Manifesto, frammento di storia
di Mauro Bocci
Affiche
Il manifesto murale è in sé quanto di più effimero si possa
immaginare: invecchia subito, variopinto e fragile come una farfalla,
ed è quasi con disagio che una locandina, il cui messaggio sia
“scaduto” e che resti tuttavia affissa, dà coscienza dell’inesorabile
trascorrere del tempo.
Ma, perduto ogni rapporto contingente con quel messaggio, fuori dal
piano della sua breve quotidianità, il
poster può tornare a vivere in una dimensione altra rispetto alla sua funzione primaria di comunicare la “scadenza” temporale di un evento.
Anche a prescindere da quello “d’artista” (si pensi soltanto a ToulouseLautrec o a Fortunato Depero), il manifesto può farsi teatro di memoria,
evocazione: aveva ben compreso questa potenzialità un grande artista italiano, Mimmo Rotella (1918-2006),
che fin dalla metà degli anni Cinquanta cominciò a costruire i suoi
quadri con manifesti sovrapposti e lacerati, esplorando la nuova immaginazione dei media attraverso i frammenti delle affiches della pubblicità e
del cinema. Tuttavia, se una sola locandina poteva stimolare le ardite costruzioni di Rotella e dei suoi readymade (lavori, d’ispirazione dadaista,
realizzati con oggetti reali privi di finalità estetiche, rielaborati a fini artistici), più manifesti – quando la distanza di tempo è sufficiente – possono “fare storia”, aiutare a fornire
la fisionomia di un’epoca e la sua interpretazione: la prima parte del XX
secolo è stata scandita da icastici “cartelloni” che hanno raccontato sui muri conflitti, rivoluzioni ed elezioni,
ma insieme costume, spettacoli e soprattutto merci, dall’elettrodomestico al dentifricio. Con gli anni Settanta
e Ottanta del secolo passato, la situazione è un poco cambiata e la grafica pubblicitaria, soprattutto negli
stili dell’illustrazione “popolare” al-
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la maniera di Gino Boccasile o di Walter Molino, è andata in pensione, sostituita con sempre maggiore invadenza dal tratto geometrico (almeno
in una prima fase) o dalla fotografia:
alle mediazioni del realismo “pittoricistico” di quei persuasori-artigiani si è sostituita la “velocità”, vale a
dire l’esigenza di una comunicazione ritenuta più immediata e diretta.
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La diffusione della televisione e di
nuovi mezzi di pubblicità e di pubblicizzazione (internet, anzitutto, ma
perfino i call-center, variazione ancor più invasiva dell’antico “porta a
porta”), hanno limitato, in tempi ancora più recenti, la “gittata” del vecchio manifesto, il cui ruolo non sembra tuttavia tramontare nel corso delle campagne elettorali, nelle quali il
cartellone in gigantografia conserva
un proprio peso specifico.
Reperto dunque in parte “archeologico” – ma non ancora anacronistico
– il manifesto murale può ancora restituirci la fragranza di un’epoca, cogliendone gli elementi minuti, che
spesso sfuggono al senso della grande
storia, ma che in essa si rispecchiano.
Assai buona, in questo senso, è stata
l’idea di Adriano Vattione, per anni
all’Ufficio affissioni del Comune di
Genova, che nel corso di circa un decennio – fra gli ultimi Settanta e la fine degli Ottanta – ha raccolto, salvandola dall’oblio, una copia dei “cartelloni” che passavano sotto le sue
competenze. Questo “catalogo”, divenuto ora oggetto di una preziosa
donazione all’Archivio Carige, appare tanto più interessante poiché incrocia un momento di transizione e
cambiamento nella vita genovese e insieme nelle tecniche di comunicazione. A rivederli ora, quei poster, che
ammontano a migliaia, rievocano nel
loro quantità e varietà un tessuto sociale e culturale già in parte lontano,
se non trascorso per sempre, come
nel caso delle campagne di tesseramento per partiti che non esistono
più; e, a un esame attento, emerge la
qualità di molti progetti grafici e la
ricercatezza di alcune soluzioni, come nel caso del teatrino off che presentava una pièce attraverso la suggestiva immagine in bianco & nero
di una giacca negligentemente abbandonata su una sedia.
