oggetti e soggetti 1

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oggetti e soggetti
1
Collana diretta da
Bartolo Anglani
A10
786
Direttore
Bartolo Anglani
Università degli studi di Bari
Comitato scientifico
Ferdinando Pappalardo
Università degli studi di Bari
Mario sechi
Università degli studi di Bari
Bruno Brunetti
Università degli studi di Bari
Maddalena Alessandra squeo
Università degli studi di Bari
oggetti e soggetti
L’oggetto e il soggetto sono i due poli che strutturano la relazione
critica secondo starobinski. il critico individua l’oggetto da interpretare e in qualche modo lo costruisce, ma lo rispetta nella sua
storicità e non può farne un pretesto per creare un altro discorso in
cui la voce dell’interprete copre la voce dell’opera. Ma d’altro
canto egli non si limita a parafrasare l’opera né ad identificarsi con
essa, ma tiene l’oggetto alla distanza giusta perché la lettura critica
produca una conoscenza nuova. in questa collana si pubblicheranno contributi articolati sulla distinzione e sulla relazione tra gli
«oggetti» e i «soggetti», ossia fra il testo dell’opera o delle opere e la
soggettività degli studiosi.
Bartolo Anglani
La lumaca e il cittadino
Pietro Verri dal benefico dispotismo alla Rivoluzione
Copyright © MMXII
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, /A–B
 Roma
() 
 ----
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: febbraio 
Indice

Premessa

La lumaca e il cittadino

Indice dei nomi

Premessa
Questo libro fa parte di un’ampia ricerca su Pietro Verri,
iniziata parecchi anni fa, che ha prodotto finora due libri:
Il dissotto delle carte. Sociabilità, sentimenti e politica tra i
Verri e Beccaria, Milano, FrancoAngeli, , e L’uomo non
si muta, in corso di stampa presso le Edizioni di Storia e
Letteratura di Roma. Nelle introduzioni a questi due libri
mi sono soffermato abbondantemente sulle motivazioni
della ricerca, sui metodi usati per svolgerla e sui risultati
che mi proponevo di ottenere. Per non ripetere cose già
dette, dunque, non tornerò su tali temi in questa premessa.
Avverto solo che la ricerca era stata iniziata e in parte svolta
quando la maggior parte dei testi verriani utilizzati era per
lo più inedita e conservata nell’Archivio Verri di Milano.
In particolare il carteggio fra Pietro e Alessandro Verri, dal
 fino alla morte di Pietro nel , era conosciuto ai
più solo in forme antologiche e scorrette. Mi ero proposto di raccontare il rapporto fra Pietro e la Rivoluzione
francese citando largamente dalle lettere, che potevano
essere considerate un vero e proprio diario che Pietro non
poté interrompere all’improvviso (come aveva sempre
fatto per tanti suoi scritti memorialistici ed autobiografici) perché obbligato a proseguirlo dal dialogo epistolare
con il fratello. Il mio scopo dunque era non quello di analizzare in generale e in tutti i suoi aspetti il pensiero di
Verri sulla Rivoluzione, documentato da altri scritti e interventi e studiato da molti altri ricercatori, ma quello più


La lumaca e il cittadino
limitato di seguire la formazione delle idee verriane e il
loro modificarsi quasi giorno per giorno attraverso le lettere e altri scritti inediti, in uno spazio istituzionalmente
separato dall’attività politica e da ogni tipo di intervento
pubblico. Proprio perché i testi erano largamente inediti,
mi ero proposto di riportare nel mio discorso la grande
maggioranza dei passi dedicati alla Rivoluzione in modo
da permettere agli eventuali lettori di farsi un’idea diversa
rispetto a quella che mi ero fatta io. Per ragioni che qui
è inutile riferire ho dovuto ritardare l’edizione di questo
lavoro, già terminato nel : e intanto nell’àmbito dell’Edizione Nazionale diretta da Carlo Capra è iniziata la
pubblicazione del carteggio fra Pietro e Alessandro (di cui
do gli estremi poco più avanti). Ho ritenuto però di non
dover modificare l’impianto dell’esposizione, che rimane
perciò largamente analitica, pensando che in fin dei conti i
volumi dell’Edizione Nazionale non hanno una diffusione
di massa e che ai lettori avrebbe fatto comodo avere sotto
gli occhi, in un numero non troppo esteso di pagine, i
passi essenziali della lunga riflessione sulla Rivoluzione
che impegnò Pietro Verri negli ultimi anni della sua vita.
Fino alla prima metà del maggio  le lettere di Pietro
Verri sono citate dal copialettere conservato nell’Archivio
Verri (AV . e .), e quelle di Alessandro dalle trascrizioni conservate nella Società Storica Lombarda. L’edizione critica di questa parte del Carteggio, che sarà curata
da G. di Renzo Villata, non è ancora apparsa al momento
di chiudere questo lavoro. Per il carteggio successivo, le
lettere di entrambi sono citate da: Carteggio di P. e A. Verri,
vol. , a c. di S. Rosini,  tomi (tomo ,  maggio –
marzo ; tomo ,  aprile – luglio ), Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura, . Essendo la numerazione delle pagine continua nei due tomi, ho ritenuto
Premessa

