L`Illuminismo lombardo e la politica del “Caffè”

L’Illuminismo lombardo e la politica de “Il Caffè”
Durante il XVIII secolo, l'Europa è testimone di notevoli cambiamenti culturali la cui
diretta conseguenza è costituita da una stagione rivoluzionaria che segnerà
indelebilmente l’esperienza della modernità. I testi costituzionali che testimoniano questa
esperienza sono infatti fortemente segnati dai principi filosofico- politici, tradizionalmente
individuati con il termine Illuminismo. Tale termine è usato dagli scrittori del tempo
che, guidati dai "Lumi" della ragione, sentono di uscire da un'epoca di oscurità e
ignoranza diretti verso una nuova era, segnata dall’emancipazione dell'uomo e dai
progressi della scienza.
L’ Illuminismo è il movimento culturale più complesso: non è semplicemente un sistema
di idee, ma un vero e proprio atteggiamento spirituale e culturale diffuso, che non si
limita solamente ai filosofi o agli intellettuali, ma anche in forme e campi diversi.
Nonostante l’Illuminismo nasca in Francia e qui si diffonda maggiormente, esso è un
fenomeno che investe tutta l’Europa, e ha origine sia dal privilegio accordato alla ragione
in tutti i campi del sapere, sia dalla fede assoluta nelle possibilità e nella validità
universale dell’intelletto umano. Quindi l’uso della ragione, la fiducia illimitata in essa e la
mentalità che era stata alla base della Rivoluzione scientifica del secolo precedente,
contribuiscono alla diffusione dell’Illuminismo; la luce della ragione e il desiderio di
conoscenza, illuminano e guidano le menti degli uomini sulla via del progresso, nelle
scienze e in ogni altro campo dell’esistenza, dando vita all’Age des lumières in Francia, a
l’Enlightenment in Inghilterra e all’Aufklarung in Germania.
La consapevolezza di vivere in un periodo in cui il “lume” della ragione prevale sul buio
dell’ignoranza e delle superstizioni ha portato a coniare l’espressione “età dei Lumi”. La
nuova idea di progresso umano dà agli illuministi un orientamento ottimistico nei
confronti della realtà e delle capacità dell’uomo di comprenderla. Si sviluppa così un altro
aspetto della mentalità illuministica, il primato delle scienze naturali, poiché attraverso la
scienza l’uomo è in grado di dominare la natura. Il secolo dei Lumi esordisce con una
critica universale al passato. Gli sforzi degli illuministi, si indirizzano verso quelli che
erano considerati i tre mali principali della società: il pregiudizio di nascita, cioè il
privilegio nelle sue svariate forme; il pregiudizio politico, cioè l’assolutismo; il pregiudizio
religioso, cioè la superstizione.
Capitale sarà per tutti gli spiriti illuminati d’Europa, la lettura de “L’Esprit des lois”,
pubblicato nel 1748 dal giurista e filosofo francese Montesquieu. Anche se la vera bibbia
di questo movimento culturale deve essere considerata l'Encyclopédie, o Dizionario
ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri. Iniziata a pubblicare a Parigi dal filosofo
Diderot, con la collaborazione del matematico D'Alembert, oltre ad essere un compendio
per la diffusione delle conoscenze, costituirà un formidabile strumento di opposizione
politica, contribuendo a creare quella che oggi definiamo opinione pubblica. Si costituisce
addirittura, intorno all’Encyclopédie, un gruppo di pressione con dichiarati propositi
riformatori al quale viene dato il nome di parti philosophique, sebbene con il termine
“partito” non si debba intendere una rigida struttura organizzativa. La sua pubblicazione,
per i temi innovativi ed a volte polemici, incontrano subito la strenua opposizione del
governo francese e della Chiesa romana. L’Enciclopédie, quella famosa macchina da
guerra intellettuale, sancisce il trionfo definitivo della Rivoluzione scientifica, delle sue
potenzialità emancipatrici e di progresso.
Ampia diffusione conosceranno gli scritti di Voltaire che, vero e proprio esempio di
intellettuale illuminista, inizia la sua carriera come drammaturgo e poeta pubblicando
pamphlets, saggi, satire e racconti brevi nei quali la vena satirico -letteraria catalizza la
diffusione di idee scientifico filosofiche, soprattutto tra le élites, come dimostra la
voluminosa corrispondenza intrattenuta con scrittori e sovrani europei. Esiste un vasto
dibattito circa l’omogeneità geografico -culturale di questo movimento. Ampia è la
letteratura che pur riconoscendo il predominio culturale del pensiero francese, tende ad
enfatizzare le peculiarità specifiche assunte dai diversi movimenti nazionali. Tale
attenzione alla ricezione locale non significa che non vi sia un nucleo di valori comuni che
attraversano le varie esperienze e che, senza dubbio, rappresentano le chiavi di lettura di
cui gli storici si sono serviti per analizzarle.
