Zenone di Elea La filosofia di Zenone di Elea, il pensiero, i paradossi, le aporie, ecc. Copyright © 2013 ABCtribe.com Il presente eBook non può essere modificato in alcuna sua parte, conservando in particolare tutti i riferimenti all’autore e ad www.ABCtribe.com, che ne ha i diritti di commercializzazione; L’eBook non potrà essere in alcun modo pubblicato, non può essere diffuso ne in forma gratuita ne a pagamento tramite alcun mezzo, senza preventivo accordo scritto con www.ABCtribe.com. www.ABCtribe.com - la riproduzione non autorizzata è vietata in qualsiasi forma e modalità 1 1. La filosofia nell’Atene della fine del V secolo 2. L’Eleatismo 11. Concetti fondamentali nel pensiero zenoniano 3. L’unità dell’essere e la molteplicità delle cose 11.1. Aporia 4. Zenone di Elea 5. Vita di Zenone di Elea 6. Il pensiero di Zenone di Elea 7. I paradossi di Zenone di Elea 11.2. Il “paradosso” 12. La matematica tra il VI e il V secolo 13. La dialettica come tecnica argomentativa 14. Opere 7.1. La dimostrazione dell’unità e indivisibilità dell’essere 7.2. La dimostrazione per assurdo dell’impossibilità del movimento 8. La rilevanza di Zenone per il pensiero scientifico 9. Zenone e gli altri filosofi 10. Simplicio a proposito di Zenone 1. La filosofia nell’Atene della fine del V secolo Intorno al 440, giunge ad Atene Parmenide, accompagnato dall’allievo Zenone. Parmenide guida forse un’ambasceria di Elea presso la città attica, in un momento in cui quest’ultima mostra un acuto interesse per gli equilibri di forza in Magna Grecia. A questo viaggio risale la diffusione nell’ambiente ateniese della dottrina eleatica. Parmenide, ormai vecchio, illustra in questa occasione il significato del proprio poema, usandolo come traccia per lezioni cui avrebbe assistito, secondo la testimonianza di Platone, anche il giovane Socrate. Alla partenza del filosofo, resta ad Atene Zenone, che soggiorna alcuni anni presso Pericle, difendendo la dottrina del maestro dalle critiche degli avversari con argomenti di natura dialettica, volti a mettere in luce le contraddizioni in cui incorrono coloro che, come i www.ABCtribe.com - la riproduzione non autorizzata è vietata in qualsiasi forma e modalità 2 filosofi naturalistici, ammettono l’esistenza di una realtà molteplice e del movimento. A questi argomenti non appaiono insensibili Empedocle e Democrito, entrambi di parte democratica, anch’essi giunti ad Atene in quegli anni. Questi filosofi mirano da un lato a spiegare i processi della natura così come essi ci si manifestano nell’esperienza (in questo ricollegandosi al naturalismo); ma dall’altro, nell’elaborazione delle proprie dottrine, accolgono gli argomenti di natura logica che portano gli eleati a negare ogni forma di movimento e di cambiamento. Il pensiero di Empedocle e Democrito, come già per alcuni aspetti quello di Anassagora, rappresenta dunque un momento di sintesi tra le due principali tradizioni filosofiche delle origini. Un ruolo importante gioca nell’ambiente ateniese un concittadino di Democrito, Protagora di Abdera. Giunto nella capitale attica intorno al 450 a. C., egli vi soggiorna poi più volte per circa quarant’anni, segnando profondamente la cultura e il dibattito filosofico di quei decenni. Appartenente al gruppo di intellettuali vicini a Pericle, egli viene sollecitato dalle lezioni ateniesi di Parmenide e dalla consuetudine con Zenone ad una riflessione che approda tuttavia a esiti contrastanti con la prospettiva indicata dall’eleatismo: privilegio accordato alla funzione persuasiva del linguaggio; relativismo gnoseologico (è vero ciò che ciascuno pensa che sia vero) ed etico (è buono ciò che ciascuno pensa che sia buono). Questi temi – in cui si riflette l’esperienza della pluralità dei punti di vista presente nella città democratica – costituiscono insieme al progressivo venir meno dell’interesse per le indagini fisiche e cosmologiche e al rafforzarsi di quello per l’uomo e la sua vita in società, un tratto caratteristico del pensiero della seconda metà del V secolo, e in specie della sofistica. 