Finanza e debito pubblico in Italia tra età moderna e contemporanea di GIUSEPPE DI TARANTO Il concetto di debito pubblico, storicizzato in un ambito di lungo periodo, assume connotazioni teoriche ed evidenza empirica diverse se riferito all’età moderna o contemporanea e, sotto il profilo geo-economico ed in particolare per l’Italia, se analizzato nel contesto del Mezzogiorno o del Centro-nord. La vastità argomentativa e l’ampiezza temporale del tema trattato necessitano, a mio avviso, di talune specificazioni e delimitazioni. Le mie osservazioni, perciò, saranno prevalentemente riferite all’economia meridionale. Il debito pubblico, come è noto, è la risultante cumulativa dei prestiti che lo Stato e le sue amministrazioni contraggono per finanziare periodicamente il deficit di bilancio o, se si preferisce, la differenza tra spese ed entrate al netto degli interessi sui relativi titoli emessi, cioè il cosiddetto disavanzo primario. In termini diversi, esso è un debito dello Stato verso i cittadini – che ne ricevono gli interessi e la restituzione del capitale –, ma è, di converso, anche un debito dei cittadini verso se stessi, attraverso il pagamento delle imposte. Questa apparente contraddizione ha dato adito ad un acceso dibattito iniziato nei primi decenni dell’Ottocento da David Ricardo ed il cui esito è riassunto, ai nostri giorni, nella teoria della neutralità del debito pubblico. Nell’ambito di scelte razionali, un soggetto sa che al vantaggio presunto di non soggiacere ad una nuova imposizione fiscale, sostituita dall’emissione del debito, dovrà scontare il valore attuale delle imposte future necessarie al rimborso del capitale e dell’interesse del debito stesso. Ciò implica il vincolo di bilancio intertemporale, che, “esige che, sull’intero orizzonte dell’economia, il valore attuale del deficit di bilancio sia zero”1. Il disavanzo, perciò, può essere solo transitorio. 1 Per una sintesi degli aspetti teorici sul debito pubblico, I. MUSU, Il debito pubblico, Bologna, Il Mulino, 2001. Cfr. anche, J. MARIN, Sustainability of public finances and automatic stabilization under a rule of budgetary discipline, B.C.E., Working paper n. 193, november 2002. 137 Su queste premesse si possono individuare alcune continuità o discontinuità che hanno accompagnato il lungo e travagliato iter del debito pubblico, che, all’inizio dell’età moderna, deve considerarsi una fattispecie rispetto alla fisionomia che andrà vieppiù assumendo in età contemporanea. Circa dieci anni or sono, Roberto Mantelli scriveva che è difficile definire in che consistesse esattamente il debito pubblico nel XVI secolo. Nel Mezzogiorno, la vendita degli uffici permetteva agli acquirenti di ottenere emolumenti, salari ed altro paragonabili ad una rendita vitalizia2. La similitudine terminologica è da rintracciarsi nella circostanza che tali esborsi, da parte dello Stato, evitavano – ma sarebbe meglio dire, a mio avviso, ammortizzavano – la fuoriuscita massiccia di ingenti somme dalle casse pubbliche. I governi, inoltre, erano avvantaggiati dall’inflazione, che, in particolare nella seconda metà del ’500, permetteva il rimborso di capitali nominalmente inalterati ma diminuiti in potere reale di acquisto, e dall’incremento del gettito delle imposte indirette, causato dall’aumento dei prezzi delle merci3. È significativo che anche Ilaria Zilli, in un volume dedicato a “Carlo di Borbone e la rinascita del Regno di Napoli”, epoca nella quale si era largamente diffusa la pratica delle alienazioni e dei patti di retrovendendo, nonché della loro commercializzazione, titolasse un paragrafo del suo lavoro “Si può parlare di debito pubblico?”. L’Autrice ricorda gli arrendamenti ceduti in solutum già nell’epoca spagnola, e dai quali la corte percepiva un contributo4. Il problema, comunque, può essere affrontato attraverso una differente categoria interpretativa. Se, come sostiene la teoria economica, l’emissione di 2 R. MANTELLI, L’alienazione della rendita pubblica e i suoi acquirenti dal 1556 al 1583 nel Regno di Napoli, Università degli studi di Genova, Facoltà di Scienze Politiche, Pubblicazioni dell’Istituto di Studi Economici, Serie di Storia economica, n. 2, 1994, pp. 10 sgg. Il lavoro è stato ripubblicato – ed ampliato –, con lo stesso titolo, da Cacucci Editore, Bari, 1997. 3 Relativamente al diritto di ricompra, lo ius rehemendi, altri vantaggi derivavano ai governi dalla facoltà di ridurre il tasso di interesse e di vendere il diritto stesso ad un altro soggetto, tenuto a restituire il capitale al titolare della rendita di cui diventava possessore, recuperandone, però, un saggio d’interesse inferiore (Cfr. R. MANTELLI, L’alienazione, cit., p. 14). 