NUOVO WELFARE E LONGEVITA’ ATTIVA: UNA SFIDA PER IL SINDACATO. di Stefano Zamagni 1. Il tema della Terza Età è antico. "I vecchi allorché divengono meno capaci di azioni fisiche devono raddoppiare la loro attività intellettuale e la loro principale occupazione dovrebbe essere quella di assistere i giovani, gli amici e soprattutto il loro Paese con la loro saggezza e sagacia…" scriveva Marco Tullio Cicerone nel I secolo a.C. nel de Senectute. Prima di entrare nel merito dell’argomento, una premessa mi pare necessaria. Per comprendere di che si tratta conviene partire dalla considerazione che la base teorica che fin dall’inizio ha sorretto e legittimato i vari sistemi di welfare dei paesi dell’Occidente avanzato è stato il contrattualismo, nella versione specifica del contratto sociale. Così come è il contratto privato a fondare le transazioni di mercato tra agenti economici, allo stesso modo è il contratto sociale a dare origine alla “società ben ordinata” di cui parla J. Rawls nel suo celebre A Theory of Justice del 1971. Cosa troviamo al fondo dell’idea di contratto, privato o sociale che sia? La nozione di negoziabilità: soggetti indipendenti e razionali si rendono conto che per perseguire nel migliore dei modi i propri interessi, trovano conveniente sottoscriveva un contratto che fissi obblighi e vantaggi per ciascuna delle parti in causa. In altro modo, è la logica del mutuo vantaggio a determinare il vincolo sociale e, in conseguenza di ciò, a dare cogenza al sistema di welfare. Ma cosa ne è di coloro che, non essendo indipendenti né autonomi, non sono in grado di negoziare e dunque non sono in grado di sottoscrivere il contratto sociale? Cosa ne è cioè degli outliers, degli esclusi, i quali non possono partecipare al processo negoziale perché non hanno nulla da dare in cambio? Come ammette con ammirevole onestà intellettuale il filosofo americano David Gauthier, seguace del contrattualismo ralwsiano, “gli esclusi rappresentano un problema che comprensibilmente nessuno vuole affrontare… perché queste persone non sono parte delle relazioni morali cui la teoria contrattualista dà origine” (Morals by agreement, Oxford, OUP, 1986, p.18). E’quando si giunge a questo stadio di consapevolezza che si riesce a comprendere ed apprezzare il senso del nuovo welfare. La società decente, nel senso di A. Margalit, vale a dire la società che non umilia i suoi membri offendendone la dignità, non può consentire che agli esclusi – primi fra tutti i pensionati – vada il paternalismo di Stato o la pietà istituzionale. Ci vuole un principio più originario e più robusto di quello di negoziabilità se si vogliono superare le aporie del contrattualismo. Quale esso potrebbe essere? La mia proposta è il principio di vulnerabilità. E’ dal riconoscimento della vulnerabilità come cifra della condizione umana che discende l’accettazione della dipendenza reciproca e dunque della “simmetria dei bisogni”. Il prendersi cura dell’altro 1 diviene allora espressione del bisogno di dare cura, del bisogno cioè di reciprocare il gesto o l’aiuto ricevuto. Si osservi che il legame sociale che discende dall’accoglimento del principio di vulnerabilità è assai più solido di quello che nasce dal contratto. Alla luce di ciò, si comprende perché il nuovo welfare avrà successo se saprà coltivare tra coloro che vi prendono parte – la cultura della reciprocità. Compito arduo questo perché la modernità ha letteralmente espunto dal suo orizzonte culturale il principio di reciprocità, confondendolo, a volte, con il principio dello scambio di equivalenti; altre volte, con la filantropia. Eppure la reciprocità è qualcosa di molto diverso; essa è l’altro nome della fraternità. Si pone la domanda: perché abbiamo bisogno di recuperare la categoria di fraternità? Perché ci stiamo rendendo conto che il nostro bene dipende basicamente da due tipologie di beni: i beni di giustizia e quelli di gratuità. I beni di giustizia – ad esempio quelli assicurati dal welfare state – fissano un preciso dovere in capo a qualche ente (tipicamente, ma non solo, lo stato) affinchè i diritti dei cittadini su quei beni vengano soddisfatti. I beni di gratuità invece – quali sono ad esempio i beni relazionali – fissano un’obbligazione che deriva dallo speciale legame che ci unisce l’un l’altro. E’ il riconoscimento di una mutua ligatio tra persone a fondare una ob-ligatio. Si noti che mentre per difendere un diritto si può ricorrere alla legge, si adempie ad un’obbligazione per via di gratuità e quindi in seguito al processo di riconoscimento reciproco. Mai nessuna legge, neppure quella costituzionale, potrà obbligarci alla relazionalità. Eppure, non v’è chi non veda quanto i beni