Note e discussioni Le riviste francesi di storia contemporanea tra

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N o te e discu ssion i
Le riviste francesi di storia contem poranea
tra crisi e svolta critica
di Annie Fourcaut
L’editoriale di Massimo Legnani poggiava
sulla constatazione di un certo numero di
grandi evoluzioni. Una trasformazione della
natura stessa delle riviste di storia italiane
che, avendo abbandonato proclami ideolo­
gici e storiografici (come dimostra la scom­
parsa degli editoriali) diventerebbero “stru­
menti giornalistici” . Un’evoluzione del mer­
cato della storia che, con il venir meno della
distinzione tra storia scientifica e divulgazio­
ne e l’unificazione, operata dalla “industria
della storia” , rimette in causa la collocazio­
ne e la funzione dello storico di professione.
Infine, un’esplosione della storia contempo­
ranea che si lascia trasportare verso “un ar­
cipelago di specializzazioni chiaramente re­
stie ad inventarsi nuove ragioni di scambio” .
Partendo da questo bilancio ricco di ombre,
che cosa dire del caso francese paragonato
all’esempio italiano?
Partiremo dal postulato banale, ma rara­
mente enunciato e in fin dei conti poco stu­
diato, che la geografia del paesaggio edito­
riale delle riviste riflette, con ritardi, pesan­
tezze e mediazioni, lo stato dell’arte, e che
non si può parlare delle riviste senza parlare
dei produttori di testi storici e dei lettori;
dunque, alla fin fine, dell’insieme della co­
munità storica. Appare quindi necessario af­
frontare più livelli di analisi: l’evoluzione
della disciplina, ed in modo particolare della
storia contemporanea (intesa in questo caso,
poiché la sua definizione è fluida, come il
periodo compreso tra Brumaio e gli anni
Mitterrand); il riflesso di ciò sulle riviste e le
evoluzioni interne all’area delle riviste di
storia francesi; infine il posto e la funzione
di “Le Mouvement social” in questa scena
in movimento. Data l’ampiezza del dibattito
ed il fatto che esso è tuttora in corso tra gli
storici, sarà consentito limitarsi in questa se­
de ad elencare alcune osservazioni necessarie
a inquadrare il problema delle riviste.
Le strozzature. Non è qui il caso di ritor­
nare sul blocco del reclutamento nell’inse­
gnamento superiore e nella ricerca in campo
storico, analizzato da Daniel Roche per la
Francia, ed esplicitamente ricordato per il
caso italiano; bensì di vederne gli effetti sul­
le riviste: debole ricambio dei comitati di re­
dazione (da un rapido calcolo approssimati-
Questo contributo redatto da Annie Fourcaut (maître de conférences in storia contemporanea all’École Normale
Supérieure di Fontenay-Saint-Cloud) come frutto di un’analisi collettiva condotta dal Comité de rédaction de “Le
Mouvement social”, si riferisce all’editoriale Le riviste di storia fra ‘scienza’ e ‘mercato’, apparso sul n. 169, dicem­
bre 1987, di “Italia contemporanea”. Siamo grati agli amici de “Le Mouvement social” per l’attenzione riservata ai
problemi posti; le analogie e le differenze che essi suggeriscono tra il panorama francese e quello italiano rimanda­
no a situazioni — ci sembra questa l’acquisizione più significativa — in cui le peculiarità nazionali perdono sempre
più terreno rispetto a tratti comuni e generalizzati (m.L).
“Italia contemporanea”, dicembre 1989, n. 177
70
Annie Fourcaut
vo si deduce che il componente-tipo, salvo
importanti eccezioni, è intorno ai quaran­
tanni, mentre i responsabili hanno dieci o
venti anni di più), minore rinnovamento dei
temi di ricerca, rischio che gli studenti si
scoraggino dal proseguire o portare a termi­
ne i dottorati che forniscono una buona par­
te degli articoli.
La creazione, nel 1982, di una nuova rivi­
sta di storia, intitolata “Sources Travaux hi­
storiques”, è prova al tempo stesso dell’im­
pazienza e della volontà di modificare le re­
gole del gioco da parte dei giovani ricercato­
ri. La rivista offre infatti possibilità di pub­
blicare in tempi brevi articoli piuttosto corti,
a partire dalle ‘maîtrise’ o dalle tesi, con l’o­
biettivo di fornire un’informazione ‘a caldo’
sui lavori in corso e l’ambizione di abbattere
le paratie stagne che dividono il pubblico
lettore di storia: studenti, ricercatori, inse­
gnanti della scuola secondaria, universitari.
Questa pubblicazione testimonia, non v’è
dubbio, innanzitutto le ambizioni dei suoi
promotori; ma anche le debolezze nel fun­
zionamento delle riviste di storia consacrate:
ritardi nella pubblicazione degli articoli, che
aumentano i blocchi di carriera, non cono­
scenza o rifiuto dei lavori di ricercatori mol­
to giovani al debutto, a livello della ‘maîtri­
se’ o del Dea (Diploma di studi approfondi­
ti, anno preliminare alla tesi).
Di fronte al contrasto accentuato tra la ri­
sonanza universitaria e nei media di alcuni
riconoscimenti al vertice e l’esaurirsi del re­
clutamento alla base, è necessario interro­
garsi sulla funzione, in questa situazione,
delle riviste: è quella di contribuire a cele­
brare valori certi o quella di condurre una
politica, audace perché incerta, di promo­
zione e di scoperta?
L ’esplosione. La crescente frammentazio­
ne della produzione storica è innanzitutto
una conseguenza della democratizzazione
dell’insegnamento superiore e dell’accesso al­
la ricerca: un maggior numero di nuovi dotto­
rati, portati a termine più rapidamente, so­
no prodotti da ricercatori giovani. L’esplo­
sione della disciplina si traduce nella molti­
plicazione disordinata degli oggetti e dei me­
todi di ricerca, accentuata dalla tendenza
della pratica storica francese a volgersi verso
gli studi locali, le monografie, le biografie.
Forte permane, nello stesso tempo, il bi­
sogno di opere di sintesi: lo attesta il succes­
so delle grandi serie tematiche pubblicate
dalle Editions du Seuil o dalle Presses Uni­
versitaires de France: storia della Francia ru­
rale, della Francia urbana, della famiglia,
della vita privata, la storia religiosa; lo di­
mostra anche la rinascita della “Revue de
synthèse” o la pubblicazione, in questo pe­
riodo di millenario capetingio e di bicente­
nario, di grandi collezioni di storia nazio­
nale.
Questa perdita di visibilità dell’insieme
del campo della produzione storica accresce
le difficoltà delle riviste e dei loro comitati
di redazione: è arduo definire un progetto
storiografico comune, fare funzionare col­
lettivamente una rivista, in un paesaggio
sfumato in cui si manifestano distinzioni tra
campi disciplinari — come dimostra l’evolu­
zione de “Le Mouvement social” verso arti­
coli ‘misti’, di storia politica, economica e
sociale — e correnti storiografiche.
La situazione è resa ancor più complessa
dal moltiplicarsi di riviste tematiche (come
“Communisme”), o di bollettini specializza­
ti o decisamente caratterizzati, prodotti da
gruppi di ricerca, istituti o associazioni a lo­
ro volta strettamente specializzati. “Bulletin
d’histoire de la Sécurité sociale” , dell’elettri­
cità, dell’alluminio, delle dogane; Comitato
di storia delle poste e dei telefoni, di storia
economica e finanziaria, “Bulletin de la so­
ciété des études jaurèsiennes” o i “Cahiers
Georges Sorel”, eccetera. Come in Italia,
questa evoluzione è particolarmente netta
nel campo della storia contemporanea.
Il paesaggio è reso ancor più frammenta­
rio da una storia del ventesimo secolo, o sto­
Le riviste francesi di storia contemporanea
ria del tempo presente, con vocazione all’au­
tonomia. Lo testimoniano nuove pubblica­
zioni periodiche: il “Bulletin de l’Ihtp” (In­
stitut d’histoire du temps présent del Cnrs)
ha l’obiettivo di sviluppare un’epistemologia
della storia del contemporaneo alquanto
prossimo; “Vingtième siècle - Revue d’hi­
stoire” , nata nel 1984, rivista dotta, inserita
nel quadro della ricerca universitaria, si è af­
fermata come prodotto editoriale nuovo
tanto per la sua veste quanto per la volontà,
in essa espressa, di mettere in gioco sistema­
ticamente il rapporto passato/presente; la
trasformazione del “Bulletin des Amis de la
Bdic” (Bibliothèque de documentation inter­
nationale contemporaine di Nanterre) in
“Matériaux pour l’histoire de notre temps”
documenta lo stesso fenomeno di diversifi­
cazione dei supporti delle riviste di storia.
In questo contesto, è necessario interro­
garsi sul ruolo delle riviste di storia ‘generi­
che’, “Annales Esc” , “Revue d’histoire mo­
derne et contemporaine” , “Revue histori­
que” , lo stesso “Mouvement social” nel mo­
mento in cui una certa forma di ricerca ca­
ratterizzata si indirizza verso bollettini con
pubblico specializzato e in cui il campo di­
sciplinare si fraziona e si circoscrive in com­
partimenti stagni.
In modo tutto particolare nel campo della
storia contemporanea, la crescente diversifi­
cazione della produzione si accentua in due
modi: articoli appartenenti incontestabil­
mente al territorio dello storico che vengono
pubblicati in riviste di geografia, di sociolo­
gia, di etnologia; è il caso della storia urba­
na con le riviste di sociologia o di geografia,
della storia culturale e sociale con, tra altri
esempi, gli “Actes de la recherche en scien­
ces sociales”; pluridisciplinarietà degli stessi
autori di articoli di storia: filosofi, sociolo­
gi, etnologi, politologi scrivono saggi di sto­
71
ria contemporanea, pubblicati questa volta
da riviste storiche, compreso lo stesso
“Mouvement social” .
Né vanno dimenticate le cause tecniche
dell’esplodere dei supporti: sviluppo della
micro informatica, Pao (dei procedimenti di
elaborazione di testi) che consentono una
proliferazione dell’auto-edizione o della
pubblicazione di raccolte di lavori, atti di ta­
vole rotonde o di convegni. Questa auto-edi­
zione, senza il filtro di una rivista con comi­
tato di lettura, provoca un’espansione del
prodotto editoriale che fa si che il novanta
per cento degli articoli di storia pubblicati
non abbiano in realtà lettori, gli stessi uni­
versitari non essendo più in grado di leggere
tutto quanto viene prodotto, persino nel
campo loro proprio.
Il declino dei sistemi. Come in Italia, la
crisi dei grandi modelli esplicativi — marxi­
smo, strutturalismo, scuola delle “Annales”
e suo ‘versante antropologico’, storia quan­
titativa — è diventata una banalità; alle in­
certezze storiche si assomma ovviamente il
nostro stesso mettere in causa questioni so­
ciali, morali e politiche. È sicuramente in
questo contesto che bisogna riflettere, come
taluni auspicano, sul regresso degli studi sul
movimento operaio, constatato dallo stesso
“Mouvement social” , che ne rappresentava
la terra di elezione1. Più che sulla diffidenza
verso i sistemi, discorso insulso da rotocalco
o da conversazione al caffè, è sulle conse­
guenze storiografiche di questa evoluzione
che dobbiamo senza dubbio interrogarci: ri­
torno all’erudizione, alla biografia, al rac­
conto, alla storia politica.
Mass media e mercato storico. La tesi di
Legnani, per cui si assisterebbe ad una unifi­
cazione dei mercati storici, non sembra atta­
1 Per un’analisi quantitativa dell’evoluzione di “Le Mouvement social” cfr. Jean-Louis Robert, Une radiographie
du “Mouvement social" (1960-1986), “Le Mouvement social” , 1988, n. 142, pp. 11-30.
72
Annie Fourcaut
gliarsi perfettamente alla Francia; o perlo­
meno condizione preliminare indispensabile
appare una definizione precisa dei due ‘mer­
cati’: lettori, produttori, supporti, temati­
che. Il caso di “L’Histoire” , successo edito­
riale indiscusso e ‘ponte’ tra i due mercati,
che attinge al mercato universitario la mag­
gior parte dei suoi autori e lo ‘stile’ degli ar­
ticoli (bibliografie, note, rinvìi), pur offren­
do saggi brevi, illustrati e sintetici, e dimo­
stra sensibilità verso le ricerche in corso e
apertura verso alcuni giovani ricercatori,
prova che la tesi dell’unificazione — che ov­
viamente si realizzerebbe in basso — è trop­
po semplificatrice.
Altrettanto utile sicuramente è riflettere
su un problema connesso ma diverso, segna­
lato per l’Italia: quello della nuova funzione
dei supporti offerti dai mezzi di comunica­
zione di massa, dai settimanali di informa­
zione ospitati dalla stampa e dalla televisio­
ne nell’ambito della carriera, nel processo di
riconoscimento — da parte del pubblico e
della comunità scientifica — e nella legitti­
mazione quale storico. Alcuni giovani stori­
ci hanno capito assai bene che la comparsa
ad una trasmissione come “Apostrophe” e
un articolo su “Le Monde des livres” si sono
posti oggi in concorrenza (hanno sostitui­
to?) con i sistemi tradizionali di riconosci­
mento. “L’ordinazione per avallo” (Daniel
Roche), nella scelta dei temi come in quella
di coloro che li tratteranno, tocca anche, ov­
viamente, le riviste di storia: quale diventa
in questo contesto di legittimazione diffusa e
massificata la loro funzione di selezione, di
filtro, di sostegno nel riconoscimento da
parte della comunità scientifica? Devono
partecipare all’opera di ridefinizione dei
modi della scrittura storica e consentire che
venga superato il contrasto tra scrittura
giornalistica e scrittura scientifica ‘pesante’
(con note, tavole, grafici, ragionamento che
poggia su fonti primarie citate, stadi del ra­
gionamento esposti al lettore in modo esau­
stivo)? È probabile d’altronde che la modifi­
ca dell’ordinamento degli studi di dottorato
(nuova tesi e procedura di abilitazione), nel
senso di una tesi più breve e di maggiori esi­
genze di pubblicazione produrrà effetti simi­
li sulla scrittura della ricerca storica. È lecito
del resto chiedersi se il grande successo della
storia culturale, politico-culturale, intellet­
tuale (che ritroviamo in “Le Mouvement so­
cial”) non dipenda anche — oltre il suo inte­
resse scientifico — dal fatto di essere più im­
mediatamente massificabile.
Come in Italia, svolgono una funzione
sempre più forte, nella commissione di testi
storici, le commemorazioni e gli anniversari.
Numeri speciali di riviste (anniversario del
Fronte popolare, del maggio 1968) accetta­
no consapevolmente questo compito com­
memorativo che esprime motivazioni com­
plesse: affermare il ruolo delle riviste scienti­
fiche nella costruzione della memoria stori­
ca, desiderio di attenersi all’attualità — dal
momento che la stampa di informazione ali­
menta un clima di interesse intorno all’avvenimento — possibilità di ottenere sovvenzio­
ni nel quadro delle commemorazioni nazio­
nali.
“Le Mouvement social” in questo conte­
sto. Il contrasto più evidente con la situazio­
ne italiana è la scarsità delle riviste francesi
di storia sociale rispetto alla varietà italiana.
La “Revue historique” , la “Revue d’histoire
moderne et contemporaine”, le “Annales
Esc” pubblicano certo, con altre riviste, stu­
di di storia sociale; ma “Le Mouvement so­
cial” è la sola rivista che la elegga a campo
privilegiato, dalle origini ad oggi. Anche le
riviste regionali francesi possono essere lo
sfogo di ricerche di storia sociale regionale,
ma a differenza dalle riviste regionali italia­
ne, spesso legate, in origine, alla Resistenza
e ai movimenti sociali regionali, hanno più
spesso caratteristiche erudite o regionali­
stiche.
In questo contesto di relativa solitudine,
di esplosione della disciplina, di dispersione
Le riviste francesi di storia contemporanea
dei produttori di storia contemporanea e dei
supporti con cui si manifestano, “Le Mou­
vement social” si trova nell’ora delle scelte e
delle riflessioni critiche sulla propria storia.
Una scelta di identità, innanzitutto: quale la
sorte di una rivista nata ad opera e per la
storia operaia nel momento dell’esplosione
del suo oggetto fondatore, del mutamento
dei modi di espressione e di organizzazione
di questo, così come dei propri stessi metodi
di analisi?
Quindi, una scelta metodologica: la crisi
della sintesi labroussiana produce oggi i suoi
estremi effetti di esplosione e di dispersione;
che cosa diventa quindi la storia sociale,
marchio a immagine e vocazione originale
della rivista?
Infine, le stesse funzioni di una rivista di
storia contemporanea oggi devono essere ri­
definite: si deve mantenere una politica di
pubblicazioni dotte, ponderatamente scelte e
selezionate, generate da un vivaio universita­
rio o piuttosto trasformarsi, in un contesto
di vivace concorrenza di fronte al riconosci­
mento congiunto mass media-università, in
organo di diffusione dei lavori prodotti sulla
scia della rivista, organizzando convegni, ta­
vole rotonde, incontri, con la preoccupazio­
ne di attenersi, se non all’attualità, almeno
agli interrogativi del momento?
La discussione non è giunta al termine ed
è possibile soltanto indicare un certo nume­
ro di priorità. La vocazione di “Le Mouve­
ment social” è quella di restare un punto
d’incontro della storia sociale internaziona­
le, di mantenere, nella scelta degli articoli e
delle direttrici di ricerca, una storia sociale
‘pesante’, di riflettere sulla collocazione del­
la storia del movimento operaio nella storio­
grafia francese e internazionale, di promuo­
vere una riflessione sulla storia del secondo
73
ventesimo secolo: storiografia, scrittura, di­
rettrici di ricerca, problemi specifici di archi­
vi e di metodologie.
Se si rifiuta la tesi dell’unificazione di un
mercato storico, la funzione di “Le Mouve­
ment social” si estrinseca così: mantenere un
adeguato livello scientifico attraverso il fil­
tro del Comitato di redazione, il quale sele­
ziona e orienta tematiche e modalità dello
scrivere di storia, condurre una politica edi­
toriale che come primo obiettivo abbia quel­
lo di far conoscere agli storici i risultati delle
ricerche storiche, vale a dire di quelle che ac­
crescono il bagaglio delle conoscenze esi­
stenti, obiettivo che non può essere confuso
con il soddisfacimento delle esigenze del
pubblico colto, che tutt’al più si occupa di
conoscenze storiche ‘tout court’.
È chiaro che tutte le riviste di storia che
desiderano continuare ad esistere come or­
ganismi attivi si trovano nella necessità di
riflettere sulla politica storiografica ed edi­
toriale da attuare di fronte alle svolte criti­
che della disciplina, agli sconvolgimenti
delle condizioni della produzione storica ed
ai mutamenti ideologici. E, anche se si è
d’accordo con Michelle Perrot, che in occa­
sione della discussione al Beaubourg nel­
l’autunno 1988 negava di proclamare delle
verità, si può pensare di portarne in luce
alcune piccole, nel senso in cui l’intende
Primo Levi:
“Si affaccia all’età adulta una generazio­
ne scettica, priva non di ideali ma di certez­
ze, anzi, diffidente delle grandi verità rivela­
te; disposta invece ad accettare le verità pic­
cole, mutevoli di mese in mese sull’onda
convulsa delle mode culturali, pilotate o sel­
vagge”2.
Annie Fourcaut
[traduzione dal francese di Francesca Ferratini Tosi]
2 Primo Levi, Isomm ersi e isalvati, Torino, Einaudi, 1986, p. 163.
QUADERNI DI STORIA
Sommario del n. 30, 1989
H. M aehler, La posizione giuridica della donna nell’Egitto tolemaico-, C. M ossé, Lycur­
gue l ’Athénien: homme du passé ou précurseur de l ’avenir?-, M. V egetti, Il mestiere del­
lo storico secondo Momigliano-, G. C am biano, Herder e le repubbliche greche; L. C an­
fora, L'inquietante mestiere dello storico- F. C alabi, La memoria infinita; J. France,
Espace géographique, méthode historique et textes anciens-, A, S chiesa ro, Alcuni modi
dell'analogia nel quinto libro di Lucrezio-, J.C. B e rm e jo B arre ra, Zeus, Hera y el matri­
monio sagrado.
Recensioni a:
Società romana e impero tardo antico: C, M eier, P. Veyne,
L’identità del cittadino e la democrazia in Grecia; P. Fedeli e R. D im undo, / racconti
del Satyricon di Petronio: A. De B ern ard i e S. G u a rra cin o , L'operazione storica: D.
Losurdo, La catastrofe della Germania e l ’immagine di Hegel: L. M agoni, In partibus
infidelium: R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia.
A. G iard in a (a c u ra di),
D ire tto re : Luciano C a nfora
Edizioni D edalo - Bari
Il rinnovamento difficile
Rassegna di studi sulla storia della scuola italiana
di Luigi Ambrosoli
La storia dell’istruzione è strettamente con­
nessa alla storia politica, soprattutto dal mo­
mento in cui sono gli stati ad assumere le ini­
ziative dell’istituzione di scuole e a garantir­
ne il funzionamento considerandole come lo­
ro compito fondamentale; se è vero che ri­
mangono in vita istituti d’istruzione dipen­
denti da enti religiosi o da privati, è vero an­
che che, a partire dalla seconda metà del di­
ciottesimo secolo e, soprattutto, nel corso
del diciannovesimo, le scuole statali si dif­
fondono a macchia d’olio, diventano il mo­
dello al quale le altre scuole si ispirano, solle­
citano il sorgere di una legislazione scolastica
che considera tutti gli aspetti “pubblici”,
cioè inerenti all’organizzazione della vita col­
lettiva, dell’istruzione. A confermare l’im­
portanza che le viene assegnata, l’istruzione
diviene, a partire dalla rivoluzione francese,
oggetto di formulazione nei principi fondamentali delle carte costituzionali.
La definizione, l’impostazione e lo svilup­
po degli interventi diretti alla formazione dei
cittadini sono tra i fattori che segnano con
maggiore evidenza il passaggio dall’assoluti­
smo alle tendenze riformatrici, dalle propo­
ste rivoluzionarie alla nascita di stati costitu­
zionali, dallo stato liberale ottocentesco al­
l’attuale stato democratico. La diffusione
dell’istruzione e la lotta contro l’analfabeti­
smo corrono paralleli al progressivo manife­
starsi e realizzarsi della volontà politica di fa­
vorire la più ampia partecipazione dei citta­
dini, appartenenti a tutti gli strati sociali, alla
gestione della cosa pubblica1.
Sotto questo profilo, dunque, la storia
dell’istruzione quasi si identifica con la sto­
ria politica. Ma la storia dell’istruzione è pu­
re componente essenziale della storia sociale
perché suo compito è la verifica delle conse­
guenze che l’alfabetizzazione provoca all’in­
terno di una società contribuendo progressi­
vamente alla riduzione dei dislivelli culturali
esistenti tra le classi, favorendo la circola­
zione delle idee, sollecitando l’adesione po­
polare alle iniziative pubbliche, promuoven­
do, in una fase più avanzata, la mobilità so­
ciale.
Da fine Ottocento alla riforma Gentile
La statizzazione dell’istruzione viene a rap­
presentare una ragione di confronto e di
contrasto tra il potere pubblico e le confes­
sioni religiose, soprattutto nei paesi cattolici
in cui la chiesa aveva esercitato per secoli
una larghissima influenza sull’educazione
dei giovani. Per quanto riguarda direttamente l’Italia, la creazione di un organico si-
1 Gli studi sull’alfabetizzazione in Italia sono estremamente scarsi e limitati all’Ottocento, come si rileva dall’im­
portante opera di Harvey J. Graff, Storia dell’alfabetizzazione occidentale, v. I, Dalle origini alla fin e dei Medioe­
vo; v. II, L ’età moderna; v. Ili, Tra presente e futuro, Bologna, Il Mulino, 1989.
“Italia contemporanea” , dicembre 1989, n. 177
76
Luigi Ambrosoli
stema di istruzione pubblica è avvenuta, per
ovvie ragioni, dopo l’Unità ed è coincisa con
la fase storica in cui era prevalsa, sotto la
spinta del liberalismo risorgimentale, la ten­
denza alla laicizzazione dello stato, cioè alla
separazione tra quanto apparteneva all’orga­
nizzazione politica e amministrativa della so­
cietà e quanto apparteneva alla vita spiritua­
le o derivava dalla adesione ad una confes­
sione religiosa. La chiesa cattolica è stata ed
è, tra le confessioni religiose, quella che ha
reagito e continua a reagire nei confronti di
quello che definisce criticamente il “mono­
polio” statale sull’istruzione e della “educa­
zione laica”, che essa respinge giudicando
pericolose le tendenze educative che rifiutino
di riferirsi alla trasmissione di verità rivelate.