inutile precisare ogni volta il numero del tomo citato. I numeri di pagina privi di specificazione si intendono dunque
riferiti a quest’edizione. Le lettere di Pietro sono tutte da
Milano; quelle di Alessandro delle quali non si indica il luogo sono da Roma. Con «ivi» si indica la stessa lettera citata
precedentemente. Poiché il lavoro era stato interamente
steso prima della pubblicazione del Carteggio, nella revisione ho riscontrato le trascrizioni fatte da me con l’ed. Rosini.
Ho quasi sempre accettato le soluzioni proposte dalla curatrice ed ho anzi corretto alcuni errori da me commessi,
ma nelle citazioni ho seguito le norme grafiche correnti (e
in part. ho messo l’accento acuto su perché, poiché ecc.), ho
sciolto le abbreviazioni, ho modernizzato la punteggiatura
(soprattutto eliminando la virgola prima della e congiunzione, che disturba la lettura e non dà alcuna informazione
utile sul testo citato). Non ho ritenuto necessario segnalare
i pochi casi in cui la mia lettura diverge da quella proposta dalla Rosini. Il primo paragrafo riprende, con qualche
modifica e con aggiunte, la comunicazione presentata al
° Congresso Nazionale dell’ADI (Lecce–Otranto, –
settembre ): cfr. I fratelli V., «italiani senza Italia», in
L’identità nazionale nella cultura letteraria italiana, a c. di G.
Rizzo, t. , Lecce, Congedo, , pp. –. Le pagine
– riprendono il saggio La lumaca e il cittadino. P. V. e
la Rivoluzione nel carteggio con A. (), «La Rassegna della
letteratura italiana», (), n. , pp. –.
Nei titoli dei libri e degli articoli citati, il nome e il
cognome di Pietro e di Alessandro Verri sono indicati dalle
iniziali.
Abbreviazioni:
— «Caffè»: Il «Caffè» –, a c. di G. Francioni e S.
Romagnoli, Torino, Bollati Boringhieri, ;

