Confucianesimo

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Confucianesimo
L'immagine che di Confucio abbiamo oggi è quella tramandataci dai suoi discepoli, dai discepoli
dei suoi discepoli e da una tradizione millenaria spesso anonima. Egli ci appare da un lato come un
uomo semplice in un mondo di uomini, circondato dai problemi di un'epoca di crisi e di mutamenti.
Dall'altro lato ci si mostra come un individuo superiore, con tratti quasi divini; il Grande saggio
ineguagliabile, cui sono tuttora dedicati templi, rituali e festività. Dopo la sua morte infatti i
discepoli e le generazioni ad essi successive ne raccolsero l'insegnamento, composero quelle opere
considerate come i classici confuciani, gli attribuirono probabilmente - come sempre è accaduto in
questi casi - parole e pensieri non suoi, e soprattutto crearono la sua figura leggendaria e il suo
culto.
A dispetto della glorificazione che ricevette dopo la sua morte, Confucio pareva mostrarsi appunto
come un uomo tra gli uomini, e non un fondatore di religioni o di filosofie e nemmeno un saggio.
Nei Dialoghi gli vengono attribuite queste parole: «Io trasmetto l'insegnamento degli Antichi, senza
creare nulla di nuovo, poiché esso mi sembra degno di fede e di adesione.» (VII, 1) e «Non oserei
affermare di aver raggiunto il ren o, a maggior ragione, la saggezza suprema. Ciò che posso dire è
che vi tendo con tutte le mie forze e che non smetto mai d'insegnare.» (VII, 33) Alcuni suoi tratti ci
ricordano la figura di Socrate - all'incirca suo contemporaneo -: l'uomo sempre fedele alla ricerca,
infaticabile, franco e affabile, ma al contempo capace di raccogliersi in se stesso, in una sorta di
meditazione o preghiera. Nulla di ultraterreno lo caratterizzava: amava stare con la gente, mangiare
in compagnia, cantare e bere, ma mai smodatamente. Era circondato da discepoli che lo seguivano
fedelmente e amavano passare tutto il tempo in sua compagnia, nonostante egli non facesse nulla
per attirarli a sé. Così come per Socrate, la sua unica meta era la coltivazione della propria persona,
che servisse come esempio vivente per gli altri, la ricerca costante e rigorosa della saggezza, con
atteggiamento umile e coraggioso insieme, incurante dei pericoli che questo comportava, poiché
sicuro dell'importanza della missione di cui si sentiva investito. La leggenda racconta che un giorno
Confucio era raccolto insieme ai discepoli sotto un albero, nell'intento di eseguire un rituale, quando
venne accerchiato dagli uomini di Huan Tui, ministro della guerra dello stato in cui Confucio si
trovava di passaggio. Costoro incominciarono a sradicare l'albero e a minacciare di uccidere il
Maestro. Di fronte all'insistenza dei discepoli perché si desse immediatamente alla fuga, rispose: «E'
il Cielo che ha fatto nascere in me la forza della Virtù. Huan Tui che cosa mi potrà fare?» (Dialoghi,
VII, 22).
La saggezza
Proprio come Socrate conduceva una vita frugale e non dava alcuna importanza al denaro e agli agi;
potere e ricchezza avrebbero potuto diventare suoi se avesse voluto scendere a patti con chi
comandava, ma preferì condurre la sua vita con rigore estremo e non rimpianse mai la sua scelta:
«Con del cibo frugale da mangiare, acqua da bere e il mio braccio piegato per cuscino, riesco
ancora a gioire in mezzo a queste cose. Le ricchezze e gli onori acquisiti disonestamente per me non
significano nulla più che nuvole fluttuanti.» (ibid., VII, 15). Anche il suo sistema di insegnamento
era simile a quello socratico. Sempre informale, sembra che non desse lezioni sui problemi che i
suoi studenti gli proponevano, ma che piuttosto conversasse, citando testi e facendo domande.
Per lui la saggezza non era cognizione o erudizione, ma una pratica di vita e di comportamento. Si
presentava ai suoi allevi come il loro compagno di viaggio, impegnato nel compito di perfezionare
sempre la sua persona e di tradurre fedelmente la 'dottrina dei padri' in comportamenti di vita per il
suo popolo.