2. L’Eleatismo Con l’Eleatismo, che fiorisce nelle colonie greche dell’Italia meridionale, ci troviamo in una «atmosfera» filosofica diversa da quella jonica. Mentre quest’ultima aveva ricercato il principio e la sostanza fisica delle cose, capace di spiegare la molteplicità e il mutamento della Natura, l’Eleatismo, pretende di giungere ad un Essere unico, eterno ed immutabile, di fronte a cui il nostro mondo è solo apparenza ingannatrice. Gli Eleati sostengono infatti che le cose non sono come i sensi e l’esperienza le manifestano, ma come la ragione le pensa secondo una logica rigorosa. Nasce così una nuova concezione della metafisica, non più ricerca legata alla natura, all’osservazione, ma puramente al ragionamento; la ricerca attraverso la natura è infatti soggettiva, poiché legata ai nostri sensi, propri di ogni essere vivente (Talete = acqua, Anassimene = aria, ecc…). L’Eleatismo, quindi, rappresenta l’insieme delle dottrine della scuola filosofica di Elea, fiorita nei sec. VI e V a. C.; i suoi maggiori rappresentanti furono Senofane di Colofone, Parmenide, Zenone e Melisso di Samo. La scuola sviluppò la teoria dell’”essere” in contrapposizione alla dottrina del “movimento”, che fa capo ad Eraclito. Parmenide costituì il momento più alto del pensiero eleatico: muovendo dalle concezioni teologico-monistiche di Senofane, suo maestro, egli sviluppò una teoria dell'essere come assoluta unità e totalità, immutabilità, immobilità e necessità (l'essere è e non può non essere; il non essere non è e non può essere). Per Parmenide la molteplicità delle cose e il correlativo concetto del movimento e mutamento sono contraddittori: essi sono pura apparenza, non-essere, e semplice apparenza è anche la conoscenza sensibile che li crede veri. Al contrario, l'essere, nella sua unità e totalità, può essere colto solo dal puro pensiero razionale, che sa superare la molteplicità della pura apparenza. Anzi, per Parmenide, “la stessa www.ABCtribe.com - la riproduzione non autorizzata è vietata in qualsiasi forma e modalità 3 cosa è pensare ed essere”; l'essere è il vero e proprio contenuto del pensiero, è a esso intimamente coessenziale. La potenza di queste concezioni dell'eleatismo, che rappresentano il primo momento di autentica riflessione “ontologica” del pensiero occidentale, è da considerarsi decisiva per ogni sviluppo della filosofia seguente. Il contributo maggiore che gli eleati e Parmenide diedero allo sviluppo del pensiero filosofico consistette soprattutto nel pensare che l’essere delle cose non muta, nonostante l’apparenza ci dica qualcosa di molto diverso, e cioè che tutto muta in maniera incessante. Parmenide infatti affermava: “l’essere è, il non essere non è”. In Parmenide, come del resto nella corrente fondamentale delle dottrine induiste, non può verificarsi nulla che non si sia già verificato, nulla che esca dai binari, nulla di veramente nuovo. L'inesistente non può venire ad esistere, l'esistente non può cessare di esistere e sparire nel nulla. E' su questo piano di riflessione che la concezione dell'essere di Parmenide implica una concezione del tempo incompatibile con la speranza e la fede cristiana nel futuro escatologico e nella salvezza. Non c'è nulla da cui salvarsi, non c'è alcun bisogno di salvarsi, non ci saranno salvatori e messia; l'essere delle cose non può cessare di esistere, neanche nelle catastrofi, e il non essere è impossibile che venga a manifestarsi. occorrerebbe ammettere che non essere e impossibile siano la stessa cosa, e che nell'impossibile, ovvero quando diciamo impossibile, sia tolta di mezzo ogni contingenza. L'impossibile è assoluto, non legato a situazioni particolari. Probabilmente in questo consiste la profondità di Parmenide e la sua necessità storica, talvolta non da tutti compresa. In questa chiave, Melisso di Samo rappresenta il tramonto dell'Eleatismo. Affermando che l'essere è infinito, infatti, si è venuto ad affermare che l'impossibile non esiste. Nell'essere secondo Melisso tutto è possibile, ma questa è una contraddizione insostenibile, una confutazione di Parmenide, per il quale nell'essere, e solo nell'essere, il possibile è, è attualmente, e non può uscire dai binari della necessità. Questo pensiero della necessità non ha nulla a che fare con il pensiero greco autentico, che in tutti gli altri filosofi, da quelli ionici a quelli post-socratici si manifesta come pensiero della libertà umana, con l'eccezione di Democrito, che di Parmenide