I PARADOSSI DI ZENONE DI ELEA Zenone di Elea, discepolo di Parmenide e suo intimo amico, elaborò nell’opera in prosa intitolata Sulla Natura 40 argomenti contro la pluralità (o molteplicità) e quattro contro il movimento, meglio conosciuti come paradossi (dal greco parà = contro e doxa = opinione comune): tali argomentazioni hanno lo scopo di difendere le tesi del maestro confutando le critiche degli avversari di Parmenide. Proprio per questo Aristotele definì Zenone “inventore della dialettica”: tale disciplina, che evidenzierà a pieno le sue caratteristiche solo a partire dai Sofisti, è appunto l’arte della discussione, che consiste nell’affermare la bontà delle proprie tesi confutando quelle dell’avversario. Zenone elabora in effetti un aspetto imprescindibile della dialettica, ossia la dimostrazione per assurdo, che abbiamo già visto all’opera nella filosofia parmenidea: i suoi paradossi hanno quindi lo scopo di dimostrare come gli avversari di Parmenide, che ritengono assurde le conclusioni del filosofo di Elea, incorrano in affermazioni ancora più assurde e paradossali nel momento in cui neghino l’eternità e l’immutabilità dell’essere. Chi sono gli avversari a cui Zenone allude? A livello filosofico, sicuramente i Pitagorici, visto che ammettono la pluralità dell’archè, i numeri e sostengono l’evidenza del divenire, ma anche lo stesso Anassagora, contemporaneo di Zenone, e sostanzialmente tutti i i pluralisti. Peraltro, più in generale, i suoi paradossi sono rivolti contro chiunque ammetta l’evidenza indubitabile del divenire, che implica di per sé il movimento e la molteplicità: dunque, il senso comune degli uomini di ogni tempo. a) Paradossi contro la molteplicità Esaminiamo qui uno dei 40 paradossi zenoniani, sicuramente tra i più rappresentativi. Ammettiamo per ipotesi che gli enti (realtà particolari, determinate sulla base di qualità specifiche: alberi, monti, sedie, ecc.) siano molti, costituiscano cioè una pluralità (questa è la tesi da ridurre all’assurdo). Si presentano due alternative: da un lato, se per es. questi enti sono 1000, essi sono tanti quanti sono, dunque risultano di numero finito (applichiamo in questo contesto, implicitamente il principio di identità, già accennato in Parmenide, per cui ogni cosa è ciò che è, è uguale a sé); dall’altro lato, si può anche dimostrare, all’opposto, che sono di numero infinito, perché enti molteplici saranno composti di parti, ma ogni parte sarà a sua volta ulteriormente composta di parti e così via all’infinito. Riguardo a questo secondo modo di vedere la pluralità, facciamo un esempio (tratto da Trabattoni – La Vergata, Filosofia e cultura, La Nuova Italia, vol. 1). Mettiamo che la molteplicità di cose di cui stiamo parlando sia rappresentata da uno scaffale pieno di libri: sono molti, ma di numero finito, tanto che noi, pur impiegandoci un po’ di tempo, potremmo anche contarli. Tuttavia, i libri sono composti da pagine, le quali a loro volta sono fatte di capitoli, i capitoli da paragrafi, gli stessi da frasi, le frasi da parole, le parole da lettere, queste ultime da svariati puntini di inchiostro. Quanti sono tutti questi elementi? Il loro numero rischia di diventare veramente infinito. In conclusione, esistono buoni argomenti per sostenere allo stesso tempo sia che il molteplice sia finito, sia per sostenere il suo opposto. In tal caso, violiamo il principio di non contraddizione, di cui per la prima volta Parmenide fa implicitamente uso. 1 b) Paradossi contro il movimento Il primo paradosso che prendiamo in esame è quello della dicotomia (concetto che si suddivide in due ulteriori concetti tra di loro contrari). Consideriamo un corpo che si muove da A verso B: per giungere alla meta, esso deve prima arrivare alla metà di AB, che chiameremo punto C; prima di arrivare ad AC, esso deve però transitare per la sua metà, il punto D; per arrivare qui e percorrere il tratto AD, dovrà tuttavia passare per E, e così via all’infinito. Pertanto, se noi ammettiamo che i corpi si muovano in uno spazio divisibile all’infinito, un