manifesto degli economisti esterrefatti

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SOCIAL EUROPE SERIES
MANIFESTO
DEGLI ECONOMISTI
ESTERREFATTI
Photo: Atelier Teee / Flickr
Traduzione di: Serena Sciaraffa
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CRISI E DEBITO IN EUROPA
10 LUOGHI COMUNI E 22 PROVVEDIMENTI PROPOSTI
PER SBLOCCARE LA SITUAZIONE
CONTENUTI
Introduzione.......................................................... p. 2
10 luoghi comuni e 22 proposte ....................... pp. 3 - 17
Conclusioni........................................................... p. 18
This publication has been supported by the
European Commission Representation in the UK.
The opinions expressed are the authors’ alone.
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1
INTRODUZIONE
PRIMI FIRMATARI:
Philippe Askenazy (CNRS)
Thomas Coutrot
(scientific council of
ATTAC)
André Orléan (CNRS,
EHESS)
Henri Sterdyniak (OFCE)
La ripresa economica mondiale, consentita da una colossale iniezione di spese pubbliche nel
circuito economico (dagli Stati Uniti alla Cina) è fragile ma reale. Un solo continente è in
ritardo, l’Europa. Ritrovare il percorso di crescita non è più la sua priorità politica. Essa ha
intrapreso un’altra via: quella della lotta contro il deficit pubblico.
Nell’Unione Europea, questi deficit sono certo elevati – 7% in media nel 2010 – ma molto
meno dell’11% registrato negli Stati Uniti. Tanto che alcuni Stati nord-americani con un
peso economico maggiore della Grecia, come la California per esempio, sono quasi in
fallimento e i mercati finanziari hanno deciso di speculare sui debiti sovrani dei paesi europei,
in particolare quelli del Sud. L’Europa è di fatto bloccata nella propria trappola istituzionale:
gli Stati devono prendere prestiti presso istituzioni finanziarie private che ottengono, esse,
liquidità a basso costo dalla Banca Centrale Europea. I mercati hanno dunque la chiave del
finanziamento degli Stati.
In questo quadro, l’assenza della solidarietà europea suscita la speculazione, tanto che le
agenzie di rating giocano ad accentuare le differenze.
C’è stato bisogno della degradazione, il 15 giugno, del comunicato della Grecia da parte
dell’agenzia Moody, affinché i dirigenti europei recuperassero il termine “irrazionalità” che
avevano tanto utilizzato all’inizio della crisi dei subprimes. Allo stesso modo, si scopre ora che
la Spagna è maggiormente minacciata dalla fragilità del suo modello di crescita e del suo
sistema bancario che dal suo indebitamento pubblico.
Per “rassicurare i mercati”, è stato improvvisato un Fondo di stabilizzazione dell’euro, e sono
stati lanciati in Europa alcuni piani drastici e spesso indiscriminati di riduzione delle spese
pubbliche. Gli impiegati pubblici saranno i primi a esserne colpiti, anche in Francia, dove
l’aumento delle quote di pensione sarà un abbassamento camuffato dei loro stipendi. Il
numero di impiegati diminuisce ovunque, minacciando i servizi pubblici. Le prestazioni
sociali, dai Paesi Bassi al Portogallo passando per la Francia, con l’attuale riforma delle
pensioni, sono sulla via di essere gravemente amputate. La disoccupazione e il precariato si
svilupperanno necessariamente negli anni a venire. Queste misure sono irresponsabili da un
punto di vista politico e sociale ma anche da un piano strettamente economico.
Questa politica, che ha provvisoriamente calmato la speculazione, ha già delle conseguenze
sociali negative in numerosi paesi europei, in particolar modo sui giovani, sul mondo del
lavoro e sui più deboli. Alla fine essa aumenterà le tensioni in Europa e minaccerà di questo
la stessa costruzione europea che è molto più che un progetto economico. L’economia si
presume essere al servizio della costruzione di un continente democratico, pacifico e unito. Al
posto di ciò, s’impone dappertutto una forma di dittatura dei mercati, soprattutto oggi in
Portogallo, in Spagna e in Grecia, tre paesi che avevano ancora delle forme di dittature
all’inizio degli anni ‘70, appena quarant’anni fa.
Che la si interpreti come il desiderio di “rassicurare i mercati” da parte dei governi
spaventati, o come un pretesto per imporre scelte dettate da un’ideologia, la sottomissione a
questa dittatura non è accettabile, tanto che essa ha già dato prova di inefficienza economica
e del suo potenziale distruttivo sul piano politico e sociale. Deve dunque essere intrapreso in
Francia e in Europa, un vero dibattito democratico sulle scelte di politica economica. La
maggior parte degli economisti che intervengono nel dibattito pubblico lo fanno per
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giustificare o razionalizzare la sottomissione delle politiche alle esigenze dei mercati
finanziari.
Certo, i governi hanno dovuto improvvisare dappertutto piani di rilancio keynesiano e a volte
anche nazionalizzare temporaneamente alcune banche. Ma vogliono chiudere al più presto
questa parentesi. Il programma neoliberale è sempre l’unico ad essere riconosciuto legittimo,
nonostante i suoi evidenti fallimenti. Fondato sull’ipotesi d’efficienza dei mercati finanziari, si
propone di ridurre la spesa pubblica, di privatizzare i servizi pubblici, di rendere flessibile il
mercato del lavoro, di liberalizzare il commercio, i servizi finanziari e il mercato dei capitali,
incrementare la concorrenza sempre e ovunque…
Come economisti siamo esterrefatti nel vedere che queste politiche sono sempre all’ordine
del giorno e che i loro fondamenti teorici non vengono ritirati in ballo. Tuttavia, gli
argomenti avanzati da trent’anni per orientare le scelte delle politiche economiche europee
sono messi in discussione dai fatti. La crisi ha messo a nudo il carattere dogmatico e
infondato della maggior parte delle cosiddette evidenze ripetute a sufficienza dai responsabili
delle politiche e dai loro consulenti. Che si tratti dell’efficienza e della razionalità dei mercati
finanziari, della necessità di tagliare le spese per ridurre il debito pubblico, o di rinforzare il
“patto di stabilità”, bisogna interrogare queste prove false e mostrare la pluralità di scelte
possibili in materia di politica economica. Altre scelte sono possibili o auspicabili, a
condizione innanzitutto di allentare la morsa imposta dal settore finanziario alle politiche
pubbliche.
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LUOGO COMUNE N°1
“I MERCATI FINANZIARI SONO EFFICIENTI”
Mostriamo di seguito una presentazione
critica di dieci luoghi comuni che continuano
a ispirare ogni giorno le decisioni dei poteri
pubblici in tutta Europa, malgrado le amare
smentite apportate dalla crisi finanziaria e le
sue conseguenze. Si tratta di luoghi comuni
che ispirano disposizioni ingiuste e inefficaci,
davanti alle quali avanziamo ventidue
controproposte. Ciascuna di esse non è
approvata necessariamente all’unanimità dai
firmatari di questo testo, ma devono essere
prese sul serio se si vuol far uscire l’Europa
da questo vicolo cieco.
