Su Cartesio (lezione del 14.05.2010) [L]’aspetto principale della filosofia, vale a dire il modo di ragionare, che da essa si diffonde a tutto, si è in questo secolo estremamente perfezionata. […] Quale rigore si richiede infatti nei ragionamenti! Si pretende che siano intellegibili, congrui e conseguenti. Si individua con malignità il più piccolo equivoco di idee o parole; si finisce col condannare duramente la più ingegnosa delle teorie se non corrisponde ai fatti. Prima di Descartes si ragionava in modo più accomodante: fortunati i secoli passati che non hanno avuto quest’uomo! (Fontenelle, Digressione sugli antichi e sui moderni, 1688) E prima di tutto, per quanto concerne gli strumenti delle scienze, oggi iniziamo gli studi dalla critica: la quale, per mondare il suo primo vero non solo da ogni falsità, ma anche da ogni sospetto di falsità, prescrive che i secondi veri e tutti i verisimili siano respinti dalla mente come fossero falsi. Ma in modo svantaggioso: infatti negli adolescenti si deve formare quanto prima il senso comune, affinché giunti nella vita all’età delle occupazioni non se ne escano in stranezze ed insolenze. Ma come la scienza si origina dal vero, l’errore dal falso, così il senso comune nasce dal verisimile. (Vico, Il metodo degli studi del nostro tempo, 1708, III) «Corpo io sono e anima» - così parla il fanciullo. E perché non si dovrebbe parlare come i fanciulli? Ma il risvegliato e sapiente dice: corpo io sono in tutto e per tutto, e null’altro; e anima non è altro che una parola per indicare qualcosa del corpo. Il corpo è una grande ragione, una pluralità con un solo senso, una guerra e una pace, un gregge e un pastore. […] ‘Io’ dici tu, e sei orgoglioso di questa parola. Ma la cosa ancora più grande, cui tu non vuoi credere, - il tuo corpo e la sua grande ragione: essa non dice ‘io’, ma fa ‘io’. […] Dietro i tuoi pensieri e sentimenti, fratello, sta un possente sovrano, un saggio ignoto – che si chiama Sé. Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo. (Nietzsche, Così parlò Zarathustra, 1883, parte I, “Dei dispregiatori del corpo”). La libertà spontanea dell’io, non dovendo preoccuparsi di giustificare se stessa, è un’eventualità inscritta nell’essenza dell’essere separato: di un essere che non partecipa più e, proprio per questo, trae da se stesso la sua propria esistenza, di un essere che viene da una dimensione dell’interiorità, di un essere conforme al destino di Gige, che vede coloro che lo guardano senza vederlo e sa di non essere visto. Ma la posizione di Gige non comporta l’impunità di un essere solo al mondo, cioè di un essere per il quale il mondo è spettacolo? E non è quella la condizione stessa della libertà solitaria, e dunque incontestata e impunita, della certezza? Questo mondo silenzioso – vale a dire questo puro spettacolo – non è accessibile alla conoscenza vera? Chi può punire l’esercizio della libertà del sapere? […] La verità non è correlata a una libertà che si trova al di qua della giustizia, poiché è la libertà di un essere solo? (Lévinas, Totalità e infinito, 1961) L’idea cartesiana di una mente scissa dal corpo può essere stata, attorno alla metà del ventesimo secolo, l’origine della metafora della mente come programma di software. […] Può esservi qualche venatura cartesiana di separatezza dal corpo anche dietro il pensiero di quei neuroscienziati i quali sostengono che è possibile dare piena spiegazione della mente solo in termini di eventi cerebrali, lasciando ai margini il resto dell’organismo e l’ambiente fisico e sociale che lo circonda. […] Sembra, inoltre, che l’idea di una mente distaccata dal corpo abbia foggiato il peculiare modo in cui la medicina occidentale affronta lo studio e il trattamento della malattia. […] Svariate versioni dell’errore di Cartesio celano che le radici della mente umana si trovano in un organismo biologicamente complesso ma fragile, finito e unico; tengono nell’ombra la tragedia implicita nel conoscere tale fragilità, finitezza e unicità. E se gli esseri umani non riescono a vedere l’intrinseco dramma di un’esistenza conscia, tanto meno si sentiranno chiamati a fare qualcosa per attenuarlo, e possono avere meno rispetto per il valore della vita. (A.R. Damasio, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, 1994). Qual era, allora, l’errore di Cartesio? Si potrebbe cominciare con una rimostranza: rimproverargli di aver convinto i biologi ad adottare (fino ai nostri giorni) meccanismi simili ad orologi per i processi della vita [... ] si potrebbe continuare con il “Penso, dunque sono”. L’enunciato, il più famoso di tutta la storia della filosofia, appare per la prima volta in francese («Je pense donc je suis») nella parte quarta del Discours de la méthode (1637) […]. Preso alla lettera, esso esprime esattamente il contrario di ciò che io credo vero riguardo alle origini della mente e riguardo alle relazioni tra mente e corpo; esso suggerisce che il pensare, e la consapevolezza di pensare, siano i veri subrtati dell’essere. E siccome sappiamo che Cartesio immaginava il pensare come un’attività affatto separata dal corpo, esso celebra la separazione della mente, la «cosa pensante» (res cogitans), dal corpo non pensante, dotato di estensione e di parti meccaniche (res extensa). […] Eccolo, l’errore di Cartesio: ecco l’abissale separazione tra corpo e mente – tra la materia del corpo, dotta di dimensioni, mossa meccanicamente, infinitamente divisibile, da un lato, e la «stoffa» della mente, non misurabile, priva di dimensioni, non attivabile con un comando meccanico, non divisibile; ecco il suggerimento che il giudizio morale e il ragionamento […] possano esistere separati dal corpo. In particolare: la separazione delle più elaborate attività della mente dalla struttura e dal funzionamento di un organismo biologico. […] (Ibid.)