Così, sempre per quanto riguarda l’Italia,
le due ragioni di maggiore contrasto sui pro­
blemi dell’istruzione sono state la condizio­
ne giuridica e finanziaria della scuola priva­
ta confessionale e l’insegnamento della reli­
gione nelle scuole statali. A quest’ultimo ar­
gomento dedica un documentato studio
Emilio Butturini ricostruendo i dibattiti e i
provvedimenti legislativi che, dal 1861 in
poi, ne hanno caratterizzato la complessa e
contrastata vicenda, dalla legge Casati, che
contemplava l’insegnamento religioso, ai
tentativi laici di sopprimerlo dopo il 1870,
dalla riforma Gentile ai Patti lateranensi,
dalla Costituzione repubblicana alla recente
revisione del Concordato2. Butturini rileva
come l’insegnamento della religione abbia
provocato dibattiti tra i laici, così come, tra
i cattolici, insieme alla convinzione dell’op­
portunità di esso, non sempre vi è stato ac­
cordo sulle modalità con cui realizzarlo per­
ché assumesse una fisionomia culturale più
precisa di quella tradizionale. È un po’, quest’ultima, la posizione di Butturini, anche se
egli appare preoccupato, come cattolico, che
la ricerca di nuove modalità nei programmi
e nella didattica possa togliere all’insegna­
mento della religione quel carattere distinti­
vo che consiste nella trasmissione di una
dottrina fondata su una rivelazione divina.
La lettura del libro di Butturini, proprio per
la ricchezza dei riferimenti ai dibattiti di un
secolo, conferma come sull’argomento i
punti di vista dei laici e dei cattolici siano
sempre stati tra loro contrastanti proprio
perché si richiamano a due concezioni gene­
rali dell’esistenza tra le quali risulta difficile
trovare forme di compromesso.
Franco Cambi e Simonetta Ulivieri si so­
no divisi il compito di offrirci il ritratto del­
la storia dell’infanzia nell’età liberale: il pri­
mo occupandosi della concezione filosofica,
morale, sociale, fisica del fanciullo nel corso
del secolo scorso; la seconda dedicando la
sua attenzione all’infanzia abbandonata, al­
la “violenza” sull’infanzia, alla donna e l’in­
fanzia3. L’evoluzione ottocentesca del “sen­
timento dell’infanzia” si risolve in una cre­
scita di amorevolezza, tenerezza, cura e tute­
la e così muta anche il rapporto tra genitori
e figli che viene a fondarsi su affetto, valo­
rizzazione, idealizzazione. Ma la realtà del­
l’infanzia resta molto diversa, nel corso del­
l’Ottocento, da una classe all’altra, dai figli
dell’aristocrazia e della borghesia ai figli del
popolo cittadino legato allo sviluppo indu­
striale e ai figli dei contadini delle campa­
gne; ciascuna di queste classi ipotizza per i
propri figli destini diversi, che vanno dalla
Emilio Butturini, La religione a scuola. Dall’Unità ad oggi, Brescia, Queriniana, 1987. Recentissimo è il volume
L ’insegnamento della religione nella scuola italiana, a cura di Enzo Catarsi, Milano, Angeli, 1989 (Centro studi
“Bruno Ciari”) che a un’introduzione di Catarsi su La religione cattolica nella storia della scuola fa seguire un’am­
pia documentazione del dibattito successivo alla modifica del Concordato del 1984, sino ai più recenti episodi.
3 Franco Cambi-Simonetta Ulivieri, Storia dell’infanzia nell’età liberale, Firenze, La Nuova Italia, 1988.
Il rinnovamento difficile
prospettiva di conservare il medesimo presti­
gio della famiglia cui appartengono a quella
di trovare un rapido inserimento nel mondo
del lavoro per collaborare al mantenimento
di sé e dei loro familiari. In comune a tutte
le classi è però la volontà degli adulti di eser­
citare il loro dominio sui fanciulli, di impor­
re loro una dura disciplina, di ricorrere,
spesso inconsapevolmente, alla violenza e
allo sfruttamento.
Di notevole interesse sono alcune conside­
razioni relative al prezzo pagato dall’infan­
zia per il progresso industriale: i figli del
proletariato urbano vivono un’esistenza sen­
za infanzia, senza cure e senza adeguate pro­
tezioni, sfruttata precocemente nel lavoro,
un’esistenza priva dell’effettivo sostegno fa­
miliare, già “adultizzata” . Anche nella cam­
pagna il lavoro minorile è largamente diffu­
so e lo sfruttamento dell’infanzia è fatto
normale; ma la partecipazione dell’infanzia
alla vita della comunità è maggiore e i trau­
mi sono minori. Comuni a tutti i bambini
del popolo sono, salvo rare eccezioni, le
condizioni di miseria, la denutrizione, le ca­
renze igieniche e sanitarie, tutti quei temi
che ricorrono nella pubblicistica operaia e
contadina dopo l’Unità e che costituiscono
un insistente argomento programmatico del
movimento socialista dopo il 1880. Il pro­
blema del rifiuto dell’infanzia, attuato attra­
verso l’esposizione, l’abbandono, l’infanti­
cidio, la vendita, è oggetto di particolare at­
tenzione per i risvolti sociali che presenta.
Causa del rifiuto sono generalmente le pre­
carie condizioni economiche, soprattutto
quando la madre ha già avuto numerosi fi­
gli, o il timore del giudizio sociale, quando
si tratta di figli illegittimi. Come in altri ca­
si, anche per l’esposizione e l’abbandono
dell’infanzia non si affronta il problema del­
le loro cause, ma si programmano interventi
assistenziali di tipo caritativo ad opera di
privati e dello stato. Ma l’assistenza offerta
agli esposti e agli orfani (che costituiscono
un problema analogo), di assai limitate pro­
77
porzioni, non è in grado di porre riparo agli
alti tassi di mortalità infantile e non appare
guidata da un programma di formazione che
consenta all’esposto di inserirsi positivamen­
te, superata la fanciullezza, nella esistenza.
Una pagina a se stante è quella dell’istru­
zione dell’infanzia, che non trova adeguate
soluzioni. La diffusione delle scuole elemen­
tari è molto limitata, l’obbligo scolastico,
già implicito nella legge Casati e ribadito
dalla legge Coppino dopo l’avvento della Si­
nistra al potere, viene, in carenza di sanzioni
per gli inadempienti, largamente evaso; il la­
voro minorile, soprattutto nelle campagne,
sottrae i fanciulli all’istruzione, la formazio­
ne dei maestri elementari è approssimativa
quando non del tutto insufficiente e non
concorre ad offrire alle scuole personale in
grado di ottenere soddisfacenti risultati.
Il libro di Cambi e Ulivieri, prendendo le
mosse da una prospettiva diversa da quella
di altri studi sul medesimo periodo, giunge
alla conclusione che la storia dell’infanzia
nell’età liberale è una “pagina nera” sotto il
profilo educativo e sotto quello sociale. Le
carenze educative delle famiglie (diverse da
una classe all’altra ma pur sempre carenze) e
della scuola, la mancanza di una coerente
politica sociale da parte dello stato per con­
sentire ai più deboli di superare le difficoltà
delle loro condizioni, la stessa scarsa effi­
cienza delle istituzioni assistenziali sono tali
da impedire di valutare positivamente il trat­
tamento dell’infanzia; esso risulta, al con­
trario, di estrema superficialità e insensibili­
tà e di ciò si avrà lentamente ma progressi­
vamente consapevolezza, fino a determina­
re, alle soglie del Novecento, diverse corre­
zioni di rotta che porteranno all’indubbio
miglioramento dei provvedimenti e degli in­
terventi sociali.
Uno degli aspetti più significativi del so­
cialismo riformista tra Ottocento e Nove­
cento è stata l’attenzione rivolta all’istruzio­
ne popolare con iniziative legislative e con
interventi diretti in settori particolari d’i-
78
Luigi Ambrosoli
struzione per colmare le lacune dell’organiz­
zazione scolastica statale. Una conferma
viene data dal libro di Gianni C. Donno re­
lativo alle prese di posizione socialiste sui
problemi della scuola nell’area del Mezzo­
giorno4. Donno ha impostato la sua ricerca
sullo spoglio dei giornali socialisti pubblicati
tra il 1895 e il 1915 in Abruzzo, Campania,
Puglia, Basilicata e Calabria; questi giorna­
li, oltre una ventina, dedicano ai problemi
della scuola molti articoli, dei quali Donno
ci presenta una ricca antologia unitamente
alla bibliografia di tutti gli scritti apparsi,
nello stesso arco di tempo, su argomenti ri­
guardanti l’istruzione.
L’impressione che si ricava da questa do­
cumentazione è che i socialisti del Mezzo­
giorno avvertono l’importanza dell’istruzio­
ne per la soluzione dei problemi delle loro
terre e non mancano persino di denunciare i
ritardi e le incertezze del gruppo parlamen­
tare e della direzione del partito nell’affrontare una questione che ritengono di vitale
importanza. Donno si avvale moltissimo,
come è logico, della testimonianza di Gaeta­
no Salvemini, che entrò più volte in conflit­
to con il partito al quale apparteneva perché
ne riteneva insufficiente l’impegno nei con­
fronti del Mezzogiorno e dell’istruzione nel
meridione d’Italia e perché avvertiva come
certi provvedimenti legislativi, approvati dai
socialisti con una superficiale visione delle
cose (era il caso della legge Daneo-Credaro,
sulla avocazione allo stato dell’istruzione
elementare), potevano recare ulteriore pre­
giudizio allo sviluppo delle regioni del Sud e
potevano persino accrescere il dislivello no­
tevole esistente, fin dal momento dell’unifi­
cazione, nei confronti del Settentrione. An­
che sulla legge Orlando del 1904, pure ap­
provata dai socialisti che della scuola popo­
lare avevano fatto uno dei loro cavalli di
battaglia, non mancano, negli interventi del­
la stampa socialista meridionale, osservazio­
ni critiche; ma l’insoddisfazione è dettata
soprattutto dalla scarsa applicazione che la
legge ha, perché la scuola popolare viene
istituita soltanto nei grandi centri ed il suo
presumibile beneficio non raggiunge le mas­
se che risiedono nelle campagne.
Dall’analisi della stampa socialista effet­
tuata da Donno emergono una sensibilità
per i problemi dell’istruzione che non si so­
spettava e, come è attestato dalla gamma de­
gli argomenti affrontati, una buona cono­
scenza dei dibattiti in corso e delle proposte
avanzate dalle diverse componenti dello
schieramento politico italiano. Gli argomen­
ti che ritornano con maggiore insistenza so­
no: la scuola nella strategia politica del mo­
vimento socialista; l’iniziativa socialista nel­
le regioni meridionali; la lotta contro l’anal­
fabetismo; la legislazione scolastica; l’avo­
cazione allo stato delle scuole elementari;
l’associazionismo degli insegnanti; la refe­
zione scolastica; religione e scuola laica. I
giudizi sono in molti casi precisi e dettati da
una visione originale della situazione; in al­
tri casi sono più schematici e ripetitivi ma
sempre tali da denunciare la preoccupazione
di affrontare consapevolmente i problemi
dell’istruzione. È sufficiente scorrere gli
elenchi dei redattori e dei collaboratori dei
giornali socialisti per avvertire come tra essi
vi siano le personalità eminenti che il movi­
mento operaio e socialista espresse in quegli
anni nelle regioni del Sud.
Donno ritiene che l’avocazione della scuo­
la elementare allo stato, pur con tutte le in­
sufficienze denunciate da Salvemini, avreb­
be dato il risultato positivo di un nuovo at­
teggiamento, da parte delle classi dirigenti
del Mezzogiorno, nei confronti dei problemi
dell’istruzione di base. Da quanto risulta
4 Gianni C. Donno, Scuola e socialismo nel Mezzogiorno 1895-1915, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 1988. Un
quadro sintetico della situazione scolastica delle province meridionali si trova in Ernesto Bosna, Scuola e società
nel Mezzogiorno, Il problema dell’alfabetizzazione di massa dopo l ’Unita, Bari, Grafica Sud, 1986.
Il rinnovamento difficile
dalle statistiche raccolte dall’autore (il capi­
tolo Indagini e statistiche sul Mezzogiorno
“scolastico”), pur con tutte le cautele che i
dati sull’istruzione inducono ad adottare, già
dall’inizio del Novecento si manifesta la ten­
denza ad una crescita della frequenza scola­
stica e, quindi, si dovrebbe presumere, del­
l’alfabetizzazione. È difficile anche per il
Mezzogiorno verificare gli effetti prodotti
dall’approvazione della legge sull’avocazione
della scuola elementare allo stato in termini
quantitativamente sicuri, dal momento che
dall’approvazione del provvedimento all’en­
trata dell’Italia nella prima guerra mondiale,
con tutte le immaginabili conseguenze sull’in­
tero sistema organizzativo dello stato, corro­
no soltanto quattro anni. Donno cerca di do­
cumentare, per il Mezzogiorno, l’affermazio­
ne di Giovanni Vigo secondo la quale nelle
zone in cui la struttura della campagna è fon­
data sulla piccola proprietà, l’analfabetismo
è inferiore a quello delle zone dove si è affer­
mata la grande proprietà; secondo Vigo il leg­
gere, scrivere e far di conto erano considerati
strumenti utili per la conduzione dell’azienda
familiare, mentre il grande proprietario e af­
fittuario non aveva particolare interesse a far
uscire dall’ignoranza i figli dei suoi dipenden­
ti. Nel Mezzogiorno, però, secondo Donno,
non si trova conferma della validità di questa
interpretazione.
Nell’ambito della nuova edizione di tutte
le opere di Giovanni Gentile sono stati ripubblicati, a cura di Hervé A. Cavallera, i
volumi Educazione e scuola laica e La nuo­
va scuola media ed è imminente l’uscita del
terzo volume degli scritti scolastici del filo­
sofo siciliano: La riforma della scuola in
Italia5. Gentile e la sua riforma continuano
a rimanere il punto di partenza delle ricerche
sulla storia della scuola italiana degli ultimi
79
settantacinque anni e ciò dipende dal fatto
che, pur a distanza di tanti anni e nonostan­
te siano intercorsi avvenimenti rilevanti co­
me la dittatura fascista e la seconda guerra
mondiale, la Resistenza e la fondazione del­
l’Italia repubblicana, il sistema scolastico
gentiliano non è stato completamente rimos­
so ma condiziona ancora pesantemente, sot­
to molti aspetti, i tentativi di rinnovamento
che alcune forze politiche vorrebbero final­
mente attuare. La “nostalgia gentiliana” è
un motivo ripetutamente riaffiorato, in for­
me più o meno larvate, negli ultimi quarant’anni; si è ritenuto, a torto, che l’originaria
riforma Gentile fosse stata compromessa
dagli interventi operati dai ministri fascisti
che gli succedettero, fino alla “Carta della
scuola” di Bottai, mentre, ad un’analisi at­
tenta, i ritocchi risultano insignificanti o
quasi, ed è invece l’originaria impostazione
della riforma che risulta in netta contraddi­
zione con una visione democratica dell’edu­
cazione e dell’istruzione.
Rispetto all’edizione del 1932, promossa
dallo stesso Gentile, Educazione e scuola
laica è stato ampliato dall’attento curatore
con alcuni scritti non compresi nella prece­
dente raccolta e recuperati dalle riviste in
cui erano apparsi. Il nucleo centrale del vo­
lume è costituito dalla relazione tenuta da
Gentile sulla scuola laica al VI congresso
della Federazione nazionale insegnanti scuo­
le medie nel 1907 e da altri interventi — con­
gressuali o successivi al congresso — sull’ar­
gomento, che aveva suscitato, come è noto,
vivaci polemiche, di cui si trova traccia nella
seconda sezione deli’Appendice dell’attuale
volume, che comprende i testi degli ordini
del giorno presentati a quel congresso da
Salvemini, Troiano (che proponeva la “per­
fetta laicizzazione delle scuole pubbliche di
5 Giovanni Gentile, Educazione e scuola laica. Quarta edizione riveduta e accresciuta da Hervé A. Cavallera, Fi­
renze, Casa editrice Le lettere, 1988 [Opere complete di Giovanni Gentile v. XXXIX]; Giovanni Gentile, La nuova
scuola media. Seconda edizione rivista e ampliata a cura di Hervé A. Cavallera, Firenze, Casa editrice Le lettere,
1988 [Opere complete di Giovanni Gentile v. XL].
80
Luigi Ambrosoli
tutti i gradi” , ritenendo indiscutibile la ne­
cessità di separere la fede dalla scienza, e fu
approvato per acclamazione, con il solo vo­
to contrario di Gentile), Conti e una lettera
al “Giornale d’Italia”. Il lettore può render­
si conto di come la posizione gentiliana fos­
se già allineata all’opportunità di dare all’in­
segnamento un contenuto religioso per usci­
re da quella “neutralità” che il filosofo sici­
liano riteneva negativa sul piano educativo.
L’altro argomento affrontato con parecchi
interventi raccolti in questo volume è l’inse­
gnamento della filosofia, che Gentile ritiene
indispensabile, in tutta la scuola secondaria,
se essa dovrà concorrere realmente alla for­
mazione dello spirito. Questi scritti preludo­
no al ruolo che egli intenderà dare, nella ri­
forma del 1923, all’insegnamento della filo­
sofia nei licei e negli istituti magistrali (nelle
precedenti scuole normali non era previsto),
ma continuando ad escluderlo dagli istituti
tecnici, sempre considerati piuttosto scuole
d’istruzione pratica che di formazione dei
giovani. È indubbio che il pensiero gentiliano si svolge con coerenza e le sue pagine
possono risultare, a chi non ne avverte la fi­
nalità conservatrice, affascinanti.
Il volume La nuova scuola media riprende
il contenuto della raccolta Scuola e filosofia
uscita nel 1908 e ripubblicata, con qualche
aggiunta, nel 1925. Cavallera, anche in que­
sto caso, presenta, in una nutrita appendice,
suggerita da un appunto dello stesso Gentile
in vista della ristampa del volume, altri scrit­
ti dal 1918 al 1940. La parte più importante
del volume raccoglie interventi sulla necessi­
tà della riforma della scuola media che pre­
cedono la riforma del 1923, documentazione
dell’insistenza gentiliana su alcune convin­
zioni che saranno poi alla base dei provvedi­
menti legislativi attuati durante il primo go­
verno presieduto da Mussolini. L’altro te­
ma, connesso del resto con il precedente,
sviluppato ampiamente da Gentile è quello
della formazione degli insegnanti e della lo­
ro preparazione, un motivo comune alla pe­
dagogia di quegli anni che vedeva nella pre­
sunta crisi intellettuale e morale della classe
docente un pericolo per la scuola e per l’e­
ducazione dei giovani. In realtà questa crisi
era collegata soprattutto all’adesione di
moltissimi insegnanti, elementari e medi, al
partito socialista che il conservatore Gentile
e i suoi amici giudicavano estremamente pe­
ricolosa.
Cavaliere ha indubbiamente fatto un otti­
mo lavoro; forse sarebbe stata opportuna,
ma le esigenze editoriali sono quelle che so­
no, una breve presentazione di ciascuno
scritto per meglio verificare l’occasione che
l’aveva suscitato (molti, infatti, sono scritti
di occasione) e per meglio apprezzare l’atti­
va presenza gentiliana nel dibattito culturale
italiano, che è anche una delle ragioni della
egemonia che egli ebbe modo di esercitare
tra gli intellettuali per un lungo periodo.
Un’ottima sintesi della storia dell’univer­
sità italiana dall’Unità alla riforma Gentile è
costituita dal libro di Tina Tornasi e Luciana
Bellatalla dedicato agli sviluppi dell’istruzio­
ne superiore del nostro paese6. Mentre non
mancano studi sulle università medievali e
dell’età moderna (recenti quelli, significati­
vi, sull’università di Bologna e di Torino),
scarsa è stata l’attenzione degli studiosi per
la realtà universitaria dei tempi più vicini a
noi; è da ricordare, tra le pubblicazioni più
recenti, quella degli atti del convegno dedi­
cato dal Centro italiano per la ricerca stori­
co-educativa all’istruzione superiore7, la cui
bibliografia segnala lo scarso interesse per la
storia universitaria d’Ottocento e Novecento
6 Tina Tomasi-Luciana Bellatalla, L ’Università italiana nell’età liberale (1861-1923), Napoli, Liguori, 1988.
7 Centro italiano per la ricerca storico-educativa, Cento anni di università. L ’istruzione superiore in Italia dall’Uni­
tà ai nostri giorni. Atti del III convegno nazionale (Padova, 9-10 novembre 1984, a cura di Francesco De Vivo e
Giovanni Genovesi), Napoli, Esi, 1986.
Il rinnovamento difficile
alla quale è, nella migliore delle ipotesi, de­
dicata parte di opere generali sulla scuola.
L’opera di Tornasi e Bellatalla muove dai
problemi originari dell’università italiana
dopo l’Unità, quando si trattò di unificare
istituzioni che avevano avuto esistenze parti­
colari nei vari stati in cui era stata suddivisa
fino ad allora la penisola. L’università ita­
liana nasceva come istituzione destinata alla
formazione dell’élite intellettuale e, secondo
il Matteucci, doveva provvedere a formare
“la coscienza, il carattere, il valore di un po­
polo” ed essere l’ispiratrice dell’attività delle
istituzioni e degli indirizzi legislativi. Scarso
rilievo veniva così assegnato al problema
centrale della formazione di cittadini desti­
nati a svolgere particolari e importanti atti­
vità e bisognosi di ricevere una preparazione
tecnica e pratica adeguata alle funzioni che
avrebbero esercitato.
Ci pare, leggendo le pagine di questo li­
bro, che l’università italiana sia nata sotto il
segno dell’astrattezza: grandi discorsi sul­
l’importanza della ricerca scientifica quale
fondamento del progresso della nazione, ma
scarsi interventi concreti per potenziare i la­
boratori, per migliorare i servizi scientifici e
didattici, per adeguare l’istruzione superiore
all’esigenza di preparare persone dotate, nei
campi professionali, di sicura competenza.
La stessa soppressione della facoltà di teolo­
gia, uno dei pochi successi della cultura laica
dopo l’Unità, ha un significato ideologico e
non incide sulla situazione complessiva degli
atenei. Anche da parte socialista non vengo­
no, dopo il 1890, apporti significativi al di­
battito sull’università, forse perché i sociali­
sti sono preoccupati dell’istruzione elemen­
tare e popolare e considerano l’istruzione
superiore come un obiettivo molto lontano
per la classe operaia. Ci sono interventi si­
gnificativi di singoli professori universitari
che, in quegli anni, sono militanti del partito
socialista o ne condividono la politica, ma
non interventi ufficiali del partito. Ai pro­
fessori socialisti si devono alcune delle pro­
81
poste più originali di riforma dell’università
ma il partito non ha la forza sufficiente e
neppure, forse, la volontà politica per soste­
nerle fino in fondo e promuovere la loro at­
tuazione.
Non erano mancati, neppure da parte di
altri settori politici e culturali, progetti di ri­
forma dell’università: tra il 1862 e il 1911,
quelli presentati in Parlamento erano stati,
come documentano Tomasi e Bellatalla, una
ventina, ma non avevano incontrato succes­
so e tutto si era ridotto a qualche modifica
parziale, marginale, del regolamento degli
studi superiori, senza che la questione venis­
se affrontata a fondo, neppure quando, tra
il 1890 e il 1900, i governi si trovarono di
fronte a insistenti agitazioni studentesche.
La strategia in atto e la parola d’ordine, in
questo come, se guardiamo bene, in tutti i
settori dell’istruzione, era la prudenza; per
gli studi superiori si temeva che nuovi prov­
vedimenti potessero fare aumentare il nume­
ro degli iscritti già in crescita negli ultimi an­
ni dell’Ottocento (dal 1887-1888 al 18911892, per esempio, gli iscritti alle università
erano passati da 15.230 a 17.025).
Nelle proposte di riforma si parla molto
delle tasse di iscrizione, il cui aumento rap­
presenterebbe uno strumento di limitazione
del numero degli iscritti, e del trattamento
da riservare ai professori, giungendo persino
a immaginare stipendi differenziati secondo
i ‘meriti’ di ciascun docente (ma non si dice
con quali criteri il maggiore o minor merito
potrebbe essere riconosciuto); si parla della
disciplina degli studenti e dell’opportunità
di porre freno alle agitazioni (persino condi­
zionando il sorgere di associazioni studente­
sche) e si profila l’ipotesi di esercitare una
sorta di controllo politico sui docenti preve­
dendo sanzioni nei loro confronti quando
essi incorrano in apologia di reati o vilipen­
dio delle istituzioni o eccitamento all’odio di
classe.