Oggi, agli occhi di tutti s’impone un
fatto: il ruolo fondamentale che interpretano
i mercati finanziari nel funzionamento
dell’economia. Questo è il risultato di una
lunga evoluzione iniziata alla fine degli anni
settanta. In qualsiasi modo la si misuri,
questa evoluzione segna una rottura netta,
tanto quantitativa che qualitativa, rispetto ai
decenni precedenti. Sotto la pressione dei
mercati finanziari, la regolamentazione
d’insieme del capitalismo si è trasformata in
profondità, facendo venir fuori una forma
inedita di capitalismo che alcuni hanno
chiamato “capitalismo patrimoniale”,
“ c a p i t a l i s m o fi n a n z i a r i o ” o a n c o r a
“capitalismo neoliberale”.
Questi cambiamenti hanno trovato la
loro giustificazione teorica nell’ipotesi
d’efficienza informativa. Infatti, secondo
questa ipotesi, è importante sviluppare i
mercati finanziari e fare in modo che questi
possano funzionare il più liberamente
possibile, perché costituiscono l’unico modo
di utilizzo efficace del capitale. Le politiche
portate avanti con ostinazione da trent’anni
sono in linea con questa raccomandazione. Si
è venuto così a creare un mercato finanziario
integrato a livello globale nel quale tutti i
protagonisti (imprese, famiglie, Stati,
istituzioni finanziarie) possono scambiare
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tutti i tipi di titoli (azioni, obbligazioni, debiti,
derivati, valute) per tutti i tipi di scadenze
(lungo termine, medio termine, breve
termine). I mercati finanziari sono arrivati ad
assomigliare al mercato “senza attrito” dei
manuali: il discorso economico è riuscito a
creare la realtà. Essendo i mercati sempre più
“perfetti” al livello della teoria economica
dominante, gli analisti hanno creduto che il
sistema finanziario fosse ormai ben più
stabile che nel passato. La “grande
moderazione” – questo periodo di crescita
economica senza aumento di salari vissuto
dagli USA dal 1990 al 2007 – è parso
confermarlo.
Ancora oggi il G20 persiste nell’idea che
i mercati finanziari sono il modo ideale di
utilizzo del capitale. Il primato e l’integrità
dei mercati finanziari restano gli obiettivi
finali che persegue il suo nuovo regolamento
finanziario. La crisi non viene interpretata
come un risultato inevitabile della logica dei
mercati liberalizzati, ma come l’effetto della
disonestà e dell’irresponsabilità di certi
protagonisti della finanza male inquadrati dal
potere pubblico.
Eppure la crisi ha dimostrato che i
mercati non sono efficienti, e che non
permettono un uso efficace del capitale. Le
conseguenze di ciò in materia di regolamento
e di politica economica sono immense. La
teoria dell’efficienza si basa sull’idea che gli
investitori cercano e trovano l’informazione
più affidabile possibile sul valore dei progetti
concorrenti per trovare un finanziamento.
Credendo a questa teoria, il prezzo che si
forma su un mercato riflette il giudizio degli
investitori e sintetizza l’insieme
dell’informazione disponibile: costituisce
dunque una buona stima del vero valore dei
titoli. Ma questo valore si suppone riassume
l’intera informazione necessaria per orientare
l’attività economica e così la vita sociale.
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PROVVEDIMENTI
Così, il capitale si investe nei progetti più
redditizi e abbandona i progetti meno
efficaci. Questa è l’idea principale di tale
teoria: la concorrenza finanziaria produce dei
prezzi giusti che costituiscono dei segnali
affidabili per gli investitori e orientano in
maniera efficace lo sviluppo economico.
Ma la crisi ha confermato le diverse
opere critiche che avevano messo in dubbio
questa proposta. La concorrenza finanziaria
non produce necessariamente dei prezzi
adeguati. Peggio: la concorrenza finanziaria è
spesso destabilizzante e conduce evoluzioni
di prezzo eccessive e irrazionali, le bolle
finanziarie.
L’errore più g rande della teoria
dell’efficienza dei mercati finanziari consiste
nel trasporre ai prodotti finanziari la teoria
abituale dei mercati dei beni ordinari. Su
questi ultimi, la concorrenza è in parte auto
regolatrice in virtù di quello che chiamiamo
la “legge” della domanda e dell’offerta:
quando il prezzo di un bene aumenta, i
produttori aumentano la loro offerta e gli
acquirenti riducono la domanda; il prezzo
dunque si abbassa e torna circa al suo livello
di equilibrio. In altre parole, quando il prezzo
di un bene aumenta, delle forze di richiamo
tendono a frenare e poi a invertire questo
aumento. La concorrenza produce quelli che
chiamiamo “feedback negativi”, delle forze di
richiamo che vanno nel senso contrario dello
scontro iniziale. L’idea di efficienza nasce da
una trasposizione diretta di questo
meccanismo verso il finanziamento del
mercato.
Ma, per quest’ultimo la situazione è
molto diversa. Quando il prezzo aumenta, è
frequente osservare non un abbassamento
ma un aumento della domanda! Infatti
l’aumento del prezzo significa un incremento
di rendimento per coloro che possiedono il
titolo, a causa del plus-valore realizzato.
L’aumento del prezzo attira dunque nuovi
acquirenti, cosa che rinforza ulteriormente
l’aumento iniziale. Le promesse di riduzioni
spingono i traders ad amplificare ancora il
movimento. Fino all’incidente, imprevedibile
ma inevitabile, che provoca l’inversione
dell’anticipazione e il crac. Questo fenomeno
degno della pecora di Panurge è un processo
a “feedback positivi” che aggrava lo
squilibrio. E’ la bolla speculativa: un
aumento cumulativo dei prezzi che si
alimenta esso stesso. Questo tipo di processo
non produce prezzi equi ma al contrario
prezzi inadeguati.
La posizione di rilievo occupata dai
mercati finanziari non può dunque condurre
a una qualsiasi efficacia. Inoltre è fonte
permanente d’instabilità come dimostra
chiaramente la serie infinita di bolle che
abbiamo visto da 20 anni: Giappone, Sud-Est
Asiatico, Internet, Mercati emergenti, settore
immobiliare, Cartolarizzazione. L’instabilità
finanziaria si traduce così attraverso forti
oscillazioni dei tassi di cambio e della Borsa,
ovviamente senza nessun rapporto con i
fondamenti dell’economia. Questa instabilità,
nata dal settore finanziario, si propaga
all’economia reale attraverso molteplici
meccanismi.