Con la sua morte ebbe inizio la sua glorificazione. Nel giro di poche generazioni, egli venne
considerato in tutta la Cina come la "guida e il modello di diecimila generazioni". Ciò che avrebbe
gradito di più sarebbe probabilmente stata l'attenzione e la messa in pratica delle sue idee.
L’eredità del Maestro: Mencio
Dopo la morte del Maestro (479 a.C.) i suoi discepoli si dispersero in vari principati della Cina,
mentre ancora la guerra che opponeva i tanti regni in cui si era frammentata infuriava. Il lungo
periodo degli 'Stati Combattenti' sarebbe terminato soltanto più di due secoli più tardi, con la nascita
della dinastia Ch'in (o Qin).
L'eredità del Maestro viaggiò attraverso la parola di coloro che erano stati suoi allievi, si conservò
lungo le generazioni e percorse a poco a poco le immense distanze della Cina. Ciascuno dei suoi
discepoli, come sempre accade, si fece interprete degli insegnamenti del Maestro, talvolta in
maniera fedele, tal altra seguendo direttrici del tutto originali. Nacquero così diverse correnti di
pensiero a lui ispirate e vennero messe per iscritto le sue parole, o quelle che si credevano sue.
Uno dei più celebri continuatori confuciani, colui che più di ogni altro ne sistematizzò il pensiero e
ne sviluppò le implicazioni, visse più di un secolo dopo la morte di Confucio. Il suo nome era Meng
Ke o Mengzi (372-289 a.C.), poi latinizzato dagli occidentali in Mencio.
Come Confucio, egli venerava i sovrani dell'antichità, creatori ideali delle istituzioni e della morale,
le sole che potessero salvare un mondo che sprofondava nella decadenza. Mencio fu il primo
confuciano ad esaltare la funzione del popolo, a prendersi a cuore le sue sorti anche dal punto di
vista sociale e politico e non soltanto religioso. Confucio aveva insegnato che il re deve curare il
suo popolo e che quest'ultimo ha il dovere di venerare il sovrano al pari di un padre. Mencio ampliò
questa prospettiva e lo fece ponendo l'accento sui diritti del popolo, vale a dire le grandi masse
contadine. «Il popolo - scrive - è la cosa più importante nello Stato, gli dei della terra e delle messi
sono secondari, il sovrano è al terzo posto.» (Mencio, VII b, 14) Certo, egli era ancora e più che mai
guida morale, esempio e autorità, ma non poteva esigere un comportamento virtuoso da un popolo
affamato e sofferente. Le condizioni di vita materiale dovevano essere soddisfacenti, altrimenti
sarebbe stato vano e forse ingenuo aspettarsi una condotta morale esemplare. La base economica
del buon governo doveva realizzare un'equa distribuzione delle terre e la riorganizzazione razionale
delle famiglie contadine e del lavoro agricolo. La sua era una proposta, se non rivoluzionaria,
quantomeno innovativa poiché, se non andava a sovvertire la struttura del potere, implicava però
che i contadini non fossero più dei semplici servi della gleba. Il suo sistema accoglieva in sé gli
ideali della terra in comune, del lavoro collettivo e della cooperazione tra vicini, dell'autonomia
locale congiunta al controllo statale sulle terre. Esso affascinò il pensiero economico cinese
dall'antichità sino ai nostri giorni.
Mencio recuperò inoltre il principio del mandato celeste di cui il sovrano era investito,
rielaborandolo e sviluppandolo in senso nuovo. La sua idea, del tutto originale, era quella per cui
quella volontà del Cielo che dà al sovrano il proprio sostegno e l'autorità per regnare si esprime
attraverso il popolo. Se il sovrano maltratta il suo popolo e viene meno ai suoi doveri, perde la sua
dignità e la legittimazione; il popolo ha allora il diritto morale di destituirlo, di ribellarsi alla sua
autorità e, se necessario, di ucciderlo. Non si tratta più di regicidio, poiché un re che viene meno
all'etica che doveva possedere per essere tale, non è più un re, ma un uomo qualunque.
Governare secondo le virtù confuciane di rettitudine e umanità, significa anche escludere ogni
interesse personalistico, occuparsi del benessere del popolo e soprattutto della sua educazione.