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L'Illuminismo è infatti un movimento cosmopolita: pensatori di nazionalità diverse si
sentono accomunati da una profonda unità d’intenti, mantenendo stretti contatti
epistolari fra loro e stringendo legami per diffondere le proprie idee, nonostante le
restrizioni imposte dalla censura governativa ed ecclesiastica. Il successo delle nuove
idee, sorretto dalla pubblicazione di riviste e libri e da nuovi esperimenti scientifici,
inaugurano una voga culturale che si diffonderà soprattutto tra i nobili ed il clero.
Tenendo conto dell’utopia che si nascondeva dietro la potenza livellatrice del mito della
scienza, occorre analizzare questo nucleo di valori nelle declinazioni territoriali nel loro
dettaglio. Tali declinazioni dipendono ovviamente da alcuni fattori determinanti e dalla
peculiare miscela con cui questi si amalgamano nelle differenti aree politico-culturali.
Se a caratterizzare l’impronta culturale delle varie aree geografiche sarà di volta in volta
la ricezione di una sensibilità epistemologica deduttivo -cartesiana tipicamente francese,
piuttosto che un approccio empirico -induttivo più diffuso in Inghilterra, in generale
occorre tener presente le modalità di ricezione delle novità culturali con le esperienze
politico -sociali- economiche originali di ogni area, evitando di soffocare la originale
specificità dei discorsi politici.
Anche le esplorazioni geografiche offriranno un contributo alla costruzione di un nuovo
sguardo sul mondo, che rifiutando l’autorità di Aristotele e della Bibbia rivendica
l'osservazione diretta dei fenomeni e l'uso autonomo della ragione. Alcuni sovrani europei
affascinati dalla figura del filosofo-re, che Voltaire e altri hanno sapientemente descritto
nell’atto di illuminare il popolo, attuano una politica di riforme. Ad incarnare i panni dei
cosiddetti despoti illuminati sono Federico II di Prussia, Caterina II di Russia e Giuseppe
II d'Austria, fino a quando la Rivoluzione francese rivendicherà il primato della sovranità
popolare, contro l’elitarismo paternalistico che ha caratterizzato tale stagione. Sarà poi la
polemica romantica a denunciare quel rifiuto che è stato compiuto in nome
dell’onnipotenza e dell’insindacabilità della razionalità scientifica nei confronti delle
tradizioni e della storia.
Gli illuministi sono grandi ammiratori del sistema liberale inglese; in particolare
concordano sulla completa libertà di religione e di stampa, sulla fine del potere culturale
della Chiesa cattolica, sulla radicale limitazione dell'assolutismo regio. Voltaire, è
sicuramente l'autore che nella coscienza culturale settecentesca, meglio rappresenta i
caratteri, gli ideali e i limiti dell' Illuminismo francese. Nel 1734 egli fa conoscere alla
Francia il sistema parlamentare inglese, e nel 1748 Montesquieu dà man forte con le sue
opere a Voltaire, facendo un esame comparativo delle diverse forme di governo e
giungendo a concludere che il sistema delle leggi di ciascun paese ha uno «spirito» di cui
deve essere consapevole chi tentasse di attuarvi progetti riformatori. Il dispotismo
appare a Montesquieu una forma di governo tipica dei Paesi asiatici. Nella sua opera "Lo
spirito delle leggi", egli giudica poco adatta alla Francia la forma del governo
repubblicano; più confacente alla realtà francese appare la necessità di affidare i tre
poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario a tre distinti organi: parlamento, il re ed il suo
governo, la magistratura. Montesquieu finisce così per auspicare una monarchia
costituzionale. Di diverso parere è Voltaire che invece vede in un monarca, anche
assoluto, ma illuminato il miglior garante dei diritti e della libertà della borghesia contro
lo strapotere della nobiltà. Ben più radicali sono le teorie del filosofo Rousseau, il quale
ritiene che i mali della società siano riconducibili alla proprietà privata, alla
diseguaglianza economica, all'asservimento dei poveri ai ricchi. La sua soluzione è la
nascita di uno stato in cui tutto il popolo è sovrano, un cosiddetto stato democratico, in
cui il diritto alla proprietà privata è regolato nell'interesse generale della società.