Per ridurre l’inefficienza e l’instabilità dei mercati finanziari, suggeriamo
quattro provvedimenti:
Provvedimento 1: dividere rigorosamente i mercati finanziari e le attività dei
protagonisti della finanza, proibire alle banche di speculare per proprio conto, per evitare la
propagazione di bolle e di crac.
Provvedimento 2: Ridurre la liquidità e la speculazione de stabilizzatrice attraverso
controlli sui movimenti dei capitali e delle tasse sulle transazioni finanziarie.
Provvedimento 3: Limitare le transazioni finanziarie a quelle rispondenti ai bisogni
dell’economia reale (es: CDS solo per i detentori di titoli assicurati, ecc.)
Provvedimento 4: limitare la remunerazione dei traders.
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LUOGO COMUNE N°2:
“I MERCATI FINANZIARI SONO FAVOREVOLI ALLA
CRESCITA ECONOMICA”
PROVVEDIMENTI
L’integrazione finanziaria ha portato il
I
potere della finanza al suo apice in quanto
essa unifica e centralizza la proprietà
capitalista su scala mondiale. Ormai è essa
che determina le norme di rendimento
richieste dall’insieme dei capitali. Il progetto
consiste nella sostituzione del finanziamento
del mercato al finanziamento bancario degli
investitori. Progetto che d’altronde è fallito
poiché oggi, nel complesso, sono le imprese
che finanziano gli azionisti invece del
contrario. La governance delle imprese si è
tuttavia profondamente trasformata per
raggiungere le regole di rendimento del
mercato. Con l’aumento di valore degli
azionisti, si è imposta una nuova concezione
dell’impresa e della sua gestione, pensata al
servizio esclusivamente dell’azionista. L’idea
di un interesse comune alle diverse parti
legate all’impresa è scomparso. Ormai i
dirigenti delle imprese quotate in Borsa
hanno quale prima e unica missione quella
di soddisfare il desiderio di arricchimento
degli azionisti. Di conseguenza, cessano essi
stessi di essere dei dipendenti, come
dimostra il picco smisurato della loro
remunerazione. Come anticipa la teoria
dell’ “agenzia” si tratta di fare in modo che
gli interessi dei dirigenti siano convergenti
con quelli degli azionisti. Il ROE (Return
On Equity o redditività del capitale proprio)
dal 15% al 25% è ormai la regola che il
potere della finanza impone alle imprese e
ai dipendenti. La liquidità è lo strumento di
questo potere, permettendo in qualsiasi
momento ai capitali non soddisfatti di
andare a cercare altrove. Di fronte a questa
potenza, il dipendente come la sovranità
politica, appaiono in stato d’inferiorità a
causa del loro frazionamento. Questa
situazione di squilibrio porta a esigenze di
profitto irragionevoli, poiché frenano la
crescita economica e portano a un continuo
aumento delle disuguaglianze di reddito. Da
una parte le esigenze di guadagno
impediscono molto gli investimenti: più il
rendimento richiesto è elevato, più è difficile
trovare dei progetti sufficientemente efficaci
per soddisfarlo. I tassi d’investimento
restano storicamente affidabili in Europa e
negli Stati-Uniti. Dall’altra parte, queste
esigenze provocano una pressione costante
sul calo dei salari e del potere d’acquisto,
cosa che non è favorevole per la domanda.
La frenata simultanea dell’investimento e
del consumo conduce a una crescita
affidabile e a una disoccupazione diffusa.
Questa tendenza è stata contrastata nei
paesi anglosassoni dall’aumento
dell’indebitamento delle famiglie e dalle
bolle finanziarie che creano una ricchezza
fittizia, permettendo una crescita del
consumo senza salari finendo però in una
crisi.
Per porre rimedio agli effetti negativi dei mercati finanziari sull’attività
economica proponiamo tre provvedimenti:
Provvedimento n°5: rinforzare in maniera significativa il contro-potere nelle imprese al
fine di obbligare le direzioni a prendere in considerazione gli interessi dell’insieme delle parti
impegnate.
Provvedimento n°6: Aumentare fortemente l’imposizione dei redditi più alti così da
scoraggiare la corsa a rendimenti insostenibili.
Provvedimento n°7: ridurre la dipendenza delle imprese di fronte ai mercati finanziari
sviluppando una politica del credito (tariffe preferenziali per attività prioritarie a livello sociale
e ambientale)
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LUOGO COMUNE N°3:
“I MERCATI SONO OTTIMI GIUDICI DELLA
SOLVIBILITA’ DEGLI STATI”
Secondo i sostenitori dell’efficienza dei
mercati finanziari, gli operatori del mercato
prenderebbero in considerazione la
situazione oggettiva delle finanze pubbliche
per valutare il rischio di sottoscrivere un
prestito di Stato. Prendiamo il caso del
debito greco: gli operatori finanziari e i
responsabili politici fanno riferimento solo
alle valutazioni finanziarie per giudicare la
situazione. Così, quando il tasso richiesto
alla Grecia è salito a più del 10%, tutti ne
hanno dedotto che il rischio di fallimento
era vicino: se gli investitori esigono tale
premio di rischio, il pericolo è estremo.
PROVVEDIMENTI
Q u e s t o è u n g r ave e r ro re s e n o i
comprendiamo la vera natura della
va l u t a z i o n e d a p a r t e d e l m e rc at o
finanziario. Esso non essendo efficiente,
produce molto spesso prezzi completamente
sconnessi dai fondamentali. In queste
condizioni non è ragionevole fare
affidamento alle sole valutazioni finanziarie
per giudicare una situazione. Valutare il
valore di un titolo finanziario non è
un’operazione paragonabile a una di
g r a n d e z z a o g g e t t i va , p e r e s e m p i o
all’estimazione del peso di un oggetto. La
sicurezza finanziaria è un diritto sui redditi
futuri: per valutarlo bisogna prevedere
quale sarà questo futuro. E’ una questione
di giudizio, non di misura oggettiva, perché
al momento il futuro non è affatto
predeterminato. Nelle stanze della finanza,
il futuro non è altro che ciò che gli operatori
immaginano sarà. Un premio in denaro è il
risultato di una decisione, di una credenza,
di una scommessa sull’avvenire: non esiste
alcuna garanzia che le sperimentazioni dei
mercati abbiano qualcosa di superiore su
altre for me di sperimentazione. In
particolare, la valutazione finanziaria non è
affatto neutra: essa riguarda l’oggetto
misurato, avvia e costruisce il futuro che
immagina. Così le agenzie di rating
c o n t r i bu i s c o n o i n l a r g a m i s u r a a
determinare i tassi d’interesse sui mercati
obbligazionari assegnando note prese in
prestito di grande soggettività viste come
volontà di alimentare l’instabilità, risorsa di
profitti speculativi. Quando esse degradano
la valutazione di uno Stato, esse aumentano
i tassi d’interesse applicati agli operatori
finanziari per acquisire i titoli di debito
pubblico di quello Stato e di conseguenza
aumentare il rischio di fallimento che hanno
annunciato.