Il percorso, attraverso questa massa
di materiali eterogenei inquadra, della vita cittadina di allora, momenti diversi e dispersi, dalla pura quotidianità (il negozio che si autopromuove)
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alla relativa trasgressione (la foto della soubrette seminuda che annuncia il
proprio show in un night-club dalla
fama non proprio trasparente): oggetti
che si offrono quasi spontaneamente
a uno scandaglio sociologico, se non
antropologico, del “decennio effimero”, gli anni Ottanta, rivelandone certo aspetti corrivi, ma anche le inquietudini, l’ansia di cambiamento e non
di rado la profondità. A sfogliare questi manifesti – anzi a srotolarli, come
un album di ricordi genovesi – si può
per esempio rimpiangere, specie con
il senno di poi, di non aver assistito
al dibattito sul mezzo televisivo, annunciato da un poster dai caratteri fitti, al quale parteciparono oltre vent’anni fa Edoardo Sanguineti e don
Gianni Baget Bozzo (insieme con alcuni esperti tedeschi di comunicazione), dal quale emerse forse qualche elemento che potrebbe essere ancor utile oggi, in un tempo di giornate televisive sempre uguali a se stesse.
Il percorso della “raccolta Vattione”
coincide in parte con il doppio mandato del sindaco Fulvio Cerofolini
(1975-1985), che fu epoca di lunga vigilia, di preparazione, a volte anche
dolorosa, della rinascita cittadina; gli
anni di piombo incombevano, mentre venivano al pettine i pluridecennali problemi dell’occupazione a Genova, con una dura fase di tagli che si
stenderà per tutti gli anni Ottanta.
Questo clima si avvertiva anche nei
manifesti d’epoca, che cominciavano
ad affrontare in modo deciso questioni gravi come la diffusione delle
droghe. Ma faceva parte del contesto
anche una volontà di rigenerazione e
di risveglio culturale, che attraversava le grandi città, e Genova con esse,
in un tourbillon di manifestazioni e
mostre d’arte al quale l’assessore alla Cultura romano Renato Nicolini
aveva affibbiato un nome dal sapore
vagamente ironico (e ricorrente in
queste brevi note): l’Effimero.
Erano gli anni in cui si progettavano
e si realizzavano Begato, il Centro dei
Liguri, con i suoi “giardini di plastica”, e i grattacieli di Corte Lambru-
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schini e del Matitone. I manifesti di allora evocano però piuttosto la nascita,
importante, del Museo di Sant’Agostino, battistrada di una “bonifica” della parte più antica del centro storico
che avrebbe compreso, nella zona di
Sarzano, la riattivazione, come facoltà universitaria di Architettura, di una
delle zone più colpite dai bombardamenti della seconda guerra mondiale
e la nascita dell’auditorium di San Salvatore in luogo della chiesa ormai semidiroccata; poi sarebbe venuta la rivoluzione urbanistica del 1992. I poster
del Museo di Sant’Agostino – i cui ambienti conventuali vennero restaurati e
ristrutturati per le esigenze museali fra
il 1977 e il 1992 – campeggiano per eleganza tra quelli che Adriano Vattione
ha tanto scupolosamente raccolto.
Piace ricordare anche la comunicazione “cartacea” alla quale si affidavano allora molte gallerie d’arte, per
annunciare l’esposizione di artisti foresti di richiamo o magari per celebrare “glorie locali”, come il simpatico Renzo Cordiviola, che anche
queste affiches strappano all’oblio.
Il percorso attraverso questi manifesti può stimolare curiosità, riscontri,
suggestioni visive: ciascuno vi può
cercare indizi e tracce di un tempo
così vicino e così lontano. Abbastanza lontano, in ogni caso, per rappresentare un piccolo frammento di
storia, racchiuso in un tratto grafico
stilizzato, in una fantasia geometrica o in un astratto gioco di colori.
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