fu il successore più devoto e conseguente, e, forse, di Anassimandro, che comunque vide i limiti relativistici della libertà: comunque vada, comunque tu ti sappia amministrare, dovrai pagare il fio della tua separazione dall'infinito. Ma Anassimandro fu corretto da Parmenide: l'infinito non esiste, se esistesse, saremmo in un bel guaio! Dato che, quantomeno in potenza, esiste, la verità è che siamo davvero in un bel guaio, potenzialmente, ovvio. Considerando bene quanto disse Zenone, si nota che l'eleatismo fu una posizione filosofica del tutto contraria allo sviluppo delle ricerche fisiche e naturalistiche, ed a qualsiasi progetto umano tendente a signoreggiare la natura. Alla base di esso vi era la considerazione primaria che i sensi ingannano, non qualche volta, ma sempre, e che dalle percezioni derivano non verità e fedeli resoconti, ma solo ingannevoli opinioni, l'una diversa dall'altra. Alla luce della storia del pensiero filosofico, scientifico, politico e giuridico successivo, verrebbe da dire che nelle intenzioni dell'eleatismo si potrebbe anche riconoscere non già il desiderio di verità, ma il buon proposito di evitare all'umanità il rischio di cadere nelle mani di scienziati folli. Zenone probabilmente fu il primo, se non altro, il primo di cui si ha traccia, a considerare l'infinito non solo nel verso dell'infinitamente grande, ma anche nel verso dell'infinitamente piccolo. Leggendo il VI libro della Fisica di Aristotele, quando ci si imbatte nell'affermazione che il continuo non è fatto di indivisibili, si comprende immediatamente quanto lo stesso stagirita debba alla dialettica zenoniana ed alla sua intuizione www.ABCtribe.com - la riproduzione non autorizzata è vietata in qualsiasi forma e modalità 4 dell'infinito potenziale e dell'infinitesimo. Ma, bisogna guardarsi dal rischio di credere ad una maggiore vicinanza di Aristotele all'eleatismo che all'atomismo di Democrito, il quale al contrario, postulò la realtà come una costruzione composta di indivisibili, gli atomi, come particelle ultime, e di vuoto, cioè di nulla. In realtà, Aristotele, impegnato per riaprire la via alla ricerca scientifica, ed allo studio del necessario, che solo può essere oggetto di scienza, contestò sia l'eleatismo che l'atomismo, e proprio nella polemica contro l'eleatismo egli giunse a chiarire alcuni concetti fondamentali ancor oggi, concetti quali quello di motore, di forza, di quiete, di sostanza, di relazione. 3. L’unità dell’essere e la molteplicità delle cose Il problema principale su cui la filosofia si concentra dopo Parmenide è quello del rapporto tra unità e molteplicità, ovvero tra l’esigenza di una spiegazione razionale unitaria del mondo e l’esistenza di una molteplicità di fenomeni. Le rigorose deduzioni logiche di Parmenide avevano provato che l’essere è uno e immutabile. In opposizione a queste conclusioni stava, però, la comune esperienza della pluralità e del divenire delle cose. Ora, come la ragione deve giudicare ciò che i sensi e l’esperienza attestano? Parmenide non era giunto a negare del tutto la pluralità e il divenire. Aveva però affermato che su di essi non è possibile alcuna certezza ed è perciò necessario limitarsi al discorso verosimile della doxa. Tale concessione di una certa realtà al mondo sensibile conduceva però ad una contraddizione: se il divenire è totalmente altro rispetto all’essere, allora esso è non essere , inconsistente nulla. Se invece lo si ammette, allora si deve rinunciare alle severe condizioni logiche su cui era stata costruita la filosofia eleatica. La concessione non poteva, comunque, soddisfare i continuatori della fisiologia ionica e i cultori di technai quale la medicina, i quali rivendicavano la possibilità di una conoscenza rigorosa e non puramente opinabile delle cose sensibili. Questi ultimi dovettero ricorrere in funzione anti-eleatica ad obiezioni basate sull’esperienza comune, la quale attesta che la realtà è intessuta di cose singole, in perenne movimento. Di fronte a tali difficoltà ed obiezioni, i seguaci di Parmenide, come Zenone e Melisso, portarono alle estreme conseguenze il discorso eleatico: essi fecero valere le esigenze della logica contro la testimonianza dei sensi e negarono conseguentemente ogni realtà al molteplice e al