Per ridurre l’influenza della psicologia di mercato sul finanziamento degli
Stati proponiamo due provvedimenti:
Provvedimento n°8: le agenzie di rating non dovrebbero essere autorizzate a pesare
arbitrariamente sui tassi d’interesse dei mercati obbligazionari abbattendo le note di uno
Stato: essa dovrebbe regolare la propria attività esigendo che questa nota risulti da un calcolo
economico trasparente.
Provvedimento n° 8bis: liberare gli Stati dalla minaccia dei mercati finanziari
garantendo l’acquisto di titoli pubblici da parte della BCE (Banca Centrale Europea).
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LUOGO COMUNE N°4:
“L’IMPENNATA DEI DEBITI PUBBLICI DERIVA DA
UN ECCESSO DI SPESE”
Michel Pébereau, uno dei “padrini” della
banca francese, descriveva nel 2005 in uno di
questi rapporti ufficiali ad hoc, una Francia
soffocata dai debiti pubblici e che sacrificava
le sue generazioni future dedicandosi a
sconsiderate spese sociali. Lo stato si indebita
come un padre di famiglia alcolizzato che
beve al di sopra dei propri mezzi: questa è la
visione di solito diffusa dalla maggior parte
degli editorialisti. Eppure la recente
esplosione del debito pubblico in Europa e nel
mondo è dovuta a tutt’altra cosa: ai piani di
salvataggio della finanza e soprattutto alla
recessione causata dalla crisi bancaria e
finanziaria cominciata nel 2008: il deficit
pubblico medio nella zona dell’euro nel 2007
era solo dello 0,6% del PIL, mentre la crisi lo
ha fatto salire al 7% nel 2010. Nello stesso
tempo il debito pubblico è cresciuto dal 66%
all’84% del PIL.
PROVVEDIMENTI
Tuttavia l’aumento del debito pubblico, in
Francia e in numerosi paesi europei all’inizio
è stato moderato e precedente a questa
recessione: non viene da una tendenza al
rialzo delle spese pubbliche – dal momento
che queste, in rapporto al PIL, sono stabili o
in declino nell’Unione Europea dall’inizio
degli anni ’90 – ma dallo sgretolamento delle
entrate pubbliche, a causa della debole
crescita economica per tutto il periodo, e
dalla contro-rivoluzione fiscale condotta dalla
maggior parte dei governi da venticinque
anni. Sul lungo periodo la contro-riforma
fiscale ha di continuo alimentato il
rigonfiamento del debito da una recessione
all’altra. In Francia un recente rapporto
parlamentare quantifica a 100 miliardi nel
2010 il costo dei tagli fiscali attuati tra il 2000
e 2010, senza includere le esenzioni dei
contributi sociali (30 miliardi) e di altre “spese
fiscali”. In assenza di armonizzazione fiscale,
gli Stati europei si sono lasciati andare alla
concorrenza fiscale, abbassando le imposte
sulle società, sui redditi alti e sui patrimoni.
Anche se il peso relativo delle sue
determinanti varia da un paese all’altro,
l’aumento quasi generale del deficit pubblico
e dei rapporti di debito pubblico in Europa
nel corso degli ultimi trent’anni, non risulta
principalmente da una deriva colpevole delle
s p e s e p u bbl i ch e. U n a d i a g n o s i ch e
evidentemente apre ad altre piste dalla solita
riduzione delle spese pubbliche.
Per ripristinare un dibattito pubblico cosciente dell’origine del debito e
dunque dei metodi di rimedio avanziamo una proposta:
Provvedimento n°9: Condurre una verifica del debito pubblico e cittadino, per
determinare la loro origine e conoscere l’identità dei principali possessori di titoli di debito e
gli importi detenuti.
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LUOGO COMUNE N° 5
“BISOGNA TAGLIARE LE SPESE PER RIDURRE IL
DEBITO PUBBLICO”
PROVVEDIMENTI
Anche se l’aumento del debito pubblico
risultava in parte da un aumento della spesa
pubblica, effettuare dei tagli nelle spese non
contribuirà per forza a giungere alla
soluzione. Poiché la dinamica del debito
pubblico non ha molto a che vedere con
quella di una famiglia: la macroeconomia
non è riducibile all’economia domestica. La
dinamica di questo debito dipende in linea
generale da diversi fattori: il livello di deficit
primario, ma anche il divario tra il tasso
d’interesse e il tasso di crescita nominale
dell’economia.
Infatti se quest’ultimo è inferiore al tasso
d’interesse, il debito aumenterà
meccanicamente a causa dell’ “effetto
valanga” : l’importo degli interessi esplode e
il deficit totale (compresi gli interessi di
debito) anche. Così, agli inizi degli anni ’90,
la politica del franco forte condotta da
Bérégovoy e portata avanti malgrado la
recessione del 1993-94 ha rivelato un tasso
d’interesse superiore al tasso di crescita,
spiegando l’impennata del debito pubblico
della Francia in quel periodo. Questo è lo
stesso meccanismo che spiega l’aumento del
debito nella prima metà degli anni ’80, sotto
l’impatto della rivoluzione neoliberale e della
politica degli alti tassi d’interesse condotta da
Ronald Reagan e Margaret Thatcher.
Ma il tasso di crescita della stessa
economia non è indipendente dalla spesa
pubblica: nel breve periodo l’esistenza della
spesa pubblica stabile limita l’ampiezza delle
recessioni (“stabilizzatori automatici”); a
lungo termine gli investimenti e la spesa
pubblica (educazione, sanità, ricerca,
infrastrutture …) stimolano la crescita. E’
sbagliato affermare che il deficit pubblico
aumenta ulteriormente il debito pubblico, o
che la riduzione del deficit permette di
ridurre il debito. Se la riduzione del deficit
arresta l’attività economica, il debito si
appesantirà ancora di più. I commentatori
liberali sottolineano che certi paesi (Canada,
Svezia, Israele) hanno realizzato brutali
adeguamenti dei proprio conti pubblici negli
anni ’90 e conosciuti immediatamente dopo
un forte rimbalzo della crescita.
Ma ciò è possibile solo se l’adeguamento
riguarda un paese isolato, che riconquista
rapidamente la competitività sui suoi
concorrenti. Ciò che evidentemente
dimenticano i sostenitori dell’adeguamento
strutturale europeo, è che i paesi europei
hanno quali principali clienti e concorrenti
gli altri paesi europei, essendo l’Unione
Europea globalmente poco aperta verso
l’esterno. Una simultanea e massiccia
riduzione della spesa pubblica dell’insieme
dei paesi dell’Unione non può non avere
come effetto che una recessione aggravata e
dunque un ulteriore aumento del debito.