di gratuità siano fondamentali per il bisogno di felicità che ciascuna persona si porta appresso. Perché dove non c’è gratuità non può esserci speranza. La gratuità, infatti, non è una virtù etica, come lo è la giustizia. Essa riguarda la dimensione sovraetica dell’agire umano; la sua logica è quella della sovrabbondanza. La logica della giustizia, invece, è quella dell’equivalenza, come già Aristotele insegnava. Capiamo allora perché la speranza non possa ancorarsi alla giustizia. In una società, per ipotesi, solo perfettamente giusta non vi sarebbe spazio per la speranza. Cosa potrebbero mai sperare i suoi cittadini? Non così in una società dove il principio di fraternità fosse riuscito a mettere radici profonde, proprio perché la speranza, si nutre di sovrabbondanza. 2. Ciò premesso, soffermo ora l'attenzione su alcuni fatti stilizzati. Il fatto nuovo di cui dobbiamo acquisire piena consapevolezza è l'allungamento generale e straordinario della vita umana. All'interno di questa tendenza generalizzata, v'è da osservare che l'Italia è il paese a più celere tasso di invecchiamento del mondo. Già oggi l’Italia è al secondo posto per indice di 2 anzianità dopo la Germania. Ma essa balzerà al primo posto in Europa nel 2020. Pochi dati sono sufficienti a darci la misura del fenomeno. Come ci informa M. Livi Bacci, all'inizio del 1998 la popolazione oltre i 65 anni era pari a 10 milioni di persone; nel 2010 essa salirà a 11,8 milioni e nel 2020 a 13 milioni di persone. Nel frattempo l'esercito degli occupati - comprensivo della popolazione di età compresa tra i 20 e 65 anni - andrà riducendosi. Il risultato sarà un rapporto anziani/occupati che dal 28% del 1998, passerà al 34% nel 2010 e al 40% nel 2020. L'Italia è diventata il primo paese al mondo, nella storia dell'umanità, in cui le persone oltre i 60 anni di vita sono più di quelle sotto i 20 anni. D’altro canto, gli ultra-sessantacinquenni sono, oggi, il 17,4% della popolazione, mentre sono il 12,8% negli USA; il 15,9% in Francia; il 16% nel Regno Unito. Degno di nota, inoltre, è l’avanzamento dell’età mediana. Da 33,4 anni nel 1975 si è passati a 40,6 nel 2000 e si congettura che l’età mediana salirà a 50,9 anni nel 2025. I dati relativi alla Francia sono, rispettivamente: 31,6; 37,6 e 43; mentre quelli relativi al Regno Unito sono: 33,9; 38,2; 43,1. Un elemento particolare merita la nostra attenzione ai fini del discorso presente: il veloce abbassamento della mortalità alle età anziane. Nessuno aveva pronosticato, o anche solo congetturato, qualche decennio fa un fenomeno del genere. Si pensava allora che le malattie proprie della fase anziana della vita fossero pressochè invincibili. Invece, registriamo oggi che i progressi della sopravvivenza sono stati notevoli e non accennano affatto a diminuire. Ma v'è di più. Ricerche recenti sulla mortalità hanno posto in risalto il fatto che non esiste un solo universale processo di invecchiamento e che non è vero che ciascuna persona sarebbe destinata a vivere per un predeterminato periodo di tempo a prescindere dalle determinanti socio-ambientali. Ciò comporta che la sopravvivenza futura potrebbe anche superare le pur ottimistiche previsioni. Dobbiamo dunque aspettarci che nel XXI secolo torneranno i "patriarchi", carichi bensì di anni, ma prestanti nel corpo e nella mente. Come si sa, l'ingegneria genetica porta, infatti, ad allungare fortemente la durata della vita umana in condizioni di soddisfacente efficienza, quanto a dire che vengono spostate in avanti le cosiddette "barriere naturali" della vita le quali solo in parte dipendono da fattori di natura genetica; per la restante parte esse sono collegate allo status socioeconomico del soggetto e alla sua storia clinica. E' questo un punto importante da sottolineare: anche le epoche passate hanno conosciuto anziani di età ragguardevole - appunto, i patriarchi. La differenza con la situazione attuale è che oggi, e sempre più in futuro, l'anziano godrà di buona salute, da trascorrere in piena attività, e non certo nei cronicari. La presa d'atto che la velocità della senescenza può essere ritardata con appositi interventi resi disponibili dalla ricerca genetica, ci obbliga a sollevare un interrogativo, per nulla scontato: chi è anziano? E' un fatto che le generazioni attuali non invecchiano più con gli stessi ritmi e con le stesse modalità di quelle di ieri. E' dunque un grave errore di prospettiva immaginare il mondo di 3 domani semplicemente come il mondo d'oggi con più anziani. Perché avere 80 anni fra 20 anni non sarà come avere 80 anni oggi e non è certo come averli avuti 20 anni fa. Con l’allungamento della aspettativa di vita cambia la soglia della