Anche per Mencio l'educazione è un punto di primaria importanza e non ha nulla a che fare con la
semplice erudizione, ma è prima di tutto formazione della persona. Ogni individuo infatti possiede
per Mencio una natura originaria pura, incorrotta e buona, che è necessario recuperare e sviluppare
in ciascun uomo. E' questa la celebre teoria menciana della originaria bontà del genere umano,
teoria che ebbe molti oppositori, ma che esercitò un'influenza di primo piano su tutto il
Confucianesimo e il Neo-confucianesimo dei secoli posteriori.
Questa idea riconosce una fondamentale uguaglianza fra tutti gli uomini, poiché ammette la
potenzialità insita in ciascuno di diventare saggi e giusti come i leggendari sovrani dell'antichità,
quelli che Confucio aveva ammirato ed esaltato. Le differenze tra gli individui derivano allora dal
grado di sviluppo o di corruzione della propria natura originaria. Chi compie il male è perché ha
trascurato ed oscurato questa sua natura.
Chu Hsi
Più tardi, questa dottrina verrà ripresa e sviluppata da altri autori confuciani, andando a confluire in
quel complesso sistema religioso - ma non solo - ce prende il nome di Neo-confucianesimo. Uno
dei filosofi più noti di questa evoluzione dottrinaria è Chu Hsi, il quale, in perfetta coerenza con
Mencio, affermava che «la natura dell'uomo, la natura originale che egli ha ricevuto dal Cielo, è
buona e incorruttibile. Quando è esposta alle tentazioni del mondo può essere offuscata o perdersi.
Nondimeno, come una perla in una scodella di acqua sporca, la natura originale rimane pura e
immutata, e può risplendere di tutta la sua luce, se l'impurità viene rimossa.» ( C. P. Fitzgerald, La
civiltà cinese, Einaudi, Torino 1974, pag. 369)
Come le piante necessitano di un'accurata e paziente coltivazione per germogliare e crescere, così
per l'uomo è necessaria un'adeguata e costante educazione, unita ad una severa autodisciplina.
Allora i semi delle virtù che dimorano già in lui almeno a livello latente, potranno germogliare e
svilupparsi in tutta la loro grandezza. Mencio parlava di quattro "semi" delle virtù, innati nell'uomo;
essi sono la pietà (Jen), il sentimento di vergogna e di repulsione per il male (Yi), la modestia e
l'abnegazione (Li), il senso del vero e del falso (Chih). Coltivando questi sentimenti l'individuo
vedrà fiorire in sé le quattro virtù cardinali che il Confucianesimo e il Neo-confucianesimo
continueranno a considerare essenziali; si tratta della Benevolenza, della Rettitudine, della
Reverenza e della Sapienza.
Il misticismo di Mencio
Questo insegnamento di natura morale non è disgiunto da un aspetto mistico, che con Mencio inizia
a svilupparsi e in seguito, grazie anche alle influenze buddhiste e taoiste, si delineerà in un vero e
proprio sistema religioso, metafisico, cosmologico e naturalmente morale. Mencio diceva «Colui
che ha completamente sviluppato la propria sensibilità, conosce la propria natura. Colui che
conosce la propria natura, conosce il Cielo» (Mencio, VII a, 1). La natura dell'Universo allora è
essenzialmente morale; i principi morali che l'uomo deve seguire nei propri comportamenti sono
identici ai principi metafisici che regolano il mondo della Natura, poiché conoscendo gli uni - ci
dice Mencio - si conoscono anche gli altri. Chi mette in pratica questo impara a poco a poco a
comprendere che non c'è reale distinzione tra io e gli altri, tra individuo e universo, poiché «tutte le
cose sono complete dentro di noi» (Mencio, VII a, 1). Questa filosofia manifesta dei caratteri
sorprendentemente affini a quelli della cultura induista e soprattutto buddhista, che alcuni secoli
dopo, attraverso monaci erranti, mercanti indiani e viaggiatori solitari, farà il suo ingresso nel
mondo cinese, influenzandone fortemente i futuri sviluppi.