4 Il Ministro delle Finanze del Regno di Napoli, Rederer, scriveva che anche prima del 1806, allorquando si formò il Gran Libro del Debito Pubblico, quest’ultimo esisteva, sotto forma di un indebitamento “disordinato” nei confronti dei privati (I. ZILLI, Carlo di Borbone e la rinascita nel Regno di Napoli, 1669-1737, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1990, p. 2. Interessanti osservazioni sul sistema finanziario del Mezzogiorno sono contenute anche in IDEM, Imposta diretta e debito pubblico nel Regno di Napoli, 1669-1737, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1990; A. BULGARELLI LUKACS, L’imposta diretta nel Regno di Napoli in età moderna, Franco Angeli, Milano, 1993; IDEM, Alla ricerca del contribuente. Fisco, catasto, gruppi di potere, ceti emergenti nel Regno di Napoli del XVIII secolo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2004; G. SABATINI, Il controllo fiscale sul territorio nel Mezzogiorno spagnolo e il caso delle province abruzzesi, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Istituto Universitario Navale – Istituto di Storia Economica, Napoli, 1997. 138 moneta convertibile ai fini di finanziare il disavanzo pubblico si considera debito dello Stato, allora l’evidenza empirica o, se si preferisce, la Storia economica, ci insegna che nel Mezzogiorno esso era presente a pieno titolo già nel ’500. Il compianto professor Luigi de Rosa ha mostrato, in proposito, che la trasformazione dei depositi in fedi di credito, con l’obbligo che lo Stato imponeva ai Banchi pubblici napoletani di sottoscrivere i titoli della rendita, può rappresentare un esempio “moderno” di debito pubblico5. Il meccanismo di regolazione di quest’ultimo, però, dovrà ancora completarsi attraverso ulteriori categorie interpretative: la razionalità amministrativa, che avrà ragione di essere con la dominazione francese e la costituzione del Gran Libro del Debito Pubblico; la fiducia dei cittadini, quale paradigma esplicativo della realtà sociale e della modernità, secondo la teoria della complessità; la sostenibilità del debito stesso, che non ha regole e limiti precisi ma trova, proprio nella razionalità amministrativa e nella fiducia, fondamentali principi etici, ancor prima che economici, di comportamento istituzionale. Esempio di razionalità amministrativa fu la gestione dei “luoghi del monte”, cioè dei titoli del debito pubblico dello Stato Romano tra Settecento e Ottocento. È vero, infatti, come ha mostrato Donatella Strangio6, che all’epoca il solo pagamento degli interessi superava il 50% del totale delle uscite e che si ricorse alla sua sospensione, alla vendita dei beni immobili ed alla riduzione del valore nominale – da 100 a 24 –, conversione forzosa che equivaleva, di fatto, alla liquidazione dei titoli stessi; è pur vero, però, che tali misure fecero ricadere gli oneri del debito sulle generazioni presenti assai più che sulle future, argomento che andrebbe approfondito attraverso lo studio della struttura per sesso ed età dei sottoscrittori e della loro consistenza patrimoniale. D’altronde, ha sottolineato Francesco Colzi7, già nel Seicento la sicurezza, la redditività e la liquidità dei “luoghi del monte” facevano sì che, a prescindere dallo status, soggetti diversi investissero con fiducia il loro denaro per tali titoli, rafforzando le strutture pubbliche, innescando un circolo virtuoso tra “la 5 L. DE ROSA, The beginnings of paper-money circulation : the Neapolitan Public Banks (15401650), in “The Journal of European Economic History”, 2001, n. 3, pp. 497-532. Per una attenta rassegna sull’argomento, a livello nazionale, cfr. G. DE LUCA, Le più recenti tendenze della storiografia finanziaria italiana dell’età moderna: gli studi sulla moneta, i banchi e i banchieri, estratto, CLUB, Milano, 2002, pp. 1-22. 6 D. STRANGIO, Il debito pubblico pontificio. Cambiamento e continuità nella finanza pontificia dal periodo francese alla restaurazione romana 1798-1820, Cedam, Padova, 2001, pp. 177-182. Sul tema della razionalità amministrativa cfr., G. DE LUCA, Debito pubblico, sistema fiscale ed economia reale nella Lombardia spagnola: l’alienazione delle entrate, estratto, CLUB, Milano, 2002, pp. 1-18. 