Per evitare che il ripristino della pubblica finanza provochi un disastro
sociale e politico proponiamo due provvedimenti:
Provvedimento n°10: Mantenere il livello delle tutele sociali, o cercare di
migliorarle (assicurazione contro la disoccupazione, alloggi);
Provvedimento n°11: aumentare la dotazione di bilancio in materia di educazione,
di ricerca, d’investimento nella riconversione ecologica … per creare le condizioni di una
crescita sostenibile, permettendo un forte calo della disoccupazione.
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LUOGO COMUNE N°6
“IL DEBITO PUBBLICO RIVERSA IL PESO DEI
NOSTRI ECCESSI SUI NOSTRI BAMBINI”
ricchi hanno potuto acquisire i titoli
(fruttiferi) del debito pubblico emessi per
finanziare il deficit pubblico provocato dagli
sgravi fiscali … Il servizio del debito pubblico
rappresenta in Francia 40 miliardi di euro
l’anno, quasi quanto le entrate delle tasse sui
redditi. Impresa tanto più brillante che è
riuscita poi a far credere al pubblico che il
debito fosse colpa degli impiegati, dei
Infatti basandosi sulla crescita, raramente pensionati e dei malati.
verificata, secondo la quale diminuire le tasse
stimolerebbe la crescita e aumenterebbe le L’aumento del debito pubblico in Europa o
entrate pubbliche, gli Stati europei hanno dal negli Stati Uniti non è dunque il risultato di
1980 imitato gli USA in una politica di minor politiche keynesiane espansioniste o di
sistema fiscale. I tagli fiscali e i contributi si politiche sociali dispendiose ma piuttosto di
sono moltiplicati (sugli utili aziendali, sui una politica in favore delle classi privilegiate:
redditi più alti, sui beni, sui contributi …) ma le “spese fiscali” (cali fiscali e dei contributi)
il loro impatto sulla crescita economica è aumentano il reddito disponibile di coloro
rimasto molto incerto. Queste politiche fiscali c h e n e h a n n o m e n o b i s o g n o , c h e
anti-ridistributive hanno dunque aggravato in all’improvviso possono aumentare i propri
una volta, e tutte insieme, le illegalità sociali e investimenti specialmente nei Buoni del
i deficit pubblici.
Tesoro, i quali sono remunerati in interessi
dalle tasse prelevate su tutti i contribuenti.
Queste politiche fiscali hanno costretto le Alla fine si istituisce un meccanismo di
amministrazioni pubbliche a indebitarsi con ridistribuzione al rovescio, dalle classi
le famiglie agiate e con i mercati finanziari popolari verso le classi benestanti, attraverso
per finanziare il deficit così creato. Questo è il debito pubblico di cui la contropartita resta
quello che potremmo chiamare “l’effetto sempre la rendita privata.
jackpot”: con i soldi risparmiati sulle tasse, i
PROVVEDIMENTI
Si tratta di un’altra falsa affermazione che
confonde l’economia domestica e la
macroeconomia, quella secondo la quale il
debito pubblico sarebbe un trasferimento di
ricchezza a scapito delle generazioni future. Il
debito pubblico è un meccanismo di
trasferimento di ricchezze, ma è soprattutto
dei contribuenti ordinari verso redditieri.
Per recuperare in modo equo le finanze pubbliche in Europa e in Francia
proponiamo due provvedimenti:
Provvedimento n°12: ridare un carattere redistributivo alla tassazione diretta sui
redditi (soppressione delle nicchie, creazione di nuove unità e aumento dei tassi d’interesse sul
reddito …)
Provvedimento n°13: rimuovere le esenzioni concesse a imprese senza sufficiente
effetto sull’occupazione.
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10
LUOGO COMUNE N°7
“E’ NECESSARIO RASSICURARE I MERCATI PER
FINANZIARE IL DEBITO PUBBLICO”
PROVVEDIMENTI
A livello mondiale, l’aumento del debito
p u bbl i c o d eve e s s e re a n a l i z z at o i n
correlazione con la finanziarizzazione. Negli
ultimi trent’anni, grazie alla completa
liberalizzazione dei flussi di capitale, la
finanza ha notevolmente aumentato la sua
influenza sull’economia. Le grandi imprese
ricorrono sempre meno ai prestiti bancari ma
sempre di più ai mercati finanziari. Anche le
famiglie vedono una parte sempre maggiore
dei loro risparmi drenati per finanziare i loro
pensionamenti attraverso diversi modi di
investimento o in alcuni paesi attraverso il
mutuo delle loro case (ipoteche). I gestori
tentano di diversificare il rischio, cercano dei
titoli pubblici come supplemento dei privati.
Li trovano facilmente sul mercato poiché i
governi conducono politiche simili portando
a uno sviluppo del deficit: tassi d’interesse
elevati, riduzioni fiscali mirate sui redditi alti,
grandi incentivi finanziari per il risparmio
delle famiglie per sostenere le pensioni
attraverso la capitalizzazione, ecc.
Al livello dell’UE, la finanziarizzazione del
debito pubblico è stata inclusa nel trattato di
Maastricht e da quel momento le Banche
centrali hanno il divieto di finanziare
direttamente gli Stati, che devono trovare
finanziatori sui mercati finanziari.
Questa “repressione monetaria”
accompagna la “liberalizzazione finanziaria”
e prende la strada contraria delle politiche
adottate dopo la grande crisi degli anni ’30,
di “repressione finanziaria” (restrizione
drastica della libertà di azione della finanza) e
di “liberalizzazione monetaria” (con la fine
del gold-standard). Si tratta di sottomettere
gli Stati, presumibilmente di natura troppo
dispendiosa, alla disciplina dei mercati
finanziari per natura efficienti e onniscienti.
Risultato di queste scelte dottrinarie, la
Banca centrale europea non ha così il diritto
di sottoscrivere direttamente al pubblico
prestiti obbligazionari di Stati europei. Privati
della garanzia di potersi finanziare sempre
presso la Banca Centrale, i paesi del Sud
sono diventati così le vittime di attacchi
speculativi. Certo negli ultimi mesi, mentre
questa continuava a rifiutarsi in nome di
un’ortodossia impeccabile, la BCE ha
acquistato titoli di Stato a tassi di interesse del
mercato per calmare le tensioni sui mercati
obbligazionari europei. Ma nulla ci dice che
questo sarà sufficiente, se la crisi del debito si
aggrava e i tassi d’interesse del mercato si
alzano. Potrebbe allora essere difficile
mantenere questa ortodossia monetaria
privata delle serie basi scientifiche.