La lumaca e il cittadino
— Cart., seguito dal n. del vol.: Carteggio di P. e A. Verri,
a c. di E. Greppi, F. Novati, A. Giulini e G. Seregni,  voll., Milano Cogliati, poi Milesi, poi Giuffrè,
–;
— LSI, seguito dal n. del vol.: Lettere e scritti inediti di
Pietro e Alessandro Verri, a c. di C. Casati,  voll.,
Milano, Galli, –;
— Progressi: C. Capra, I progressi della ragione. Vita di P.
V., Il Mulino, Bologna ;
— PVST, seguito dal n. del vol.: Pietro Verri e il suo
tempo,  voll., a c. di C. Capra, Milano, Cisalpino,
;
— VPL: Viaggio a Parigi e a Londra (–). Carteggio
di Pietro e Alessandro Verri, a c. di G. Gaspari, Milano,
Adelphi, .
Ringrazio vivamente Carlo Capra che per questo e per
tutti gli altri miei lavori verriani è stato un lettore attento,
un critico severo, un suggeritore prezioso. Il mio ringraziamento va anche a Barbara Costa e a Sara Rosini, che
mi hanno consentito di accedere ai testi e di consultarli
fornendomi ogni volta informazioni e indicazioni senza
le quali non avrei potuto proseguire il mio lavoro e probabilmente nemmeno iniziarlo. Ovviamente, gli errori e le
imprecisioni sono da attribuire interamente a me.
La lumaca e il cittadino
Les philosophes doivent être seuls. [. . . ]
C’est ainsi qu’ils peuvent penser avec
l’apparence de la raison et qu’ils peuvent instruire tout le monde.
A C, L’Impromptu des philosophes.
«Il Caffè» tra Milano e l’Europa si intitolava il saggio che Sergio Romagnoli premise all’edizione critica del periodico
(«Caffè», pp. –), per fissare i termini entro i quali
si era svolta la riflessione dei fratelli Verri: da una parte la
«patria» storica, Milano, spesso criticata e odiata, ma vista
pur sempre come punto di riferimento di ogni azione politica e intellettuale; dall’altra parte l’Europa, luogo non
mitico e anch’esso storicamente concreto, fatto soprattutto di entità politiche realizzate come i grandi Stati moderni
e accentrati, e popolato di filosofi, pensatori, giganti del
pensiero dai quali imparare e con i quali comunicare. Tra
i due poli di questa «formula binomia» , spicca l’assenza
di un orizzonte nazionale credibile di riflessione e di azione politica. Eppure i fratelli Verri non potevano sfuggire
al processo che già prendeva corpo nel dibattito fra gli
intellettuali e politici: al mutamento intervenuto nella questione dell’identità italiana, che dopo essere rimasta per
. G. S, L’Europa di P. V., «Giornale Storico della Letteratura
Italiana»,  (), f. , p. . Rimando a questo saggio per la trattazione
più ampia e più aggiornata dell’orizzonte ‘europeo’ della cultura verriana.


La lumaca e il cittadino
secoli un problema culturale e prevalentemente retorico si
avviava a diventare «un problema politico dalla cui soluzione dipendeva se lo Stato–nazione Italia avrebbe avuto una
identità e un cittadino, e quali, o se sarebbe rimasto una
nuda struttura giuridico–economica» . E infatti l’assenza dell’«Italia» dalla polarità più esplicita della riflessione
dei due fratelli non significa che la realtà ‘nazionale’ non
presentasse alcun interesse per loro. È soprattutto nel Carteggio che Pietro e Alessandro tornano ripetutamente sulle
questioni relative all’«italianità», approfondendo lungo gli
anni il dibattito intorno alle caratteristiche antropologiche
e culturali nazionali. Se l’idea d’Europa è il «nuovo spazio
mentale» che contraddistingue il pensiero del diciottesimo
secolo , nei fratelli Verri tale idea si alimenta tuttavia di
una vena apertamente polemica nei confronti dei caratteri nazionali, che possono essere volta a volta ‘lombardi’,
‘milanesi’ o ‘italiani’. Ma, prima di interrogare il Carteggio,
sarà opportuno vedere come quel tema fosse stato impostato nel «Caffè», dove i Verri pongono le premesse delle
loro posizioni e delle scelte successive.
L’articolo di Gianrinaldo Carli Della patria degli italiani
(cfr. «Caffè», pp. –), come Franco Fido ha ricordato ,
. G. B, L’italiano, in Storia d’Italia, a c. di R. Romano e C. Vivanti,
. I caratteri originali, Torino, Einaudi, , p. .
. N. J, Cosmopolitismo e patriottismo nel «Caffè», in Economia, istituzioni, cultura in Lombardia nell’età dei Lumi, a c. di A. De Maddalena, E.
Rotelli, G. Barbarisi, vol. , Cultura e società, Bologna, Il Mulino, , p.
. La «nazione» è, nell’«indice degli argomenti» del «Caffè», fra i termini
«che ricorrono con più frequenza», tanto da poter essere compresa fra le
«parole–chiave» del periodico (M. Cerruti, «Nazione», «Patria», «Patriottismo»
ne «Il Caffè», «Italies»,  (), n. , p. ).
. Cfr. F. F Identità nazionale fra Riforme e Rivoluzione, in L’identità
nazionale, pp. –. Tutto il saggio di Fido è da tenere presente per i
temi discussi in questo libro. Sul problema costituito dal «passaggio da un
La lumaca e il cittadino