vecchiaia, dal momento che il processo di invecchiamento dipende non solo dai progressi della medicina, ma anche dal livello di acculturazione conseguito, dal contesto ambientale in cui si è svolta la vita lavorativa, dagli stili di vita adottati e così via. Ciò significa che l’espressione “invecchiamento della società” è inadeguata e soprattutto fuorviante. Invero, quello che sta invecchiando è il concetto stesso di età. Mezzo secolo fa, la gente di 50 anni si sentiva più vecchia di quel che gli odierni settantenni si sentono. Come a dire – suggerisce Giarini 1 - che le nostre società stanno diventando più giovani,perché si vive più a lungo e meglio, e non già più vecchia. Alla luce di ciò, penso si debba concordare con Egidi 2 quando suggerisce che la soglia della vecchiaia non deve essere fissata in termini statici, ma dinamici. La proposta di questo A. è di definire anziana quella persona che ha una speranza residua di vita inferiore a 10 anni e non già – come ancor’oggi avviene - quella che ha superato i 65 anni di età. Se si adotta questa impostazione dinamica, lo scenario relativo alla quota di anziani sul totale della popolazione, quale emerge dai calcoli di Egidi, cambia radicalmente. Per i maschi, tale quota al 2020 è pari al 7,9% - invece che il 20,1% come sarebbe se si adottasse il criterio statico dei 65 anni – e per le femmine pari all’8,6% invece che il 26,2%. La considerazione di soglie dinamiche di vecchiaia, al posto della soglia statica, si rivela particolarmente opportuna se si vuole dare risposta al seguente interrogativo: l’allungamento della durata media della vita si traduce o meno in un corrispondente aumento nel numero di anni di buona salute? In altro modo, l’allungamento della vita attesa è associato all’allungamento o alla diminuzione dei periodi di malattia? Per abbozzare una risposta, Cambois e Robine3 hanno introdotto in letteratura il concetto di health expectancy, cioè di durata della vita in buona salute, in aggiunta al ben noto concetto di life expectancy. Molto semplicemente, la health expectancy (HE) è definita come il rapporto tra durata dell’attesa di vita priva di disabilità e durata della vita attesa. E’ noto che l’epidemiologia dell’invecchiamento si interessa non solo delle malattie che causano morbidità e mortalità, ma anche delle principali condizioni dell’autonomia funzionale. E’ a questi contributi che soprattutto si deve l’allungamento della speranza di vita in buona salute. 4 O. Giarini, “Una società che invecchia? No, una società contro l’invecchiamento”, Macrosnews, 8, nov. 2000. V. Egidi, “Anziani: Prospettive demografiche e problemi sociali”, in D. Da Empoli e G. Muraro (a cura di), Verso un nuovo stato sociale, Milano, F. Angeli, 1997. 3 E. Cambois e J.M. Robine, “An international comparison of trends in disability – free life expectancy”, in R.Eisen e F. Sloan (a cura di), Long – term care: economic issues and policy solutions, Boston, Kluwer,1996. 4 Si veda L. Antico, F. Caretta, M. Petrini, “Progressi in medicina geriatrica”, Dolentium Hominum, 28, 1995. 1 2 4 Perché è necessario, anzi urgente, arrivare a elaborare indicatori di HE? Per un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, per contrastare il convincimento, tipico di chi coltiva una visione pessimistica, per non dire cinica della vita, secondo cui la più lunga durata della vita attesa si associerebbe ad un aggravamento delle malattie croniche – come dire che il progresso tecnico – scientifico varrebbe solamente a peggiorare la condizione umana: ti faccio vivere più a lungo, ma nella sofferenza. In secondo luogo, per controbilanciare, se non proprio per vincere, un preoccupante allarmismo, oggi dilagante, nella società civile e all’interno della stessa società politica. Alla base di tale allarmismo si trova, il seguente argomento. I cittadini anziani costano di più al settore pubblico dei cittadini non anziani. E ciò non solo per le ben note ragioni legate all’equilibrio finanziario associato a sistemi pensionistici non più sostenibili, ma anche perché la spesa sanitaria degli anziani è, in media, 4,2 volte quella per gli altri cittadini.(Il dato è riferito alle popolazioni dei paesi del G7). Inoltre, l’aumento del rapporto fra anziani e lavoratori riduce il tasso di risparmio privato nel sistema – tipicamente, il non anziano risparmia per accumulare risorse da destinare al consumo nella fase di vita della terza età – e ciò ha effetti negativi sulle possibilità di espansione dell’economia. Come si comprende, argomentazioni del genere sono figlie di una concezione essenzialmente negativista della vita, di una concezione che, mentre non può certo negare progressi e miglioramenti, deve ciononostante concludere che la qualità della vita sarà caratterizzata da un peggioramento delle patologie croniche e delle invalidità. Ed è allora comprensibile che restando imprigionati in una simile camicia di Nesso, le previsioni non possono che trasformarsi in mere estrapolazioni, prive di solido fondamento metodologico, ma pur sempre foriere di più o meno drastiche decisioni di politica sociale. 