Finalmente, nel 1923, con Gentile, si arri­
va alla riforma, ma si tratta, si chiedono To-
82
Luigi Ambrosoli
masi e Bellatalla, di un’effettiva riforma op­
pure di una sistemazione più organica e pre­
cisa di indirizzi, impostazioni e norme già
esistenti? Se al termine “riforma” deve cor­
rispondere un principio di rinnovamento, è
evidente che tutta la riforma Gentile, dall’i­
struzione elementare all’istruzione universi­
taria, fu all’insegna della conservazione e
dell’affermazione di un ordine che garantis­
se l’esclusione dalla scuola di qualsiasi ven­
tata rivoluzionaria. Le autrici non hanno
difficoltà a riconoscere come il “riformato­
re” Gentile si fosse posto esplicitamente e
consapevolmente in continuità con il passa­
to e come, nonostante i suoi provvedimenti
legislativi, l’università italiana abbia dovuto
ancora lamentare quella condizione di crisi
che era stata al centro di tante discussioni
negli ultimi decenni dell’Ottocento. I lamen­
ti sul prevalere negli studi universitari dell’u­
tilitarismo e del professionalismo e sulla ca­
renza della formazione della persona, le denuncie dell’abbassamento del loro livello
comportato dall’aumento delle iscrizioni e
dall’accesso ad essi di studenti provenienti
da ceti sociali privi di tradizioni culturali, il
dibattito sui limiti dell’autonomia degli ate­
nei, sul reclutamento degli insegnanti, sulle
modalità di conduzione degli esami speciali
e di laurea, sulla formulazione di piani di
studio corrispondenti agli obiettivi che il
corso di laurea e gli studenti intendevano
raggiungere, sono stati di continuo all’ordi­
ne del giorno anche dopo la riforma Gentile,
a causa della rinuncia, da parte di quest’ultima, ad affrontare le cause fondamentali del­
le inefficienze e delle contraddizioni esi­
stenti.
A proposito di Gentile e della sua rifor­
ma, va ricordato lo studio di Franco Cambi
sul fronte antidealistico della pedagogia ita­
liana dal 1900 al 1940, cioè su coloro che, in
quegli anni, evitarono di lasciarsi assorbire
dall’idealismo trionfante ma mantennero
posizioni diverse e autonome8. Cambi risale
alla crisi politico-sociale e alla cultura del
primo Novecento, analizza le posizioni del
neokantismo italiano (Carlo Cantoni e Filip­
po Masci), definisce i gruppi dello “schiera­
mento criticista” (criticisti puri, tardo ex po­
sitivisti, kantiano-herbartiani, kantiano-socialisti, kantiano-spiritualisti), delinea la
funzione aggregatrice svolta dal 1908 al 1939
dalla “Rivista pedagogica” , considera speci­
ficamente l’opera di Guido Della Valle, Gio­
vanni Vidari, Mariano Maresca e del giova­
ne Antonio Banfi. Da queste sommarie indi­
cazioni è facile intuire come lo studio assai
complesso di Cambi rappresenti un contri­
buto originale su di un momento così impor­
tante della storia della cultura pedagogica,
quando essa risulta in primissimo piano per­
ché sono in gioco due interpretazioni con­
trapposte della formazione dei giovani:
quella idealistica e quella del “fronte” (come
lo chiama Cambi) antidealistico perché, in
funzione antigentiliana, nasce se non un’ag­
gregazione vera e propria, difficile date le
divergenze di pensiero esistenti, un incontro
tra filosofi che, pur movendo da posizioni
diverse, hanno, come obiettivo comune delle
loro battaglie, il contrastare l’egemonia
idealistica.
Il libro di Cambi, pur avendo un’imposta­
zione fondamentalmente storico-pedagogi­
ca, interessa anche lo storico dell’istruzione
(e del resto lo storico dell’istruzione non può
non tenere conto del dibattito pedagogico)
perché il confronto tra idealisti e avversari
dell’idealismo avviene in larga misura sulla
questione della riforma della scuola negli
anni in cui maturano alcuni interventi signi­
ficativi, come la legge Orlando del 1904 sul­
la scuola popolare e la legge Daneo-Credaro
8 Franco Cambi, L ’educazione tra ragione e ideologia. Il fronte antidealistico della pedagogia italiana 1900-1940,
Milano, Mursia, 1989.
Il rinnovamento difficile
del 1911 sull’avocazione allo stato dell’istru­
zione elementare. L’Italia stava affrontando
negli anni giolittiani, come rileva Cambi, la
sua prima rivoluzione industriale e necessi­
tava di una manodopera meno incolta ri­
spetto al passato; l’esigenza della riforma
della scuola rimaneva quindi in primissimo
piano anche se sulle modalità con cui af­
frontarla e realizzarla le opinioni erano ben
differenziate: da quella di Gentile a quella
dei democratici radicali fautori della piena
laicità della scuola come Salvemini, da quel­
la marxista di Rodolfo Mondolfo a quella
dei gruppi che, con presupposti e motivazio­
ni diverse, si rifacevano a Kant e che richia­
mavano la filosofia al suo fondamento “cri­
tico” , esprimendosi a favore di una rigorosa
riflessione filosofica non condizionata da
dogmatismi e mantenuta lontana da tenta­
zioni al trascendente e al metafisico.
Pur con la prudenza della sua formulazio­
ne legislativa e con la scarsa efficacia della
sua diffusione, la legge Orlando del 1904
stava a dimostrare come nel pensare alla ri­
forma della scuola non potevano essere tra­
scurate le istanze di carattere sociale che i
socialisti soprattutto, ma anche i radicali e i
democratici intransigenti, ritenevano impre­
scindibili se si volevano superare gli errori e
le carenze del passato. Credaro, ministro
dell’istruzione con Giolitti, apparteneva al­
l’ala moderata del partito radicale, era pro­
fessore universitario di storia della filosofia
e di pedagogia e aveva fondato nel 1908 la
“Rivista pedagogica” il cui obiettivo, fin da­
gli inizi, fu di opposizione all’idealismo e a
Gentile e che, con tale programma, raccolse
la collaborazione di quella parte del mondo
83
filosofico italiano che all’idealismo si oppo­
neva. La “Rivista pedagogica” dedicò largo
spazio alla storia dell’educazione e lo fece,
coerentemente con le ragioni per cui la rivi­
sta era sorta, cercando di elaborare “una
posizione originale, che sia post-positivistica
e decisamente antidealistica, aperta ai pro­
blemi della teoria ma anche radicata sul ter­
reno del sociale” . Ma anche su questo pia­
no, annota Cambi, nonostante avesse elabo­
rato una posizione autonoma e non priva di
suggestione, la rivista non riuscì ad imporla
nella cultura pedagogica italiana: le ragioni
di ciò sono diverse e vanno dall’assenza di
un’effettiva compattezza nello schieramento
antidealistico alla subalternità ideologica ed
anche, a nostro avviso, al mutamento del
clima politico e culturale generale del paese
con il revival spiritualistico e raffermarsi
della tendenza nazionalistica.
Quest’ultimo aspetto è stato affrontato
dal Remo Fornaca in un intervento al conve­
gno, in onore di Lamberto Borghi, su La pe­
dagogia italiana del secondo dopoguerra9.
Fornaca, infatti, nella sua relazione sull’ere­
dità pedagogica dell’idealismo, indica i nu­
merosi motivi che, a suo avviso, avrebbero
determinato l’ampio consenso che si realizzò
attorno alle prospettive gentiliane, con ripercussioni che arrivarono al secondo dopo­
guerra, riscontrabili nella presenza, in più
occasioni, di un “idealismo strisciante” .
L’intervento di Gentile al congresso di Na­
poli del 1907 della Federazione nazionale in­
segnanti scuole medie è l’esposizione di un
programma che non manca di trovare con­
sensi e che attira persino persone di sicure
convinzioni democratiche, che si stacca-
9 La pedagogia italiana deI secondo dopoguerra, atti del convegno in onore di Lamberto Borghi, università di Fi­
renze, facoltà di Magistero, 8-9 ottobre 1986, a cura di Gastone Tassinari, Firenze, Le Monnier, 1987. Le relazioni
sono di Remo Fornaca, Aldo Visalberghi, Antonio Santoni Rugiu, Raffaele Laporta, Mario Alighiero Manacorda,
Filippo M. De Sanctis, Edmund King, Bogdan Suchodolscki, Giuseppe M. Bertin, Antonio Carbonaro, Piero Bertolini, Egle Becchi, Vittorio Telmon, Franco Cambi, Giacomo Cives, Demiro Marchi, Dario Ragazzini, Antonio
Corsi, Nicola Cavallo, Simonetta Ulivieri. Seguono alcune testimonianze sull’opera di Lamberto Borghi e sul suo
magistero.
84
Luigi Ambrosoli
rono da Gentile soltanto quando egli lasciò
meglio intendere gli obiettivi che, con l’ap­
poggio di Mussolini, intendeva raggiungere.
La relazione del convegno napoletano costi­
tuisce, secondo Fornaca, un’offerta di al­
leanza ai cattolici e prelude a quel “compro­
messo” tra concezione laica (nel senso gentiliano) e concezione cattolica che andò a tut­
to vantaggio del movimento cattolico in pie­
na attività, dopo la fondazione dell’Opera
dei congressi, per recuperare il terreno per­
duto a causa del conseguimento, nonostante
l’opposizione della chiesa, dell’unità nazio­
nale. Gli anni dal 1904 al 1913 saranno ca­
ratterizzati dalla partecipazione sempre più
estesa dei cattolici alle elezioni politiche: il
patto Gentiioni, l’episodio più clamoroso
dell’intesa cattolico-moderata, rappresenta,
secondo Fornaca, uno dei momenti di mag­
gior regresso della vita politica italiana dopo
l’Unità.
L’attiva presenza cattolica e l’alleanza clerico-moderata sono fattori di una svolta po­
litica e culturale in funzione antisocialista e
antilaicista. La tradizione liberale e laica del
Risorgimento viene progressivamente di­
menticata e accantonata negli anni che pre­
cedono la prima guerra mondiale. Il dibatti­
to parlamentare sulla mozione Bissolati è lo
specchio di questo profondo mutamento
della situazione: la “paura del socialismo”
ha un’incidenza considerevole nell’ispirare i
comportamenti dei gruppi liberali e non sol­
tanto di quelli moderati. Il manifestarsi del
timore della borghesia per possibili svolte
politiche a sinistra favorisce, in concomitan­
za con la crisi del positivismo, raffermarsi
di tendenze spiritualistiche, di matrice catto­
lica come di matrice idealistica. Alla denun­
cia del “materialismo” socialista e laico suc­
cede, come avverte Fornaca, la “sbornia”
spiritualistica: “Spiritualismo cristiano e
cattolico, spiritualismo idealistico, spiritua­
lismo laico in contrapposizione al positivi­
smo, al materialismo, al marxismo rappre­
sentarono una discriminante che divise cor­
renti, metodi e creò contese molto accese” .
Si trattava di uno spiritualismo “di manie­
ra” , che fingeva di suggerire ideali più aperti
ma nel quale prevalevano l’ideologia e la re­
torica.
Su queste basi si fondò il successo di Gen­
tile e si aprì la strada alla riforma del 1923
che i governi successivi alla caduta del fasci­
smo non intesero modificare immediata­
mente e radicalmente nonostante contenesse
una lunga serie di contraddizioni sul piano
democratico, come la differenziazione tra
scuola per il popolo e scuola per le élite, tra
scuola a breve e scuola a lungo periodo, tra
scuola professionale e scuola di formazione
disinteressata, come l’incomunicabilità tra i
diversi indirizzi scolastici, la netta distinzio­
ne tra cultura classica e umanistica e cultura
tecnologica e professionale, la gestione cen­
tralizzata e burocratica, la selezione scolasti­
ca impostata sui criteri del rendimento e del­
la capacità, il predominio della cultura teori­
ca sul fare, sull’operare, sullo sperimentare,
sul ricercare, la presenza della cultura filoso­
fica esclusivamente nei licei e negli istituti
magistrali, l’indifferenza per la pedagogia e
per la didattica, l’inadeguatezza della prepa­
razione e del reclutamento degli insegnanti,
le concessioni alla scuola non statale e con­
fessionale. L’elenco degli aspetti negativi
della riforma Gentile che Fornaca compila
consente di comprendere le ragioni della cri­
si in cui la scuola si è dibattuta e ancora si
dibatte in questo dopoguerra, in assenza di
un intervento che capovolgesse l’assetto gentiliano.
L’istruzione nel secondo dopoguerra fra lai­
cismo e cattolicesimo
Nel medesimo volume La pedagogia nel se­
condo dopoguerra, Antonio Santoni Rugiu
si sofferma su II dibattito pedagogico tra
cattolici e laici (1945-1955) che vede i primi
impegnati a superare ogni difficoltà per
Il rinnovamento difficile
creare una scuola corrispondente al loro
programma, e i laici molto incerti e, soprat­
tutto, divisi tra loro. Il decennio considerato
da Santoni Rugiu si chiude con l’approva­
zione dei nuovi programmi della scuola ele­
mentare, intrisi di confessionalismo, ma so­
no molti gli episodi attestanti la volontà dei
cattolici di affermare il loro predominio su
tutto quanto riguardava l’educazione dei
giovani valendosi della forza rappresentata
dal fatto che la Democrazia cristiana aveva
conquistato la maggioranza parlamentare e
controllava l’azione dei governi. I cattolici
ebbero il vantaggio, rispetto alle forze lai­
che, di disporre subito dopo la Liberazione
di potenti organizzazioni, come l’Associa­
zione dei maestri cattolici e l’Unione cattoli­
ca insegnanti medi, e di impostare, attraver­
so esse, il piano di attuazione del loro pro­
gramma; mentre i partiti e i movimenti laici
rimasero più a lungo prigionieri del mito
ciellenistico dell’unità dei partiti antifascisti
e dei sindacati così che i loro programmi
stentarono a penetrare nel paese.
Vanno ricordati due episodi che, durante
il fascismo, consentirono ai cattolici di pre­
parare insegnanti di stretta osservanza con­
fessionale: il primo è la nascita dell’Univer­
sità cattolica che, con le due facoltà di lette­
re e filosofia e di magistero, sfornò un nu­
mero considerevole di laureati da inserire
nell’insegnamento secondario; il secondo è
la fioritura di istituti magistrali confessiona­
li successiva ai provvedimenti fascisti in fa­
vore della scuola privata (i “riconoscimenti
legali” attribuiti con grande facilità) e la
conseguente abilitazione di un grande nume­
ro di insegnanti elementari formatisi in
scuole cattoliche. Ecco la ragione per cui,
nelle elezioni al Consiglio superiore della
pubblica istruzione, ricostituito dopo la Li­
berazione, le liste cattoliche ottennero in­
dubbi successi.
Santoni Rugiu denuncia l’impegno dei
cattolici e, per loro conto, del ministro Gonella, per dettare quale avrebbe dovuto esse­
85
re la concezione di fondo dell’istruzione in
Italia, un impegno che fu quasi “da crocia­
ta” e che la paura del comuniSmo diffusasi
nella borghesia faceva giudicare positivamente. Un altro aspetto della politica scola­
stica cattolica evidenziato dall’autore fu il
puntare insistentemente sulla didattica e sul­
la metodologia ponendo in secondo piano i
contenuti e i risultati che si volevano rag­
giungere sul piano della formazione. Così i
valori di libertà e socialità che l’attivismo
portava originariamente con sé furono ac­
cantonati e la pedagogia attivista fu conside­
rata soltanto un espediente tecnico, uno
strumento destinato a favorire l’apprendi­
mento, non la formazione di personalità au­
tonome.
I centri didattici di bottaiana memoria
ereditati da Gonella divennero la sede in cui
queste tecniche, questi strumenti, questi me­
todi, dovevano essere discussi e diffusi poi
tra tutti gli insegnanti, fermo restando co­
munque il principio, espresso dal filosofo e
pedagogista cattolico Stefanini, che il “valo­
re” era in sé “metastorico”, era l’“eterno” e
1’“assoluto” . Da qui derivava l’accusa rivol­
ta ai laici di ritornare alle barbarie perché
pretendevano di insegnare “la povera verità
umana costellata di errori e deformazioni” .
Il confronto tra laici e cattolici raggiunse in
quegli anni punti di tensione notevoli so­
prattutto a causa dello spirito integralista
che animò i secondi.
Dopo il 1955 si registra (o si comincia a
registrare) la controffensiva laica: pedagogi­
sti come Ernesto Codignola, Aldo Capitini,
Lamberto Borghi, riviste come “Scuola e
città” e “Riforma della scuola” conducono
una intelligente battaglia per recuperare il
terreno perduto, rispondono colpo su colpo
alle ulteriori pretese di confessionalizzazione
della scuola. Il clima politico è mutato, il
fallimento della legge elettorale maggiorita­
ria nel 1953 ha ridimensionato le pretese del­
la Democrazia cristiana, ma lo stesso mondo
cattolico è in movimento e accetta il con-
86
Luigi Ambrosoli
fronto dialettico; si va verso la fine dei go­
verni di centro-destra e si prospetta il coin­
volgimento dei socialisti nella direzione del
paese. Ma le posizioni di cattolici e laici sul
problema dell’educazione continuano a re­
stare divergenti.
Una densa riflessione sugli anni successivi
alla Liberazione emerge dal libro di Paolo
Orefice su Gli anni della Repubblica10, rac­
colta molto intelligente di “materiali di ri­
cerca” destinati agli studenti. I temi delle
varie sezioni sono suggestivi e indicano il
percorso storico dal 1945 al 1968: l’eredità
del fascismo, il rinnovamento della cultura,
il passaggio dalla servitù all’affrancamento
culturale, l’istituzione della repubblica, la
cultura della donna, il riscatto degli oppres­
si, il nuovo umanesimo filosofico, la rico­
struzione dell’educazione del popolo italia­
no, la cultura religiosa, l’educazione nuova,
associazionismo scolastico e società, asso­
ciazionismo culturale, associazioni giovani­
li, filosofie antiautoritarie, consumismo,
alienazione, il lavoro industriale, l’industria
culturale. Ognuno di questi temi è docu­
mentato da interventi di studiosi, scrittori,
giornalisti e il motivo che li lega è quello
della formazione nei suoi molteplici aspetti,
dell’educazione nei luoghi istituzionalmente
destinati a tale compito ma anche dell’edu­
cazione indiretta attraverso il contatto dei
giovani con le realtà quotidiana e le sollecita­
zioni che provengono dalle infinite prospetti­
ve offerte dalla realtà politica, economica,
sociale, culturale così come i mezzi di co­
municazione di massa la diffondono nella
popolazione.
Orefice giustifica il suo lavoro richiaman­
do l’opportunità di immettere la contempo­
raneità nei programmi scolastici così come
da più parti, con articoli e convegni, si è
proposto negli ultimi anni. Se uno dei com­
piti fondamentali della scuola — egli precisa
— è quello di offrire ai giovani l’orienta­
mento indispensable perché si inseriscano
nella società degli adulti con sufficiente ma­
turità e conoscenza dei problemi, non vi è
dubbio che la scuola non può limitarsi ad in­
trodurli alla conoscenza delle basi della civil­
tà contemporanea (il passato prossimo e re­
moto) ma deve illustrare loro le condizioni
di vita e le forme istituzionali della società
nella quale vivono. Il volume, nella presen­
tazione delle sezioni, nella scelta e nella di­
scussione dei “materiali di ricerca” raccolti,
nei molteplici riferimenti bibliografici, nelle
tabelle statistiche sembra rispondere allo
scopo enunciato.
Sempre in tema di dopoguerra, va segna­
lato il volume Chiesa e progetto educativo
nell’Italia del secondo dopoguerra, curato
da Luciano Pazzaglia, che raccoglie relazio­
ni e comunicazioni di un convegno sul me­
desimo argomento tenutosi nel maggio 1986
dall’Università cattolica11. Tra i numerosi
contributi ricordiamo quello di Giorgio
Chiosso su I cattolici e la scuola dalla rifor­
ma Gonella al piano decennale che, attraver-
10 Paolo Orefice, Gli anni della Repubblica. Cultura e formazione in Italia. Materiali di ricerca, Napoli, Editrice
Ferraro, 1988. Al volume è annesso un fascicolo Conversazione con i professori della nuova scuola secondaria.
Guida didattica ai materiali di ricerca per l'area comune. Il libro ha una sezione dedicata al dibattito dell’Assem­
blea costituente sui problemi scolastici. Ricordiamo il nostro volume La scuola alla Costituente, Brescia, Fondazio­
ne Calzari Trebeschi - Edizioni Paideia, 1987 che riproduce le parti fondamentali del dibattito costituzionale, pre­
cedute da un’introduzione storica e Mario Casella, Cattolici e Costituente. Orientamenti e iniziative del cattolicesi­
mo organizzato (1945-1947), Napoli, Esi, 1987.
11 Chiesa e progetto educativo nell’Italia del secondo dopoguerra 1945-1958, Brecia, La Scuola, 1988, premessa di
Luciano Pazzaglia, relazioni e comunicazioni di Andrea Riccardi, Antonio Acerbi, Francesco Malgeri, Francesco
Traniello, Agostino Giovagnoli, Annibaie Zambarbieri, Luciano Caimi, Guido Formigoni, Maria Cristina Giumel­
la, Giorgio Chiosso, Roberto Sani, Francesco Mattesini, Angelo Turchini, Stefano Pivato, Giorgio Vecchio, Pietro
Scoppola, Luciano Pazzaglia.
Il rinnovamento difficile
so un’analitica ricostruzione dei molteplici
interventi gonelliani durante il suo lungo
mandato ministeriale, vuole essere una ri­
sposta alle ripetute accuse rivolte dai laici al­
l’attività dell’esponente democratico-cristia­
no. Soprattutto la riforma proposta da Gonella e, come è noto, non giunta in porto, è
oggetto di considerazioni positive da parte
di Chiosso, che sottolinea come al centro
della riforma fosse stata collocata l’istituzio­
ne di una scuola media unitaria (non unica)
che avrebbe consentito l’affluenza del popo­
lo al patrimonio culturale comune; egli nota
che, se vi furono incertezze da parte cattoli­
ca neH’elaborare la concezione della scuola
media per i ragazzi dagli 11 ai 14 anni, tali
incertezze non mancarono neppure tra i laici
e allude, in particolare, al dibattito che si
svolse all’interno del partito comunista tra
Marchesi, sostenitore dell’insegnamento del
latino, e Banfi.
Per Chiosso la riforma Gonella non era
esente da contraddizioni, come la conferma­
ta centralità dagli studi classici a scapito di
una considerazione più attenta per la porta­
ta educativa degli studi tecnici e scientifici,
come l’insistenza sul metodo dell’esame co­
me strumento fondamentale di valutazione e
di selezione, l’assegnazione all’università di
una funzione di studi molto rigorosi allo
scopo di evitarne l’aumento indiscriminato
delle iscrizioni, 1’“accettazione della scuola
statale come cardine della pubblica istruzio­
ne” . Gonella, accusato dai laici di aver favo­
rito in tutti i modi l’espansione della scuola
non statale, non avrebbe quindi, secondo
Chiosso, pensato a un sistema scolastico
unitario nel quale pubblico e privato finisse­
ro per fondersi secondo una concezione che,
di recente, i cattolici hanno prospettato con
insistenza ma che, ai tempi di Gonella, non
ci pare fosse stata affacciata neppure quale
ipotesi, nemmeno nelle discussioni sullo sta­
tus della scuola privata svoltasi all’Assem­
blea costituente. Condividiamo invece, l’os­
servazione di Chiosso che il progetto Gonel­
87
la per la scuola secondaria superiore fosse
stato elaborato all’insegna della continuità,
a conferma della già sottolineata difficoltà
dei partiti moderati ad abbandonare decisa­
mente la riforma Gentile e ad imboccare una
strada completamente diversa per rinnovare
il sistema scolastico italiano dopo il fa­
scismo.
Gli anni successivi al lungo ministero Go­
nella non furono esenti, come evidenzia Lu­
ciano Pazzaglia nel suo intervento su Ideolo­
gia e scuola tra ricostruzione e sviluppo, da
incertezze e da incoerenze forse dovute, co­
me appunto Pazzaglia ipotizza, alla difficol­
tà “di coagulare una maggioranza parla­
mentare intorno a un’ipotesi di riforma” ma
forse anche al timore, senza dubbio presente
nella Democrazia cristiana, di danneggiare
persone o enti che guardavano con fiducia
all’opera della Democrazia cristiana, a co­
minciare dalle scuole non statali che, soprat­
tutto per quanto riguarda la scuola seconda­
ria superiore, hanno sempre espresso aperta­
mente la loro contrarietà a interventi rifor­
matori che potessero costringerle a ristruttu­
rare la loro tradizionale organizzazione.
Tra le preoccupazioni politiche notate da
Pazzaglia va ricordata quella manifestatasi
negli orientamenti seguiti nei confronti degli
insegnanti, la cui immissione nei ruoli fu
dettata dall’esigenza di accontentare le ri­
chieste particolari “senza fare di ciò occasio­
ne per elaborare un piano finalizzato alla
formazione e al reclutamento di un persona­
le insegnante pronto a fronteggiare i proble­
mi di una scuola di massa”. Non manca
quindi, da parte cattolica, il riconoscimento
della scarsa prospettiva che ebbe la politica
scolastica dei governi succedutisi dalla Libe­
razione agli inizi degli anni sessanta.