Per rimediare al problema del debito pubblico proponiamo due
provvedimenti:
Provvedimento n°14: autorizzare la Banca Centrale europea a finanziare direttamente
gli Stati(o imporre alle banche commerciali di sottoscrivere l’emissione di titoli di Stato) a
bassi tassi d’interesse, allentando la camicia di forza nella quale i mercati finanziari li
stringono.
Provvedimento n°15: se necessario, ristrutturare il debito pubblico, ad esempio
limitando il servizio di debito pubblico a una certa % del PIL, e operando una
discriminazione tra i creditori in base al volume dei titoli che detiene: i grandi redditieri
(individui o istituzioni) devono consentire un sensibile allungamento del profilo del debito, e
anche annullamenti parziali o totali. Bisogna anche rinegoziare i tassi d’interesse esorbitanti
di titoli emessi da paesi tormentati dalla crisi.
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LUOGO COMUNE N°8:
“L’UNIONE EUROPEA DIFENDE IL MODELLO
SOCIALE EUROPEO”.
La costruzione europea appare come
un’esperienza ambigua. Coesistono due
visioni dell’Europa che non osano affrontarsi
apertamente. Per i social-democratici
l’Europa avrebbe dovuto porsi come
obiettivo quello di promuovere il modello
sociale europeo, frutto di un compromesso
sociale e del post guerra, con il proprio
benessere sociale, i propri servizi pubblici e le
proprie politiche industriali. Essa sarebbe
dovuta essere un baluardo di fronte alla
globalizzazione liberale, un modo di
proteggere, di far vivere e progredire questo
modello. L’Europa avrebbe dovuto difendere
una visione specifica dell’organizzazione
dell’economia mondiale, la globalizzazione
regolata da organismi di governance
mondiale. Avrebbe dovuto permettere ai
paesi membri di mantenere un alto livello di
spese pubbliche e di ridistribuzione,
proteggendo le loro capacità e finanziandoli
attraverso la distribuzione della tassazione su
persone fisiche, imprese e redditi del capitale.
Ma l’Europa non ha voluto assumere la
sua specificità. Attualmente la visione
prevalente a Bruxelles e presso la maggior
parte dei governi nazionali è piuttosto quella
di un Europa liberale, il cui obiettivo è di
adattare le società europee alle esigenze della
globalizzazione: la costruzione europea è
l’occasione per mettere in discussione il
modello sociale europeo e deregolamentare
l’economia. La preminenza del diritto di
concorrenza sui regolamenti nazionali e sui
diritti sociali nel Mercato unico permette di
introdurre ulteriore concorrenza sui mercati
di prodotti e s erv izi, di diminuire
l’importanza dei servizi pubblici e di
organizzare la concorrenza tra i lavoratori
europei. La competizione sociale e fiscale ha
permesso di ridurre le tasse, in particolare sui
redditi di capitali e sulle imprese (le “basi
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mobili”), e di fare pressione sulle spese sociali.
I trattati garantiscono quattro libertà
fondamentali: la libera circolazione di
persone, merci, servizi e capitali. Ma lontano
dal limitarsi ai mercato interno, la libertà di
circolazione dei capitali è stata accordata a
investitori del mondo intero, sottomettendo
così il tessuto produttivo europeo ai vincoli di
valutazione dei capitali internazionali. La
costruzione europea appare come un modo
di imporre ai popoli riforme neoliberali.
L’Europa avrebbe dovuto permettere
ai paesi membri di mantenere un alto
livello di spese pubbliche e di
ridistribuzione, proteggendo le loro
capacità e finanziandoli attraverso la
distribuzione della tassazione su
persone fisiche, imprese e redditi del
capitale.
L’ o r g a n i z z a z i o n e d e l l a p o l i t i c a
macroeconomica (indipendenza della BCE
nei confronti della politica, Patto di stabilità)
è segnata dalla sfiducia verso i governi
democraticamente eletti. In questo modo si
stanno privando i paesi di ogni autonomia in
materia di politica monetaria come in
materia di bilancio. L’equilibrio di bilancio
deve essere raggiunto, ogni forma di politica
di discrezionalità di rilancio bandita, al fine
di non lasciare più agire che la
“stabilizzazione automatica”. Nessuna
politica economica comune è attuata a livello
di zona, nessun obiettivo comune non è
definito in termini di crescita o d’impiego. Le
diverse situazioni tra i paesi non sono
considerate, poiché il patto non riguarda né i
tassi d’inflazione né i deficit esteri nazionali;
gli obiettivi della finanza pubblica non
tengono conto delle situazioni economiche
nazionali. Le istituzioni europee hanno
tentato di stimolare riforme strutturali
12
PROVVEDIMENTI
(tramite i grandi orientamenti di politica
economica, il metodo aperto di
coordinamento o l’agenda di Lisbona) con un
successo incostante. Il loro modo di
elaborazione non è né democratico, né
stimolante, il loro orientamento liberale non
corrisponde obbligatoriamente alle politiche
decise a livello nazionale, dato il rapporto di
forza che esiste in ogni paese. Questo
orientamento non ha conosciuto per ora i
successi eclatanti che l’avrebbero legittimato.
Il movimento di liberalizzazione economica è
stato rimesso in discussione (fallimento della
direttiva Bolkestein); alcuni paesi hanno
tentato di nazionalizzare la propria politica
industriale mentre la maggior parte si
opponevano all’europeizzazione delle proprie
politiche fiscali o sociali. L’Europa sociale è
rimasta una parola vuota, solo l’Europa della
competizione e della finanza si è davvero
affermata.
Affinché l’Europa possa davvero promuovere un modello sociale europeo,
proponiamo due provvedimenti:
Provvedimento n°16: riformare la libera circolazione dei capitali e delle merci tra
l’Unione europea e il resto del mondo, negoziando degli accordi multilaterali o bilaterali se
necessario.
Provvedimento n°17: al posto della politica di competizione, fare dell’
“armonizzazione nel progresso” il filo conduttore della costruzione europea. Costituire degli
obiettivi comuni vincolanti da raggiungere nel progresso sociale così come in macroeconomia
(dei GOPS, grandi orientamenti di politica sociale).
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LUOGO COMUNE N°9:
“L’EURO E’ UNO SCUDO CONTRO LA CRISI”
L’euro sarebbe dovuto essere un fattore
protettivo contro la crisi finanziaria mondiale.
Dopo tutto, la soppressione di ogni incertezza
sui tassi di cambio tra le monete europee ha
eliminato un fattore più grande di instabilità.