corpo per fare anche il più piccolo spostamento deve toccare infiniti punti. Tuttavia, è impossibile percorre infiniti punti in un tempo finito. Questo paradosso procede per divisione di una grandezza data. L’argomentazione che viene dopo, denominata ‘Achille e la tartaruga’, forse la più celebre, procede invece per somma di grandezze sempre più piccole. Il piè veloce Achille, volendo ingaggiare una gara di velocità con la tartaruga, animale noto per la sua lentezza proverbiale, le concede un tratto di vantaggio. Achille non sarà mai in grado di raggiungere l’animale, perché, nel momento in cui egli avrà percorso la distanza che lo separa dall’avversario, questo avrà compiuto un ulteriore tratto, e così via all’infinito, per cui la distanza tra i contendenti potrà sicuramente diminuire progressivamente ma non si ridurrà mai a zero, perché, seppur minima, essa sarà sempre composta di parti: e ogni parte, come abbiamo visto sopra, consta sempre di infiniti punti. Pertanto, è impossibile percorrere in un tempo finito infinite parti di spazio. L’ultimo paradosso che prendiamo in esame è quello della freccia: se i primi due riguardavano lo spazio, questo concerne il tempo. L’opinione comune crede che la freccia F, scagliata per colpire il bersaglio B, sia ovviamente in moto, mentre in realtà è ferma. Infatti, in ciascuno degli istanti in cui possiamo dividere il tempo impiegato dalla freccia per raggiungere il bersaglio, essa occupa uno spazio uguale a se stesso; ma ciò che occupa uno spazio uguale a sé, è in riposo, non in moto. Se la freccia è in riposo in ogni istante che percorre per giungere alla meta, lo sarà anche nella totalità dei suoi istanti. Non avviene dunque un effettivo passaggio da un punto all’altro. A questo punto, ciò che dobbiamo chiarire è il significato di questi paradossi. Come noterà giustamente il grande logico del Novecento Bertrand Russell, Zenone ha avuto il merito di evidenziare un’autentica difficoltà del pensiero umano, ossia le aporie in cui esso cade quando si imbatte nel concetto di infinito. Quelle di Zenone non sono quindi astruse elucubrazioni o scherzi pseudo logici, ma autentica filosofia. Egli conclude sostenendo l’impossibilità del movimento e della molteplicità, perché essendo la realtà, sia a livello fisico che matematico divisibile all’infinito, non potranno esistere né la molteplicità né il movimento, in virtù del fatto che essi implicherebbero dover percorrere all’infinito parti di spazio o intervalli di tempo, cosa assurda per la ragione. Aristotele, una fonte imprescindibile per ricostruire il pensiero di Zenone (della sua opera ci restano infatti solo cinque frammenti ritenuti autentici), risolse la questione sostenendo che l’infinito è tale non in atto (ossia, nella realtà compiuta), bensì in potenza: esso è un concetto potenziale, virtuale, mentale, logico. Nella realtà fisica esistono solo quantità finite, mentre la divisibilità all’infinito è possibile a livello logico – matematico. La soluzione aristotelica non poteva essere concepita dalla concezione pitagorico – eleatica. Infatti, l’aritmo - geometria dei pitagorici non distingueva tra numeri e realtà, ossia tra l’ambito logico – matematico e quello fisico: i numeri sono al tempo stesso punti geometrici, rappresentabili da sassolini. Zenone, pur confutando i sostenitori del divenire e con ciò i pitagorici, condivide però con tale scuola il punto di vista comune che non separa numeri e realtà. La cosa non sorprende affatto, se si pensa che 2 pensiero, realtà e linguaggio sono tre ambiti strettamente collegati tra di loro in tutta la filosofia presocratica, o per meglio dire costituiscono tre aspetti di un’unica realtà. Non a caso i pitagorici hanno una concezione magico – metafisica del numero: esso non è mero strumento di misurazione del mondo, ma costituisce la sua essenza, il criterio per comprenderne la struttura più profonda. Ecco perché lo stesso Zenone non poteva pensare ad una soluzione come quella aristotelica, la quale peraltro non è soddisfacente anche da un altro