Ideologia di Stato
Quando finalmente i conflitti degli «Stati Combattenti» si placarono, l'Impero venne riunificato
sotto la dinastia Ch'in, che governò grazie ad un regime dispotico e autoritario, che attinse
moltissimo dalle teorie legiste e dai suoi metodi. In questo primo periodo il Confucianesimo - così
come tutte le altre 'Scuole' - venne messo al bando, i suoi adepti perseguitati e i testi bruciati
pubblicamente nel famoso rogo dei libri dell'anno 213 a.C. Sarà solamente con la successiva
dinastia, gli Han, che la dottrina confuciana verrà riabilitata e addirittura assunta ad ideologia di
Stato, quindi in buona parte adattata alle sue esigenze e molto spesso snaturata del suo originario
significato.
Il rogo dei libri aveva distrutto irrimediabilmente gran parte della letteratura e della storia della Cina
di quel tempo. I nuovi signori, una volta consolidato il regno, promossero il recupero delle antiche
opere nel tentativo di ricostruire il passato, cercando di reinterpretarlo alla luce delle nuove
condizioni politiche, fornendo quindi antenati illustri alla nuova dinastia ed utilizzando la tradizione
per legittimare il nuovo potere imperiale.
Le antiche opere vennero tratte dai nascondigli, rimesse insieme, ricopiate e reinterpretate. Schiere
di letterati si misero infaticabilmente al lavoro e recuperarono la perduta saggezza. La vittoria finale
dei confuciani è dovuta anche al fatto che la gran parte di questi colti antiquari apparteneva a
questa 'Scuola', così che la rilettura del passato venne filtrata attraverso quella particolare visione
del mondo. Tuttavia, lo stesso carattere del pensiero confuciano, tutto volto alla celebrazione della
tradizione, al rispetto e alla devozione per il principe, ben si prestava ad essere piegato a sostegno
del nuovo stato, a legittimazione ideologica dell'assolutismo monarchico. Da allora, la dottrina
confuciana non cessò mai, in tutta la storia cinese almeno fino al periodo della "Grande Rivoluzione
Culturale" del 1911, di fungere da ortodossia di stato.
Buddhismo, confucianesimo e taoismo
Il Buddhismo costituì per la Cina la corrente culturale straniera che più di ogni altra penetrò e si
radicò nella sua cultura, nella sua società, nel pensiero e nei costumi.
Quando per la prima volta esso varcò i confini del mondo cinese, approssimativamente intorno al I
secolo d.C., in India vantava una storia già lunga di cinque secoli. Fu una penetrazione lenta, spesso
fortemente avversata, soprattutto dai letterati e dalle scuole confuciane, talvolta oggetto di vere e
proprie persecuzioni. Lo scorrere del tempo produsse a poco a poco un incontro, un confronto e
un'integrazione di elementi buddhisti, taoisti e confuciani che andarono a costituire quello che è
oggi noto come Neoconfucianesimo. La caduta dell'impero Han, le spartizioni territoriali e le
seguenti invasioni dei popoli 'barbari' (vedi Scheda la Cina nei secoli passati), aprirono la strada al
Buddhismo. I nuovi sovrani avevano bisogno dell'appoggio di una classe colta, che non fosse legata
come lo erano i confuciani al regime appena deposto; così essi trovarono nelle file buddhiste e
taoiste un corpo di uomini istruiti, fidati e leali.
In un primo momento, il nuovo culto venne spesso confuso col Taoismo. In effetti i primi Cinesi
che studiarono i testi sacri buddhisti facevano necessariamente ricorso a termini ed espressioni
taoiste per tradurne i concetti nella loro lingua, e d'altro canto non sono poche le analogie che le due
dottrine sembrano condividere, per esempio il desiderio di allontanarsi dalla vita mondana per
inseguire una via di ascetismo; il carattere illusorio che entrambe attribuiscono alle cose del mondo,
visto il loro incessante fluire e tramutarsi in altro. Il Buddha, che aveva raggiunto la saggezza
comprendendo il carattere impermanente e dunque illusorio di tutte le cose fino a raggiungere il
Vuoto, non sembrava essere tanto diverso dal saggio taoista che, estraniandosi da tutto, si
identificava con il non-essere o il Tao supremo, raggiungendo così l'eternità e l'Assoluto.