Franco Venturi individua gli anni compresi tra il 1764 e il 1789 come il periodo saliente
del riformismo settecentesco italiano: il giurisdizionalismo, il razionalismo, l’Illuminismo,
il giansenismo stesso costituiscono le forze che, ereditate dalle generazioni precedenti,
trovano in quegli anni un punto di convergenza nella volontà di trasformare i costumi e le
leggi. Anche in Italia, dunque, il generale rinnovamento di idee che attraversava l’Europa,
giunge e s’intreccia con quel movimento politico per le riforme che si viene affermando,
seppure con tratti caratteristici inevitabilmente differenziati, nei vari stati della penisola.
Riforma: questo è il proposito che accomuna i piccoli ed attivi nuclei illuministi che in
Italia iniziano a far sentire la loro voce quando in Europa volge ormai al termine la guerra
dei Sette anni. Nel 1763 finisce l’ultimo grande conflitto dell’antico regime e si assiste,
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nel giro di pochi anni, alla fioritura illuminista della nostra penisola. La settima decade del
secolo porta lo slancio, l’entusiasmo, forse l’aspra e primaverile immaturità dello spirito di
riforma, che ovunque trova un progetto da avanzare, una legge nuova da volere.
Le idee illuministiche, giunte d'Oltralpe, contribuiscono alla nascita di un Illuminismo
italiano e a formare anche in Italia un nuovo tipo di intellettuale che non considera più la
cultura come evasione, bensì come impegno e contributo alla vita pubblica. Del nuovo
interesse per i temi dell’economia e delle riforme, dell’allargarsi delle prospettive culturali
in direzione della Francia e dell’Inghilterra già illuministiche, dell’esigenza di profondo
rinnovamento degli ordinamenti sociali e della vita pubblica, del bisogno infine di nuovi
orientamenti intellettuali e morali, maturati in Lombardia in questi anni, si fa portavoce
un gruppo di giovani, in gran parte patrizi, che aveva preso a riunirsi in casa di Pietro
Verri. Ad essi è stato affibbiato il nome, tra lo scherzoso ed il malevolo e comunque
immediatamente assunto a compiaciuta divisa di sfida, di Accademia dei Pugni.
In Italia i centri principali della cultura illuministica sono Napoli e Milano. Milano si
afferma come il centro propulsore, il modello di questa volontà di riforma che intorno ai
Verri e al Beccaria si va rapidamente allargando e approfondendo. Uno dei massimi
esponenti dell'Illuminismo milanese è Cesare Beccaria, che nel 1764 pubblica l'opera "Dei
delitti e delle pene", in cui critica i metodi di procedura giudiziaria e propone l'abolizione
della tortura e della pena di morte.
Frisi, Longo, Biffi e Gorani, sono tra gli scrittori e riformatori più caratteristici che allora si
formano o s’impongono all’attenzione. A Milano Pietro Verri che ha pubblicato saggi
d'argomento scientifico ed economico, viene chiamato dal governo imperiale di Maria
Teresa a partecipare al rinnovamento amministrativo. Partecipe nel 1761 alla Società dei
Pugni, dove si leggono e commentano le pubblicazioni più avanzate provenienti dalla
Francia e dall'Inghilterra, Pietro Verri è, con il fratello Alessandro, tra gli animatori de “Il
Caffè”, un giornale polemico ma il più vivace periodico dell’Illuminismo italiano, che fra il
1764 e il 1766 propone ai lettori una vigorosa problematica di rinnovamento civile e
culturale. All'intellettuale illuminista che ha ormai trovato una sua collocazione politica al
seguito del sovrano illuminato, il giornale serve a stabilire un contatto agile ed efficace
con quell'opinione pubblica sempre più attiva e con quei gruppi di pressione organizzata,
sufficientemente forti per avanzare le proprie istanze
“Il Caffè” nasce nel periodo in cui le botteghe di caffé si sviluppano rapidamente in
Inghilterra in seguito alla diffusione dell'uso della bevanda, alla quale vengono attribuite
grandi virtù salutari. I locali nei quali si serve il caffé, sui cui tavoli si trovano a
disposizione dei lettori «fogli di Novelle Politiche», segnano la fine della taverna, tra «il
tramonto della civiltà del vino, fatta di deliri, ebbrezze, invasamenti e l'inizio della civiltà
del caffé, fatta di riflessione, meditazione, chiarezza di idee». La caffetteria diventa un
luogo di incontro e di discussione, una specie di luogo reale-ideale dove si possono creare
quelle condizioni adatte a far nascere i periodici con la partecipazione attiva (con la
discussione) e passiva (con la lettura) dei lettori. Scopo della rivista è quindi chiaro:
svegliare i milanesi dall' intorpidimento cui si sono rassegnati fin da quando han chiamato
gli spagnoli a dirimere le loro beghe interne. Il titolo del periodico viene probabilmente
ricavato da una delle “chief scenes of action” del “Tatler” (“il chiacchierone”), che sono,
com’è noto, coffee-houses, play-houses, e l’apartment dello stesso Steele, e allude già
esso ai propositi antiaccademici degli editori. Quindi sia il titolo, che serve a presentare la
rivista come punto di raccolta delle discussioni che si tengono nel “Caffè”, sia
l’impostazione del periodico sono nuovi nella tradizione italiana.