divenire, definendoli apparenza illusoria e contrapponendo loro la vera realtà, unica e immutabile, dell’essere. Non tutti la pensavano così. Altri filosofi, come Empedocle, Anassagora e Democrito, che si riallacciavano alla tradizione del naturalismo ionico, si proposero di mostrare come si potesse sviluppare un discorso logicamente rigoroso, in grado cioè di soddisfare le severe esigenze eleatiche, e nello stesso tempo rendere conto della realtà del molteplice e del divenire. Il loro obiettivo era quello di “salvare i fenomeni”, cioè di riscattare il mondo di ciò che appare – phainòmenon vuol dire appunto “ciò che appare” – dalla sua presunta incoerenza e irrazionalità, per poter giungere ad una comprensione razionale ed unitaria dei fenomeni. I problemi che dovevano essere affrontati per raggiungere questo obiettivo erano molti e complessi. Tra essi ci sembrano fondamentali i seguenti: 1) il problema della conoscenza: Empedocle, Anassagora e Democrito tendevano a ritenere che all’autorità del pensiero andasse affiancata quella dei sensi; ma la sintesi del momento razionale e di quello sensibile, dopo Parmenide, non era affatto semplice da realizzare; 2) il problema dell’essere: Empedocle, Anassagora e Democrito ammisero l’esistenza di una pluralità di esseri, o enti eterni, immutabili e intrinsecamente unitari, dalle cui combinazioni traggono origine le cose www.ABCtribe.com - la riproduzione non autorizzata è vietata in qualsiasi forma e modalità 5 sensibili. Proprio perché ricorrevano a questa pluralità di enti che indicavano come principi fondamentali della physis, questi filosofi furono definiti pluralisti. I problemi da essi affrontati sono certamente di natura prettamente filosofica, ma implicano anche importanti conseguenze nell’ambito di “scienze” specialistiche, quali la matematica (in cui si impegnarono Anassagora e Democrito) o la medicina (studiata da quasi tutti i pluralisti). Gli eleati, che sostenevano contro i pluralisti l’unità e l’indivisibilità dell’essere, con Zenone tesero a dimostrare che l’ammissione della molteplicità degli enti conduceva a conseguenze assurde. Democrito e Anassagora da due prospettive diverse riuscirono per contro a trattare il problema dell’infinito nelle dimostrazioni matematiche spogliandolo degli aspetti paradossali che secondo gli eleati implicava. Nel dibattito ideale tra gli eleati e i pluralisti, il problema del rapporto tra uno e molteplice si veniva così determinando e dispiegando in tutta la sua ampiezza, dalla gnoseologia all’ontologia, dalla fisiologia alla matematica. 4. Zenone di Elea Zenone di Elea, allievo ed amico di Parmenide vissuto tra la fine del VI e l’inizio del V secolo, ci viene presentato dalla tradizione come un pugnace difensore delle idee del maestro. La teoria parmenidea dell’immutabilità, unità e indivisibilità dell’essere veniva attaccata in nome del “senso comune”, che attesta invece la realtà del divenire, della molteplicità e della divisibilità. Zenone si propone di difendere la dottrina del maestro, dimostrando che, se si assumono tesi contrarie a quelle eleatiche, da esse derivano conseguenze ancora più assurde. Zenone avrebbe ideato quaranta paradossi – argomenti logicamente validi, le cui conclusioni vanno contro (parà) l’opinione comune (doxa) – a sostegno della teoria dell’unità e indivisibilità dell’essere, e quattro contro il movimento. Questi paradossi utilizzano una forma di dimostrazione, quella per assurdo, che consiste nell’assumere provvisoriamente un’ipotesi, nello svolgerla logicamente, fino a dedurne una contraddizione, un assurdo appunto. La conclusione, che è necessariamente falsa, prova che la stessa ipotesi iniziale deve essere tale, e permette così di stabilire la validità dell’opinione contraria. Per il ricorso a questo tipo di argomentazione, Zenone fu definito “inventore della dialettica”, intesa come “arte della confutazione”. Il metodo di cui Zenone si servì è, come notò Aristotele, quello della dialettica: la quale consisteva nell’ammettere come ipotesi l’affermazione dell’avversario per ricavarne poi conseguenze che la confutassero. In ciò consisteva il procedimento utilizzato da Zenone, che ammetteva ipoteticamente la molteplicità e il mutamento per dimostrarne l’assurdità. A chi