3. Ebbene, la grande sfida da raccogliere può essere formulata nei seguenti termini: preso atto che l’attuale transizione demografica va ponendo seri problemi di sostenibilità economicofinanziaria (per le ormai ben note ragioni associate alla spesa pensionistica, sanitaria e assistenziale) e considerato che, grazie ai progressi della ricerca genetica, già oggi, e sempre più in futuro, l’anziano godrà di buona salute da trascorrere in piena attività e on certo nei cronicari, che fare per scongiurare il rischio di esiti socialmente e moralmente indesiderati? Tre gli approcci che è possibile rinvenire nel dibattito corrente. Il senso del primo è bene reso dal titolo di un recente saggio di Regis Debray, “Fare a meno dei vecchi. Una proposta indecente” (Marsilio, Venezia, 2006). Con la crudezza di discorso che gli è tipica, Debray propone di isolare gli anziani dal resto della società, raccogliendoli in quella che lui chiama bioland, una sorta di isola i cui ospiti vengono inseriti in trame di relazioni basate sulla fusione tra naturalismo e misticismo. La “proposta indecente” è volutamente provocatoria, ma essa non si distacca molto da certe strategie di 5 istituzionalizzazione il cui unico senso pare quello di separare la terza e la quarta età dalle prime due. L’anziano come outlier sarebbe il presupposto di tale modo di pensare al problema qui in discussione. Il secondo approccio - in linea con il pensiero liberal-individualista - parte dal principio che lasciando operare liberamente le forze del mercato, le cose tendono ad aggiustarsi da sole. Il presupposto qui è che la condizione di una persona nell’ultima parte della sua vita dipende dalle scelte che quella persona ha fatto in precedenza. Se questa, in modo irresponsabile, non ha provveduto ad accantonare risorse per far fronte alle necessità della vecchiaia, neppure può invocare, e tanto meno pretendere, l’aiuto altrui. Ora, anche a voler prescindere da considerazioni di equità, una simile impostazione lascia aperto il problema dell’inutilità di persone umane. E’ un fatto che, nelle condizioni storiche attuali, il nuovo spreco sociale è costituito da quegli anziani, in buona o discreta salute in media per dodici anni dal momento in cui giungono alla pensione, ai quali non viene di fatto consentito di fare nulla di produttivo. E’ quando si giunge a questo stadio di consapevolezza che si comprende perché una “società decente”, nel senso del filosofo israeliano Avishai Margalit, non può tollerare di lasciare nell’inutilità quote rilevanti di popolazione. Se è vero – come credo – che il grado di civiltà di un Paese è misurato dalla sua capacità di non umiliare alcun cittadino facendolo sentire irrilevante, è allora necessario preoccuparsi, non solo di fornire l’indispensabile cura all’anziano, ma anche di assicurargli la possibilità – se lo desidera – di sentirsi e rendersi utile. Numerosi studi empirici sull’economia della felicità, avviati da Richard Easterly nel 1975 e portati avanti successivamente da Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia nel 2002, e tanti altri studiosi mostrano che uno dei fattori più importanti che aumentano l’indice sintetico della felicità è la stima di sé (self-esteem) a sua volta correlata, positivamente, al lavoro. Fra l’altro ciò spiega perché la cessazione dell’attività lavorativa molto spesso si accompagna ad un peggioramento psicologico delle condizioni di vita. Che fare allora? Il terzo approccio cui facevo riferimento parte dalla considerazione che nelle nostre società avanzate c’è una domanda implicita di lavoro umano che non riesce ad essere soddisfatta. Mentre diminuisce la domanda di lavoro da avviare “in fabbrica”, cioè nei luoghi in cui si producono le merci (o i servizi alla produzione di merci), grazie alle nuove tecnologie infotelematiche della terza rivoluzione industriale, aumenta in misura impressionante la domanda di lavoro da utilizzare per la produzione sia di beni immateriali sia di beni relazionali, sia ancora di talune specie di beni pubblici. Si pensi al bisogno di diffusione del know-how tecnologico tra coloro che, per una ragione o l’altra, ne sono rimasti esclusi. Come sappiamo, nella knowledge based society, il sapere deve 6 essere il più possibile distribuito tra la popolazione