non era piaciuto a Pietro Verri nemmeno al momento di
pubblicarlo (tanto che invano egli aveva pregato l’amico di
modificarlo), e continuò a dispiacergli negli anni successivi:
Morellet «trova bello il pezzo sulla Patria degl’Italiani, ed io
no», scrisse infatti Pietro al fratello il  novembre del 
(VPL, p. ), ribadendo quella vocazione ‘cosmopolitica’
che aveva spinto il gruppo degli intellettuali milanesi a
rivolgersi all’Europa — all’Europa di quel tempo, ossia
soprattutto alla Francia e all’Inghilterra — per stabilire dei
contatti intellettuali moderni e avanzati.
E sì che il pezzo di Carli non poteva essere accusato di
patriottismo nazionalistico, legato com’era alla condizione particolare dell’autore, «uomo nato in una provincia
eccentrica, suddito della Repubblica di Venezia», alla ricerca di «una superiore comunità italiana, vagheggiata come
armonica convivenza di stati diversi, cui fosse vincolo la
comune antica civiltà, le secolari comuni sventure, l’attuale
Settecento assai povero di ‘italianismo’ alla spettacolare impennata nazionalista che segna fin dai suoi esordi la fisionomia del secolo successivo», si
vedano le osservazioni di L. M , Un «affare di sentimento». L’identità
civile del signor P. V., gentiluomo milanese, «Quaderni fiorentini per la storia
del pensiero giuridico moderno»,  (), p. . Di grande respiro, e
tale da assicurare al discorso qui svolto un solido retroterra storico–teorico,
dello stesso Mannori cfr. La crisi dell’ordine plurale. Nazione e costituzione
in Italia tra Settecento e Ottocento, in Ordo Iuris. Storia e forme dell’esperienza
giuridica, Milano, Giuffrè, , pp. –, che dà largo spazio alle riflessioni verriane. Per una storia della ‘identità’ italiana vista da uno sguardo
straniero, cfr. C. D La forza del destino. Storia d’Italia dal  ad oggi,
tr. di G. Ferrara degli Uberti, Roma–Bari, Laterza,  (ed. or.: The Force of
Destiny. A History of Italy since , London, Penguin Books, ). Per una
rassegna critico–storica della questione, cfr. il denso saggio di G. R,
Universalismo e nazione dal Settecento alla restaurazione [], in Frontiere e
limiti della ragione. Dalla crisi della coscienza europea all’Illuminismo, Torino,
UTET, , pp. –, che mi risparmia una lunga (e qui sovrabbondante)
bibliografia.

La lumaca e il cittadino
comune necessità di un rinnovamento civile» .
Eppure lo stesso Pietro, scrivendo sempre al fratello
il  aprile del , retrospettivamente disse che il proposito della rivista era stato quello di realizzare «una rivoluzione nella letteratura italiana» (Cart. , p. ), ovvero
di procedere «a un profondo rinnovamento della cultura
nazionale» : tanto che nella dedica Al lettore apposta all’edizione in volume del primo tomo aveva trovato il modo
di pronunciare per ben tre volte in una paginetta l’aggettivo «italiano», quando aveva scritto che il fine del «Caffè»
era stato quello «di promovere e di spingere sempre più
gli animi italiani allo spirito della lettura, alla stima delle
scienze e delle belle arti» e ad altri più nobili scopi, sulla
spinta dell’amore per «una onesta libertà degna di cittadini
italiani», lottando per demolire «quel continuo ed inquieto
pensiero delle più minute cose che tanto ha influito sul
carattere, sulla letteratura e sulla politica italiana» («Caffè»,
p. ). Restando all’interno di «quel rapporto complesso e
complementare tra patria, nazione e cosmopolitismo» che
fu «uno dei grandi punti di forza del “Caffè”» , e senza mostrare alcuna indulgenza per un’idea astratta dell’Italia, Verri prendeva atto dell’esistenza di una cultura italiana ma al
tempo stesso ne riconosceva realisticamente l’insufficienza, ovvero la debolezza di una tradizione prevalentemente
retorica inadatta alle necessità dei tempi nuovi.
Ma già nel pezzo introduttivo al «Caffè» egli aveva affrontato, sia pure obliquamente, il tema della dimensione
nazionale, scegliendo il caffettiere Demetrio come personaggio–guida del periodico, quando aveva scritto che quel
. R «Il Caffè» tra Milano e l’Europa, «Caffè», p. .
. R, ivi, p. .
. R, ivi, p. .
La lumaca e il cittadino