L’idea di dispotismo non viene affatto rifiutata in toto dai riformatori lombardi:un despota
illuminato costituisce certamente un eccellente interlocutore in cui confidare per un
generale rinnovamento delle istituzioni. Nella ricerca dei mezzi e delle strade da
intraprendere per dare concretezza alle loro idee, gli uomini del “Caffé” confidano anche
nel contributo di un dispotismo illuminato. Rinunciare ad esso, d’altronde, significa
perdere l’unica possibilità d’azione immediata, che non può venire se non da Vienna.
L’intera esperienza dell’Illuminismo è contrassegnata da scritti nei quali la forma
letteraria è sostanza politica; basti pensare al pamphlet, genere letterario inventato da
Voltaire a scopi “politici”. Analogamente accade per “Il Caffé”, il quale rappresenta non
solo una precisa scelta editoriale voluta da Pietro Verri e condivisa da tutti gli altri autori
ma anche, se non soprattutto, la risultante formale di un preciso progetto politico:
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divulgare le idee e le conoscenze dei Lumi, associando una vis polemica prudente ma
efficace, ad un tono spesso venato di raffinato umorismo, tale da rendere gli scritti ad un
tempo penetranti e inattaccabili dalla censura.
Della unità d’intenti che anima gli scrittori del “Caffè”, aldilà delle ovvie differenziazioni
che sempre distinguono le forti personalità anche quando sono mosse da propositi
comuni, testimonia, d’altra parte, la somiglianza dei mezzi espressivi adottati, uno stile
energico e insieme spigliato, vivace e disinvolto fino ad essere talvolta francamente
provocatorio, eppure anche intenso e attento a non tradire nella parola i più intimi moti
dell’animo e perciò sempre chiaro, efficace, magari talvolta perentorio, ma comunque
rispettoso anch’esso di quella libertà che è “moto spontaneo della società” ma è anche,
per “naturale disposizione, intimo sentimento di ciascuno”. Di qui l’unità del tono del
“Caffè”: qualunque sia l’oggetto dell’articolo e chiunque ne sia l’autore l’intento
fondamentale è sempre uno, “presentare al pubblico le verità utili, spogliandole della noia
magistrale”. Componente essenziale della battaglia illuministica del "Caffè" è la sua
prospettiva letteraria e linguistica. Il problema della diffusione dei Lumi è infatti anche un
problema del linguaggio: "Cose e non parole" è uno dei motti del "Caffè", il cui linguaggio
non si limita a riprodurre passivamente la realtà, ma deve sapere attraversarla e
spiegarla; un linguaggio che taglia decisamente i ponti con il classicismo e il purismo
linguistico.
L’esperienza de “Il Caffè”, in quanto grande laboratorio di idee, costituisce certamente
una di quelle condizioni favorevoli che rendono possibile il ciclo di riforme attuate in
Lombardia tra gli anni ’60 e ’70, anche grazie al fatto che alcuni degli uomini legati alla
rivista operano concretamente entrando a far parte dell’amministrazione ed, in parte,
contribuiscono ad alimentare il consenso di un’opinione pubblica disponibile ad
appoggiare i progetti di cambiamento. Col sostegno dell’Imperatrice Maria Teresa e poi
con quello ancora più deciso ed “autoritario” di suo figlio Giuseppe II, molti dei
suggerimenti dei riformisti de “Il Caffé” possono essere attuati: l’indebolimento dei vincoli
fidecommissari, il frazionamento dei terreni comunali, le modificazioni contrattuali, le
misure di protezione del patrimonio boschivo, le opere di dissodamento di aree incolte, la
diffusione di coltivazioni legate a più intensi incrementi di profitto, sono tutti interventi
che trovano nelle pagine della rivista milanese una propedeutica riflessione teorica grazie
alla quale essi possono divenire realtà concrete che conducono l’economia lombarda, in
quegli anni, all’altezza delle aree più progredite d’Europa.
Laura Zecchi
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