perché esso possa produrre i risultati desiderati. Se la conoscenza è accentrata, non si generano né esternalità di rete né si riuscirà a beneficiare di complementarità strategiche. Eppure, tantissimi sono coloro che ancora non hanno accesso all’informatizzazione della vita quotidiana. Altro bisogno, in continuo aumento, è quello legato ai servizi di cura nei confronti dei figli minori di genitori che lavorano o delle persone comunque non autosufficienti. Si consideri, ancora, il bisogno di diffondere tra la popolazione la cultura di un ambiente di vita ecologicamente sostenibile, una cultura che non può ridursi a mera informazione, ma che postula la realizzazione di pratiche di vita e di stili di consumo eco-compatibili. (E in ciò il fondamento della nozione di consumo critico). Si pensi, infine, al bisogno, sempre più avvertito, di rendere fruibile, a quote crescenti di popolazione, l’immenso patrimonio di beni culturali di cui il nostro paese è fortemente dotato – un patrimonio che è ancora troppo poco valorizzato. Cosa hanno in comune queste categorie di beni? Che per venire prodotti v’è necessità di attivare processi caratterizzati tutti da alta intensità di lavoro. Di processi, cioè, che richiedono molto lavoro e relativamente poco capitale e che in quanto tali soffrono della famosa “malattia dei costi” di cui ha parlato per primo W. Baumol: se devo assistere un paziente o giocare con un bambino non posso ridurre il tempo dedicato senza compromettere la qualità del servizio reso. Né posso farmi sostituire da una “macchina”: si tratterebbe di un altro servizio. Ecco perché vi sono oggi bisogni che non riescono ad essere soddisfatti: se il lavoro deve essere remunerato secondo le regole del mercato del lavoro salariato, così come questo si è andato evolvendo con l’avvento del sistema di fabbrica, non ci saranno mai abbastanza soggetti di offerta che riusciranno a collocare questi servizi a prezzi tali di incontrare tutta la domanda potenziale. Non solo, ma quel che è peggio è che sono proprio le persone a reddito medio-basso quelle ad avere più necessità di soddisfare quei bisogni e quindi quelle che più ne risentirebbero. Riusciamo ora a comprendere il ruolo importante e strategico che la coorte degli anziani potrebbe svolgere nelle nostre società. Se il lavoro costasse di meno, perché non tenuto a rispettare gli standard minimi, e soprattutto se il relativo contratto fosse meno rigido e vincolante per l’impresa (privata o sociale che fosse), allora il prezzo per l’erogazione del servizio potrebbe portarsi ad un livello tale da incrociare la capacità di spesa del portatore di bisogni e, al tempo stesso, da rendere contento l’anziano disposto a svolgere un’attività lavorativa. La recente esperienza francese dei CESU (Chèque emploi service universel) va in questa direzione. I risultati sono estremamente incoraggianti: in meno di due anni (2005 e 2006) sono note in Francia oltre 10.000 botteghe di artigianato terziario formate da oltre centomila anziani in pensione che desiderano continuare a lavorare, sia pure in modo ridotto e in forma autonoma. Un altro esempio è quello delle banche del tempo intergenerazionali, il cui vantaggio è anche (e forse soprattutto) 7 quello di rafforzare il legame sociale tra le persone. Un terzo esempio ci viene dall’esperienza canadese dei LETS (Local Exchange Trading System) e dall’esperienza statunitense delle Community Development Corporations. E cosi’ via. In buona sostanza, la proposta che avanzo è quella di incanalare il lavoro “liberato” dell’anziano verso attività che producono quei beni che né il settore privato dell’economia né il settore pubblico ha interesse – il primo – o ha le risorse necessarie – il secondo – per produrre. Quel che è urgente fare è superare l’idea secondo cui il lavoro è solo quello retribuito secondo le forme canoniche, a tutte ben note. Piuttosto, il lavoro è l’insieme delle attività necessarie alla crescita umana, ma dell’uomo inteso nella globalità delle sue dimensioni. Che la nozione di longevità attiva conosca oggi, anche sull’onda della disastrosa crisi finanziaria in atto, un rinnovato interesse, è cosa che apre alla speranza. Ha scritto Agostino: la speranza ha due bei figli: la rabbia e il coraggio. La rabbia nel vedere come vanno le cose; il coraggio di vedere come esse potrebbero andare diversamente. La longevità pone la sfida del tempo: il valore della persona è legato alla durata del tempo in età lavorativa; ora il tempo si dilata con la conseguente nuova dimensione del suo valore legato alla capacità di generare relazioni e di fare coesione sociale. Sviluppare su ampia scala questo concetto – che il Censis ha stimato in vari punti percentuali d’incremento del PIL – costituirebbe oltretutto un grande risparmio nel comparto della spesa pubblica “socio-sanitaria”, perché sarebbero gli stessi longevi con questa nuova tipologia di prodotto-servizio, a “pagarsi” il costo della non autosufficienza. Con ciò dando anche una spallata decisiva al concetto della contrapposizione generazionale (i giovani imputano ai vecchi di assorbire quote crescenti di PIL) e all’inquietante domanda “chi buttar giù dalla torre” rispetto ai costi crescenti, riportando in circuito fasce meritorie della società che con l’attuale welfare state c’è interesse/acquiescenza ad emarginare. 