Eppure così non è stato: l’Europa è ancor più
duramente e da più tempo colpita dalla crisi
rispetto al resto del mondo. Questo è dovuto
alle modalità stesse di costruzione dell’unione
monetaria. Dal 1999 la zona dell’euro ha
conosciuto una crescita relativamente
mediocre e un incremento delle divergenze
tra gli stati membri in termini di crescita, di
inflazione, di disoccupazione e squilibri
esterni. Il quadro della politica economica
della zona dell’euro, che tende a imporre
politiche macroeconomiche simili per paesi
con situazioni diverse, ha aumentato le
disuguaglianze di crescita tra gli Stati
membri. Nella maggior parte dei paesi, in
particolar modo nei più grandi,
l’introduzione dell’euro non ha provocato
l’aumento promesso di crescita. Per gli altri,
c’è stata crescita ma al prezzo di squilibri
difficilmente sostenibili. La rigidità monetaria
e fiscale, rafforzata dall’euro, ha contribuito a
spostare l’intero onere degli adattamenti sul
lavoro. Ha promosso la flessibilità e l’austerità
salariale, ridotto la quota degli stipendi nel
reddito totale, aumentato le disuguaglianze.
Questa corsa verso il meno sociale è stata
vinta dalla Germania, che ha saputo liberarsi
di importanti surplus commerciali a scapito
dei suoi vicini e soprattutto dei suoi propri
dipendenti, imponendo un calo del costo del
lavoro e delle prestazioni sociali, che gli ha
conferito un vantaggio commerciale rispetto
ai suoi vicini che non hanno potuto trattare i
propri dipendenti così duramente. Le
eccedenze commerciali tedesche pesano sulla
crescita degli altri paesi. I deficit di bilancio e
commerciali degli uni non sono altro che la
contropartita degli eccessi degli altri. Gli Stati
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membri non sono stati capaci di definire una
strategia coordinata.
La rigidità monetaria e fiscale,
rafforzata dall’euro, ha contribuito a
spostare l’intero onere degli
adattamenti sul lavoro.
La zona dell’euro sarebbe dovuta essere
meno toccata rispetto agli Stati Uniti o al
Regno-Unito dalla crisi finanziaria. Le
famiglie sono nettamente meno implicate nei
mercati finanziari che sono meno sofisticate.
Le finanze pubbliche erano in una migliore
condizione; il deficit pubblico dell’insieme dei
paesi della zona era del 0,6% del PIL nel
2007, quasi il 3% contro gli Stati Uniti, il
Regno Unito o il Giappone. Ma la zona
dell’euro ha sofferto di un aumento di
squilibri: i paesi del nord (Germania, Austria,
Paesi-Bassi, Paesi scandinavi) hanno soffocato
i propri stipendi e le proprie domande interne
e hanno accumulato delle eccedenze esterne,
mentre i paesi del Sud (Spagna, Grecia,
Irlanda) conoscevano una crescita vigorosa
guidata da bassi tassi d’interesse rispetto ai
tassi di crescita, accumulando deficit esterni.
Mentre la crisi finanziaria è partita dagli Stati
Uniti, questi hanno cercato di attuare una
vera politica di stimolo fiscale e monetario,
avviando un movimento di riregolamentazione finanziaria. L’Europa al
contrario non ha saputo adottare una politica
abbastanza reattiva. dal 2007 al 2010,
l’impulso fiscale è stato di circa l’1,6% del
PIL nella zona dell’Euro; del 3,2% nel Regno
Unito; del 4,2% negli Stati Uniti. La perdita
di produzione dovuta alla crisi è stata molto
più forte nella zona dell’euro che negli Stati
Uniti. L’incremento del deficit nella zona è
stato subito piuttosto come il risultato di una
politica attiva. Allo stesso tempo, la
Commissione ha continuato ad avviare
14
PROVVEDIMENTI
procedure di deficit eccessivo contro gli Stati
membri in modo che entro la metà del 2010
tutti gli Stati della zona sono stati presentati.
Essa ha chiesto agli Stati membri di
impegnarsi a tornare prima del 2013 o 2014
a meno del 3% indipendentemente
dall’evoluzione economica. Le autorità
europee hanno continuato a chiedere
politiche restrittive dei salari e hanno sfidato i
sistemi pubblici pensionistici e sanitari, con
l’evidente rischio di condurre il continente
nella depressione e aumentare le tensioni tra i
paesi. Questa mancanza di coordinazione e
ancor più l’assenza di un vero bilancio
europeo che ha permesso una solidarietà
effettiva tra gli Stati membri, hanno
sollecitato gli operatori finanziari a evitare
l’euro o addirittura a speculare apertamente
contro di lui.
Affinché l’euro possa realmente proteggere i cittadini europei dalla crisi
proponiamo due provvedimenti:
Provvedimento n°18: garantire un coordinamento efficace delle politiche
macroeconomiche e una riduzione degli squilibri commerciali tra i paesi europei.
Provvedimento n°19: compensare gli squilibri di pagamento in Europa attraverso una
Banca di Regolamento (che organizzi prestiti tra paesi europei).
Provvedimento n°20: se la crisi dell’euro conduce alla sua frammentazione, in attesa
del ristabilimento del bilancio europeo, stabilire un regime monetario intraeuropeo (moneta
comune di tipo “Bancor”) che organizzi il riassorbimento dei bilanci commerciali all’interno
dell’Europa.
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LUOGO COMUNE N°10
“LA CRISI GRECA ALLA FINE HA CONSENTITO DI
ANDARE VERSO UN GOVERNO ECONOMICO E
UNA VERA SOLIDARIETÀ’ EUROPEA”
A partire dalla metà del 2009, i mercati
finanziari hanno cominciato a speculare sui
debiti dei paesi europei. Nel complesso, il
forte aumento dei debiti pubblici su scala
mondiale non ha (ancora) portato aumenti
nei tassi a lungo termine: gli operatori
finanziari stimano che le banche centrali
manterrebbero a lungo tassi monetari reali a
un livello vicino allo zero, e che non c’è
rischio d’inflazione né di difetto di un grande
paese. Ma gli speculatori hanno percepito gli
errori dell’organizzazione della zona
dell’euro. Mentre i governi degli altri paesi
sviluppati possono essere sempre finanziati
dalle proprie Banche centrali, i paesi della
zona dell’euro hanno rinunciato a questa
possibilità, e dipendono totalmente dai
mercati per finanziare i propri deficit. Come
risultato, la speculazione ha potuto scagliarsi
sui paesi più fragili della zona: Grecia,
Spagna, Irlanda.
Le autorità europee e i governi hanno
tardato a reagire non volendo dare
l’impressione che i paesi membri avevano
diritto a un sostegno senza limiti dei propri
partner e hanno voluto sanzionare la Grecia,
colpevole di aver nascosto – con l’aiuto di
Goldman Sachs – l’entità del suo debito.
