
esteriore fornite dai numerosi ' apparati immagine del mondo ' dei diversi esseri
viventi richiede un chiarimento. Di nuovo mi sembra astruso voler cercare una
spiegazione diversa da quella per cui tutte queste così differenziate forme di
esperienza possibile si riferiscono alla medesima realtà extrasoggettiva .
K. Lorenz “L’altra faccia dello specchio”, Adelphi, 1974, pag. 25 -35
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