appartengono le tesi confutate da Zenone? I Pitagorici, i quali ritenevano che la sostanza delle cose fosse il numero, erano evidentemente i rappresentanti tipici di una dottrina che ammetteva la molteplicità. La loro dottrina perciò fu senza dubbio tenuta presente nelle confutazioni di Zenone. Tuttavia essa, molto probabilmente, non fu la sola. Contemporaneo di Zenone era Anassagora, la cui dottrina dei semi (o omeomerie) ammetteva anch’essa la realtà del molteplice. Molto probabilmente perciò Zenone ha inteso confutare la molteplicità dell’essere nel suo significato più generale ed esteso, includente non solo il pitagorismo, ma ogni altra dottrina che comunque ammettesse quella molteplicità. www.ABCtribe.com - la riproduzione non autorizzata è vietata in qualsiasi forma e modalità 6 5. Vita di Zenone di Elea La sola immagine che abbiamo di Zenone di Elea è quella presente nel racconto platonico del Parmenide (127 a), nel quale un quarantenne Zenone, «ben fatto e gradevole a vedersi» accompagna Parmenide ad Atene. Secondo questo racconto, la nascita di Zenone andrebbe collocata nel 490 o subito dopo. Secondo Diogene Laerzio (IX, 29; ma il testo è pieno di lacune) Apollodoro collocava l'acme di Zenone nell'Olimpiade 79 (464-461), facendone risalire la nascita alla fine del secolo precedente. Non conosciamo nessuna vicenda della sua vita, a meno che si decida di dare valore storico alla narrazione del Parmenide platonico e alla notizia in esso contenuta che Zenone era l'amante di Parmenide. Apollodoro ne faceva invece il figlio adottivo di Parmenide e Ateneo protestava contro quella che considerava un'interpretazione maligna e gratuita di Platone. Una tradizione dice che Zenone non abbandonò mai Elea e in particolare non si recò ad Atene: potrebbe trattarsi di una reazione alla versione platonica. Un altro insieme di notizie concerne le vicende politiche di Zenone, che sarebbe stato fiero oppositore e anche vittima di un tiranno. Non è sicuro di quale tiranno si trattasse, e anche i particolari della storia, fatta di crudeltà e di astuzie, sembrano fittizi. Zenone vi appare come un tipico rappresentante della resistenza filosofica alla tirannide e il suo contrasto con il tiranno è anche occasione per trovare astute e risposte sottili. Si dice che Zenone morì coraggiosamente sotto la tortura, per aver cospirato appunto contro un tiranno. Si racconta, infatti, che Zenone abbia cercato di contrastare questo tiranno con ogni mezzo, persino al prezzo della propria vita. Quando fu arrestato, secondo i racconti, egli fu sottoposto a tortura perchè rivelasse i nomi dei suoi amici cospiratori. Zenone fece i nomi di persone vicine al tiranno e queste furono messe a morte. Subito dopo affermò di voler svelare un segreto all'orecchio del tiranno, e quando questi gli fu vicino, gli addentò l'orecchio con grande forza nel tentativo di staccarglielo. Lasciò la presa solo quando le guardie del corpo lo costrinsero con la forza. Infine si mozzò la lingua con i suoi stessi denti, per evitare di parlare ancora sotto tortura, e sputò la punta in faccia al tiranno stesso. Fu allora stritolato in un mortaio. Tale versione di come siano andate le cose in merito alla morte di Zenone potrebbe anche essere considerata vera. Essa testimonia anche un carattere dominato dalla passione e da sentimenti di odio, per niente preoccupato da fattori etici e morali, estremamente disinvolto nel mandare coscientemente a morte persone che, per quanto appartenenti al partito avverso, erano pur sempre innocenti. Se si pensa al processo ed alla condanna di Socrate, e si mettono a confronto i due comportamenti, si ha l'esatta misura della statura morale di Zenone, anche se molti sono inclini ad enfatizzarlo come un presunto campione della libertà. Come filosofo, Zenone non apportò nulla di nuovo alla dottrina del proprio maestro Parmenide. Tuttavia, sia Platone che Aristotele riconobbero in lui l'inventore della dialettica, cioè dell'argomentazione a favore di una tesi preconcetta mediante la confutazione della tesi avversa ed il tentativo di mostrarla come contraddittoria o impossibile. Zenone utilizzò questo metodo per dare sostegno a due delle tesi principali della dottrina di Parmenide, e cioè che l’essere è, ed è uno, quindi per