suo «abito orientale», che gli dà «una maestosa decenza al
portamento», fa pensare «che vi sia realmente una intrinseca perfezione nel vestito asiatico in paragone del nostro»,
perché mentre «i fanciulli in Costantinopoli non cessano
mai di dileggiare noi Franchi», i ragazzi italiani, non si sa
«se per timore o per riverenza», non osano «render la pariglia ai levantini». Verri introduce così il tema ‘nazionale’ allo scopo di straniarlo e di relativizzarlo, anche se in questo
caso è l’intera Europa che si rivela inferiore all’Asia poiché
gli europei in viaggio all’Est «vestono quasi tutti l’abito
o armeno o greco o talare in qualunque modo, né se ne
trovano male, anzi ripatriando risentono il tormento del
nostro abito con maggior energia», mentre nessuno degli
orientali, «stabilendosi fra di noi nelle città dove il commercio li porta, può risolversi a fare altrettanto». In queste
righe Verri assume il carattere europeo come carattere
nazionale, in contrapposizione a un carattere anch’esso
nazionale qual è quello dell’Oriente. Ciò che conta è che,
anche nel contesto ironico di questo scritto, egli utilizzi
sempre un modello comparativo: «Noi cambiam di mode
ogni vent’anni», scrive infatti, «e vedremmo la più ridicola
incostanza del mondo se ci si presentasse una collezione di
abiti europei da soli quattro secoli a questa parte»; mentre
gli orientali «tagliano gli abiti loro sulla stessa forma su cui
li tagliavano i loro antenati alcuni secoli fa, poiché quando
si sta bene non v’è ragione di variare», senza tener conto
del fatto che l’abito orientale è «più elegante, più pittoresco, più sano, più comodo del nostro» («Caffè», p. ). Non
c’è bisogno di pensare a Rousseau che dal settembre del
 s’era convertito all’abito armeno scandalizzando tutta
l’Europa, perché le ragioni della predilezione per l’abito
orientale nel caso di Verri (il quale ad ogni modo si guardò
bene dall’abbandonare la scomoda moda europea e dal-

La lumaca e il cittadino
l’indossare abiti orientali) sono completamente diverse da
quelle di chi, come Rousseau, aveva sperimentato quanto
gli abitanti di Môtiers fossero meno tolleranti dei fanciulli
italiani, visto che lo avevano insultato come «antechrist»
e «poursuivi dans la campagne comme un Loup–garou»
prima di bersagliarlo con «huées» e «cailloux» . L’impianto del ragionamento verriano, lontano dalle complessità
filosofiche e dall’abbandono dei ritmi e dei valori occidentali che qualificano la scelta rousseauiana, è mosso da una
logica di pura convenienza sociale. La civiltà europea, che
dovrebbe essere ispirata a criteri di utilità e di funzionalità,
si rivela rigida e schiava di convenienze irrazionali. Egli,
«nato, allevato in Italia», non è mai riuscito a ‘naturalizzarsi’
con il suo vestito: e quando alla mattina deve soffrire che
gli si «sudici il capo colla pomata», che lo si «tormenti con
cinquecento e più colpi di pettine», che gli si riempiano
«gli occhi, gli orecchi, il naso e la bocca di polve», che gli si
rinchiudano i capelli «entro un sacco» che gli «pende sulle
spalle», e che gli cingano «il collo, i fianchi, le braccia, le
ginocchia, i piedi da tanti tormentosi vincoli», e che dopo
tutte queste torture il «minimo soffio d’aria» gli penetri
«sino alla pelle» e lo congeli; e quando deve indossare «un
pezzo inutile di panno, che si chiama cappello, benché non
sia un cappello», e portare anche «una spada» anche nei
luoghi in cui è «sicuro da ogni oltraggio» né ha «idea di
farne», non sa trattenersi dall’esclamare: «Oh ragionevoli,
oh, felici sartori e uomini dell’Asia, ridete di noi, che avete
ben ragione di ridere!» («Caffè», pp. –).
Se si pensa (cfr. «Caffè», pp. –) che questo passo
della rivista era stato anticipato da passi analoghi dell’alma. J.–J. R, Les Confessions, , in Œuvres complètes, vol. , Paris,
Gallimard, , pp. –.
La lumaca e il cittadino