7 F. COLZI, Il debito pubblico del Campidoglio. Finanza comunale e circolazione dei titoli a Roma fra Cinque e Seicento, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1999, pp. 237 sgg. 139 sicurezza della piazza …,. la rapida sottoscrizione di nuovi monti ed il consolidamento delle istituzioni preposte all’emissione dei prestiti”8. Relativamente alla fiducia dei cittadini, in rapporto alla categoria della modernità, circa venti anni or sono ho evidenziato le conseguenze della corruttela della magistratura contabile in alcune aree del Mezzogiorno nella seconda metà del Settecento. Non poche Università, infatti, erano amministrate in modo coatto dalla Camera della Sommaria, perché accusate di costanti deficit di bilancio. Al contrario, esse conseguivano cospicui avanzi, fino a causare una tale sfiducia tra gli eletti locali – estromessi, tra l’altro, dalle loro funzioni istituzionali e rappresentative – che essi investivano gli avanzi nella costruzione di strade pur di non devolverli al Tribunale della Sommaria9. La vicenda ha aperto taluni problemi interpretativi sulla storia economica dei Comuni meridionali, perché è ormai necessario verificare, attraverso un attento studio della struttura finanziaria, se i loro bilanci erano realmente passivi o solo apparentemente, come voleva la magistratura contabile per estorcere prebende, compensi, missioni ed altri vantaggi non certo a fini di pubblica utilità per l’erario. Desidero soffermarmi, infine, sulla sostenibilità del debito. Troppo spesso prolungati deficit di bilancio, la cui somma è all’origine della progressiva formazione del debito stesso, sono stati considerati particolarmente dannosi per l’economia di un Paese. Tale interpretazione ha trovato, nell’analisi storica e nella dottrina, supporto teorico nella scuola neo-monetarista e della macroeconomia microfondata, attraverso il principio delle scelte razionali. Si dimentica, però, oltre al classico precetto Keynesiano del deficit spending, nel breve periodo, che parte degli studiosi di economia considera il debito pubblico solo come debito dei contribuenti verso i risparmiatori10, quando esso è attinente ad un sistema aperto, cioè di scambio, ma non globalizzato, quale quello che ha caratterizzato la crescita delle nazioni occidentali, e non soltanto, dalla fine degli anni ’80 del Novecento. Ancora. Lo stesso rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo non sembra essere un indice rappresentativo della sostenibilità. Se è vero che un elevato disavanzo può creare spinte inflazionistiche alimentate da domanda senza un correspettivo adeguamento della capacità produttiva, è benanche opportuno ricordare che tale rapporto non sempre misura la pericolosità del 8 Ibidem, p. 239. G. DI TARANTO, L’economia amministrata. La deduzione in patrimonio delle Università meridionali, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1988. 10 A. GRAZIANI, Lo sviluppo dell’economia italiana dalla ricostruzione alla moneta unica, Bollati Boringhieri, Torino, 2001, pp. 173 sgg. 9 140 debito, perché esso non è alla base delle scelte razionali del risparmiatore rispetto alla composizione del suo portafoglio al momento di decidere se rinnovare la sottoscrizione dei titoli o chiederne il rimborso11. Diverso è il sistema di riferimento attuale, dove la globalizzazione dei mercati finanziari permette la dislocazione dei capitali da un Paese all’altro in tempo reale. Permangono, però, taluni dubbi sugli indici considerati rappresentativi dei limiti della sostenibilità. Quale teoria economica stabilisce che i rapporti ottimali tra deficit e Pil oppure tra debito pubblico e Pil debbano essere, rispettivamente, del 3% e del 60%, come vuole, nell’Unione europea, il Patto di stabilità e crescita? Recentemente, ad esempio, è stata avanzata l’ipotesi di fissare solo il parametro debito/Pil, “consentendo ad ogni Stato membro una certa libertà nel deficit spending in ragione del suo tasso di sviluppo economico”12. Le osservazioni svolte sono solo un approccio minimale alla complessità che caratterizza lo studio e le indagini sul rapporto tra finanza e debito pubblico a livello domestico o internazionale, rispetto alla periodizzazione, alla diversità delle strutture geo-politiche esaminate e, soprattutto, alla contestualizzazione dei differenti sistemi economici ed istituzionali. 11 C. CASAROSA, Il significato economico del rapporto fra debito pubblico e prodotto interno lordo: un’analisi critica, in A. GRAZIANI, a cura di, La spirale del debito pubblico, Il Mulino, Bologna, 1988, pp. 80 sgg. 12 F. KOSTARIS PADOA SCHIOPPA, Lessico dell’economia, Luiss University Press, Roma, 2005, pp. 180 sgg. 141 142