negare la molteplicità degli esistenti; oltre a ciò per confutare anche il movimento e la realtà del divenire, dunque i cambiamenti nello stato delle cose. 6. Il pensiero di Zenone di Elea Secondo la tradizione, Zenone di Elea fu un fedele scolaro di Parmenide e ad egli furono spesso attribuiti gli www.ABCtribe.com - la riproduzione non autorizzata è vietata in qualsiasi forma e modalità 7 aspetti maggiormente paradossali dell’eleatismo. Isocrate, che collocava Zenone accanto a Protagora, Gorgia e Melisso, diceva di lui: «tentava di mostrare che le medesime cose sono una volta possibili e poi di nuovo impossibili». Secondo Platone, lo scritto di Zenone era «una specie di rinforzo» alla filosofia di Parmenide. Gli avversari di Parmenide affermavano che, se la realtà è una, come Parmenide ritiene, ci si trova imbrogliati in molte e ridicole contraddizioni. Zenone risponde che se si ammette, con gli avversari di Parmenide, che la realtà è molteplice e mutevole, si incontrano contraddizioni anche peggiori. Zenone perciò vuole ridurre all’assurdo le dottrine che ammettono la molteplicità e il mutamento e così riuscire a una conferma delle tesi di Parmenide. Quindi, secondo la testimonianza platonica Zenone dichiarava di esser venuto in aiuto di Parmenide seguendo una via indiretta: contro coloro che mettevano in luce le conseguenze ridicole e contraddittorie delle dottrine parmenidee, mostrava che è invece la molteplicità a produrre risultati contraddittori, facendo apparire «le stesse cose simili e dissimili, una sola e molte, immobili e in movimento». L’immagine paradossale che ci viene data da Isocrate sembra essere corretta da quella che è l’interpretazione platonica. A quest’ultima si ricollegava Aristotele quando faceva di Zenone «l’inventore della dialettica». Qui “dialettica” va intesa probabilmente in senso aristotelico, come un ragionamento che parte da assunzioni altrui e le esamina, per metterne in luce eventuali conseguenze poco credibili. Discordanti appaiono le interpretazioni antiche di Zenone: l'immagine che ne aveva dato Platone rimase canonica, anche se Eudemo, Alessandro e Simplicio la intesero in modi diversi. Secondo Simplicio, Zenone «nel suo scritto apportava molti argomenti confutatori per mostrare che chi sostiene che esistono molte cose si trova ad asserire cose contrarie, per esempio che le cose sono grandi e piccole, grandi fino ad essere infinite e piccole fino a non avere grandezza». Da una stessa premessa, «i molti sono», Zenone ricavava cioè coppie di conclusioni contraddittorie: i molti sono infinitamente grandi e infinitamente piccoli, hanno molteplicità limitata e molteplicità infinita. Forse Zenone formulava un primo argomento contro la molteplicità per mostrare che ciascuna delle cose molteplici, se deve essere una e identica a se stessa, non può avere grandezza. Simplicio non ci riferisce questa argomentazione, ma essa doveva introdurre la divisione in parti, che ha tanta importanza nelle argomentazioni zenoniane. Se ha grandezza, una cosa può esser divisa in parti; ma allora non sarà più unitaria né identica a se stessa, perché sarà costituita da una somma di parti e sarà identica a questa somma. Può darsi che a questo punto Zenone prendesse in considerazione una possibile obiezione alla tesi che per esistere un'unità non deve avere grandezza: se non ha grandezza, una cosa non esiste, perché, per esistere, deve far aumentare la cosa cui è aggiunta o diminuire quella da cui è tolta. Ma Zenone faceva di nuovo intervenire la divisione in parti nel suo secondo argomento contro la molteplicità: se si ammette che ciò che è, per essere, deve avere grandezza, allora si avrà una molteplicità, ma i molti saranno piccoli e grandi. Infatti ogni cosa che è avrà grandezza e spessore, e l'avranno anche ciascuna delle sue parti, ognuna delle quali si distinguerà da un'altra, la quale a sua volta avrà grandezza, spessore e si distinguerà da un'altra; e così via. Si avranno allora cose tanto piccole da non avere grandezza e tanto grandi da essere infinite. Infatti, via via che si procede nella divisione di una cosa, le sue parti si fanno sempre più piccole, fino quasi ad annullarsi. Ma se ogni cosa è costituita da infinite parti, aventi ciascuna una grandezza, essa sarà