Trattando il tema La chiesa di Pio XII,
educatrice di uomini e di popoli tra certezze
e crisi, Andrea Riccardi delinea i caratteri
del pontificato pacelliano negli anni del do­
poguerra (Pio XII morì nel 1958), anni diffi­
cili dal punto di vista politico e dal punto di
88
Luigi Ambrosoli
vista religioso, caratterizzati dal timore su­
scitato dall’espansione del comuniSmo e dal­
l’eventualità della sua conquista del potere
in Italia. Va detto subito che Riccardi guar­
da alla chiesa e a Pio XII in una prospettiva
universale, non limitatamente italiana, ma è
pure indubbio che molti dei problemi uni­
versali sono visti dalla chiesa di Roma, pro­
prio per la sua presenza in Italia ed il suo
contatto costante con la realtà italiana, at­
traverso la prospettiva di quanto avviene
nella penisola. La politica del papato sem­
bra, in questi anni, dal 1945 al 1958, una po­
litica di difesa delle proprie posizioni, della
propria “verità” contro gli attacchi, che non
mancano, nei suoi confronti. Nei documenti
di Pio XII si nota soprattutto l’insistenza
sull’affermazione del compito educativo del­
la chiesa romana che è “maestra” per eccel­
lenza, per definizione, soprattutto attraver­
so il magistero del papa. Ciò comporta,
quale conseguenza primaria, l’affermazione
del diritto della chiesa ad esercitare la sua
attività docente in tutte le forme che essa ri­
tiene opportune per svolgere la sua missione
sovranaturale; in primo piano si pone quindi
la formazione dei giovani e la trasmissione
dei valori del cattolicesimo alle giovani gene­
razioni. Dalle affermazioni di principio Pio
XII non manca di passare a indicazioni che
riguardano direttamente l’Italia come quan­
do, nel novembre 1945, invita i maestri ele­
mentari a battersi per una legislazione “ade­
rente alla dottrina cattolica” o quando, do­
dici anni dopo, riafferma che, nell’istruzio­
ne, lo stato ha soltanto compiti di supplenza
nei confronti delle famiglie.
Scarsa varietà di motivi e di posizioni
emergo dalle analisi che Antonio Acerbi, per
l’Italia settentrionale, e Francesco Malgeri,
per l’Italia centro-meridionale, effettuano
del problema dei giovani nelle pastorali dei
vescovi: i principi informatori sono gli stes­
si, l’adeguamento alle direttive del papato è
il medesimo, le preoccupazioni di natura po­
litica non sono diverse da una diocesi all’al­
tra, l’impostazione dell’azione educativa
corrisponde ovunque al medesimo modello.
Anche per quanto riguarda i vescovi ci sem­
bra di poter dire che la tendenza è prevalen­
temente difensiva, dettata dal timore di per­
dere il controllo tradizionalmente esercitato
sui giovani a favore di altre ideologie e di
pagare la restaurazione democratica con una
perdita di potere al vertice dello stato e delle
amministrazioni locali.
Autore, nel volume che raccoglie gli atti
del convegno su “Chiesa e progetto educati­
vo nell’Italia del secondo dopoguerra”, del­
la relazione su I cattolici e la scuola dalla ri­
forma Gonella al piano decennale, Giorgio
Chiosso riprende in forma più ampia e ana­
litica l’argomento nello studio I cattolici e la
scuola della Costituente al centro-sinistra12.
Egli esamina gli anni della ricostruzione e
dei governi presieduti da Alcide De Casperi,
si sofferma sul dibattito suscitato dalla pro­
posta di riforma di Gonella, delinea il pro­
blema dei rapporti tra sviluppo economico e
istruzione così come si pose nel corso degli
anni cinquanta, considera le fasi che, attra­
verso la formazione dei governi di centro-si­
nistra, portò alla riforma della scuola dell’obbligo dagli 11 ai 14 anni.
La posizione centrale assegnata, nella ri­
cerca di Chiosso, ai cattolici, non impedisce
di considerare l’atteggiamento tenuto dalle
altre forze politiche e culturali e di presenta­
re un confronto di idee che fu, in quegli an­
ni, severo e velato di intransigenza; la situa-
12 Giorgio Chiosso, I cattolici e la scuoia dalla Costituente al centro-sinistra, Brescia, La Scuola, 1988. Si riferisce
al periodo oggetto della ricerca di Chiosso ed anche di quelle contenute nel volume Chiesa e progetto educativo,
cit., lo studio di Roberto Sani, “Il M ondo” e la questione scolastica 1949-1966, Brescia, La Scuola, 1987 che analiz­
za con accuratezza gli atteggiamenti della rivista che fu l’espressione più coerente delle idee laiche e dei gruppi di
persone che in quegli anni si schierarono per la laicità della scuola.
Il rinnovamento difficile
zione politica generale, dominata dalla guer­
ra fredda e dalla paura del comuniSmo, in­
duceva i cattolici a porre in atto ogni inizia­
tiva per esercitare quel controllo sulla scuola
che era soprattutto controllo sulle giovani
generazioni. Era il confronto-scontro tra
due operazioni di proselitismo, quella catto­
lica impegnata a conservare le tradizionali
posizioni di predominio ideologico nella
scuola italiana, quella comunista impegnata
a contrastarla. Nel corso dei lavori dell’As­
semblea costituente i comunisti avevano più
volte mostrato di essere accondiscendenti al­
le pretese cattoliche, fino ad esprimere voto
favorevole all’inserimento nella Costituzio­
ne del riferimento ai Patti del Laterano; ma
dopo la esclusione loro e dei socialisti dal
governo avevano assunto un atteggiamento
di netta opposizione alle richieste e ai pro­
grammi della Democrazia cristiana, accen­
tuatasi ancora di più dopo la sconfitta del
1948, quando il Pei di Togliatti pose in atto
una grande offensiva contro il partito catto­
lico che diede quale risultato, cinque anni
dopo, il fallimento del tentativo dell’allean­
za politica moderata di imporre una legge
elettorale maggioritaria.
La storia della scuola, come si avvertiva
all’inizio, subisce le conseguenze delle con­
dizioni politiche generali e dei conflitti poli­
tici in atto. Così, dal libro di Chiosso, emer­
gono, da un lato, le “sofferenze” del partito
socialista alla ricerca di una identità nuova
dopo il fallimento della politica frontista
(pagata, oltre tutto, con una grave scissione)
e dall’altro le incertezze dei partiti laici mi­
nori costretti a condividere, partecipando ai
governi di centro-destra, le imposizioni della
Democrazia cristiana nella politica scolasti­
ca: Saragat, Tremelloni, Pacciardi, La Mal­
fa finirono per assumere la responsabilità
delle decisioni di Gonella tendenti a favorire
la scuola cattolica e la presenza cattolica nel­
89
la scuola statale. A quest’ultimo proposito,
confermo la mia convinzione che la storia
della scuola non può essere ridotta all’esame
dei progetti di legge e dei programmi di ri­
forma e dei dibattiti da essi suscitati, ma de­
ve servirsi di altro materiale documentario,
meno appariscente ma molto significativo.
Per quanto riguarda Gonella, ci sono due
aspetti da considerare: il primo è quello del
ministro promotore di leggi e di riforme, il
secondo è quello del ministro responsabile
degli atti amministrativi inerenti al suo mini­
stero. Sarebbe quindi necessario esaminare,
nei Bollettini ministeriali, le ordinanze, le
circolari, le disposizioni per gli esami di ma­
turità nelle scuole pubbliche e private, le de­
cisioni concernenti la concessione di ricono­
scimenti legali e altre questioni demandate
alla discrezionalità del ministro. Solo in que­
sto modo è possibile valutare, nel suo insie­
me, l’opera svolta da un ministro e verificare quali siano stati gli obiettivi fondamentali
della sua attività.
In forma meno organica ma con alcune ricostruzioni storiche significative, Dario Ra­
gazzini si occupa del primo ventennio suc­
cessivo alla seconda guerra mondiale e alla
caduta del fascismo in Italia13, tra pedagogia
e politica, tra storia della scuola e storia del­
la società italiana in trasformazione. I “ca­
paci e i meritevoli” e la “cultura pedagogi­
ca” dei costituenti è il titolo del secondo ca­
pitolo del volume, nel quale viene ribadita la
denuncia di una delle incongruenze maggio­
ri, in fatto di istruzione, della Costituzione
repubblicana, quella cioè che neppure “i ca­
paci e i meritevoli” possono ottenere con
certezza le provvidenze dello stato: viene in­
fatti previsto un criterio comparativo anche
tra quelli che hanno offerto prove positive
in quanto si prevede che il numero degli stu­
denti cui corrispondere assegni sarà per for­
za limitato. Questo a differenza di quanto
13 Dario Ragazzini, Dall’educazione democratica alla riforma della scuola, Napoli, Liguori, 1987.
90
Luigi Ambrosoli
aveva stabilito la Costituzione francese vo­
tata il 19 aprile 1946, recitando che l’inse­
gnamento pubblico doveva essere gratuito e
doveva “essere reso accessibile a tutti (la sot­
tolineatura è nostra) mercé un aiuto mate­
riale a quanti, altrimenti, non potrebbero
proseguire gli studi”14.
Un altro spunto del libro di Ragazzini che
interessa l’argomento di questa rassegna è
quello, considerato nel complesso dibattito
culturale svoltosi tra il 1945 e il 1950 nella ri­
vista “Società” , dell’irrisolto giudizio sulla
riforma Gentile, cioè della perplessità mani­
festata dagli intellettuali che, alla fine della
guerra, si trovavano attorno ai trent’anni di
età, a dichiarare nettamente il fallimento
della riforma gentiliana e a richiederne il
completo abbandono. Va ricordato, come è
stato molte volte notato, che molti degli
stessi intellettuali di sinistra erano di forma­
zione idealistica e gentiliana. Gli interrogati­
vi che permangono attorno alla riforma
Gentile riguardano quanto sia stata fascista
e quanto idealista, quanto aristocratica (de­
stinata cioè alla formazione di élite dirigenti)
e quanto rigorosa (cioè preoccupata di ope­
rare una selezione obiettiva per consentire ai
migliori di emergere); ad essi si potrà dare
una risposta considerandola come un’espe­
rienza del passato da studiare storicamente
utilizzando fonti finora dimenticate.
Può essere, e Ragazzini pare avvertirlo,
che la scuola di Bottai e, soprattutto, quella
di De Vecchi, fondate sulla retorica e sulla
volontà propagandistica, consentissero di
guardare alla scuola di Gentile come ad un
sistema dotato di coerenza interna, organi­
co, soprattutto avente quale obiettivo la for­
mazione dei giovani senza il ricorso a rigidi
schemi propagandistici; si dimenticava però
la profonda mentalità conservatrice di cui
era permeata la riforma. Fosse o non fosse
“la più fascista delle riforme” (come l’aveva
definita Mussolini) era però senza alcun
dubbio la più conservatrice delle riforme,
quella cioè che si prefiggeva di garantire alle
classi egemoni di mantenere il loro predomi­
nio nella società escludendo qualsiasi mobi­
lità, quella che relegava i figli del proletaria­
to ai margini dell’istruzione, quella che non
prevedeva nessun serio intervento per per­
mettere ai meno abbienti di proseguire negli
studi, neppure a quelli che fossero partico­
larmente dotati15.
Ragazzini rileva come l’argomento rifor­
ma non fu mai affrontato direttamente da
“Società” ma è una constatazione che vale
per tutta la pubblicistica dell’immediato do­
poguerra; la riforma Gentile è considerata
come un tabù del quale si rimane in conti­
nua adorazione, senza assumere alcuna ini­
ziativa per distruggerlo. Questo spiega, a
14 Armando Saitta, La Quarta repubblica francese e la sua prima costituente, Firenze, Sansoni, 1947. Ma, nono­
stante il volume del Saitta fosse stato promosso dal ministero per la Costituente, non pare, per quanto riguarda l’i­
struzione, che i costituenti italiani ne abbiano tenuto conto. Per esempio tra “l’organizzazione dell’insegnamento
pubblico di ogni grado è un dovere [la sottolineatura è nostra] dello Stato” (Costituzione francese) e “La Repubbli­
ca detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per ogni ordine e grado”(Costituzione italiana)
c’è una notevole differenza.
15 La presente rassegna si è soffermata sulle pubblicazioni successive all’Unità rinunciando ad occuparsi esplicita­
mente di quelle che riguardano il Risorgimento come Scuola e stampa nel Risorgimento. Giornali e riviste per l ’e­
ducazione prima dell’Unità, a cura di Giorgio Chiosso, con contributi di Francesco Traniello, Giuseppe Talamo,
Daniela Maldini Chiarito, Mirella Chiarando Zanchetta, Angelo Gaudio, Roberto Sani, Milano, Angeli, 1989, o il
periodo a cavallo tra Risorgimento e Unità come Don Bosco nella storia della cultura popolare, Torino, Sei, 1987,
con studi di Pietro Bairati, Luciano Pazzaglia, Stefano Pivato, Germano Proverbio, Gianfausto Rosoli, Pietro
Stella, Maria Teresa Trebiliani, Giuseppe Tuninetti, Paolo Zolli o come Lamberto Borghi, Maestri e problemi del­
l ’educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1987 con ritratti di Cattaneo e Gramsci, Salvemini e Capitini, Giuseppe
Lombardo Radice e Ernesto Codignola.
Il rinnovamento difficile
nostro avviso, perché il sistema gentiliano è
passato indenne attraverso le aspirazioni al
rinnovamento che caratterizzarono gli anni
successivi alla Liberazione; ma per la veri­
tà, ciò che è accaduto per il sistema genti­
liano è accaduto per tutta la legislazione fa­
scista essendo prevalso il principio, soste­
nuto dalle forze moderate, della continuità
con il passato, e quindi anche con il passa­
to fascista. È nota la lentezza con cui si
91
provvide alla sostituzione di quella parte
della legislazione fascista che risultava in
contrasto, senza dubbi di sorta, con il det­
tato costituzionale. Ma ecco che, come si è
avvertito all’inizio di questa rassegna, an­
cora una volta le decisioni e le realizzazioni
nel settore scolastico appaiono il riflesso
della situazione politica generale.
Luigi Ambrosoli
ECONOMIA E AMBIENTE
Sommario - anno Vili- n. 3 - luglio-settembre 1989
Articoli
Editoriale: Romano Molesti, Venezia, le alghe... ed altro] Giorgio Ruffolo, Presto in Italia l'Istituto del­
l ’autorità di bacino; Umberto Colombo, / problemi globali dell’ambiente-, Corrado M. Daclon, Il Mediterraneo e le emergenze ambientali; Mihail Demetrescu, La termodinamica e i dogmatismi dell'eco­
nomia tradizionale.
Problemi economici della tutela dell’ambiente
Sergio Gatteschi, Un assurdo progetto di risanamento ambientale; Marcello Brizzi, Considerazioni
tratte dall’ambiente nord africano e concernenti un’annata semiarida in Italia; Antonio Muratore, Le
terme e la cultura delia salute; Paul Crutzen, Buco dell’ozono, una situazione più grave del previsto ;
Vittorio Campetti, Arte e natura a Spoleto al Festival dei Due Mondi; Dario Merluzzi, Energia elettri­
ca e ambiente.
Regioni, province, comuni e ambiente
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Economia e ambiente, rivista trimestrale del “Centro Italiano di Studi Economici e Ambientali”
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Comitato scientifico: Nicholas Georgescu-Roegen, prof. ord. nell’Univ. di Nashville (USA); Emilio Gerelli,
prof. ord. nell'Univ. di Pavia; Siro Lombardini, prof, ord, nell'Univ. Catt. di Milano: Romano Molesti, prof. ord.
neil'Univ. di Roma; llya Prigogine, Premio Nobel, prof. ord. nell'Univ. di Bruxelles; Riccardo Varaldo, prof. ord.
nell’Univ. di Pisa.
Quarant'a n n i di opposizione antifranchista
Aspetti e interpretazioni
di Alfonso Botti
Come la storiografia sul regime di Franco,
anche quella sull’opposizione antifranchista
ha un avvio ‘militante’, risale alla fine degli
anni sessanta, prende lentamente quota sul
piano dei risultati e della validità scientifica
nella seconda metà del successivo decennio
e, complessivamente considerata, offre un
panorama ancora insufficiente1.
Sull’opposizione hanno scritto gli opposi­
tori e, per denigrarla, gli apologeti del regi­
me. Vi si sono esercitati sociologi e politolo­
gi, spesso cercando conferme alle proprie
convinzioni, altre volte applicandovele. An­
che dopo la morte del caudillo, quando si
sono finalmente date le condizioni per la ri­
cerca, questa non ha mancato di sentire il ri­
chiamo del presente. Ancor oggi la materia
si presenta incandescente e l’intelligenza de­
gli storici vi si applica non disgiunta dalla
passione di parte: un sentimento che acco­
muna gli studiosi spagnoli senza risparmiare
gli ispanisti. Sicché sono pochi gli studi di
carattere complessivo sull’argomento, molti
quelli su aspetti parziali e numerosi i proble­
mi che la ricerca e l’interpretazione hanno
ancora di fronte.
Tra questi ultimi merita preliminare con­
siderazione quello relativo ai criteri in base
ai quali stabilire i confini dell’opposizione,
quali gruppi includervi e quali no, che pone
Juan J. Linz quando nel franchismo degli
anni sessanta, definito come “sistema politi­
co autoritario”, distingue una semi-opposi­
zione (che spesso si risolve in pseudo-oppo­
sizione) interna al sistema ma esclusa dal po­
tere, per questo desiderosa di essere coopta­
ta; un'opposizione a-legale, che vuole cam­
biare il sistema ma che per la sua incapacità
1 Oltre quattromila titoli, tra fonti e letteratura, sono segnalati da un gruppo di ricercatori sotto la direzione di
Emili Giralt i Raventos nell’utilissimo E! franquisme i l ’oposició: una bibliografia crìtica (1939-1975), Barcelona,
Enciclopedia Catalana, 1981. Senza pretese di completezza ed escludendo quelli a cui si farà poi esplicito riferimen­
to, si segnalano di seguito i lavori più significativi sul franchismo e di cui si è tenuto maggiormente conto. Costitui­
sce un ottimo punto di partenza la rassegna di Giorgio Rovida, Franchismo, in Storia d ’Europa, I, Firenze, La
Nuova Italia, 1980, pp. 348-373, alla quale sono da aggiungere per lo meno: Max Gallo, Histoire de l ’Espagne
franquiste, Verviers, Gerard et Cie, 1969 (tr. it. Storia della Spagna franchista, Bari, Laterza, 1972); Jacques Georgel, Le franquisme. Histoire et bilan (1939-1969), Paris, Seuil, 1970 (tr. it. Il franchismo. Storia e bilancio, 19391971, Torino, Sei, 1972); Ramón Tamames, La Repüblica y la era de Franco, Madrid, Alianza Alfaguara, 1973;
Amando de Miguel, Sociologia del franquismo, Barcelona, Euros, 1975; Ricardo de la Cierva, Historìa del franquismo. I: Origenes y configuracióm (1939-1945). II: Aislamento, transformación, agonia (1945-1975), Barcelona,
Pianeta, 1975-1978, 2 voli.; Guy Hermet, L ’Espagne au X X e siècle, Paris, Puf, 1986, pp. 183-268; Stanley G. Pay­
ne, El régimen de Franco, 1936-1975, Madrid, Alianza, 1987; Xavier Tusell, La dictadura de Franco, Madrid,
Alianza, 1988.
Italia contemporanea”, dicembre 1989, n. 177
94
Alfonso Botti
di rappresentare un’alternativa è sovente
tollerata; un’opposizione illegale che per la
radicalità delle sue opzioni e delle sue prati­
che è brutalmente perseguitata2.
Sul piano più propriamente storiografico,
in un saggio breve ma denso che, pur non
basandosi su originali ricerche e non esiben­
do documentazione inedita, fornisce un pri­
mo compendio, dimostra poi analoghe
preoccupazioni Paul Preston, per il quale il
livello di tolleranza concesso negli ultimi an­
ni del regime ai democratici cristiani di Gii
Robles e di Ruiz Giménez, all’Unione socialdemocratica di Dionisio Ridruejo o ai dissi­
denti monarchici degli anni quaranta costi­
tuisce “un’utile indicazione, se non un crite­
rio assoluto di definizione” per l’individua­
zione dei gruppi da considerare nel novero
dell’opposizione3. Lo storico inglese propo­
ne di distinguere nell’opposizione i “rivolu­
zionari” dai “riformisti” senza per questo
tacere la “reale inoffensività” della sinistra
falangista, dei democristiani e perfino di al­
cuni socialisti4. Ma la questione, pur preco­
cemente affontata, è stata poi inspiegabil­
mente messa da parte, generando con ciò —
come si avrà modo di vedere — non pochi
equivoci.
Gli anni quaranta
La sconfitta della repubblica provocò, com’è noto, l’emigrazione forzata di centinaia
di migliaia di spagnoli — le stime variano
dai trecentomila al mezzo milione — la cui
prima destinazione fu, nella stragrande
maggioranza dei casi, la Francia. L’occupa­
zione nazista di quest’ultima condusse a
un’ulteriore diaspora. Quelli che non vi re­
starono e che non poterono fare rientro suc­
cessivamente in patria presero la via dell’America latina (del Messico in particolare) e
in misura ben più ridotta di vari paesi euro­
pei e dell’Unione sovietica. Una parte non
trascurabile di quanti rimasero in Francia
s’inquadrò — circa ventimila — nelle file
della resistenza francese, dando un impor­
tante contributo alla liberazione del paese5 e
accumulando un patrimonio d’esperienze
militari che pensò poi di spendere — e in
parte effettivamente riversò — nella lotta ar­
mata antifranchista all’interno
della
Spagna.
Esule fu il ceto intellettuale d’orientamen­
to democratico, il cui esodo costituì una fu­
ga di cervelli paragonabile a quello cono­
sciuto solo pochi anni prima dalla Germania
2 Juan José Linz, L'opposizione in un regime autoritario: il caso della Spagna, “Storia contemporanea” , 1970, n.
1, pp. 63-102, 299-355. Discutibile ed equivoca (per la sua tendenza a ridurre il franchismo a quello degli anni ses­
santa, cioè alla sua fase di modesta liberalizzazione), in parte fraintesa (perché comunque Linz precisa che esclusi­
vamente a questo periodo si riferisce la sua definizione di “sistema politico autoritario”), l’interpretazione di Linz
non cessa di costituire un punto di riferimento essenziale non solo per la sociologia politica.
3 Paul Preston, L ’opposizione antifranchista: la lunga marcia verso l ’unità, in Aa.Vv., Le basi autoritarie della
Spagna democratica, a cura di P. Preston, Torino, Rosenberg & Sellier, 1978, pp. 218-265, p. 219 (ed. orig. Spain
in crisis: the Evolution and Decline o f the Franco Regime, Hassocks, Sussex, The Harvester Press, 1976).
4 Paul Preston, L ’opposizione antifranchista, cit., p. 220.
5 Sui rifugiati spagnoli in Francia e il loro contributo alla lotta antinazista si deve leggere anzitutto la testimonianza
dell’ex-ministro della repubblica e dirigente anarchica Federica Montseny, Pasión y muerte de los espaholes en
Francia, Toulose, Editions Espoir, 1969. Si vedano poi: David Wingeate Pike, / Vae vietisi Los republicanos espa­
holes refugiados en Francia, 1939-1944, Paris, Ruedo Ibèrico, 1969; Miguel Angel, Los guerrilleros espaholes en
Francia, 1940-1945, La Habana, Ed. de ciencias sociale, 1971 ; Eduardo Pons Prades, Republicanos espaholes en la
segunda guerra mundial, Barcelona, Pianeta, 1975; Manuel Tunón de Lara, Los espaholes en la segunda guerra
mundial, in El exilio espahol de 1939, a cura di José Luis Abelian, Madrid, 1976, voi. Il, Guerra y politica, pp. 1187; Juan Carrasco, La odisea de los republicanos espaholes en Francia, 1939-1945, Barcelona, Editorial Novalletra,
1980; M.A. Sanz, Luchando en tierras de Francia, Madrid, Ediciones de la Torre, 1981; Eulalio Ferrer, Entre
alambradas, Barcelona, Grijalbo, 1988.
Quarant’anni di opposizione antifranchista
hitleriana6. In esilio andò la stragrande mag­
gioranza del ceto politico repubblicano e
del gruppo dirigente delle due centrali sinda­
cali.
Un altro aspetto dal quale non si può pre­
scindere è, per vari motivi, quello della re­
pressione. Essa funzionò infatti dapprima
come radicale misura preventiva nei riguardi
dell’opposizione futura; ne impedì e ne ral­
lentò la riorganizzazione all’interno; si ab­
batté violentemente su di essa quando rie­
merse, perseguitandola con vari gradi di du­
95
rezza a seconda di contro chi fosse diretta,
per tutta la durata del franchismo.