4. Dire che l’Europa vive, oggi, una situazione di stallo è, a dir poco, un eufemismo. I fatti sono fin troppo noti perché qui si debba anche solo richiamarli. Meglio allora dirigere l’attenzione sulle vie di uscita dall’attuale impasse. Quella su cui intendo soffermare la mia attenzione in questa sede ha a che fare con la questione del cosiddetto modello sociale europeo, delineato bensì nell’Agenda di Lisbona (marzo 2000), ma rimasto finora lettera morta5. Anzi, vanno crescendo di intensità le voci di coloro che chiedono una revisione del processo di Lisbona, proprio con Giova osservare che è bensì vero che il Consiglio Europeo di Lisbona licenzia “il modello europeo”, ma i principi che vengono posti a suo fondamento sono talmente general-generici da renderlo praticamente indistinguibile da altri modelli sociali. Si tratta, infatti, dei seguenti quattro principi: sostenibilità finanziaria dei sistemi di protezione sociale; collegamento stretto tra protezione sociale e politiche attive del lavoro; pari opportunità per tutti; strategie di inclusione sociale. Ora, non vi è chi non veda come principi del genere si trovino anche in altre aree geografiche, ad esempio negli USA. 5 8 riferimento alle tematiche sociali, allo scopo – così si sostiene - di consentire all’Europa di ritornare a crescere al più presto. E’ il confronto con il tasso di crescita dell’economia statunitense a destare le maggiori preoccupazioni, fino ad assumere talvolta toni di vero parossismo. (Un dato per tutti: nel 2003, il PIL pro capite degli USA era di 33.740 $; quello dell’UE a 15 era di 24.360 $). Questa osservazione aiuta a comprendere perché nel dibattito (scientifico e politico) in corso la priorità assoluta venga data alle politiche della crescita e, più in generale, alle politiche economiche dell’offerta, secondo quanto raccomandato dalla Commissione Kok e finemente sostenuto nel Rapporto Sapir (2004). L’argomento, chiave di volta, di queste posizioni è che l’Europa ha bisogno di crescere sia per placare le critiche populiste sia per consentire di generare risorse in ammontare sufficiente per finanziare il suo modello sociale. (Cfr. Agenda Sociale 20062010). Quanto a dire che la crescita è precondizione, cioè causa, del welfare. E poiché la causa precede sempre, salvo i casi rari di causalità simultanea, l’effetto, è tempo – così si dice – di cominciare a pensare alle “cose fondamentali”, per consentire all’Europa di recuperare il ritardo che la separa dagli USA sul fronte sia della competitività sia dell’innovazione. C’è motivo di ritenere che questa svolta recente nel modo di pensare l’Europa e il suo futuro aiuti a comprendere anche le difficoltà di natura propriamente istituzionale. Il fatto che i nove paesi che non hanno ancora ratificato il Trattato Costituzionale abbiano dichiarato tutte le loro difficoltà ad accogliere soprattutto la parte III (“politiche e funzionamento” – una parte che occupa oltre cento del totale di 183 pagine) ci fa capire che è proprio intorno alle politiche di welfare, che di quella parte sono magna pars, che si registrano i maggiori dissensi6. Certo, la motivazione ufficiale che, a suo tempo, è stata addotta è altra, e cioè che esisterebbe un trade-off tra rafforzamento dell’identità europea e identità nazionali. Che si tratti di un tipico argomento ad hoc ci viene confermato sia dal riconoscimento che l’Europa non è e mai sarà una nazione sia dalla presa d’atto che la pluralità delle appartenenze identitarie è ormai, nelle nostre società avanzate, un fatto acquisito. Assai più plausibile è la considerazione, per un verso, che la spesa sociale nell’UE rappresenta circa il 30% del PIL complessivo e i 2/3 delle spese delle pubbliche amministrazioni e, per l’altro verso, che almeno quattro e alquanto diversi sono i modelli di protezione sociale di fatto esistenti in Europa. Si tratta: 1) del modello nordico, caratterizzato da un elevato livello di tassazione (tra il 47% e il 53% del PIL contro la media europea del 42%) e dalla prevalenza dell’erogazione di servizi reali a tutti piuttosto che da trasferimenti monetari; 2) del modello anglosassone, di marca meno universalistica rispetto al precedente e fortemente work-conditional (tanto che non si parla di sussidi di disoccupazione, ma di job seeker’s allowances); 3) del modello continentale, in cui i servizi di welfare sono finanziati prevalentemente dalle tasse sull’occupazione 6 La parte I del Trattato (che consta di ben 500 articoli) è dedicata alle istituzioni europee; la parte II, ai diritti fondamentali; la parte IV alle disposizioni generali. Chiude il testo una serie di allegati. 