Tuttavia, nel maggio 2010, la BCE e i paesi
membri hanno dovuto creare un Fondo di
stabilizzazione per segnalare ai mercati che
essi porterebbero il proprio aiuto senza limiti
ai paesi a rischio. In cambio, questi hanno
dovuto annunciare programmi di austerità
fiscale senza precedenti, che li condannano a
una diminuzione dell’attività a breve termine
e a un lungo periodo di recessione. Sotto la
pressione del FMI (Fondo Monetario
Internazionale) e della Commissione europea
la Grecia deve privatizzare i propri servizi
pubblici e la Spagna flettere il suo mercato
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del lavoro. Anche la Francia e la Germania,
che non sono colpite dalla speculazione,
hanno annunciato misure restrittive.
Pertanto, nel complesso, non c’è un
eccesso di domanda in Europa. La situazione
delle finanze pubbliche è migliore di quella
degli Stati-Uniti o della Gran Bretagna,
lasciando margini di manovra fiscale. Bisogna
ridurre gli squilibri in modo coordinato: i
paesi in surplus, del Nord e del centro
dell’Europa devono condurre politiche
espansionistiche – aumento dei salari, delle
spese sociali etc. - per compensare le politiche
restrittive dei paesi del Sud. Nel complesso, la
politica finanziaria non deve essere restrittiva
nella zona dell’euro, finché l’economia
europea non si avvicini a un soddisfacente
tasso di piena occupazione.
La crisi permette d’imporre forti
riduzioni delle spese sociali, obiettivo
perseguito dai sostenitori del
neoliberalismo
Ma i sostenitori delle politiche fiscali
automatiche e restrittive in Europa oggi sono
purtroppo rafforzati. La crisi greca può far
dimenticare le origini della crisi finanziaria.
Coloro che hanno accettato di sostenere
finanziariamente i paesi del Sud vogliono
imporre in cambio un irrigidimento del Patto
di Stabilità. La Commissione e la Germania
vogliono imporre a tutti i paesi membri di
inserire l’obiettivo del pareggio di bilancio
nelle loro costituzioni e di far sorvegliare le
proprie politiche fiscali da comitati di esperti
indipendenti. La Commissione vuole imporre
ai paesi una lunga cura di austerità per
tornare a un debito pubblico inferiore al 60%
del PIL. Se vi è un passo verso il governo
economico europeo, è verso un governo che,
16
invece di allentare la morsa della finanza,
impone l’austerità e approfondisce le
“rifor me” strutturali a scapito della
solidarietà sociale in ogni paese e trai paesi.
La crisi offre alle elite finanziarie e ai
tecnocrati europei la tentazione di attuare la
“strategia di shock, approfittando della crisi
per radicare l’agenda neoliberale. Ma questa
politica ha poche possibilità di successo:
I governi e le autorità europee si
rifiutano di organizzare l’adeguamento fiscale
che permetterebbe l’aumento necessario delle
tasse sui settori finanziari, sui patrimoni
elevati e gli alti redditi.
PROVVEDIMENTI
I paesi europei instaurano politiche
fiscali restrittive che vogliono pesare molto
sulla crescita. Le entrate fiscali diminuirà.
Inoltre, i saldi pubblici non miglioreranno, il
La diminuzione delle spese pubbliche rapporto debito/PIL sarà degradato, i
compromette lo sforzo necessario a scala mercati non saranno rassicurati.
europea per sostenere le spese future (ricerca,
educazione, politica familiare), per aiutare
I paesi europei, a causa della diversità
l’industria europea a resistere e a investire nei delle proprie culture politiche e sociali non si
settori del futuro (green economy).
sono potute piegare alla disciplina di ferro
imposta dal trattato di Maastricht; non si
La crisi permette d’imporre forti piegheranno a tutte le sue capacità
riduzioni delle spese sociali, obiettivo attualmente organizzate. Il rischio di creare
perseguito dai sostenitori del neoliberalismo, una dinamica di ripresa su sé stessi è reale.
rischiando di compromettere la coesione
sociali, di ridurre la domanda effettiva, di
spingere le famiglie a risparmiare per la
pensione e la propria salute presso istituzioni
finanziarie responsabili della crisi.
Per fare un passo verso un governo economico e una solidarietà europea
proponiamo due provvedimenti:
Provvedimento n°21: sviluppare un sistema di tassazione europeo (tassa carbone, tassa
sui beni …) e un vero bilancio europeo per aiutare la convergenza delle economie e muoversi
verso un’uguaglianza delle condizioni di accesso ai servizi pubblici e sociali nei diversi Stati
membri sulla base di pratiche migliori.
Provvedimento n°22: lanciare un vasto piano europeo, finanziato dalla sottoscrizione
per il pubblico a tassi d’interesse bassi ma garantiti, e/o dalla creazione monetaria della BCE
per avviare la riconversione ecologica dell’economia europea.
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CONCLUSIONI
DISCUTERE SULLA POLITICA ECONOMICA,
TRACCIARE DEI PERCORSI PER RIFONDARE
PER SAPERNE DI PIU’:
Articoli, pamphlets, e
podcasts su
EUROALTER.IT
L’Europa è stata fondata tre decenni fa su base tecnocratica escludendo i popoli del dibattito
sulla politica economica. La dottrina neoliberale, che si basa sull’ipotesi oggi indifendibile
dell’efficienza dei mercati finanziari, deve essere abbandonata. Occorre riaprire lo spazio di
politiche possibili e avanzare proposte alternative e coerenti, che limitano il potere della
finanza e organizzano l’armonizzazione nel progresso dei sistemi economici e sociali europei.
Ciò richiede la condivisione di notevoli risorse di bilancio, emerse dallo sviluppo di una
sistema fiscale europeo fortemente ridistribuito. Occorre inoltre liberare gli Stati dalla morsa
dei mercati finanziari. Solo così il progetto di costruzione europea potrà sperare di ritrovare
una legittimità popolare e democratica che oggi gli manca.
Ovviamente non è realistico immaginare che 27 paesi decidano nello stesso momento di
operare una tale rottura nel metodo e negli obiettivi della costruzione europea. La Comunità
economica europea ha iniziato con sei paesi: la ricostruzione dell’Unione europea passerà
all’inizio attraverso un accordo tra quei paesi desiderosi di esplorare vie alternative. Appena
saranno evidente le conseguenze disastrose delle politiche oggi adottate, il dibattito sulle
possibili alternative crescerà in tutta l’Europa. Lotte sociali e cambiamenti politici
interverranno con ritmi diversi secondo i paesi. I Governi nazionali prenderanno decisioni
innovative. Coloro che lo desidereranno dovranno adottare cooperazioni rinforzate per
prendere provvedimenti audaci in materia di regolamentazione finanziaria, di politica fiscale
o sociale. Attraverso proposte concrete tenderanno la mano agli altri popoli affinché si
stringano al movimento.
E’ per questo che ci sembra importante delineare e proporre ora le grandi linee di politiche
economiche alternative che rendono possibile questa rifondazione della costruzione europea.
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