La letteratura sull’esodo repubblicano è
assai nutrita e diversificata. Di taglio preva­
lentemente memoralistico, essa conta alcuni
saggi relativi alla sopravvivenza delle istitu­
zioni repubblicane nell’esilio (sia centrali
che dei governi autonomi catalani e baschi)
e vanta un pregevole tentativo di messa a
punto e di sintesi a più voci7. Diverso pano­
rama offre lo stato degli studi sulla repres­
sione, riguardo alla quale le stesse cifre sono
6 Juan Mestre calcola in cinque mila il numero di intellettuali che emigrarono, riferendosi a quelli che godevano di
una certa notorietà nelle professioni liberali, in campo artistico, scientifico e nell’insegnamento (J. Mestre, Los intelectuales exiliados, “Informaciones”, Madrid, 14 febbraio 1976). Sulla cultura spagnola nell’esilio costituiscono
una utile messa a punto il terzo e quarto volume dell’opera diretta da J.L. Abellân, El exilio espanol de 1939, Ma­
drid, Taurus, 1977. Lo stesso Abellân ha raccolto alcuni saggi in precedenza pubblicati sull’argomento in De la
guerra civil al exilio republicano (1936-1977), Madrid, Mezquita, 1983. Tra i più significativi studi comparsi sull’ar­
gomento in precedenza, è da segnalare: Juliàn Amo, Charmien Shelby, La obra impresa de los intelectuales espa­
noles en América, 1936-1945, California, Standford University Press, 1950.
7 Oltre a quanto segnalato nelle due precedenti note relativamente all’esilio in Francia e agli intellettuali, cfr. Mauricio Fresco, La emigración republicana espanola: una victoria de México, México, Editores Asociados, 1950; José
Gutiérrez-Rave, Las Cortes errantes del Frente popular, Madrid, Editora Nacional, 1953; Carlos Martinez, Croni­
ca de una emigración (La de los republicanos espanoles en 1939), México, Libro Mex, 1959; Fidel Mirò, },YEspo­
rta, cudndo? El fracaso politico de la emigración, Mexico, Libro Mex, 1959; Manuel Cacho Gii, Acción y frustra­
tion. Paginas historicas de la Espana errante, México, 1966; Xavier Flores, Et exilio y Espana, in Aa.Vv., Horizon­
te espanol 1966, Paris, Ruedo Ibèrico, 1966, vol. II, pp. 29-38; José Berruezo, Contribution a la historia de la Cnt
de Espana en el exilio, México, Editores Méxicanos Unidos, 1967; Antonio Vilanova, Los olvidados: los exiliados
espanoles en la segunda guerra mundial, Paris, Ruedo Ibèrico, 1969: A. Fernandez, Emigration republicana espa­
nola, 1939-1945, Madrid, Zero, 1972; Cristina Martin, Éxodo de los republicanos espanoles, México, Malaga,
1972; Aa.Vv., La Espana ausente, Madrid, Ediciones 99, 1973; Patricia M. Fagen, Exiles and Citizens. Spanish
Republicans in Mexico, Austin, Institute of Latin America studies, The University of Texas at Austin, 1973; Vicen­
te Llorens, Memorias de una emigración: la de Santo Domingo, 1939-1945, Barcelona, Ariel, 1975; José Borras,
Politicos de los exiliados espanoles, 1944-1950, Paris, Ruedo Ibèrico, 1976; José Maria Valle, Las instituciones de
la Repùblica en el exilio, Paris, Ruedo Ibèrico, 1976; Javier Rubio, La emigración de la guerra civil de 1936-1939.
Historia del exodo que se produce con el fin de la II Repùblica espanola, Madrid, Libreria Editorial San Martin, 3
voli., 1977; Amaro Del Rosai, Historia de la Ugt de Espana en la emigración, 1939-1950, Barcelona, Grijalbo,
1978, 2 voli.; Juan G arda Oliver, El eco de los pasos, Paris, Ruedo Ibèrico, 1978, sull’esilio anarcosindacalista,
pp. 515-637; José E. Leiva, Elementos para la comprensión correda de cuarenta ahos de exilio confederai y liberta­
rio, Paris, 1978; Introduzione di Xavier Tusell a Luis Araquistain, Sobre la guerra civil y en la emigración, Madrid,
Espasa-Calpe, 1983, pp. 11-128, il solo studio dedicato all’attività e al pensiero dell’esponente socialista nel dopo­
guerra; J. Zurita Castaner, Los ct'rculos del exilio espanol en Europa (1939-1975), Zaragoza, 1985; César Teach,
Carmen Reyes, Clandestinidad y exilio. Reorganization del sindicato socialista, 1939-1953, Madrid, Editorial Pa­
blo Iglesias, 1986. Sull’esilio catalano e sui suoi organi di governo autonomo, cfr. Miguel Ferrer, La Generalitat de
Catalunya a l ’exili, Barcelona, Edit. Ayma, 1977; Ernest Udina, Josep Tarradellas. L ’aventura d ’una fidelitat,
Barcelona, Edicions 62, 1987; Carles Pi Sunyer, Memories de l ’exili. I. El Conseil National de Catalunya, 19401945, II. El Govern de la Generalitat a Paris, 1945-1958, Barcelona, Curial, 1978-79, 2 voli.; J. Sauret, L ’exili poli­
tic catald, Barcelona, Proa, 1979. Sull’esilio basco, cfr. Beltza, El Nacionalismo vosco en el exilio, 1937-1960, San
Sebastian, Editorial Txertoa, 1977; K. San Sebastian, El exilio vosco en América, 1936-1946, San Sebastian, Txertoa, 1988. Un utile lavoro di sintesi sull’argomento è rappresentato dai sei volumi su El exilio espanol del 1939, cit.
96
Alfonso Botti
controverse, pur in presenza di affidabili ap­
prossimazioni8.
Esiste invece una discreta quantità di mo­
nografie sulla lotta armata contro Franco.
La si è generalmente definita come guerri­
glia (anche se ovviamente per l’autorità mili­
tare preposta alla repressione, che in alcuni
casi ha lasciato utili scritti al riguardo9, si
trattò di bandoleros), comprendendovi un
episodio di natura assai diversa. Guerriglia
fu certamente quella che coagulò all’inizio
in alcuni nuclei operanti nelle zone rurali e
montane quei soldati dell’esercito regolare
repubblicano e quei militanti politici di sini­
stra che restarono nelle retrovie dell’esercito
franchista in avanzata, ai quali si integraro­
no quanti non deposero le armi alla fine del­
la guerra. Si trattò in molti casi di un modo
di sopravvivere prima che di una resistenza
consapevole. A questi scampati o scappati
(huidos) si aggiunsero poi, nel 1944, i singoli
e i piccoli gruppi che rientrarono clandesti­
namente in Spagna dai valichi pirenaici e
dalle coste dell’Africa settentrionale, tra i
quali non pochi di quelli che avevano com­
battuto nel maquis in Francia. Non è invece
possibile considerare come fenomeno di
guerriglia la fallimentare spedizione, orga­
nizzata dal Pce e composta da circa quattro­
mila uomini, che nell’ottobre del 1944 pene­
trò in Spagna attraverso la valle di Aràn col
proposito di provocare la rivolta delle popo­
lazioni di quei luoghi e di richiamarne altre
da quelli limitrofi, per liberare almeno una
parte del paese che servisse da testa di ponte
per un intervento alleato. Tale tentativo si
configurò infatti come un’operazione milita­
re convenzionale che, nei propositi e di fat­
to, mai si pose sul piano della lotta guerrigliera.
Tutto considerato la lotta armata contò
nell’arco di tempo in cui si svolse — vale a
dire dal 1939 al 1951, ma con maggiore in­
tensità tra il 1944 e il 1947 — su non meno
di seimila combattenti, generalmente rag­
gruppati in piccole formazioni (‘invasione’
di Aràn a parte) oscillanti tra le dieci e le
venti unità e su un’area di coinvolgimento
per lo meno tripla. Vi militarono uomini dal
credo politico incerto o del quale non è stato
possibile precisare ancora l’orientamento,
anarchici, socialisti e soprattutto comunisti.
Operò, anche se con distribuzione assai di­
somogenea, su quasi tutto il territorio nazio­
nale, ma il maggior numero di iniziative mi­
litari si registrò nelle zone del Levante anda­
luso, nell’Aragona e in Galizia, seguite dalle
Asturie, dalla Cantabria, dalla regione va-
8 Varie stime calcolano in circa 200.000 i morti per esecuzioni, maltrattamenti e denutrizione nelle carceri franchi­
ste, nel periodo compreso tra la fine della guerra civile e il 1943-1944. Assai più prudente nel maneggiare le cifre,
Heine calcola approssimativamente in 150.000 le vittime del terrore franchista tra il luglio del 1936 e il novembre
1944, mentre indica in 271.139 il numero di prigionieri per ribellione marxista che si trovavano nelle carceri spagno­
le nel 1940 (Haltmust Heine, La oposición politica al franquism o, Barcelona, Grijalbo, 1983, p. 44, 46). Per i vari
momenti della repressione, cfr. Commission Internationale, Contre le régime concentrationnaire. Livre Blanc sur le
système pénitentiaire espanol, Paris, 1953; Elena De Souchère, Explication de l ’Espagne, Paris, 1962; Batasuna, La
represion au pays basque, Paris, Maspero, 1970; Angel Suarez [Luciano Rincon], Colectivo 36, Libro Blanco sobre
las carceles franquistas, 1939-1976, Paris, Colectivo 36, 1976; Joan Learch, Campos de concentración en la Espana
de Franco, Barcelona, Producciones Editoriales, 1978; T. Cuevas, Mujeres en las carceles franquistas, Madrid, Ca­
sa de Campo, 1982; Josep M. Solé i Sabaté, La repressiô franquista a Catalunya, 1939-1953, Barcelona, Ediciones
62, 1985; J. Francisco Bastida, Jueces y franquismo. El pensamiento politico del Tribunal Supremo en la dictadura, Barcelona, Ariel, 1986, sulle sentenze del famigerato tribunale dal 1964 al 1974. Analitico ed esaustivo per
quanto riguarda i dati nella provincia di Cordoba è Francisco Moreno Gómez, Cordoba en la posguerra (La represión y la guerrilla, 1939-1950), Cordoba, Francisco Baena Editor, 1987, pp. 3-345.
9 Tomas Cossias, La lucha contra el “Maquis” en Espana, Madrid, Editora Nacional, 1956; Eulogio Limia Pérez,
Resena genera! del bandolerismo en Espana después de la guerra civil, Madrid, Dirección generai de la Guardia Ci­
vil, 1957.
Quarant’anni di opposizione antifranchista
lenziana, dalla Castiglia e dalla Catalogna1012.
Anni dopo in quest’ultima si ebbero anche
tentativi di guerriglia urbana ad opera di al­
cuni militanti anarchici11. Pur in presenza di
significativi contributi, tra i quali merita di
essere segnalata la ricerca per molti versi de­
finitiva di Fernanda Romeu sulla Agrupación guerrillera de Levanten , restano impre­
cisate le dimensioni complessive del fenome­
no, quelle della mobilitazione a cui costrinse
la Guardia civil e l’esercito, le cifre relative
ai caduti e ai feriti da una parte e dall’altra
e, soprattutto, come si vedrà, l’atteggiamen­
to che il Pce ebbe al riguardo dopo il 1948.
Lacune che i maggiori specialisti del settore,
riuniti in un recente seminario madrileno,
non hanno mancato di denunciare13. Strettamente connesso ai temi della repressione e
della guerriglia, tanto da poter essere consi­
derato come appendice di entrambi, è l’assai
più circoscritto caso di quanti, in vari mo­
menti tra l’inizio della guerra civile e la
sconfitta definitiva della lotta armata nel
97
1951, si nascosero in solai e cantine — da
cui l’appellativo di topos, topi — rimanen­
dovi per lunghissimi anni, in qualche circo­
stanza per l’intera durata del regime. Un ar­
gomento per il quale si è rivelato particolar­
mente indicato il ricorso alle fonti orali14.
Prima che si diano le condizioni per la na­
scita di un’opposizione sociale, vale a dire
fino alla metà degli anni cinquanta, Fantifranchismo — guerriglia a parte — vive del­
l’iniziativa del ceto politico in esilio, dei ten­
tativi di riorganizzare i partiti antifranchisti
all’estero e di ricostituirli clandestinamente
all’interno. Lacerati dal reciproco addossar­
si delle responsabilità della sconfitta, da ran­
cori e incompatibilità personali, nella stessa
organizzazione dell’esodo tra il Servicio de
emigración de los refugiados espanoles (Se­
re) che fa capo a Negrin e al Pce e la Junta
de auxilio a los refugiados espanoles (Jare)
creata da Prieto, i partiti antifranchisti non
possono fare a meno di dividersi sulla linea
da seguire. La storia dell’opposizione politi-
10 Enrique Lister, Lesson o f the Spanish guerrilla war (1939-1951), “Peace, Freedom and Socialism”, 1965, n. 2,
pp. 35-39; Andrés Sorel, Busqueda, reconstruction e historia de la guerrilla espahola del siglo X X , a través de sus
documentas, relatosy protagonistas, Paris, Librairie du Globe, 1970, pp. 253; José Gros, Abriendo camino, Paris,
Librairie du Globe, 1971, pp. 127-267; Francisco Aguado Sanchez, El maquis en Espaha, Madrid, Editorial San
Martin, 1975; Xavier Costa Clavell, Perfil conflictivo de Galicia, Barcelona, Galba, 1976; J.M . Molina, El movimiento clandestino en Espaha, 1939-1949, México, Editores Mexicanos Unidos, 1976, pp. 187-193 (sulla guerriglia
libertaria); José Antonio Vidal Sales, Después de 39: la guerrilla antifranquista, Barcelona, Editorial Ate, 1976; E.
Pons Prades, Guerrillas espaholas, 1936-1960, Barcelona, Pianeta, 1977; Nicolas Manzanares Artés, Los hermanos
Quero, Cartagena, 1978; H. Heine, La guerrilla antifranquista en Galicia, Vigo, Edicions Xerais de Galicia, 1980;
Isidro Cicero, Los que se echaron al monte, Santander, Cocorotta, 1982: Justo Vila Izquierdo, La guerrilla anti­
franquista en Extremadura, Badajoz, Ediciones Biblioteca Popular Extremena, 1983; Rafael Gômez Parra, La
guerrilla antifranquista, 1945-1949, Madrid, Revoluciôn, 1983; Daniel Arasa, A nos 40: los maquis y el Pce, Barce­
lona, Editorial Argos Vergara, 1984, sulla spedizione nella valle di Aràn; Secondino Serrano, La guerrilla antifran­
quista en Leon (1936-1951), Salamanca, Junta de Castilla y Leon, 1986; F. Moreno Gomez, Cordoba en la posguerra, cit., pp. 349-547.
11 Cfr. Antonio Téllez, La guerrilla urbana. Facerias, Paris, Ruedo Ibèrico, 1974, Id., Sabaté. Guerrilla urbana en
Espaha (1945-1960), Barcelona, Plaza & Janés, 1978; rispettivamente sui guerriglieri libertari José Luis Facerias e
Francisco Sabaté, detto “Quico”.
12 Fernanda Romeu Alfaro, Mas alla de la utopia: perfil historico de la Agrupación guerrillera de Levante, Valen­
cia, Edicions Alfons el Magnànim - Institució valenciana d ’estudis i investigació, 1987, che orchestra abilmente
fonti orali (guerriglieri e Guardia civile), documentazione inedita proveniente dall’archivio del Cc del Pce e dagli
archivi della Guardia civile.
13 Cfr. L. Galàn, Olvidar el “maquis”, “El Pais”, 11 dicembre 1988.
14 Ronald Freser, In Hiding. The life o f Manuel Cortes, London, Alien Lane The Pinguin Press, 1972; tr. it. Il bu­
co nel muro. La vita e Tautoreclusione del sindaco antifranchista Manuel Cortes dal 1939 al 1969, Milano, Bom­
piani, 1974; J. Torbado, M. Leguineche, Los topos, Barcelona, Libreria Editorial Argos, 1977.
98
Alfonso Botti
ca degli anni quaranta è storia di divisioni
stabili, di precari tentativi d’alleanza — il
meno effimero dei quali fu certamente la
Alianza nacional de fuerzas democràticas
(Anfd) che operò dal 1944 al 1947, coinvol­
gendo per breve periodo anche i comunisti15
— e di ritardi cronici nel giungere agli ap­
puntamenti decisivi. Ad essa sono rivolti,
completamente o in parte, alcuni studi di
valore assai diverso dei quali occorre riferi­
re. Il primo in ordine di tempo è quello che
Xavier Tusell dedica all’opposizione ‘demo­
cratica’ dal 1939 al congresso di Monaco
del 1962, ponendo il 1949 a spartiacque tra
due periodi, rispettivamente caratterizzati
dal tentativo del leader della destra sociali­
sta Prieto di allearsi con i monarchici per
mettere fine alla dittatura di Franco con la
benedizione delle potenze alleate e dalla ri­
nascita dell’opposizione in forme nuove do­
po le manifestazioni studentesche del 1956.
Si tratta di una cronaca dove i personaggi
volano leggeri non ancorati alla zavorra di
nessuna fonte esplicitamente indicata, se
non una tantum nella generica dichiarazio­
ne di aver utilizzato le testimonianze e i do­
cumenti forniti dai protagonisti, nonché la
stampa dell’esilio e del regime16. Asserendo
di volersi occupare esclusivamente dell’op­
posizione “democratica”, cioè di quelle for­
ze politiche che assumono il sistema politico
occidentale come modello, Tusell esclude
dall’analisi il Pce che guarderebbe alle de­
mocrazie popolari17, con la bizzarra trovata
che “il primato nella persecuzione e nella
sofferenza non significa il primato nella lot­
ta per la democrazia” 18. Egli tralascia altresì
la guerriglia (che non fu tutta, né solo co­
munista come si è detto) e il movimento li­
bertario senza spiegarne i motivi. Espunta
così l’opposizione che più si oppose, Tusell
dedica grande attenzione alle tresche e al
confabulare di Gil Robles, dei seguaci di
Juan di Borbone e dei generali monarchici
Aranda e Kindelàn (riuniti nella Confederación de fuerzas monarquicas) coi quali Prie­
to faticosamente raggiunse alla fine di ago­
sto del 1948 l’accordo di San Juan de Luz.
Accordo quant’altri mai effimero e senza
conseguenze, stante la precedente intesa del
conte di Barcellona con Franco. Ciò nono­
stante resta convinzione di Tusell che “la
possibilità di restaurare la democrazia in
Spagna passava, [...], attraverso i settori
che nel seno della sinistra desideravano
scendere a patti con i monarchici” e che “le
relazioni tra monarchici e socialisti furono
la grande possibilità democratica degli anni
quaranta”19. Un’affermazione che solo l’e­
same delle altre possibilità e delle altre stra­
tegie renderebbe plausibile e che rimane
un’enunciazione priva di fondamento senza
il suffragio di tale confronto. Narrazioni
giornalistiche, agili e di parte, sono i succes­
sivi due volumi sull’opposizione fino al
1955 dell’ex militante del Poum (Partido
obrero de unificación marxista) Victor Al­
ba20 che si basa essenzialmente sul prece-
15 Del tutto inconsistente era stata l’Alianza democràtica espanola (Ade) costituita a Londra nel 1940 dallo stesso
schieramento che aveva sorretto il golpe di Casado. 1 comunisti, da parte loro, avevano lanciato nell’agosto del
1941 la Union nacional espanola aperta ai settori negrinisti del Psoe, poi la Union democràtica nacional. Dall’in­
tesa tra Prieto e il repubblicano Martinez Barrio era scaturita invece la Junta espanola de liberación. Questo per
non dire degli organismi creati dall’esilio catalano e basco (rispettivamente il Conseil nacional de Catalunya, Soli­
darietàt catalana e il Consejo nacional de Euzkadi) ai quali si è già fatto cenno segnalando la letteratura che vi è
dedicata.
16 Xavier Tusell, La oposición democràtica al franquismo, 1939-1977, Barcelona, Pianeta, 1977, p. 441.
17 X. Tusell, La oposición democràtica, cit., p. 13.
18 X. Tusell, La oposición democràtica, cit., p. 14.
19 X. Tusell, La oposicion democràtica, cit., p. 220.
20 Victor Alba, La oposición de los supervivientes (1939-1955), Barcelona, Pianeta, 1978; Id., Historia de la resi­
stendo antifranquista, 1939-1955, Barcelona, Pianeta, 1978.
Quarant’anni di opposizione antifranchista
dente libro di Molina21 e sulle carte del mili­
tante del Poum Manuel Alberich di cui nella
sostanza riproduce l’interpretazione valoriz­
zando la resistenza libertaria e della sinistra
antistalinista.
Ben altra vastità d’orizzonte e profondità
analitica nel tenere costantemente d’occhio
l’apparato repressivo dello stato franchista,
le divisioni degli antifranchisti nella diaspo­
ra e all’interno, nonché l’atteggiamento del­
le grandi potenze verso la Spagna, presenta
la storia che Haltmust Heine dedica all’op­
posizione politica tra il 1939 e il 1952. Lo
storico tedesco muove giustamente dal golpe
del colonnello Casado che nella fase conclu­
siva della guerra civile, d’accordo con socia­
listi e libertari, nell’illusorio tentativo di tro­
vare un’intesa con Franco, dichiarò incosti­
tuzionale il governo Negrin, col quale erano
attestati i comunisti su posizioni di resisten­
za ad oltranza. Heine non tace il sospetto
che la reazione comunista al colpo di mano
fu blanda per scaricare su Casado la respon­
sabilità della resa22, ma richiamando questo
antefatto spiega, almeno in parte, la succes­
siva diffidenza dei comunisti spagnoli verso
chi li aveva scaricati. Egli segue poi da una
parte gli sconcertanti mutamenti dei comu­
nisti rispetto al Fronte popolare, a Negrin,
alla continuità delle istituzioni repubblicane,
alle forze monarchiche e i corrispondenti ef­
fimeri tentativi d’alleanza, mettendo in luce
la corrispondenza tra questi e le esigenze
della politica estera sovietica23. Convincente
è il profilo che Heine tratteggia della politica
di Monzón, il principale artefice comuni­
99
sta della lotta armata24 e più in generale del­
l’atteggiamento comunista verso la guerri­
glia25. Di quest’ultima, fenomeno che lo sto­
rico tedesco ben conosce per averlo studiato
nella realtà galiziana26, Heine fornisce una
visione tutt’altro che trionfalistica, pur attri­
buendole grande rilevanza storica come pre­
cedente, assieme alla “Lunga marcia” cine­
se, della rivoluzione cubana27. Anche dopo
il vertice con Stalin del 1948, a cui si è soliti
far risalire l’abbandono da parte del Pce
della lotta armata, “l’unica modifica che si
ebbe — scrive Heine — fu la scomparsa dei
protagonisti, i guerriglieri, non per opera di
nessuna evacuazione, ma per mano delle
forze repressive”28. Per Heine la sconfitta
della lotta armata dipese da tre motivi: dalla
situazione internazionale che non consentiva
una soluzione di sinistra del caso spagnolo;
dal fatto che gli antifranchisti erano troppo
segnati dalla guerra civile per imbracciare
nuovamente le armi; dallo scarso appoggio
che ricevette dal Pce e dal movimento comu­
nista internazionale29. D’altra parte, senza
trascurare la grave crisi che colpisce il movi­
mento libertario e l’attività di catalani e ba­
schi che accentuano nell’esilio la spinta au­
tonomistica, lo storico tedesco si sofferma
sull’ascesa dell’egemonia di Prieto nel parti­
to socialista e nell’Ugt (Union generai de
trabajadores) e sul progetto che l’esponente
socialista persegue. Una politica che apre un
credito smisurato nei confronti dei monar­
chici e degli alleati discriminando la sinistra
e contribuendo a frazionarla; che in realtà si
mostra più preoccupata di lottare contro
21 J.M . Molina, El movimiento clandestino en Espana, 1939-1949, cit.
22 H. Heine, La oposición politica, cit., pp. 21-24.
23 H. Heine, La oposición politica, cit., p. 229, per l’efficace sintesi delle svolte, degli aggiustamenti e delle contro­
versie della politica comunista dal 1939 al 1945.
24 H. Heine, La oposición politica, cit., pp. 189-236.
25 H. Heine, La oposición politica, cit., pp. 420-471.
26 H. Heine, La guerrilla antifranquista en Galizia, cit.
27 H. Heine, La oposición politica, cit., pp. 468-469.
28 H. Heine, La oposición politica, cit., p. 469.
29 H. Heine, La oposición politica, cit., pp. 470-471.
100
Alfonso Botti
Negrin che di sfruttare la situazione interna­
zionale per abbattere Franco30. In definitiva,
secondo Heine, l’opposizione non colse l’oc­
casione che le si presentò tra la fine della
guerra mondiale e l’inizio di quella fredda a
causa delle divisioni interne e per la situazio­
ne internazionale. Ma se le responsabilità di
Prieto non furono inferiori a quelle dei co­
munisti, più grave fu la condotta degli allea­
ti. Prima della svolta che la guerra fredda
produsse riavvicinando gli Stati Uniti e l’In­
ghilterra a Franco, “l’influenza inglese fu al­
trettanto o più importante del giudizio della
Casa bianca sul valore strategico della Spa­
gna nel futuro confronto con l’Unione so­
vietica”31. “Le potenze anglosassoni si as­
sunsero la parte principale della responsabi­
lità che il regime franchista sopravvivesse al­
la sua tappa più difficile e detenesse il potere
per più di quarant’anni”32.