punto di vista. Egli avrebbe ragione solo se lo spazio reale fosse finito. La conclusione aristotelica secondo cui la realtà fisica è finita si fonda sull’evidenza sensibile: i sensi mi attestano indiscutibilmente che le cose stanno così. In tal modo, però, il filosofo di Stagira (città natale di Aristotele) compie un errore logico: il suo discorso incorre in una petizione di principio (altrimenti detta circolo vizioso o diallele), in base a cui la tesi che si vuole dimostrare viene in realtà presupposta come premessa dell’argomentazione e risulta perciò indimostrata. Nel nostro caso, non posso sostenere che il mondo è finito (tesi da dimostrare) perché ciò è confermato indiscutibilmente dall’evidenza sensibile (premessa di fondo), in quanto questo presupposto è tutto da dimostrare: la logica parmenidea ci mostra esattamente il contrario. Se vogliamo fare un altro esempio di petizione di principio, non posso sostenere che il mondo ha avuto un inizio nel tempo perché qualcuno o qualcosa lo ha creato o gli ha impresso movimento, in quanto questo presupposto resta tutto da provare. In conclusione, che lo spazio fisico sia finito e in movimento va spiegato, filosoficamente giustificato. Non posso dire: siccome vedo il movimento e la realtà finita, allora lo spazio è da supporre finito. Ciò che Aristotele ritiene indiscutibile, viene fortemente messo in crisi da Parmenide e Zenone, con argomenti assai rigorosi. Naturalmente, per sgombrare il campo da possibili equivoci, Parmenide (e con lui Zenone) non intendono sostenere che movimento e molteplicità non esistono a livello empirico, ossia non vogliono negare il fatto che i sensi ci attestino che le cose sono molteplici e in movimento; allo stesso modo, Zenone non crede certo che Achille non sia in grado di superare fisicamente la tartaruga. Essi sostengono una tesi molto più profonda: ciò che i sensi ammettono come del tutto evidente (il divenire, che implica molteplicità e movimento) contraddice la verità del logos, della pura razionalità. Non negano, ripetiamo il fatto che l’esperienza ci mostri il divenire, ma che quanto l’esperienza ci mostra sia autenticamente attendibile. Il problema è il rapporto tra logica ed esperienza, tra ragione e sensibilità. Peraltro, se noi ammettiamo l’esistenza del divenire e che l’infinito è logicamente possibile (cioè, non contraddittorio), ma sosteniamo che la realtà attestataci dall’esperienza è differente (in quanto finita), come fa Aristotele, ammettiamo una differenza tra pensiero ed essere, tra ragione e realtà. Tuttavia, Parmenide aveva affermato che “lo stesso è pensare ed essere”, nel senso che il pensiero è sempre e soltanto il pensiero dell’essere (possiamo pensare solo ciò che è, e l’essere è causa del pensiero). Stessa conclusione è quella di Eraclito, per cui il logos universale, la ragione comune ad ogni uomo, comprende, corrisponde al logos oggettivo come legge che governa ogni cosa (la lotta dei contrari). Quindi, non potendo sussistere uno scarto tra i due ambiti, la realtà che corrisponde al pensiero, che è rispecchiata dalla ragione, non è certamente quella che si percepisce con i sensi (che per gli Eleati ci ingannano), bensì quella che non si vede, ma si concepisce con il puro pensiero, cioè la struttura più profonda del reale, la sua essenza. Quella che gli uomini che si fidano della doxa ritengono essere una realtà indubitabile è invece ingannevole: ci serve nella vita di ogni giorno, ma ci inganna quando vogliamo conoscere la verità, il cui disvelamento sarà possibile solo con la ragione. Solo così la filosofia è epistème, discorso inconfutabile, non smentibile in alcun modo. Con la scoperta del calcolo infinitesimale, avvenuta nel corso del ‘600, la scienza moderna aprirà la strada ad una nuova frontiera per il pensiero umano, ammettendo la possibilità dell’infinito e 3 sostenendo l’assoluta compatibilità tra pensiero logico – matematico e realtà fisica, che non sono affatto in contraddizione. Ma questa è, per il momento, un’altra storia, che affronteremo a tempo debito. 4