infinitamente grande. Si è osservato che, dal punto di vista matematico, il ragionamento zenoniano non è corretto perché, se le parti alle quali mette capo la divisione all'infinito tendono a 0, allora la loro somma non può essere infinita, in quanto la somma di una serie che converge a 0 (come 1/2, 1/4, 1/8,...) è 1. In questo caso nessuna delle parti è nulla e la loro somma può coincidere con la cosa di cui sono parti. Zenone però riteneva che le parti www.ABCtribe.com - la riproduzione non autorizzata è vietata in qualsiasi forma e modalità 8 prodotte dalla divisione fossero non nulle solo se potevano far cambiare la grandezza di una cosa cui fossero aggiunte o tolte, e probabilmente ricavava di qui l'immagine di una somma di infinite parti uguali, una somma appunto infinita. In questo caso le cose finite diventerebbero somme infinite di parti. Ma è stato anche osservato che nel secondo argomento Zenone poteva formulare non un'antinomia (se si ammette la molteplicità, questa sarà contemporaneamente nulla, perché fatta di parti praticamente uguali a 0, e infinita, perché costituita dalla somma di infinite parti uguali e non nulle), ma un dilemma: o si accetta il primo argomento, e allora le parti alle quali mette capo la divisione, se esistono, non hanno grandezza, sicché la cosa costituita dalla loro somma sarà piccola (dove 'piccolo' è inteso in opposizione a 'grande'); oppure le cose diventano infinitamente grandi, perché sono la somma infinita di infinite parti che hanno grandezza. In questa interpretazione il ragionamento di Zenone sarebbe meno dipendente da una divisione in parti rappresentabile come una serie. Probabilmente nel formulare i suoi ragionamenti Zenone non dava un'interpretazione geometrica delle cose, ma spingeva oltre ogni limite un processo di divisione che ai suoi primi stadi aveva ovvi riscontri intuitivi. Doveva esser questo il presupposto del terzo argomento contro la molteplicità, che Simplicio dice di riferire alla lettera: «se i molti sono, è necessario che siano tanti quanti sono; e se sono tanti quanti sono, dovrebbero essere limitati. Se i molti sono, le cose che esistono sono infinite: infatti sempre in mezzo alle cose che sono cene sono altre, ed altre ancora in mezzo a queste. E così le cose esistenti sono infinite». Poiché non sempre tra due cose se ne deve ammettere una terza, in quanto possono esistere collezioni di cose discrete e finite, anche in questo caso si è pensato che il ragionamento zenoniano si applichi solo a insiemi densi, come quelli dei punti, tra due dei quali è sempre possibile inserirne un terzo. Ma anche in questo caso è molto più probabile che Zenone, anziché far riferimento a qualcosa come il 'continuo' o lo 'spazio euclideo', partisse da processi intuitivi, quali l'inserimento di un intervallo tra due corpi, e supponesse l'esecuzione di un'operazione simile all'interno di un corpo per dividerne le parti. Secondo Diogene Laerzio, Zenone argomentava anche contro il movimento sostenendo che «ciò che si muove non si muove né nel luogo in cui è, né in quello in cui non è». Per Aristotele quattro sono i ragionamenti di Zenone intorno al movimento. Il primo argomento contro il moto, detto la dicotomia, parte dalla considerazione che un mobile non può mai arrivare al termine della traiettoria, perché prima di percorrere il percorso intero deve percorrerne la metà. Questo testo è stato variamente inteso. Dato il percorso A-B, prima di giungere in B, il mobile deve percorrere ½(A-B), raggiungendo A1, ma prima di raggiungere A1, deve percorrere 3/2(A-A1) e così via. Supposto che il mobile abbia raggiunto il punto A1, a metà del percorso A-B, esso dovrà percorrere ½ (A2-B) prima di raggiungere B, e poi 1/2(A2-B) e così via. Aristotele spiegava la difficoltà posta da questo argomento dicendo che in esso una traiettoria infinita doveva essere percorsa in un tempo finito. In entrambe le interpretazioni il mobile dovrà percorrere infiniti intervalli decrescenti di 1/2, 1/4, 1/8,..., dove il denominatore potrà crescere all'infinito. Il secondo argomento contro il moto è quello detto di Achille o di Achille e la tartaruga. Si supponga che Achille insegua una tartaruga, che ha su di lui un vantaggio iniziale; pur muovendosi con una velocità maggiore di