Autore, circa quindici anni prima, di una
fortunata inchiesta presso i principali anta­
gonisti del regime, definita come “un’opera
in movimento” che avrebbe terminato di
scrivere alla fine della dittatura33, Sergio Vi­
lar mantiene la promessa con la Historia del
antifranquismo, la sola dedicata all’intero
periodo franchista34. Vilar non trascura nes­
suna delle componenti e degli aspetti che en­
trano in gioco nel definire l’opposizione. Da
questo punto di vista si tratta di un’ampia
cronaca delle iniziative e delle attività del­
l’opposizione con pregevoli messe a punto
che beneficiano della letteratura prece­
dente sui singoli aspetti. Nell’affrontare il
tema dell’insuccesso dell’opposizione nel
momento più favorevole, vale a dire tra il
1944 e il 1947 all’incirca, Vilar insiste però
quasi esclusivamente sulle cause interne. In
particolare, egli sottolinea che il reciproco
ostacolarsi dei principali rappresentanti an­
tifranchisti impedì il tempestivo ricostituirsi
in esilio del governo della repubblica che
avrebbe potuto negoziare con gli alleati la
partecipazione spagnola alla lotta di libera­
zione e con essa il loro intervento contro
Franco alla fine del conflitto35. Secondo Vi­
lar, l’opposizione non conseguì il suo scopo
per due ordini di ragioni. In primo luogo
per la contraddizione esistente tra il perse­
guimento di un’alleanza in chiave antifran­
chista tra repubblicani e monarchici e il pa­
rallelo svolgersi della lotta armata36. Sulla
guerriglia, Vilar è perentorio. Le riconosce
un ruolo positivo solo fino alla fine della
guerra mondiale, poi la giudica non solo
inutile, ma dannosa: per il sacrificio di mili­
tanti che comportava, per le difficoltà che
provocò nel negoziato tra l’Anfd e i seguaci
di Juan de Borbon. A questo proposito, egli
scrive: “il prolungamento della guerriglia fi­
no al 1948 [...] fu un’enorme sciocchezza, ti­
pica, in particolar modo, del sinistrismo o
infermità infantile che affliggeva diversi di­
rigenti del Pce, patologia pseudorivoluzio­
naria che colpiva anche alcuni libertari”37.
In secondo luogo, l’opposizione non conse­
guì il suo scopo a causa della mancanza di
30 H. Heine, La oposición politica, cit., pp. 127-128.
31 H. Heine, La oposición politica, cit., p. 178.
32 H. Heine, La oposición politica, cit., p. 478.
33 Sergio Vilar, Protagonistas de la Espana democràtica. La oposición a la dictadura, 1939-1969, Paris, Ediciones
sociales, 1969, tr. it. Contro Franco. Iprotagonisti dell’opposizione alla dittatura, 1939-1970, Milano, Feltrinelli,
1970, p. 71.
34 S. Vilar, Historia del antifranquismo, 1939-1975, Barcelona, Plaza & Janés, 1984. Mantiene più di quanto non
prometta il titolo il testo di Fernando Jauregui e Pedro Vega, Cronica del antifranquismo, Barcelona, Argos Ver­
gara, 1983-1985, 3 voli.
35 S. Vilar, Historia del antifranquismo, cit., pp. 178-179.
36 S. Vilar, Historia del antifranquismo, cit., p. 92.
37 S. Vilar, Historia del antifranquismo, cit., p. 157. Il linguaggio e il tono, come si vede, è più quello della propa­
ganda politica che della storiografia.
Quarant’anni di opposizione antifranchista
accordo tra democratici e monarchici sul
futuro regime istituzionale della Spagna,
una volta caduto Franco38. Cosicché, nell’a­
nalisi di Vilar, finisce per rimanere troppo
sullo sfondo la reale disponibilità delle for­
ze alleate a farla finita con Franco. Quando
si rivolge al Partito comunista, poi, la fa­
ziosità dell’autore si rivela incontenibile, as­
sumendo i toni poco meditati della requisi­
toria anticarrillista. Non si tratta della legit­
tima indignazione nei riguardi dello stalini­
smo e dei suoi crimini. Né di mostrare come
la lotta per l’egemonia interna, lungo l’asse
che da Diaz giunge a Carrillo passando per
Dolores Ibarruri, sacrifichi spesso la capaci­
tà d’iniziativa e di lotta del partito nonché
dirigenti come Quinones, Monzón, Trillo,
Comorera. È che per Vilar la storia del co­
muniSmo spagnolo è la storia di queste mi­
serie e nient’altro39.
Soprattutto a causa della clandestinità e
della conseguente dispersione del materiale
documentario, la storiografia è stata poco
generosa nei riguardi dei partiti e dei sinda­
101
cati spagnoli. Per gli stessi motivi essa non
è andata generalmente oltre la soglia, nei
casi migliori, della ricostruzione delle dina­
miche interne ai loro gruppi dirigenti. Sul
Pce — e non solo relativamente al periodo
ora in esame — esistono una storia ufficiale
che ricama silenzi e menzogne40, uno sfogo
franchista in forma di cronaca41, il pregevo­
le ma sintetico studio sociologico di Guy
Hermet42, requisitorie antistaliniste di sini­
stra, più o meno documentate e attendibi­
li43, un’approfondita biografia del segreta­
rio del Psuc (Partito socialista unificado de
Cataluna), Comorera44 e il nutrito saggio
dal taglio giornalistico di Moràn45. Le pagi­
ne più equilibrate restano pertanto quelle,
già segnalate, di Pleine. Per quanto riguar­
da il partito socialista e la Ugt non si va
molto oltre la documentazione relativa ai
congressi46, se si esclude una bibliografia di
per sé già rivelatrice, una miscellanea e un
recente studio sulla loro riorganizzazione
nell’immediato dopoguerra47; mentre sul
movimento libertario e la Cnt (Confedera-
38 S. Vilar, Historia del antifranquismo, cit., pp. 92-93.
39 S. Vilar, Historia del antifranquismo, cit., pp. 78-83, 131-160, 167-171.
40 Historia de! Partido comunista de Espana, Paris, Ediciones Sociales, 1960, redatta da una commissione del Cc
del Pce, composta da Dolores Ibarruri, Manuel Azcàrate, Louis Balanguer, Antonio Cordon, I. Falcón, José
Sandoval. Ad essa s’ispira Cesare Colombo, Storia del Partito comunista spagnolo, Milano, Teti, 1972. Alcune
considerazioni sullo stato degli studi sono svolte da Ramón Garcia Cotarelo, Las vicisitudes del comuniSmo espahol y su historiografia, “Revista de estudios politicos”, 1978, n. 3, pp. 133-141.
41 Ângel Ruiz Ayùcar, El Partido comunista 37 anos de clandestinidad, Madrid, Libreria Editorial San Martin,
1974.
42 Guy Hermet, Les communistes en Espagne, Paris, Armand Colin - Presses de fondations nationale des sciences
politiques, 1971.
43 V. Alba, El Partido comunista en Espana, Barcelona, Pianeta, 1979; nonché il più serio e documentato Juan
Estruch Tobella, El Pce en la clandestinidad (1939-1956), Madrid, Siglo XXI, 1982, che dedica particolare atten­
zione alle vicende del comuniSmo catalano.
44 Miguel Caminal, Joan Comorera, Barcelona, editorial empuries, 1984, 3 voli.
45 Gregorio Moràn, Miseria y grandeza del Partido comunista de Espana, 1939-1985, Barcelona, Pianeta, 1986; a
cui è da aggiungere lo studio di D. Wingeate Pike, Jours de gloire jour de honte, Paris, Société d ’éditions d ’ensei­
gnement supérieur, 1984, sulle vicissitudini del comuniSmo spagnolo in Francia dal 1939 al 1950; nonché il rapido
profilo di José Solé Tura, Unidad y diversidad en la oposición comunista al franquismo, in Aa.Vv., Espana bajo
al franquismo, a cura di Josep Fontana, Barcelona, Critica, 1986, pp. 123-141, utile anche per l’attenzione presta­
ta ai rapporti Pce-Psuc.
46 Congresos de! Psoe en et exilio, Madrid, Editorial Pablo Iglesias, 1981, 2 voli.; A. Del Rosai, Historia de la
Ugt, cit.
47 Fundación Pablo Iglesias, Cien anos de socialismo en Espana (Bibliografia), Madrid, Editorial Pablo Iglesias,
1979; Santos Juliâ, Continuidad y roptura en el socialismo espanol en el siglo X X , “Leviatân” , 1984, n. 17;
102
Alfonso Botti
ción nacional del trabajo) prevale di gran
lunga la memorialistica48.
Gli anni cinquanta
La prima metà degli anni cinquanta rappre­
senta per il franchismo il periodo di massi­
ma solidità interna e, per effetto della guer­
ra fredda, internazionale. Al suo consolida­
mento corrisponde l’esaurirsi del fenomeno
della guerriglia, l’irreversibile crisi del movi­
mento libertario sia sul piano politico che
su quello sindacale, l’altrettanto definitiva
crisi del repubblicanesimo, il declino fino
alla riduzione ai minimi termini del partito
socialista, il silenzio della fronda monarchi­
ca e la stentata sopravvivenza del Partito
comunista. Sintomi nuovi compaiono inve­
ce sul piano sociale. È stato studiato il boi­
cottaggio di massa dei mezzi pubblici dovu­
to al rincaro delle tariffe che si registra a
Barcellona nel febbraio-marzo del 195149.
La resistenza operaia che ha trovato già in
precedenza modo di manifestarsi negli scio­
peri del 1947 nei Paesi baschi, esplode all’i­
nizio del 1956, poi dell’anno successivo,
nelle zone industriali basche, catalane e del­
le Asturie. Parallelamente emerge l’insoffe­
renza per il sindacalismo studentesco di re­
gime nella nuova generazione universitaria
con la quale si schiera una parte del corpo
docente, nel febbraio del 1956 nell’universi­
tà di Madrid e di lì a un anno in quella di
Barcellona. Della protesta studentesca ma­
drilena sono stati raccolti i documenti50, esi­
ste una monografia51 e di essa si sono occu­
pati — come si vedrà più avanti — quanti
hanno ricostruito le vicende del movimento
studentesco spagnolo.
Nel nuovo clima indotto da questi fer­
menti sociali iniziano a comparire, dalla
metà del decennio, nuove correnti e rag­
gruppamenti d’opposizione e a rivitalizzarsi
alcune delle componenti tradizionali. Sicché
il decennio, complessivamente considerato,
si caratterizza per la crisi dei partiti anti­
franchisti tradizionali, per la comparsa dei
primi sintomi di un antagonismo sociale e
per la rinascita in nuove forme dell’opposi­
zione politica. O, come ha osservato Tunón
de Lara, per una triplice trasformazione
dell’opposizione: 1) negli obiettivi, perché
diviene ultraminoritaria la prospettiva in­
surrezionale; 2) nella sua composizione po­
litica, sociale e generazionale, perché vi si
coinvolgono settori d’orientamento politico
moderato della classe media e giovani nati
dopo la guerra civile; 3) nelle sue forme
d’organizzazione, perché inizia ad essere ra­
dicata nelle università e nel sindacato fran­
chista52, in virtù dell’entrismo praticato dal
Pce dopo il 1948.
Rinviando al successivo paragrafo la
menzione degli studi sul movimento operaio
e studentesco, dal momento che è negli anni
sessanta che i due soggetti sociali acquisi­
scono decisivo rilievo, è necessario soffer-
Aa.Vv., El socialismo en Espafia. Desde la fundación del Psoe hasta 1975, a cura di S. Julia, Madrid, Editorial
Pablo Iglesias, 1986; C. Teach, C. Reyes, Clandestinidady exilio, cit.
48 Oltre alle pubblicazioni di Berruezo, Molina e Paz, già segnalate a proposito dell’esilio, cfr. César M. Lorenzo,
Les anarchistes espagnols et le pouvoir, 1868-1969, Paris, Ed. du Seuil, 1969, pp. 333-407; Enrique Marco Nadal,
Todos contra Franco, Madrid, Queimada Ediciones, 1982; A. Paz [Diego Camacho], Cnt (1939-1951), Barcelona,
1982.
49 Félix Fanes, La vaga de tranvies de 1951. Una crònica de Barcelona, Barcelona, Laia, 1981.
50 Jaraneros y Alborotadores, Documentos sobre los sucesos estudiantiles de febrero de 1956 en la Universidad
Complutense de Madrid, Madrid, Editorial de la Universidad Complutense, 1982.
51 Pablo Lizcano, La generación del 56. La Universidad contra Franco, Barcelona, Grijalbo, 1981.
52 M. Tunón de Lara, E lpoder y la oposición, in José Antonio Biesca, M. Tunón de Lara, Esporta bajo la dietadura franquista (1939-1975), Barcelona, Labor, 1987, pp. 268-269.
Quarant’anni di opposizione antifranchista
marsi ora sul versante politico. Il fenomeno
più interessante e nuovo che contraddistin­
gue la ripresa dell’opposizione politica nella
seconda metà degli anni cinquanta è il di­
stacco dal regime di settori sociali e cultura­
li un tempo ad esso solidali e il passaggio
esplicito all’opposizione di alcune personali­
tà di diversa estrazione, generalmente pro­
venienti dal consenso. Ci si riferisce anzitut­
to al formarsi nel seno del cattolicesimo
spagnolo di correnti democratico-cristiane
variamente orientate, che vengono a confi­
gurare una significativa area politico-cultu­
rale.
Ne sono i principali esponenti a sinistra
l’ex dirigente della Ceda (Confederación
espanda de derechas autónomas) Manuel
Giménez Fernandez, al centro Joaquin Ruiz
Jiménez, ministro dell’Educazione destitui­
to in seguito alle proteste studentesche del
1956, assieme al tradizionale rappresentante
della destra cattolica non franchista, il lea­
der della Ceda Gil Robles. Altre caratteristi­
che ideologiche, pur muovendo da posizioni
cattoliche, ha il Frente de liberación popu­
lar (Flp) che si costituisce attorno al 1958 su
posizioni marcatamente di sinistra. Ma non
si può trascurare, per quanto si tenda oggi a
sopravvalutarne forse il ruolo, la vicenda di
Dionisio Ridruejo, protagonista di un lungo
viaggio attraverso il franchismo dal falangi­
smo più radicale alla socialdemocrazia53. Si
tratta di gruppi ancora ristretti, prevalente­
mente composti da intellettuali con scarsi
legami sociali, che anche quando si defini­
scono come partiti, contano in realtà sul­
103
l’appoggio di poche decine di aderenti; più
importanti, in definitiva, in quanto dimo­
strano il logoramento del consenso al fran­
chismo che per l’effettiva opposizione che
riescono ad esercitare. Di essi, dell’organiz­
zazione monarchica Union nacional e delle
iniziative di Tierno Galvan in area sociali­
sta, riferisce Tusell nella seconda parte del
lavoro in precedenza segnalato, dove però
non solo l’autore persevera nell’escludere il
Pce, ma si astiene anche dall’analisi del Flp
poiché “si iscrisse subito più in là di quelle
che si possono considerare le tendenze de­
mocratiche”54. Anche per questo periodo
più ampia ricognizione offre Sergio Vilar
che oltre ad essere un po’ meno reticente
sul Flp e a considerare anche l’atteggiamen­
to di catalani e baschi, si sofferma sulle vi­
cende del Pce. Vilar insiste sulle lotte all’in­
terno del suo gruppo dirigente dove la cam­
pagna contro Tito si ripercuote nella ria­
pertura del caso Monzón e Trilla e nella
normalizzazione del Psuc dopo l’espulsione
del suo segretario generale Comorera. De­
scrive la politica di riconciliazione naziona­
le lanciata nel 1956 e l’insuccesso degli
scioperi politici generali proclamati dal
Pce, dai quali nonostante tutto trae benefi­
cio Carrillo nella sua inesorabile ascesa alla
segreteria55. Anche in questa occasione l’a­
credine fa velo ed impedisce a Vilar di co­
gliere nella condotta comunista, pur con
tutti i suoi limiti, gli incunaboli del suo ra­
dicamento operaio che successivamente
porterà alla formazione delle Comisiones
obreras (Ccoo).
53 Di Dionisio Ridruejo (1912-1975) è senz’altro da leggere il lucido Esento en Esporta, Buenos Aires, Losada, 1962;
tr. it. Scritto in Spagna, Milano, Ed. di Comunità, 1962; dove rievoca le fasi del suo progressivo allontanamento dal­
la Falange e dal regime, fornisce una visione non convenzionale della storia spagnola e delinea i principi ispiratori
della sua socialdemocrazia. Sul personaggio esiste una miscellanea che raccoglie le commosse testimonianze di chi gli
fu vicino e amico, ma che non costituisce un approccio critico né all’uomo né all’opera: Aa.Vv., Dionisio Ridruejo,
de la Falange a la oposición, Madrid, Tauros, 1976, in cui compare anche l’utile studio bio-bibliografico di Moria
Rubio e Fermin Solana, Los di'as y las obras de Dionisio Ridruejo, pp. 283-498. Si veda infine: Luis G. San Miguel,
Las ideas politicos de Dionisio Ridruejo, “Sistema”, 1982, n. 46, pp. 121-130.
54 X. Tusell, La oposición democratica, cit., p. 336.
55 S. Vilar, Historia delantifranquismo, pp. 233-238, 276-281.
104
Alfonso Botti
Gli anni sessanta
Gli anni sessanta rappresentano per la Spa­
gna un periodo di forte crescita economica
e di sensibili trasformazioni sociali. Il regi­
me e l’opposizione entrano in una nuova
fase: il primo avviando un contraddittorio
tentativo di cosmesi, la seconda socializzan­
dosi ed uscendo coraggiosamente allo sco­
perto.
Sul piano politico e internazionale un
certo rilievo ha il congresso di Monaco del
giugno 1962, nel quale un composito schie­
ramento che va dai socialisti ai monarchici
liberali redige un documento che stabilisce
le condizioni in base alle quali la Spagna
potrebbe essere ammessa nella Comunità
economica europea. La cronaca più detta­
gliata del congresso di Monaco è quella di
Tusell56, la cui enfasi nel sopravvalutarne il
significato non convince più della pacata
osservazione di Preston secondo cui “Mo­
naco fu poco più che il raggiungimento del
traguardo dell’alleanza tra socialisti e mo­
narchici e, come tale, non fu molto signifi­
cativa”57. Sull’evoluzione delle correnti de­
mocratico-cristiane si sofferma Hermet58.
Sergio Vilar estende l’esame al gruppo d’in­
tellettuali che fa capo a Ridruejo, a quello
che cresce attorno a Tierno Galvan e alle
prese di posizione contro la tortura degli
intellettuali: ancora una volta, egli fornisce
una visione sommaria e unilaterale della
grave crisi che si apre nel gruppo dirigènte
comunista con l’espulsione di Claudin e
Semprùn nel 196459.
La storia di quel dibattito e delle conse­
guenze che la sua chiusura autoritaria ha
avuto sulle successive vicende del comuni­
Smo spagnolo resta da scrivere. Oggetto del
contendere fu, com’è noto, il giudizio sulla
fase di sviluppo raggiunta dal capitalismo in
Spagna e sulla strategia che doveva seguirne.
Claudin, spalleggiato da Semprùn, giudica­
va fallimentare la linea dello sciopero nazio­
nale pacifico e sosteneva che le trasforma­
zioni intervenute nel capitalismo spagnolo
invalidavano la visione catastrofista del par­
tito sullo stato dell’economia e del regime e
rendevano anacronistica la sua proposta di
realizzare una rivoluzione democratico-bor­
ghese che eliminasse i residui feudali. Non
vedendo le condizioni per una rottura rivo­
luzionaria che mettesse fine al regime, Claudin diagnosticava come maggiormente pro­
babile una fuoriuscita dal franchismo gover­
nata dal capitalismo monopolistico e dall’o­
ligarchia. Soluzione alla quale il Partito
avrebbe dovuto attrezzarsi ispirandosi al pa­
radigma costituito dal comuniSmo italiano.
Al di là della successiva evoluzione dei due
esponenti comunisti, essi coglievano indub­
biamente allora un dato reale che, se accol­
to, avrebbe consentito al Pce di ricongiun­
gersi con una realtà sociale in movimento,
dalla quale si era per forza di cose scolla-
56 X. Tusell, La oposición democratica, cit., pp. 388-432.
57 P. Preston, L ’opposizione antifranchista, p. 242.
58 G. Hermet, Los catolicos en la Esporta franquista. IL Cronica de una dictadura, Madrid, Siglo XXI - Centro de
Investigaciones Sociologicas, 1986, pp. 396-408.
59 Vilar liquida il dibattito del 1964 all’interno del Pce in poco piu di due pagine, dalla lettura delle quali trapelano
le reciproche accuse e gli insulti, ma non le posizioni politiche e il reale oggetto del contendere (S. Vilar, Historia
del antifranquismo, cit., pp. 326-328). Meno fazioso e senz’altro più utile è il resoconto che fornisce G. Moràn,
Miseria y grandeza, pp. 381-406. Analoga considerazione vale per l’importante libro di Ignacio Fernândez de Ca­
stro, De las Cortes de Cadiz al pian de Desarrollo, 1808-1966, Paris, Ruedo Ibèrico, 1968, pp. 376-383. Come sem­
pre, è alle fonti che bisogna riferirsi. Le principali, a questo proposito, sono : Fernando Claudin, Documentos de
una divergendo comunista, Barcelona, Viejo topo, 1978; il romanzo-verità di Jorge Semprùn, Autobiografia de
Federico Sanchez, Barcelona, Pianeta, 1977; Santiago Carrillo, Después de Franco i Qué?, Paris, Editions Socia­
les, 1965.
Quarant’anni di opposizione antifranchista
to. Carrillo e la Ibarruri preferirono invece,
anche nel timore delle conseguenze sulla te­
nuta di militanti già provati che avrebbe
avuto una diagnosi così impietosa della si­
tuazione, continuare ad accentuare soggetti­
vamente il ruolo del partito.
I soggetti sociali che più contribuiscono
alla fisionomia del periodo sono il movi­
mento operaio e studentesco. Ancora ade­
guatamente da studiare sono le conseguenze
dello sviluppo capitalistico sulla conflittua­
lità sociale e dell’emigrazione dalle zone ru­
rali sulla formazione di una nuova classe
operaia priva di tradizione sindacale60. Al­
trettanto dicasi per le precise modalità at­
traverso cui la coscienza operaia transita
dalla resistenza spontanea all’opposizione
politica consapevole e organizzata: l’itinera­
rio percorso dalle Ccoo, certamente il feno­
meno più significativo della storia dell’antifranchismo nel decennio61. Da estendere ri­
sultano anche gli studi sul movimento stu­
105
dentesco che dopo una fase di ripiegamento
successiva ai fatti del 1956, passa ad orga­
nizzarsi prima nella Federación universitaria
democràtica espanola (Fude), poi nel più
diffuso Sindicato democràtico de estudiantes (Sde) che è alla base dell’esplosione stu­
dentesca nel periodo compreso tra il 1966 e
il 1969, in modo analogo a quanto avviene
in altri paesi62. Da interpretarsi in maniera
più correlata alla stagione di iniziative e lot­
te sul piano sociale che si realizza nell’ulti­
mo scorcio del decennio, è quanto avviene
sul piano delle forze politiche: la costituzio­
ne nel gennaio del 1968 del Partido sociali­
sta del interior (Psi) ad opera di Tierno Gal­
van, la crisi e il successivo scioglimento del
Flp, il passaggio alla lotta armata del’Eta,
l’ascesa del nuovo gruppo dirigente del Psoe
all’interno, la nascita di formazioni di nuo­
va sinistra e il relativo consolidamento di
quelle preesistenti63. Per quanto assai meno
rilevante, resta significativo il fatto che an-
60 Bandera Roja, La lutte de classes en Espagne entre 1939 et 1970, “Les Temps Modernes” , n. 310, pp. 1768-1827;
José Maria Maravall, El desarrollo economico y la clase obrera, Barcelona, Ariel, 1970, sugli scioperi del 19661967; Marco Calamai, Storia del movimento operaio spagnolo dal 1960 al 1975, Bari, De Donato, 1975; Ignasi Rie­
ra, José Botella, El Baix Llobregat, 15 anos de luchas obreras, Barcelona, Blume, 1976, sulle lotte operaie durante
l’espansione capitalistica nella zona a sud di Barcellona; J. Sanz, El movimiento obrero en el Pais Valenciano
(1939-1976), Valencia, 1976; Manuel Ludevit, El movimiento obrero en Cataluha bajo e! franquismo, Barcelona,
Avance, 1977; Id., Vinti-cinc anys de moviment obrer a Catalunya, “Taula de Canvi”, 1977, n. 4, pp. 15-38; L.