9 (ciò che in parte spiega i bassi tassi di occupazione); 4) del modello mediterraneo, caratterizzato da un peso eccessivo dei programmi pensionistici (in Italia, la spesa pensionistica occupa il 63% della spesa sociale, contro la media europea del 42%), da una scarsa attenzione per la famiglia (in Italia, la famiglia riceve il 3% della spesa sociale, contro il 7,7% della media europea), dal forte ruolo del sindacato nella definizione degli interventi, col risultato che alcuni gruppi sociali risultano sovraprotetti e altri sottoprotetti (Sapir, 2005). Bastano questi rapidi cenni per comprendere perché il progetto di arrivare per via di consenso a definire il modello sociale europeo sia, nelle condizioni attuali, poco più che un’utopia. Ancora troppo forte è la pretesa degli stati membri di conservare per se stessi la sovranità in campo sociale. Invero, dopo che col ben noto Patto di Stabilità, incorporato nel Trattato di Amsterdam, i governi nazionali si sono visti restringere i tradizionali spazi di manovra nell’uso delle politiche fiscali e monetarie, quella del sociale è rimasta l’unica area di un certo peso su cui intervenire per assicurare ai propri paesi margini di manovra volti ad accrescere il tasso di competitività. Allora, se più Europa è auspicabile, perché ciò è nell’interesse di tutti, come uscire dall’attuale posizione di stallo?7 Sono dell’avviso che una via pervia ed efficace sia quella del confronto delle idee, civile ma coraggioso, centrato su due questioni prioritarie. Per un verso, si tratta di dichiarare apertamente quali principi normativi si ritiene di dover porre a fondamento del (futuro) modello sociale europeo e sui quali ricercare, per via di confronto politico, la convergenza massima possibile. Per l’altro verso, è necessario portare ragioni che valgano a dimostrare che la tesi secondo cui il welfare è fattore di crescita è più solida e quindi più plausibile della tesi opposta, che però è quella ancor’oggi dominante. Di questa seconda questione mi occuperò in quel che segue. Vien prima la crescita economica o il welfare? Per dirla in altro modo, la spesa per il welfare va considerata consumo sociale oppure investimento sociale? Come quasi sempre accade in economia, l’evidenza empirica non è in grado di sciogliere nodi del genere. La tesi che difendo è che, nelle condizioni storiche attuali, la posizione di chi vede il welfare come fattore di sviluppo economico è assai più credibile e giustificabile della posizione contraria. Come si sa, lo Stato sociale nella seconda metà del Novecento ha rappresentato un’istituzione volta al perseguimento di due obiettivi principali: per un verso, ridurre la povertà e l’esclusione sociale, ridistribuendo, per mezzo della tassazione, reddito e ricchezza (la cosiddetta Va da sé che non sto affatto pensando che quello del sociale sia l’unico fronte urgente di intervento per rimpannucciare la casa europea. Mi basti qui ricordare il fronte delle questioni istituzionali: proporre un altro Trattato, oppure ridurre sensibilmente quello esistente in modo da renderlo accetto a tutti i paesi membri? Conservare oppure abbandonare il principio del convoglio più lento? (Alesina e Perotti, 2004). C’è poi il fronte delle questioni propriamente economiche. I segnali di quello che è stato chiamato un “nuovo nazionalismo economico” mettono a repentaglio il mercato unico. I parametri del Patto di Stabilità vanno cambiati, posto che non hanno una giustificazione economicamente razionale, ma in quale modo e in quale direzione? E così via. (Blanchard 2004; Quadrio Curzio, 2006). 