Il Neoconfucianesimo
Il Neo-confucianesimo, più che una vera e propria corrente di pensiero, è un "fiume" al quale ad un
certo punto cominciarono a confluire le principali dottrine, teorie, filosofie e quant'altro che
popolavano il vasto mondo culturale cinese. Esso recupera l'antico confucianesimo, specialmente
quello appartenente alla tendenza mistica che Mencio ne aveva dato; reinterpreta le ancora più
antiche teorie cosmologiche della tradizione arcaica (la teoria dei Cinque Elementi e quella dello
Yin e Yang); concilia a sé gran parte del pensiero buddhista e di quello taoista. Queste correnti
erano tra loro assai eterogenee e sotto molti aspetti contraddittorie. Era tempo per i filosofi di
comporle in unità, in un autentico sistema capace di porre ordine a tutto l'esistente.
Il lungo periodo che si aprì con la scomparsa della dinastia Han (221 d.C.) e si concluse con la sua
riunificazione sotto i Sui (VI-VII secolo d.C.) e successivamente i T'ang (VII-X secolo) fu
politicamente segnato dalla quasi ininterrotta divisione dell'Impero. Proprio allora, lo abbiamo
visto, il Buddhismo trovò un terreno fertile su cui crescere e il Taoismo visse una fase di nuovo
sviluppo. Una volta che però l'Impero riprese un assetto unitario, l'antica ortodossia confuciana
venne rispolverata e a poco a poco, fondendosi con le altre principali correnti, fu riassisa a culto
ufficiale di Stato. Le fila del suo pensiero si vennero delineandosi lentamente e già durante i T'ang il
mosaico del suo sistema andava completandosi, ma fu soprattutto durante i successivi periodi Song
(960-1280) e Ming (1368-1644 circa) che esso raggiunse il culmine dello sviluppo.
Intima connessione tra le cose
Il punto di vista di partenza è l'idea metafisica dell'intima connessione esistente tra tutte le cose. Un
unico principio e un medesimo funzionamento fa muovere il mondo; un'unica forza, morale e
'fisica' insieme regola l'universo degli uomini e quello della Natura, della Terra e del Cielo. Quello
che per Mencio era il sentimento di compassione che l'uomo prova spontaneamente, è espressione
di questa connessione fra noi stessi e gli altri, fra noi e le cose. La bontà originaria, che il più delle
volte è offuscata dall'egoismo e dai desideri, è proprio la realizzazione di questa unità. Mencio
aveva detto infatti che tutte le cose sono complete dentro di noi. Il saggio allora, guardando dentro il
proprio "cuore" in modo disinteressato e aperto, è in grado di osservare i "cuori" degli innumerevoli
esseri che popolano il mondo.
La conoscenza è garantita dall'identità del principio che agisce in tutte le cose e le governa.
L'Universo è dunque uno, ma le sue manifestazioni sono molteplici. L'uomo deve ritrovare l'antica
l'unità eliminando le distinzioni tra Io e non-Io. Gli uomini comuni tuttavia si chiudono nei limiti
che gli organi di senso impongono, mentre il saggio distrugge queste limitazioni e giunge ad
abbracciare nel suo spirito l'insieme delle cose del mondo.
Differenza col Buddhismo sul tema della rinuncia al mondo
In questo pensiero è evidentissimo il richiamo del Buddhismo, grazie al quale il Neoconfucianesimo sviluppò un forte elemento speculativo e mistico, del tutto assente nell'antica
filosofia confuciana. Un punto però che rimase discordante tra le due dottrine è quello relativo alla
rinuncia del mondo: la gran parte dei filosofi cinesi condannavano la scelta del monaco buddhista
che abbandonava la famiglia, la vita in società e il mondo, forte dell'idea per cui tutto è illusione,
mentre la vera realtà è la sola mente del Buddha. Il saggio Neo-confuciano al contrario ricerca sì la
saggezza, ma lo fa dentro la società e dunque dentro i limiti dell'umano vivere.