Ferri, J. Muixi, E. Sanjuan, Las huelgas contra Franco (1939-1956), Barcelona, 1978.
61 In mancanza di studi organici, forniscono utili indicazioni: Aa.Vv., Le Commissioni operaie spagnole, Torino,
Musolini, 1969; M. Calamai, La lotta di classe sotto il franchismo. Le Commissioni operaie, Bari, De Donato,
1971; J. Sanz Oiler, Entre la fraude y la esperanza. Las Comisiones Obreras de Barcelona, s.l., Ruedo Ibèrico,
1972; Nicolas Sartorius, El resurgir del movimiento obrero, Barcelona, Laia, 1975; J.A. Diaz, Luchas internas en
Comisiones Obreras. Barcelona 1964-1970, Barcelona, Brugueta, 1977; F. Almendros, E. Jiménez-Asenjo, E. Pé­
rez, E. Rojo, El sindacalismo de clase en Espana (1939-1977), Barcelona, Peninsula, 1978; J.L. Guinea, Los movimientos obreros y sindacales en Espana. De 1833 a 1978, Madrid, Iberico Europea de Ediciones, 1978; J. Setien, El
movimiento obrero y el sindacalismo de clase en Espana (1939-1981), Madrid, Ediciones de la Torre, 1982.
62 Sul movimento studentesco spagnolo, cfr. Antoliano Pena, Veintecinco anos de luchas estudiantiles, in Aa.Vv.,
Horizonte espahol 1966, Paris, Ruedo Ibèrico, 1966, vol. II, pp. 169-212; M. Tunón de Lara, Le problème univer­
sitaire espagnol, “Esprit”, 1969, n. 381, pp. 842-855; M. Juan Farga, Universidady democracia en Espana, Méxi­
co, Era, 1969; Davira Formenton [Pablo Lizcano], Universidad, crònica de siete anos de lucha, in Aa.Vv., Hori­
zonte espahol 1972, Paris Ruedo Ibèrico, 1972, vol. II, pp. 181-235; Salvador Giner, Potere, libertà e trasformazio­
ni sociali nell’università spagnola, 1939-1975, in Aa.Vv., Le basi autoritarie della Spagna democratica, cit., pp.
303-346; José Maria Colomer, Els estudiants de Barcelona sota el franquisme, Barcelona, Curial, 1978; Joan Crexell, La caputxinada, Barcelona, Edicions 62, 1987.
63 Sull’attività di Tierno Galvan (1918-1986), cfr. Enrique Tierno Galvan. El hombre, el intelectual y el politico,
numero monografico della rivista “Sistema” , 1986, n. 71-72. Sulla radicalizzazione del nazionalismo basco, la
106
Alfonso Botti
che il piccolo partito carlista giunga grosso
modo nello stesso periodo a dislocarsi su po­
sizioni socialiste e di collaborazione coi co­
munisti64.
Un’interessante analisi comparata del mo­
vimento operaio e studentesco, delle rispetti­
ve organizzazioni sul piano sindacale e dei
reciproci rapporti, è quella compiuta, nel­
l’ambito della sociologia politica, da José M.
Maravall. II suo scopo è quello di stabilire
quali fattori — in un regime che ha abolito la
rappresentanza democratica, il sindacalismo
operaio ed eliminato gli avversari politici at­
traverso la repressione — determinano il ri­
prodursi dell’opposizione. Dopo aver esami­
nato le principali fasi di sviluppo dei due mo­
vimenti, l’autore individua questi fattori nel­
le contraddizioni che si creano nel sistema
franchista in seguito ai mutamenti economi­
ci; nella resistenza di alcune aree sociali e po­
litiche a identità forte (le concentrazioni ope­
raie nelle Asturie, in Euzkadi e a Barcello­
na); nonché nell’attività dei partiti di sini­
stra. Insistendo in particolare su quest’ulti­
mo (“la rinascita del movimento operaio e
studentesco dipese in larga misura dalla so­
pravvivenza clandestina dei partiti di sini­
stra”)65, Maravall opta esplicitamente per la
tesi della continuità dell’antifranchismo. Una
posizione che, come svelano le pagine conclu­
sive, ha un chiaro sapore politico: mostrare a
chi aveva sostenuto che nei lunghi anni del re­
gime i rapporti di forza nella sinistra erano
mutati a vantaggio del Pce e delle Ccoo, che i
socialisti e la Ugt avevano mantenuta intatta
la propria forza66. Ma che dà anche per scon­
tata l’esistenza di una continuità tra il sociali­
smo della repubblica e quello del post-fran­
chismo67.
Senza condividere il giudizio tutt’altro che
disinteressato di Ricardo de la Cierva secondo
cui, tra il 1969 e il 1975, la chiesa cattolica fu
“la principale forza sociale e politica di oppo­
sizione al regime”68, è difficile esagerare l’im­
portanza sul piano ideologico e sociale della
radicalizzazione a sinistra di significativi set­
tori cattolici di diversa estrazione sociale e
dello stesso clero, per impulso del Concilio
Vaticano II, del dialogo tra marxisti e cristiani
e del riverbero sulla coscienza credente delle
nascita dell’Età e la sua evoluzione nel corso del decennio, cfr. Ortzi, Historia de Euzkadi: el nacionalismo vosco y
Eta, Parigi, Ruedo Ibèrico, 1975; Robert P. Clark, The Basques. The Franco years end Beyond, Reno-Nevada, Uni­
versity of Nevada Press, 1979; Gurutz Jàuregui Bereciartu, Ideologia y estrategia politica de Età. Anólisis de su evolución entre 1959 y 1969, Madrid, Siglo XXI, 1981; Pedro Ibarra, La evolución estrategica de Età (1963-1987), Donostia, Kriselu, 1987; John Sullivan, El nacionalismo vosco radicai (1959-1986), Madrid, Alianza, 1988. Sulla nuova
sinistra, cfr. Antonio Sala, Eduardo Duràn, Crìtica de la izquierda autoritaria en Cataluha, 1967-1974, Paris, Ruedo
Ibèrico, 1974; Octavio Alberola, Ariane Gransac, El anarquismo espaholy la acción revolucionaria, 1969-1974, Pa­
ris, Ruedo Ibèrico, 1975; Pablo Puertas, Spagna. Antifranchismo e lotta di classe, 1936-1975, Milano, Mazzotta,
1975, opera di un simpatizzante del Frap, sommaria nell’analisi ma interessante come documento e per la mappa del­
le formazioni alla sinistra del Pce; Alejandro Diz, La sombra del Frap. Génesis y mito de un Partido, Barcelona, Ac­
tuates, 1977; H. Heine, La contribución de la “Nueva Izquierda" al resurgir de la democracia espahola, 1957-1976,
in J. Fontana (a cura di), Espaha bajo elfranquismo, cit., pp. 142-159.
64 Cfr. Josep Carles Clemente, Nosotros los carlistas, Madrid, Editorial Cambio 16, 1977, pp. 59 sgg.; Id., Historia
del cartismo contemporaneo, 1935-1972, Barcelona, Grijalbo, 1977.
65 José Maria Maravall, Dictadura y disentimiento politico. Obrerosy estudiantes bajo el franquismo, Madrid, Alfaguara, 1978, p. 256.
66 J.M . Maravall, Dictadura y disentimiento politico, cit., pp. 258-263.
67 Cfr. le osservazioni di S. Juliâ, Continuidady ruptura en el socialismo espahol, cit.; P. Preston, Decadendo y resurgimiento del Psoe durante el régimen franquista, in Aa.Vv., El socialismo en Espaha, cit.
68 Ricardo de la Cierva, Sergio Vilar, Pro y contra Franco, Barcelona, Pianeta, 1985, p. 196. Che non si tratti di un
giudizio disinteressato da parte dello storico franchista del franchismo lo rivela tra l’altro l’acrimonia con cui R. de
la Cierva, nel prolisso pamphlet Jesuitas, Iglesiay marxismo, 1965-1985, Barcelona, Plaza y Janés, 1986, documenta
la nascita di correnti di sinistra in seno alla Compagnia di Gesti.
Quarant’anni di opposizione antifranchista
lotte operaie e studentesche69. Un fenomeno
che pur con significativi incunaboli nel pre­
cedente periodo — e tra questi la formazio­
ne del Flp, la rivista “El Ciervo” , il circolo
Juan XXIII di Cordoba, — acquista parti­
colare rilievo nel corso del decennio con la
rivista e la casa editrice “Cuadernos para el
diàlogo” e attraverso la riflessione e l’attivi­
tà di figure come José L. Aranguren, Igna­
cio Fernandez de Castro, Alfonso Carlos
Comin, Diaz Alegria, Gonzalez Ruiz, Alva­
rez Bolado, l’abate di Montserrat, José Ma­
ria de Llanos e di numerosissimi altri sacer­
doti e laici. Pare che la storiografia non rie­
sca ad appassionarsi per quanto in ambito
cattolico va oltre l’orizzonte democratico
cristiano. Cosicché resta un campo assai po­
co esplorato quello delle correnti e delle ini­
ziative che costituiscono la sinistra cattolica
spagnola, il cui attuale riflusso non elimina
l’importanza che essa ebbe quantomeno nel
ventennio successivo al 1956.
AI piano culturale, nel duplice versante
delle iniziative del ceto intellettuale e della
crescita di una cultura d’opposizione sono
dedicati alcuni profili70. Pregevoli lavori so­
no dedicati anche alle rivendicazioni dell’i­
dentità culturale e all’uso del catalano e del
107
basco nelle rispettive regioni, come forma di
resistenza domestica ancor prima che collet­
tiva e sociale71. Appare invece necessaria
una disamina più approfondita dei libri, del­
le riviste, delle correnti di pensiero autocto­
ne e d’importazione (più o meno rielabora­
te), che meglio hanno contribuito al radica­
mento e alla crescita di valori, comporta­
menti, modi di pensare alternativi e antago­
nisti a quelli del regime. Almeno da segnala­
re è, a questo proposito, la necessità di rico­
struire l’attività del Ruedo Ibèrico, in quegli
anni per antonomasia casa editrice dell’anti­
franchismo, dei “Cuadernos de Ruedo Ibè­
rico” e dell’animatore di entrambi, il liberta­
rio José Martinez Guerricabeita.
Gli anni settanta e la transizione. Conclu­
sioni
Gli ultimi anni del franchismo forniscono
un quadro confuso, di difficile ricostruzione
e di decifrazione tuttora incerta. Fuori di­
scussione pare il complessivo rafforzamento
dell’opposizione in concomitanza con il ma­
nifestarsi di vari sintomi di logoramento e di
crisi del regime. La storiografia sottolinea
69 Sugli aspetti ideologici del dialogo, cfr. G. Hermet, Los catolicos en la Espana franquista. II. Los actores del
juego politico, Madrid, Siglo XXI - Centro de Investigaciones Sociológicas, 1985, pp. 151-162; suH’impatto del
Concilio, cfr. Id., Los catolicos en la Espana franquista. I, cit., pp. 322-334. Sulla maturazione antifranchista del­
l’Azione cattolica spagnola e la sua conseguente crisi, cfr. Feliciano Monterò Garcia, La crise de la Jec dans le con­
texte de l ’Action catholique espagnole, 1966-1968, in Aa.VV., Les Mouvements de jeunesse, a cura di G. Cholvy,
Paris, Edition du Cerf, 1985, pp. 395-413; José Castano Colomer, La Joc en Espana (1946-1970), Salamanca, Sigueme, 1978; Javier Dominguez, Organizaciones obreras cristianas en la oposiciôn al franquismo (1951-1975), Bil­
bao, Mensajero, 1985.
70 Forniscono utili compendi Elias Diaz, Notas para una historia del pensamiento espanol actual, 1939-1973, Ma­
drid, Edicusa, 1974, successivamente ampliato e pubblicato con il titolo Pensamiento espano! en la era de Franco
(1939-1975), Madrid, Tecnos, 1983; J.F. Marsal, Pensar bajo e! franquismo. Intelectuales y politica en la generación de los anos cincuenta, Barcelona, Peninsula, 1979; M. Tunón de Lara, Cultura e ideologia, in J.A. Biescas,
M. Tunón de Lara, Espana bajo la dictadura franquista, cit., pp. 435-526; J.M . Colomer, La ideologia de l ’antifranquisme, Barcelona, Edicions 62, 1985; Shirley Mangini, Rojos y rebeldes. La cultura de la disidencia durante el
franquismo, Barcelona, Anthropos, 1987.
71 Josep Benet, Catalunya sota el franquisme. Informe sobre la persecucció de la llengua i la cultura de Catalunya,
Paris, Ediciones Catalanes de Paris, 1973, che si arresta però al 1939; J.M . Colomer, Espanyolisme i catalanisme.
La idea de nació en elpensament politic català (1939-1979), Barcelona, Edicions L’Avenc, 1984.
108
Alfonso Botti
quali momenti più significativi della lotta
antifranchista il processo di Burgos e l’as­
semblea degli intellettuali nell’abbazia di
Montserrat per il rilievo anche internaziona­
le che assumono; i grandi scioperi alla Seat
di Barcellona nel 1971 e a El Ferrol nel mar­
zo dell’anno successivo sul piano operaio;
l’attività permanente delle forze di opposi­
zione catalane finalmente unite nella Asemblea de Cataluna dal novembre 1971; lo
spettacolare attentato perpetrato dall’Età
contro Carrero Bianco (20 dicembre 1973);
il processo, detto dei 1001 dal numero degli
imputati, contro la dirigenza delle Ccoo; la
costituzione ad opera del Pce, assieme ai so­
cialisti di Tierno Galvan e ad alcune perso­
nalità indipendenti della Junta democràtica
nel luglio del 1974; l’iniziativa analoga che
l’anno successivo porta i socialisti a riunirsi
con democristiani, nazionalisti del Pnv (Partido nacionalista vasco) e seguaci di Ridruejo, nella Plataforma de convergencia
democràtica; nonché la successiva unifica­
zione dei due organismi nella Coordinación
democràtica, nota col nome di Platajunta
(26 marzo 1976)72. Dell’onda democratica
che fuoriesce da una società civile matura
che vuole abbandonare la minorità politica
in cui è costretta, si sono incominciati a stu­
diare alcuni aspetti: dal movimento delle
donne a quello nell’esercito, mentre più oc­
casionali risultano i cenni al fermento nelle
professioni liberali73.
Ma fare la storia dell’opposizione negli
anni settanta significa essenzialmente stabili­
re il suo ruolo nella crisi del regime, rispetto
alle modalità e alle fasi della transition.
Questo termine, entrato stabilmente nel les­
sico degli storici per indicare il processo che
porta dalla crisi del franchismo alla Spagna
post-franchista, rappresenta bene la man­
canza di un preciso momento di rottura tra
il vecchio e il nuovo sistema e il fatto che a
quest’ultimo si perviene attraverso momenti
che spostano progressivamente in avanti gli
equilibri democratici, abolendo gradualmen­
te gli istituti obsoleti del franchismo e intro­
ducendone parallelamente di nuovi e rappre­
sentativi. Controversa risulta ancora però
l’individuazione degli estremi cronologici
della transizione e dei suoi più significativi
momenti di snodo intermedio. Alcuni la
fanno risalire alla fine degli anni sessanta,
per il livello che raggiunge la conflittualità
sociale o per la designazione di Juan Carlos
alla successione da parte di Franco (29 luglio
1969). Altri vedono il suo inizio nell’attenta­
to contro Carrero Bianco, nella morte di
Franco (dicembre 1975), nel referendum sul­
la ley de reforma politica (dicembre 1976).
La legalizzazione del Pce (aprile 1977), le
prime elezioni politiche generali (giugno
1977) e l’approvazione della nuova Costitu­
zione (dicembre 1978) sono in alcuni casi in­
dicati come suo punto d’arrivo. In altri, ri­
cordando il tentativo di golpe del colonnello
Tejero (23 febbraio 1981), si preferisce con­
siderarla conclusa con la vittoria elettorale
del Psoe dell’ottobre 1982, intendendo con
ciò sottolineare l’ascesa al potere dell’oppo­
sizione. Questo il responso di una inchiesta e
della pubblicistica di varia natura che negli
72 Cfr. S. Vilar, Historia del antifranquismo, cit., pp. 406-463. Sul processo di Burgos, cfr. Gisèle Halimi, Le pro­
cès de Burgos, préface de J.P . Sartre, Paris, Gallimard, 1971. Per la versione degli autori dell’attentato contro Car­
rero Blanco, cfr. J. Aguirre [Eva Forest], Operación Ogro, Hendaye - Paris, Ediciones Mugalde-Ruedo Ibèrico,
1974 (tr. it. Operazione Ogro, Roma, Alfani, 1975).
73 Amparo Moreno, Mujeres en lucha, Barcelona, Anagrama, 1977; Giuliana Di Febo, L ’altra metà della Spagna.
Dalla lotta antifranchista al movimento femminista (1939-1977), Napoli, Liguori, 1980; cenni sulla democratizza­
zione di medici, avvocati e giudici compaiono in S. Vilar, Historia del antifranquismo, cit., pp. 433-434, 450-452;
sui militari democratici, cfr. Francisco Caparros, La Umd: militares rebeldes, Barcelona, Argos Vergara, 1983; Jo­
sé Fortes, Proceso a nueve militares democratas: Las Fuerzas Armadas y la Umd, Barcelona, Argos Vergara, 1983.
Quarant’anni di opposizione antifranchista
ultimi anni si è resa disponibile sull’argo­
mento74.
Del pari controversa risulta poi la questio­
ne — decisiva per una corretta stima del
ruolo dell’opposizione — di quanto e cosa il
nuovo sistema conservi del vecchio, se pre­
valga la continuità o la rottura tra Spagna
del pre e del dopo Franco. Si può schemati­
camente dire che enfatizzare il peso dell’op­
posizione fa perdere di vista la capacità di­
mostrata dal regime di evolversi e trasfor­
marsi e conduce ad avvalorare la tesi di una
netta rottura tra il risultato della transizione
e il precedente regime. Viceversa, insistere
sulla capacità del regime di evolversi e libe­
ralizzarsi significa svalutare il significato
dell’opposizione più decisa e radicale a van­
taggio di quella moderata e proveniente dal
sistema. Così, ad esempio, l’affermazione di
Vilar secondo cui senza la lotta antifranchi­
sta non ci sarebbe oggi democrazia in Spa­
gna e la sua descrizione dell’attuale sistema
spagnolo come “una strutturazione di istitu­
zioni che accumulano gli effetti delle attività
e delle lotte per la libertà che andarono cre­
scendo nel corso di più di trentasei anni”75,
oltre ad essere una manifestazione trionfali­
stica storiograficamente irrilevante, sono ri­
velatrici di una concezione sommatoria della
storia che aggira la questione, posta a suo
tempo da Linz, se i mutamenti in chiave liberalizzatrice del franchismo vadano attri­
109
buiti all’opposizione o alle esigenze implicite
nel sistema76. Diversamente da Vilar, Ray­
mond Carr e Juan Pablo Fusi, mettendo
l’accento sulla divisione e la debolezza del­
l’opposizione, ne individuano il principale
contributo nell’aver educato alla democrazia
l’opinione pubblica spagnola e nell’aver fat­
to perdere credibilità e legittimità al regime
attraverso la critica continua77. Dello stesso
avviso si mostra la Fernandez che a proposi­
to dell’opposizione scrive: “Il suo migliore
risultato fu che [...] la massa del paese, an­
che se non s’inquadrò direttamente negli or­
ganismi dell’opposizione, riconobbe e accol­
se le sue parole d’ordine, creando e accet­
tando un’organizzazione parallela alla uffi­
ciale che avrebbe permesso, alla morte di
Franco, di sostituire con rapidità e efficacia
alcune organizzazioni fasciste con altre de­
mocratiche”78.
Complessivamente considerata, la lettera­
tura sull’opposizione politica fa ancora lar­
gamente aggio su quella dedicata all’opposi­
zione sul piano sociale, culturale e, ovvia­
mente, è tanto più nutrita quanto più si risa­
le indietro nel tempo. La storia dei principa­
li partiti e delle organizzazioni sindacali, se
resta ancora insoddisfacente — come non si
è mancato di segnalare — per quanto riguar­
da il Pce, su cui pure esiste un discreto nu­
mero di pubblicazioni, è ancora tutta da
scrivere nel caso del Psoe, dell’Ugt, del com-
74 Cfr. le risposte fornite da ventidue politici e intellettuali, tra i quali alcuni storici, all’inchiesta sulla transizione,
in La transición democràtica en Espana, numero monografico della rivista “Sistema”, 1985, n. 68-69, pp. 175-292.
Ad essa si rinvia anche per le seguenti bibliografie: Andrés Bias Guerrero, La transición democràtica en Espana co­
rno objeto de estudio. Una nota preliminar, ivi, pp. 141-148; José A. Gómez Yanez, Bibliografia basica sobre la
transición democràtica en Espana, ivi, pp. 149-173. Tra i saggi usciti successivamente sono da segnalare almeno:
David Gilmour, La transformación de Espana, Barcelona, Plaza y Janés, 1986; P. Preston, E! triunfo de la democracia en Espana, Barcelona, Plaza y Janés, 1986; S. Vilar, La década sorprendente, 1976-1986, Barcelona, Piane­
ta, 1986.
75 S. Vilar, Historia del antifranquismo, cit., p. 15. Attribuisce primaria importanza nel passaggio alla democrazia
ai partiti di opposizione di sinistra e alla classe operaia anche E. Diaz, La transición a la democracia. Claves ideológicas, 1976-1986, Madrid, Eudema, 1987, p. 83.
76 J.J. Linz, L ’opposizione in un regime autoritario, cit., pp. 354-355.
77 Raymond Carr, Juan Pablo Fusi, Dictatorship to Democracy, London, George Allen & Unwin, 1979; tr. it. La
Spagna da Franco a oggi, Bari, Laterza, 1981, p. 217.
78 Valentina Fernandez Vargas, La resistendo en la Espana interior, Madrid, Ediciones Istmo, 1981, p. 35.
11 0
Alfonso Botti
posito movimento libertario e delle altre for­
mazioni minori. Analoga lacuna presenta la
ricostruzione biografica dei principali espo­
nenti dell’antifranchismo. Anche dal nutrito
programma del convegno su La oposición al
régimen de Franco celebrato a Madrid nel­
l’autunno 1988 era lecito attendersi di più. Il
suo svolgimento ha invece generalmente ri­
prodotto i vizi e i limiti fin qui segnalati: sbi­
lanciamento sui primi due decenni del fran­
chismo; scarsa attenzione al piano sociale;
confusione tra fronda e opposizione; scolla­
tura tra una miriade di studi su aspetti par­
ziali (spesso localistici) e scarsi, oltreché
scarni, tentativi di interpretazione globale;
assenza di riferimenti alla fase della transi­
zione e al ruolo dell’opposizione in essa. Le
principali questioni relative alla definizione
dell’area sociopolitica da considerare come
opposizione e del ruolo da essa effettiva­
mente avuto nella caduta del regime, non
solo non sono state affrontate, ma neppure
poste: si è avuta anzi l’impressione che, sal­
vo in qualche intervento, esse fossero assenti
anche come orizzonte problematico.
In conclusione, almeno tre questioni fra
quelle ancora irrisolte meritano di essere se­
gnalate. La prima concerne il periodo com­
preso tra il profilarsi della vittoria alleata
nel corso del secondo conflitto mondiale e
l’avvio della guerra fredda, concordemente
indicato come il solo di tutto il regime in cui
vi fu la concreta possibilità di abbattere
Franco. Ciò che pare necessario osservare è
che se la situazione internazionale non con­
sentiva — come sostiene giustamente Heine
— una soluzione di sinistra del caso spagno­
lo, non per questo la stessa situazione offri­
va la possibilità di escludere le sinistre e i co­
munisti, dato l’impegno sovietico nella lotta
contro il nazifascismo e come dimostra l’e­
sperienza di altri paesi europei (l’Italia fino
al 1947, fra questi) destinati dalla spartizio­
ne di Yalta a permanere sotto l’ombrello
occidentale. Questo, per ridimensionare il
presunto realismo della politica prietista e
indicare come necessaria una maggiore con­
siderazione del contesto.