7 10 funzione di “Robin Hood”) e, per l’altro verso, offrire servizi assicurativi, favorendo un’allocazione efficiente delle risorse nel tempo (funzione di “salvadanaio”). Lo strumento escogitato per la bisogna è stato, basicamente, il seguente: i governi usino il dividendo della crescita economica per migliorare la posizione relativa di chi sta peggio senza peggiorare la posizione assoluta di chi sta meglio. Senonchè tutto un insieme di circostanze – la globalizzazione e la terza rivoluzione industriale – ha causato, nei paesi dell’Occidente avanzato a partire dagli anni ’80, un rallentamento della crescita potenziale. Ciò ha finito con il dare fiato, nel corso dell’ultimo decennio, al convincimento per cui i meccanismi redistributivi della tassazione e delle assicurazioni sociali sono la causa del rallentamento della crescita potenziale e, di conseguenza, sono responsabili di generare una scarsità di risorse per l’azione sociale dei governi. I risultati di questo modo di guardare al welfare sono sotto gli occhi di tutti. Non solamente il vecchio welfare state si dimostra oggi incapace di affrontare le nuove povertà; esso è del pari impotente nei confronti delle disuguaglianze sociali, in continuo aumento in Europa. Ad esempio, nell’ultimo quarto di secolo, in Italia la quota dei profitti sul PIL è passata dal 23 al 30 per cento, mentre quella che va al lavoro è scesa dal 77 al 70 per cento. Come ci rivela l’ultima indagine CENSIS, l’Italia è ormai diventata un paese caratterizzato da una “mobilità a scartamento ridotto”: le persone collocate ai livelli bassi della scala sociale hanno oggi maggiori difficoltà di un tempo a portarsi sui livelli più alti. E’ questo un segno eloquente della presenza di vere e proprie trappole della povertà: chi vi cade non riesce più ad uscirne. Oggi, la persona inefficiente è tagliata fuori dalla cittadinanza, perché nessuno ne riconosce la proporzionalità di risorse. Quanto a dire che la persona inefficiente (o meno efficiente della media) non ha titolo per partecipare al processo produttivo; ne resta inesorabilmente emarginata perché il lavoro decente è solo per gli efficienti. Per gli altri vi è il lavoro indecente oppure la pubblica compassione. Come procedere allora nel disegno di un nuovo welfare? Il primo passo è quello di superare le ormai obsolete nozioni sia di uguaglianza dei risultati (caro all’impostazione socialdemocratica) sia di uguaglianza delle posizioni di partenza (l’approccio favorito dalle correnti di pensiero liberali). Piuttosto si tratta declinare la nozione di eguaglianza delle capacità (nel senso di A. Sen) mediante interventi che cerchino di dare risorse (monetarie e non) alle persone perché queste migliorino la propria posizione di vita. L’approccio seniano al benessere suggerisce di spostare il fuoco dell’attenzione dai beni e servizi che si intende porre a disposizione del portatore di bisogni alla effettiva capacità di questi di funzionare grazie alla loro fruizione. E’ per questo che il nuovo welfare deve superare la distorsione autoreferenziale del vecchio welfare. Se le prestazioni sanitarie, assistenziali, educative, etc., per quanto di qualità sotto il profilo tecnico, non accrescono le possibilità di funzionamento per coloro ai quali sono rivolte, esse si rivelano inefficaci, e anche 11 dannose, perché non aiutano di certo il processo di sviluppo. In buona sostanza, occorre procedere in fretta a superare l’errato convincimento in base al quale i diritti soggettivi naturali (alla vita, alla libertà, alla proprietà) e i diritti sociali di cittadinanza (quelli cui si rivolge il welfare) siano tra loro incompatibili e che per difendere i secondi sia necessario sacrificare o limitare i primi. Come ben sappiamo, tale convincimento è stato all’origine in Europa di dispute ideologiche oziose e di sprechi non marginali di risorse produttive. Di un secondo passo conviene dire. Il nuovo welfare deve essere sussidiario, deve cioè dirigere le risorse pubbliche ottenute principalmente dalla tassazione generale per finanziare non già – come oggi avviene – i soggetti di offerta dei servizi di welfare, ma i soggetti di domanda degli stessi. Ciò in quanto, il finanziamento diretto da parte dello Stato delle agenzie di welfare altera la natura dei loro servizi e fa lievitare i loro costi. Soprattutto è vero che finanziare i portatori di bisogni aumenta la loro responsabilità e mobilità il protagonismo della società civile organizzata. La conclusione che traggo è che le ragioni a supporto della tesi dell’esistenza di un trade-off tra protezione sociale e crescita economica sono assai meno plausibili di quelle che militano a favore della tesi opposta. Non è affatto vero che il rafforzamento degli istituti di tutela sociale implichi la condanna ad una crescita più bassa, a lungo termine insostenibile. E’ vero, invece, che un welfare post-hobbesiano, centrato principalmente, su politiche di promozione delle capacità delle persone, costituisce nella attuale fase post-fordista, caratterizzata – dall’emergenza di nuovi rischi sociali, l’antidoto più efficace contro possibili tentazioni antidemocratiche e, in conseguenza di ciò, il fattore decisivo di sviluppo economico. 12