Yin e Yang
Esiste un principio supremo che scorre e ordina tutto l'essere. Alcuni lo hanno chiamato Ch'i
(«soffio»), termine dai svariati significati, utilizzato da tempo per indicare un'energia più materiale
come il vapore acqueo, il soffio della respirazione, l'aria e per estensione ogni sorta di esalazione
che riempie l'universo e lo vivifica. Nel linguaggio filosofico esso stava ad indicare qualsiasi forma
di energia che attraverso interazioni, condensazioni e trasformazioni varie dava forma ai singoli
esseri. Questa realtà prima, detta talvolta anche T'ai-chi («Culmine Supremo»), di per sé è senza
forma e dunque indifferenziata, ma da essa prendono vita le due principali energie cosmiche,
opposte e complementari - che nell'antica concezione taoista erano i due poli del Tao. Queste due
forze o principi sono quelli appartenenti alla tradizione millenaria della Cina, indicati come Yin e
Yang. Essi sono rispettivamente il negativo e il positivo, il femminile e il maschile, il freddo e il
caldo, l'umido e il secco, la Terra e il Cielo, l'oscurità e la luce, la forza distruttiva e quella
costruttiva che insieme producono l'incessante trasformarsi delle cose.
La continua interazione tra Yin e Yang dà origine ai Cinque Elementi: Acqua, Fuoco, Legno,
Metallo e Terra, i quali a loro volta reagendo reciprocamente producono il mondo dei fenomeni.
Non si tratta però di sostanze elementari, ma di vere e proprie forze cosmiche. Ad esse sono poi
associati dei numeri, le virtù, le stagioni dell'anno, i punti cardinali e innumerevoli altri significati
simbolici, in un complesso e affascinante sistema di corrispondenze e analogie.
Il «Culmine Supremo» o T'ai-chi è «tutte le cose ed è in tutte le cose»; è un principio immanente
perché scorre e muove tutto, ma è anche sintesi trascendente perché in esso si realizza l'unità di tutte
le cose. Chu Hsi, probabilmente il più illustre filosofo neo-confuciano dell'epoca song, diceva che
ogni essere particolare ha un proprio T'ai-chi, ma questo non significa che esso si suddivida nelle
infinite particelle del mondo; al contrario resta sempre intero «come la luna che si riflette in molte
estensioni d'acqua». (E' davvero sorprendente vedere come questa concezione metafisica rispecchi
per molti aspetti in maniera assai simile quella indiana. Una metafora alquanto rassomigliante a
quest'ultima - che si rifà questa volta la luce del sole - venne utilizzata da alcuni pensatori indù per
esprimere visivamente un analogo concetto).
Legge morale
Questo Principio Supremo è al tempo stesso una forza morale, il Li (appunto legge morale), un
principio razionale immanente all'universo e alle sue parti costituenti; un principio naturale che è
contemporaneamente etico - e si identifica quindi con il Bene, con la corretta condotta che deve
guidare i comportamenti umani. Manca infatti nella filosofia cinese una distinzione netta tra ciò che
è umano e ciò che è cosmico, ciò che è morale e spirituale e ciò che è invece naturale e materiale.
Semmai esiste fra essi una distinzione gerarchica, non metafisica: si tratta di diverse modalità di una
medesima realtà. Così le cinque principali virtù neo-confuciane non sono altro che l'espressione
morale delle cinque forze cosmiche (Acqua, Fuoco, Legno, ecc.) ad esse associate, che nel mondo
materiale producono le stagioni e così via.
Il saggio neo-confuciano aspira, come il monaco buddhista e il saggio taoista, alla sapienza.
Guardando dentro il proprio "cuore", vi trova il Principio o la Ragione delle cose, realizza cioè la
conoscenza intuitiva del Bene. Ma questo obiettivo sapienziale costituisce uno sforzo non
semplicemente conoscitivo: l'osservazione delle cose, la conoscenza, per i neo-confuciani significa
uno sforzo morale volto a conoscere ciò che è bene e ciò che è male allo scopo di regolare la
condotta dei rapporti umani. Non è sufficiente - anzi è inutile - avere una conoscenza astratta del
Bene; essa deve essere realizzata nella pratica. Wang Yang-ming, famoso filosofo dell'epoca ming,
diceva che «la conoscenza è l'inizio dell'azione; l'azione è il compimento della conoscenza». Questo
accento costantemente posto sull'agire è lo stesso che il Maestro - Confucio - predicava:
«Conoscere la virtù senza coltivarla, accumulare conoscenze senza approfondirle, sentir parlare del
Giusto senza praticarlo, vedere i propri difetti senza correggerli: ecco ciò che mi preoccupa!»
(Confucio, Dialoghi, VII, 3)
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