nacco Mal di milza, si può ipotizzare non tanto un influsso
rousseauiano quanto la grande lezione relativistica delle
Lettres persanes. La conseguenza di questa scelta è che il tema delle caratteristiche nazionali non può esser trattato se
non all’interno di una struttura comparativa e in assenza
di ogni pregiudizio in favore di questa o di quella nazione.
Verri dà una riprova ulteriore di questa ispirazione ‘persiana’ quando vede La festa da ballo, attraverso gli occhi di
Demetrio, come un ammasso di assurdità e di abitudini irrazionali, come «un funerale» piuttosto che come un ballo
(ivi, p. ). Come preliminare ad ogni analisi del rapporto
tra Italia ed Europa in Verri, bisognerà dunque stabilire
che l’Europa non è un valore immobile in sé positivo, ma è
un modello che può venire a sua volta confrontato con altri
modelli, in uno schema di ‘straniamenti’ potenzialmente
infinito.
E tuttavia, quando affrontò il tema della cultura nazionale in un contesto meno burlesco con l’articolo Pensieri
sullo spirito della letteratura d’Italia nel foglio  del primo tomo, Pietro Verri riportò il problema ai suoi termini
storicamente fondati, ossia al rapporto tra la cultura italiana e quella europea. La sua mente positiva, al momento
di indicare una prospettiva, non poteva lasciarsi catturare
dal gioco infinito degli straniamenti culturali che pure lo
affascinava. La mancanza d’unità politica nazionale non
mette in discussione l’esistenza di una cultura ‘italiana’ la
cui storia, nei termini etico–politici cari a Verri, inizia da
quel «rinascimento delle lettere in Italia» inquinato dalla
confusione tra la filosofia e la cultura con il possesso di
alcune nozioni retoriche astratte: a quei tempi era considerato «gran filosofo colui il quale aveva letto Platone e
che sapeva ridirne a mente alcuna definizione, avesse ella
o non avesse significato», così come chi sapeva leggere

La lumaca e il cittadino
«qualche pezzo dell’Iliade o dell’Ulissea era un uomo dotto»,
e chi poi «giungeva a scrivere qualche servile imitazione
di que’ antichi originali era dottissimo e talora divino per
pubblica acclamazione». Verri faceva partire la decadenza
della cultura italiana proprio dal Rinascimento, epoca in
cui l’influsso della letteratura greca significò ripresa del
platonismo e, soprattutto, predominio della «poesia», allora «sovranamente onorata in Italia». Ma anche la filosofia
aristotelica non era immune da colpe, se è vero che veniva «onorato col titolo di filosofo» anche «colui che sapeva
ben a mente le categorie d’Aristotele, che sapeva disputare
sull’universale a parte rei, sulle quiddità, sul blictri e su altre
sì fatte gravissime innezie e deliri dell’umana debolezza».
Il quadro dell’Umanesimo e del Rinascimento tracciato in
questo articolo è del tutto negativo, soprattutto, perché
nella cultura di quel tempo l’autore vede una specie di
complotto elitario e antidemocratico con cui la già citata debolezza umana, «gonfia di tante barbare parole, con
ispido sopracciglio e con sucida dimenticanza della persona cercava di carpire dal volgo i suffragi ed acquistarsi
un dispotico impero sulle menti degli uomini» («Caffè», p.
). È evidente in questi giudizi la concezione ‘negativa’
dell’essere umano che costituisce il sottofondo perenne
della filosofia verriana. Ma l’aspetto più interessante, qui,
sta nel fatto che Verri vede in tale decadenza il frutto non
della sola invasione della cultura greca, ma dell’incontro
fra questa e una certa predisposizione antropologica climaticamente condizionata: come un esito che «doveva
fisicamente accadere per la singolare sensibilità che abbiamo all’armonia e per la vivacità della immaginazione, più
popolare in Italia che forse in altra parte d’Europa, qualità
entrambi immediatamente dipendenti, anzi che dall’educazione, dal grado di latitudine sotto cui siamo riposti» (ivi,
La lumaca e il cittadino