quella della tartaruga, Achille non la raggiungerà mai, perché, se si suppone che AB sia il vantaggio della tartaruga su Achille, questi deve giungere in B, per raggiungere la tartaruga. Nel frattempo però la tartaruga sarà passata in A1 e, quando www.ABCtribe.com - la riproduzione non autorizzata è vietata in qualsiasi forma e modalità 9 Achille sarà giunto in A1, essa sarà in A2 e così via. Secondo Aristotele questo argomento era identico al precedente, con la sola differenza che qui non si ha una serie di dimezzamenti, ma gli spazi che dividono Achille dalla tartaruga diventano sempre più piccoli secondo la serie 1/n, 1/n2 , 1/n3... . Il terzo argomentocontro il moto e quello detto della freccia. In ogni momento dato un corpo occupa uno spazio esattamente uguale alla sua grandezza, e quando un corpo occupa uno spazio uguale a se stesso è in quiete. Pertanto in ogni istante di un movimento il mobile sarà in quiete, e un movimento non può risultare da una somma di stati di quiete. II quarto argomentocontro il moto, detto anche delle masse nello stadio, suppone che in uno stadio ci siano tre serie (A1, A2, A3, A4; B1, B2, B3, B3; C1, C2, C3, C4) di corpi. Le tre serie hanno uguale lunghezza e una (A1-A2) è ferma, mentre le altre due si muovono con la stessa velocità lungo percorsi paralleli. Una serie si muove dall'estremità dello stadio e l'altra in senso inverso dalla metà dello stadio verso quell'estremità. Nella posizione iniziale (fìg. 2a) B3 e B4 sono in corrispondenza di A1 e A2, mentre C1 e C2 sono in corrispondenza di A3 e A4. Ci dovrebbe essere un momento in cui ciascuna massa di una serie sarà allineata con la massa corrispondente delle altre due serie, sicché gli estremi A1-B1-C1 e A4-B4-C4 combaceranno. Per raggiungere questa disposizione le masse B e C superano le une rispetto alle altre 4 intervalli, perché B4 nella posizione iniziale non corrisponde a nessun C, mentre nella posizione finale corrisponde a C4: dunque i B e i C sono sfilati gli uni rispetto agli altri di 4 posizioni. Ma nello stesso tempo, B4 raggiunge A1 e C1 raggiunge A1 muovendosi di 2 soli intervalli. Poiché le serie sono tutte uguali, bisogna ammettere che i corpi in movimento hanno percorso nello stesso tempo spazi uguali e diseguali. Potrebbe essere Aristotele che, esponendo l'argomento della freccia, attribuisce a Zenone la concezione del tempo come somma di istanti in ognuno dei quali la freccia è stazionaria. E Aristotele liquida anche l'argomento delle masse nello stadio con l'osservazione che Zenone trascura le velocità relative dei mobili. La critica aristotelica potrebbe dipendere dal fatto che Aristotele espone gli argomenti zenoniani riferendoli a intervalli finiti e a corpi macroscopici di grandezza finita. Non così faceva con i primi due argomenti contro il moto, la dicotomia e Achille, esponendo i quali sosteneva che Zenone fa percorrere distanze infinite in tempi finiti. In effetti Aristotele faceva riferimento a Zenone nel trattare di infinito e di continuo, e la letteratura filosofica e matematica posteriore ha ripreso quelle argomentazioni. Quando nell'Ottocento si sistemò la teoria matematica del continuo, parve che anche i paradossi zenoniani potessero esser spiegati e risolti. Nacque così una storiografia che presentava le argomentazioni zenoniane in chiave matematica, tanto più che si poteva pensare che Zenone facesse riferimento a una matematica pitagorica entrata in crisi con la scoperta delle grandezze incommensurabili; e con quella crisi Zenone poteva esser collegato, perché i suoi paradossi nascevano dalla scoperta del continuo, che solo la moderna teoria degli insiemi rendeva possibile padroneggiare. La storiografia più recente ha cercato di liberarsi dalla prospettiva matematica. La matematica pitagorica è apparsa un'improbabile invenzione, e gli storici sono diventati prudenti nell'introdurre riferimenti all'infinito nei paradossi di Zenone; hanno invece preferito ricostruire il suo linguaggio filosofico, nel quale i problemi dell'infinito matematico e del continuo non sono presenti. Non è escluso che Zenone fosse diventato un personaggio al quale si potevano assai liberamente attribuire www.ABCtribe.com - la riproduzione non autorizzata è vietata in qualsiasi forma e modalità 10