p. ). Si noti quell’«abbiamo» e quel «siamo», indizi di
quanto Verri si riconoscesse parte di quella tradizione e
di quella disposizione, tanto da proporsi di ‘riformare’ se
stesso riformando la cultura italiana.
Ma la decadenza si aggrava: dopo il platonismo fumoso
e l’aristotelismo esoterico del Quattrocento, nel Cinquecento «tutti quasi gl’Italiani capaci di coltivar le lettere si
slanciarono disperatamente o nel platonico mare dei sonetti e delle canzoni amorose ovvero nello studio della grammatica italiana e della latina eloquenza», sì che non rimase
un posto solo in cui non si componesse «un canzoniere»
e non si lodassero «le trecce bionde di madonna, l’angelico
viso o il castissimo e soavissimo sguardo di lei»: mentre da un
lato dilagavano «romanzi in ottava rima pieni di stregheria,
di palagi incantati, di cavalli volanti, di cavalieri che con
una lancia scompigliavano un intero esercito», produzioni
letterarie tutte «seducenti all’immaginazione, ma nemiche
giurate del buon senso», dall’altro spadroneggiavano «i
freddissimi e numerosi pedanti». Dall’egemonia del greco
si passò a quella del latino senza che sostanzialmente le
cose cambiassero, perché tutti quei fenomeni erano effetti
della vocazione italica al predominio delle parole sulle cose e dell’immaginazione sulla conoscenza scientifica della
realtà. Il quadro comincia un po’ a cambiare solo quando
la scienza prevale sulla poesia, anche se a fatica, annunciando un rinnovamento che però non può realizzarsi per
forza autoctona, se è vero che «il gran Galileo, l’onore
della patria nostra», sarebbe rimasto un caso isolato se non
fosse stato seguito da Newton, «quello di cui sarà glorioso
il nome insin che gli uomini conserveranno l’usanza di
pensare» («Caffè», p. ). Fosse dipeso dagli italiani soli,
essi si sarebbero crogiolati nelle acutezze barocche, che
nel Seicento presero il posto dei formalismi rinascimentali,

La lumaca e il cittadino
continuando a coltivare le loro «fanciullaggini» nelle varie
«accademie» letterarie (ivi, p. ).
La prospettiva verriana si fonda ancora sul confronto
con l’Europa, quando chiama in causa la «disistima in cui
le lettere d’Italia allora vennero tenute dall’estere nazioni».
E solo l’influsso della cultura straniera ridette slancio alle lettere italiane, quando «poco a poco» lo «spirito della
filosofia» penetrò nell’Europa, grazie al «gran lord Verulam», il quale «aveva eccitati gl’Inglesi a scuotere il giogo»
sulla scia dell’«immortale Galileo» che «nella nostra Italia
non minore spinta aveva data agl’ingegni»; così, se Bacone
«aveva fatto il disegno», Galileo «in parte aveva innalzato
l’edificio», finché non comparve «Des–Cartes, sublime e
benemerito genio, di cui gli errori stessi sono degni di
venerazione» («Caffè», p. ). E infine Newton venne, e lo
«spirito filosofico» si dilatò «oltre i confini della fisica» fino
a reggere e ad animare «l’eloquenza, la poesia, la storia, le
bell’arti tutte insomma», tanto che ora «il cuore umano
e i principii della sensibilità sono alfine più conosciuti di
quello che in prima non lo erano ed il senso della maggior
parte degli Europei è reso molto più squisito e dilicato
di quello che da lungo tempo non lo sia stato giammai»
(ivi, p. ). Nel disegno storico dei progressi dello spirito
umano, così come Pietro Verri lo traccia, l’Italia è dunque soprattutto oggetto, non soggetto di civilizzazione.
Sarà solo dall’alto dell’Europa che venti forti soffieranno e
spazzeranno le vecchie abitudini, finché la filosofia vera
si sostituirà alla filosofia falsa e soprattutto alla dilagante
retorica . Ma il rinnovamento resta precario, proprio per. Trovo analogie impressionanti fra questa diagnosi dell’identità italiana e quella compiuta da Antonio Gramsci nei suoi scritti giovanili. Non
credo che Gramsci avesse letto e meditato le opere di Verri, ma suppongo
La lumaca e il cittadino

ché l’Italia rimane genetica mente predisposta alla malattia
retorica: al dominio degli «aristotelici delle lettere», dei «tenaci adoratori delle parole», degli «inesorabili parolai», che
costituiscono «il più forte ostacolo che incontrano anche
al dì d’oggi in Italia i talenti che sarebbero dalla natura
altronde felicemente disposti per le lettere» (ivi, p. ).
Tale «disgrazia dell’Italia» deriva dal fatto che nel Rinascimento «si pretese di aver fissata la lingua, e si pretese di
più averla fissata con confini sì immobili che la lingua italiana della scrittura avrebbe dovuto avere tutta la rigidezza
delle lingue morte, perdendo quel naturale tornio e quella
pieghevolezza all’idee di ciascuno scrittore che forma il
primario genio delle lingue vive» (ivi, p. ).
L’altro difetto della cultura italiana sta nella predisposizione alle risse letterarie, evidente nell’«obbrobrioso spettacolo di due che, usurpandosi il luminoso carattere di
letterati, si prendono villanamente l’un l’altro pe’ capelli
e si rimescolano nel fango fralle fischiate e gli urli e lo
schiammazzo d’un ozioso gregge d’insensati partigiani»
(«Caffè», p. ). Questo difetto in realtà deriva dalla stessa
radice dell’altro: e così le due «cancrene», la «pedanteria
de’ parolai» e la «scurrilità de’ spaventacchi dell’infima letteratura», rappresentano i pesi del passato, dai quali «sembra
che a grandi passi vada liberandosi la nostra Italia», finché,
man mano che «saranno discreditati questi nemici degl’inche egli cogliesse un filone ‘anti–italiano’ di lunga durata nella stessa cultura
nazionale. Resta il fatto che anche secondo Gramsci, un secolo e mezzo
dopo, il rimedio alla decadenza e alla malattia d’Italia potrà venire solo da
un innesto violento e di fatto estraneo: un innesto prima culturale e ideologico, e poi, dal  in poi, rivoluzionario e immediatamente politico, da
parte della rivoluzione bolscevica. Mi permetto di rimandare al mio recente
volumetto Il paese di Pulcinella. Letteratura, rivoluzione, identità nazionale nel
giovane Gramsci, Bari, Palomar, .

La lumaca e il cittadino
gegni, l’Italia andrà distinguendosi fra le nazioni colte» e
potrà presto tornare «forse un’altra volta a far rivolgere verso di lei lo sguardo ammiratore d’Europa» (ivi, p. ). Se
il modello teorico dell’ottica straniata veniva dalle Lettres
Persanes, quello più immediato e concreto doveva riconoscersi a questo punto in altre «lettere», in quelle Lettere
virgiliane () lodate da Pietro Verri sul foglio  dello
stesso primo Tomo come «uno de’ più benemeriti libri»
che da molto tempo fossero stati fatti: come un libro il cui
autore dava «un giusto valore alle cose ed agli originali che
ci eravamo proposti d’imitare eternamente sotto pena di
risguardare come reo di lesa pedanteria chiunque osasse
uscire dallo strettissimo giro stabilito» (ivi, p. ). È noto che Bettinelli avrebbe voluto pubblicare sul «Caffè» le
successive Lettere inglesi, apparse invece nel  in edizione autonoma a cura di Pietro medesimo, il quale poi ne
scrisse al fratello ricordandogli che il nome dell’autore era
«un secreto» da non palesare (febbraio ; VPL, p. ).
In quel secondo libro, a detta di Pietro, vi erano «molte
verità», e «scritte con maggior libertà che non il primo»,
soprattutto là dove era più evidente la coincidenza con le
tesi del «Caffè», poiché il loro autore pensava «sulla letteratura italiana con tale ingenuità e franchezza» da osar
stampare «che non v’è Letteratura Italiana». «Trovatemi la
Filosofia Italiana, trovatemi una Tragedia, ecc.», proseguiva Verri, «mille potrete trovarne, bensì non una». In quel
libro v’era sì «della prolissità assai e del disordine», ma
esso pure rimaneva «un libro che spira libertà, che farà
fremere i Pedanti», come «una canna di più all’organo che
fa romore in favore del buon senso da introdursi nelle
nostre contrade» ( dicembre ; ivi, p. ).
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