La seconda questione è di carattere meto­
dologico e riguarda l’oggetto stesso di que­
sto tipo di studi. Preferibile pare senz’altro
l’accezione più estensiva. Quella cioè di
considerare come appartenenti all’opposi­
zione tutti i movimenti, le organizzazioni, i
partiti, i comportamenti spontanei e i pro­
motori di iniziative che, clandestinamente o
apertamente, in varie forme e richiamando­
si alle più diverse concezioni ideologiche e
religiose, con atti, con parole e comporta­
menti hanno operato per la caduta del regi­
me. Ciò a prescindere dall’alternativa che
proponevano e dall’efficacia della loro azio­
ne, criteri validi per definire il tipo di oppo­
sizione ma non l’appartenenza ad essa. Re­
lativamente poi alle distinzioni che è certa­
mente necessario compiere per definire la
sua geografia interna e la specificità dei sin­
goli apporti, sembra storiograficamente le­
gittimo distinguere tra l’opposizione che
può considerarsi erede e prolungamento
dello schieramento di forze che esce sconfit­
to dalla guerra civile e quella che si forma
dalla metà degli anni cinquanta, come risul­
tato della consunzione del consenso in alcu­
ni settori precedentemente solidali con il re­
gime. Con la supplementare avvertenza che
il peso delle forze di opposizione va giudi­
cato per quello che fanno contro il regime,
non dai riscontri elettorali che ottengono
successivamente. Ciò in relazione sia al si­
gnificativo ruolo che dalla metà degli anni
cinquanta e per tutto il decennio successivo
gioca l’area democratico-cristiana che sem­
bra destinata a subentrare come erede al
franchismo e che si scioglierà come neve al
sole in seguito79, sia in riferimento al prima-
79 Sul naufragio dell’ipotesi democristiana cfr. le conclusioni di G. Hermet, L ’Espagne au X X e siècle, II, cit., pp.
491-495.
Quarant’anni di opposizione antifranchista
to certo del Pce nell’attività di opposizione e
alla sua successiva marginalizzazione già du­
rante la transizione.
La terza questione riguarda il complesso
nodo del passaggio dal franchismo al post­
franchismo che si potrà definitivamente
sciogliere solo stabilendo se nel secondo sia­
no sostanzialmente mutate le basi del potere
del primo, se sia realmente l’opposizione ad
essere ascesa al potere e se, in questo caso,
lo abbia fatto in rappresentanza di classi,
settori sociali e interessi alternativi. È diffi­
cile, per ora, superare l’impressione che la
transizione sia stata possibile grazie al com­
promesso fra i settori riformatori del regime
e le componenti più moderate dell’opposi­
zione. Un compromesso realizzato dal go­
verno di Adolfo Suarez e che la sua Union
111
de centro democràtico ha bene, seppur bre­
vemente, rappresentato in forma-partito.
Difficile da rimuovere è, infine, il sospet­
to che l’opposizione abbia solo condizionato
il regime, assecondando e spingendo in
avanti processi avviati all’interno di que­
st’ultimo. Che il suo ruolo sia stato decisivo
per evitare soluzioni sfacciatamente continuiste, o più semplicemente moderate, ma
che essa abbia anche perso l’occasione, a
causa della sua debolezza, di costruire una
soluzione più avanzata sul piano istituziona­
le, politico e soprattutto sociale.
Conclusioni meno aperte e meno proble­
matiche appaiono necessariamente prematu­
re, in questa fase della ricerca e degli studi.
Alfonso Botti
POLITICAL ECONOMY
Sommario del n. 1,1988
Piero Tani, Flows, Funds, and Sectorial Interdependence in the Theory of Production',
Robert Boyer and Pascal Petit, The Cumulative Growth Model Revisited; Marcelo de
Paiva Abreu, On the Memory of Bankers: Brazilian Foreign Debt, 1824-1943', Pier Fran­
cesco Asso, Bilateralism, Trade Agreements and Political Economists in the 1930s:
Theories and Events Underlying Hirschman’s Index', Albert O. Hirschman, Statistical
Study of the Trend of Foreign Trade Toward Equilibrium and Bilaterialism; Roberto Zapperi, For a New Edition on the Writings of François Quesnay, Bibliographical Revisions
and Addition', A letter from Piero Sraffa to Luigi Einaudi on the “ Physiocratie” .
Sommario del n. 2, 1988
Enrico Levrini, Joint Production: a Survey of some Studies on Sraffa’s System' Four
Questions on Joint Production. Contributions by Salvatore Baldone, Gérard Dumènil
and Dominique Lèvy, Marco Lippi, Neri Salvadori and Ian Steedman, Bertam Schefold,
Paolo Varri; Fabio Ravagnani, Expectations versus Equilibrium: the Case of Temporary
Equilibrium. Models of Exchange and Production', Pierangelo Garegnani, Actual and
Normal Values; a Comment on Asimakopuios’ Paper, Athanasios Asimakopulos, Replay
to Garegnani’s Comment', Edward Nell, Does the Rate of Interest Determine the Rate
of Profit?; Larry Randall Wray, The Monetary Explanation of Distribution: a Critique of
Pivetti', Massimo Pivetti, On the Monetary Explanation of Distribution: a Rejoinder to
Nell and Wray.
Editor. Massimo Pivetti, Associate Editors: Krishna Bharadway, Pierangelo Garegnani,
Donald Harris, Josef Steindl.
Editorial Committee: Sebastiano Brusco, Mauro Caminati, Antonia Campus, Roberto
Ciccone, Giorgio Fodor, Andrea Ginzburg, Massimo Pivetti, Fernando Vianello.
Editorial Board: Amiya Bagchi, Amit Bhaduri, Krishna Bharadwaj, Sukhamoy Chakravarty, John Eatwell, Pierangelo Garegnani, Peter Groenewegen, Geoffrey Harcourt,
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Publisher: Rosenberg & Sellier Editori in Torino, Via Andrea Doria 14, 10123 Torino
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Available on standing order. Advance payment required. Postal Giro 11571106.
Il fantasm a dì Bettino e i contadini
di Fulvio Conti
La mattina del 6 giugno 1880, di buon’ora,
una carrozza mosse da Siena alla volta di
Brolio. A bordo, insieme a due amici, uno
dei quali accompagnato dalla moglie e dalla
sorella, si trovava Luigi Minuti, giovane ed
acceso repubblicano, animatore dei circoli
democratici e delle prime associazioni ope­
raie di Firenze. Scopo della gita era di ren­
der visita a Bettino Ricasoli, il quale, di­
smessi i panni dello statista e dell’austero
uomo politico, si era da tempo ritirato nella
quiete delle colline chiantigiane rivolgendo
le residue energie alla cura dei suoi vasti
possedimenti. Al vecchio barone Minuti
avrebbe dovuto presentare una lettera di
Aurelio Saffi con la quale l’ex triumviro del­
la Repubblica Romana, anch’egli un po’ ap­
partatosi dalla scena pubblica ed ormai de­
dito principalmente agli studi1, chiedeva in­
formazioni e documenti sui rapporti inter­
corsi nel 1859 fra Ricasoli e Mazzini, che in­
tendeva utilizzare per il proemio al decimo
volume della raccolta di scritti dell’esule ge­
novese. Animato dalle migliori intenzioni,
Minuti non prestò ascolto alle dicerie che
circolavano sul pessimo carattere del barone
né dette sul momento eccessivo peso ai timo­
ri degli amici circa l’accoglienza che questi
avrebbero loro riservato. “Avvaloravano i
loro sospetti — scrisse a Saffi l’indomani,
descrivendo minuziosamente la propria mis­
sione a Brolio — narrandomi fatti bruttissi­
mi sul conto di questo triste feudatario, fra
quali [sic] di trattare i suoi dipendenti con
modi brutali, e gli estranei a lui con fare in­
civile e peggio”2.
Giunti a San Felice, un borgo poco di­
stante da Brolio, i cinque compagni di viag­
gio decisero di proseguire a piedi per meglio
assaporare la bellezza del paesaggio e scam­
biare magari qualche chiacchiera con i con­
tadini incontrati lungo la strada. Costoro —
sono ancora parole di Minuti — “conferma­
rono concordemente la pessima condotta del
castellano e ci ripeterono giù per su li stessi
fatti, aggiungendone alcuni altri che hanno
senza dubbio del favoloso e nascono come
ben sapete dalla fantasia facilmente esaltar­
le della buona gente del contado, che tanto
in bene che in male ingigantisce le cose fino
alla inverosomiglianza” . Fra l’altro si narra­
va “in quei luoghi che avendo avuto il Baro­
ne un figlio gobbo lo (avesse) ucciso di sua
mano nel mentre cercava con certa sua ope­
razione di raddrizzarlo” . “Capite bene —
chiosava ironico Minuti, abbandonandosi
1 Sull’ultimo Saffi si veda adesso il bel volume di Roberto Balzani, Aurelio Saffi e la crisi della sinistra romantica
(1882-1887), Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1988.
2 Questa lettera è conservata nella Biblioteca comunale dell’Archiginnasio di Bologna, Fondo Saffi, sez. Ili (Corri­
spondenza politica 1846-1890), cart. 3.
“Italia contemporanea”, dicembre 1989, n. 177
114
Fulvio Conti
ad una facile profezia — che qui giuoca
molto la fantasia, e mi suppongo che morto
il Barone quella buona gente vedranno [sic]
il diavolo in castello e via di questo passo le
più strane cose” .
Il castello d’altro canto, così maestoso ed
inaccessibile come appariva, avvolto al tem­
po stesso da un alone di inquietante mistero,
era tale da incutere di per sé un misto di ti­
more e di rispetto. Neppure un uomo scetti­
co e disincantato come Minuti sembrò resta­
re immune dal sottile fascino che promana­
va da quella costruzione. “È un bellissimo
edificio — così lo descrisse a Saffi — sullo
stile del rinascimento. Vi sono due o tre tor­
ri che giganteggiano [...] ed è circondato da
altissime muraglie e da spalti come una vera
fortezza” . E senza badare al giudizio di uno
degli amici, architetto, che rilevò alcune im­
perfezioni di stile riguardanti ad esempio le
proporzioni dei merli, aggiungeva: “A me
profano in arte fece una bella impressione e
ne rimasi veramente stupito” .
Giunto sul portone d’ingresso, mentre
d’improvviso il cielo si era oscurato ed era
scoppiato un violento temporale estivo, il
gruppo fu accolto da un domestico che inol­
trò la richiesta al barone e ritornò più tardi
con un biglietto, con il quale questi si scusa­
va per non poter ricevere in quel momento i
visitatori e li invitava a rivolgersi, per otte­
nere i documenti in questione, al commendator Celestino Bianchi. Minuti fece garba­
tamente osservare al suo interlocutore che
quel biglietto recava un errore nell’intesta­
zione, non essendo destinato a lui bensì ad
un certo Giunti, e lo invitò pertanto a torna­
re dal suo signore per chiedergli lumi in pro­
posito. “Ma appena sentì dire che vi era un
errore — proseguiva il racconto —, quel ser­
vo andò in smanie tali da far pietà, tantoché
avendo io capito che forse il suo signore non
tollerava che nessuno gli rilevasse gli errori,
lo tranquillizzai subito dicendogli che non
interessava e che l’errore l’avrei spiegato da
me al commendator Celestino Bianchi. A
questa risposta il povero schiavo riprese fia­
to e mi guardò con espressione di gratitu­
dine”.
“Intanto che facevamo questo dialogo —
osservava ancora con malcelato risentimen­
to il giovane mazziniano fiorentino — l’ac­
qua cadeva sopra di noi, senza che la gene­
rosa ospitalità baronale si movesse a pietà
alcuna delle signore che stavano con noi a
pigliarla nel cortile d’aspetto”. Venuto il
momento di congedarsi, uno degli amici
chiese se era possibile fare un breve giro de­
gli spalti in modo da avere una visione del
castello almeno dall’esterno. “A tale richie­
sta quel disgraziato parve come colpito da
qualche sciagura: divenne pallido e con voce
incerta ci dimostrò l’assoluta impossibilità
alternando le brevi parole con la frase: non
è giornata, non è giornata. Capimmo subito
che bisognava andarsene e così facemmo
[...] Quando riferimmo agli amici ed ai con­
tadini il resultato ottenuto — aggiunse Mi­
nuti fra l’incredulo e l’indignato —, tutti ci
dissero che potevamo esserne contenti, per­
ché i più non hanno neppure il piacere di es­
sere ascoltati. E questo signore è in fama di
essere un gran patriota! Mondo, o mon­
do!” .
“Eccovi accennato così di volo il resultato
della nostra gita”, concludeva Minuti sotto­
ponendo ad Aurelio Saffi l’idea che tale biz­
zarra esperienza gli aveva fatto balenare in
mente. “Bene o male che vada — scriveva
—, io sarei mezzo intenzionato di dare pub­
blicità, sotto il titolo ‘Una missione al ca­
stellano di Brolio’ alle cose che ci accaddero
e quelle che ci furono narrate dai suoi giudi­
ci naturali, quali sono i contadini e quelli
che lo conoscono avvicinandolo. Che ne
pensate? Ve ne sarebbero da narrare delle
curiose e delle crudeli fra le curiose voglio
dirvene una, quella cioè che alla porta che
conduce al castello vi è una iscrizione che di­
ce non essere permesso che allo stesso tempo
entrino nel castello più di due contadini. È
evidente che il castellano teme che i contadi­
Il fantasma di Bettino e i contadini
ni si agglomerino nella sua fortezza. Che ve
ne pare nel XIX secolo?” .
La risposta di Saffi non si fece attendere.
“Sapevo de’ costumi feudali e della tiranni­
de domestica del Barone — scrisse a Minuti
il 9 giugno —; ma ciò che n’avete attinto ai
racconti e alle impressioni della gente del
luogo, e che ne avete veduto di persona, su­
pera l’idea, ch’io me ne avevo formata, ed è
cosa veramente da rimanere trasecolati. E
dire, come voi osservate benissimo, che quel
signore è in fama di essere un gran patriota!
La descrizione che voi fate della visita a
Brolio è interessantissima; e dovreste davve­
ro farne soggetto di un racconto da pubbli­
care. Se ne potrebbe fare un capitolo d’un
romanzo storico — anzi di storia vera — col
titolo: un avanzo della vita del medio-evo
nel mezzo del secolo XIX. Solo, se il Barone
concede il documento, vi occorrerà trattarlo
con una certa cavalleria”3. E tale senso di
cavalleria dovette alfine prevalere sull’istin­
tivo impulso di Minuti, anche perché pochi
giorni dopo egli ottenne da Celestino Bian­
chi gli importanti documenti sul 1859 che sa­
rebbero poi stati puntualmente inseriti nel X
volume degli scritti di Mazzini4. Del resto
quattro mesi più tardi, il 23 ottobre 1880,
Bettino Ricasoli sarebbe morto nel castello
di Brolio all’età di settantuno anni e il senti­
mento di pietas verso lo scomparso avrebbe
avuto la meglio su ogni altro intendimento.
A questo inedito scambio epistolare, rinve­
nuto anni addietro nel corso di ricerche sui
movimenti democratici postunitari, e alle
curiose vicende in esso descritte ho ripensato
sfogliando il libro che Alessandro Orlandini
ha dedicato alle leggende di cui fu circonda­
115
ta la figura di Ricasoli dopo la morte5. L’au­
tore ha tratto lo spunto da una serie di testi­
monianze orali — raccolte presso un gruppo
di anziane persone residenti nel Chianti se­
nese ed individuate preliminarmente come le
maggiori depositarie del patrimonio narrati­
vo della zona — per ricostruire la genesi de­
la leggenda fiorita intorno alla figura del ba­
rone ed esaminarne le connessioni con la ric­
ca tradizione folklorica locale. Dall’intrec­
cio di ricerca storica e fonti orali, di biogra­
fia e tecniche proprie dell’analisi antropolo­
gica è nato così un originale affresco della
civiltà contadina toscana dell’Ottocento.
Il fertile filone narrativo sviluppatosi in­
torno alle apparizioni del fantasma di Rica­
soli ed il suo radicamento nell’immaginario
popolare sono stati oggetto di un’accurata
indagine retrospettiva volta ad individuarne
le origini e le più lontane cause. I risultati
cui è approdata la ricerca appaiono convin­
centi e soprattutto offrono nuovi interessan­
ti elementi per una riflessione sull’assetto
economico e sociale delle campagne toscane
in quello scorcio di secolo. Dai racconti di
alcuni degli intervistati emergono aspetti at­
tinenti esclusivamente al carattere spartano
del barone, i cui rigori, peraltro non scevri
da dichiarati intenti pedagogici, colpivano
abbastanza indistintamente le persone a lui
care come l’ultimo dei suoi subalterni. Si
narra ad esempio che per rendere più forti i
propri figli egli li esponesse alle peggiori in­
temperie, suggerendo l’applicazione di me­
todi analoghi ai suoi contadini. Contadini,
come rivelano altre storie, che egli era solito
trattare con estrema durezza fino a sviluppa­
re l’abitudine, quasi maniacale, di incutere
loro spavento inseguendoli a cavallo o mi
3 Biblioteca Comunale di Forlì, Carte Saffi.
4 Si trattava di una lettera del 22 agosto 1859 e di alcune postille ad un documento di Ricasoli che furono pubblica­
te da Saffi nei Cenni biografici e storici a proemio del testo degli Scritti editi ed inediti di Giuseppe Mazzini, Roma,
per cura degli Editori, 1880 (Forlì, Tip. Democratica, 1880), vol. X, pp. XCI-CII.
5 Alessandro Orlandini, Il fantasma di Bettino. Genesi di uno spettro: la leggenda del barone Bettino Ricasoli, Mi­
lano, Angeli, 1988.
116
Fulvio Conti
nacciandoli in vario modo. Altri racconti in­
vestono invece più direttamente il suo ruolo
di padrone e di proprietario terriero, evo­
cando una concezione dei rapporti con i
propri dipendenti che denotava in qualche
caso tratti addirittura feudali. Tale va consi­
derata l’imposizione ad alcune contadine di
cui si era invaghito di una sorta di jus primae noctis, oppure l’obbligo ingiunto alle
partorienti a farsi tettare, dettato dall’antico
convincimento che l’assunzione di latte ma­
terno rallentasse i processi di invecchia­
mento.
Numerose testimonianze fanno inoltre ri­
ferimento al rigido controllo esercitato sulla
produzione e sulla corresponsione delle re­
galie e delle servitù, all’estrema rarità con
cui concedeva miglioramenti economici ai
salariati, alla relativa facilità con la quale in­
vece costoro potevano essere licenziati. Qua­
si tutti i racconti infine insistono sul fatto
che Ricasoli, “approfittando delle proprie
posizioni di potere e della propria ricchezza,
si sarebbe impossessato di molte terre chian­
tigiane appartenenti sia a piccoli o medi pro­
prietari, sia, ed è qui il punto fondamentale,
al patrimonio ecclesiastico”6. Partendo da
queste indicazioni emerse dalle interviste,
Orlandini ha cercato di individuare le radici
della leggenda concentrando la propria at­
tenzione principalmente su due punti: il
comportamento del barone verso i propri
subalterni e i conflitti scaturiti dall’amplia­
mento e dalla riorganizzazione produttiva
dei suoi possedimenti. Avvalendosi di fonti
primarie (carteggi, documenti dell’archivio
arcivescovile di Arezzo) e della vasta biblio­
grafia esistente, egli ha così scandagliato
nell’attività imprenditoriale di Ricasoli dap­
prima ponendo l’accento sui mutamenti da
lui introdotti nella conduzione dei fondi, che
lo videro restar fedele al sistema mezzadrile
ma con l’adozione di alcune misure che pro­
vocarono un progressivo inasprimento delle
condizioni di lavoro e di vita dei coloni;
quindi soffermandosi sui contrasti insorti
con le gerarchie ecclesiastiche specialmente
in seguito all’acquisto da parte del barone di
molte terre appartenenti alla Chiesa, che fu
da questa interpretato come un vero e pro­
prio atto di spoliazione. Contrasti culminati
nel 1880 nella scomunica comminatagli dal
vescovo di Arezzo e ritirata qualche mese
dopo senza però che fosse raggiunta una
completa riconciliazione. “La leggenda del
fantasma”, ha concluso Orlandini, “oltre
che dall’avversione e dalla conflittualità su­
scitate dalle scelte agronomiche di Bettino,
trarrebbe pertanto origine da una specie di
punizione postuma della Chiesa”7.
L’aspetto che mi sembra più interessante e
soprattutto più ricco di implicazioni è tutta­
via il primo, quello cioè relativo ai rapporti
fra Ricasoli e il mondo mezzadrile. L’imma­
gine che ne scaturisce, cristallizzatasi nella
memoria collettiva e nella tradizione narrati­
va della gente del Chianti, è infatti ben di­
versa da quella suggeritaci dai dibattiti acca­
demici e da certe oleografiche descrizioni ot­
tocentesche. Le famiglie coloniche, lungi
dall’essere quella “casta privilegiata” di cui
parlò Francesco Guicciardini8, apparivano
6 A. Orlandini, II fantasma di Bettino, cit.
7 A. Orlandini, Il fantasma di Bettino, cit., p. 94. Non va tuttavia trascurata, fra i motivi di attrito con la Chiesa,
l’azione svolta da Ricasoli per favorire la diffusione del culto di sant’Isidoro fra i contadini del Chianti ed avocare
quindi a sé anche la funzione di indirizzo e di controllo sul comportamento etico-religioso della popolazione rurale.
Su questo specifico aspetto cfr. Zeffiro Ciuffoletti, Sant’Isidoro e l ’etica del lavoro contadino a Brolio, in I santi
de! Chianti, quaderno monografico della rivista “Il Chianti” , a. Ili settembre 1985, pp. 29-36.
8 Francesco Guicciardini, Le recenti agitazioni agrarie in Toscana e i doveri della proprietà, “Atti della R. Accade­
mia dei Georgofili”, 1907, citato in Carlo Pazzagli, Da! paternalismo alla democrazia: il mondo dei mezzadri e la
lotta politica in Italia, “Passato e presente”, 1987, n. 13, p. 164.
Il fantasma di Bettino e i contadini
legate ad un proprietario sia pure un po’ sui
generis come Ricasoli da un rapporto di
completa sottomissione e subalternità, appe­
na addolcito dalle forme di protezione e di
tutela che ne costituivano il corollario. Tut­
to ciò finì con l’alimentare un senso di pro­
fonda insoddisfazione per le proprie condi­
zioni di vita, che nella coscienza contadina,
permeata di forti valori religiosi e rimasta
ancora ad uno stadio prepolitico, non sfociò
in aperta ribellione bensì si espresse attraver­
so la punizione divina o comunque mediante
eventi soprannaturali. La condanna di Rica­
soli, ha scritto Orlandini, “non avviene nella
storia, non è inflitta dagli uomini, non dà
luogo a forme di protesta collettiva e co­
sciente. E proprio per l’impossibilità di con­
cretizzarsi in lotta aperta finisce per essere
collocata in un tempo metastorico, nell’eter­
nità dell’oltretomba. È la giustizia divina
che vendica nell’aldilà un’ingiustizia che gli
uomini non sanno correggere”9. Non è un
caso che fra gli episodi più ricorrenti nelle
narrazioni raccolte dall’autore vi sia quello
relativo al confinamento esoreistico dell’ani­
ma dannata del barone, che sarebbe stato
eseguito da un frate cappuccino al fine di
impedirne il continuo vagare per le terre del
Chianti. Punito da una singolare quanto si­
gnificativa legge del contrappasso, che nella
coscienza popolare dovette evidentemente
assumere le sembianze di una sorta di neme­
si, il fantasma, che pretendeva di muoversi
liberamente su tutti i suoi possedimenti,
quasi a voler mantenere inalterato post mor­
tem quel rigido controllo che vi aveva eserci­
tato in vita, fu invece confinato dal frate
esorcista in un bosco distante dal castello di
117
Brolio, nell’angusto spazio di soli quattro
metri quadrati.
In conclusione mi sembra quindi che il li­
bro di Orlandini possa fornire un primo ten­
tativo di risposta agli interrogativi sollevati
qualche anno fa da Carlo Pazzagli circa i
fattori che potevano spiegare le trasforma­
zioni avvenute nel mondo mezzadrile tosca­
no dalla fine dell’Ottocento al secondo do­
poguerra: in particolare quel passaggio da
una fase di totale distacco da qualsiasi for­
ma di impegno politico e sindacale ad una
contrassegnata invece da una marcata con­
flittualità e dalla massiccia adesione a forze
politiche, come il partito comunista, orien­
tate verso il sovvertimento stesso della strut­
tura sociale mezzadrile. Per capire se vi era­
no elementi interni al sistema tali da giustifi­
care “un certo grado di permeabilità e reatti­
vità di esso nei confronti degli stimoli prove­
nienti dall’esterno” 10, Pazzagli auspicava
una maggiore attenzione da parte della ricer­
ca ai fenomeni soggettivi, allo studio della
psicologia e della mentalità collettiva, un
settore nel quale, mutuando un’espressione
di Absalom, egli individuava un “vuoto sto­
riografico abissale”11. Lo scopo, in altre pa­
role, doveva esser quello di porre in luce
“l’esistenza — tra la subalternità passiva del
mezzadro tradizionale e la successiva affer­
mazione di autonomia rivendicativa e di ca­
pacità di lotta — di intermedi, latenti atteg­
giamenti di antagonismo” 12. E proprio in
questa direzione, al punto d’incontro fra
storia, psicologia e antropologia, nel solco
peraltro già tracciato dagli interessanti lavo­
ri di Pietro Clemente13, si è mosso Alessan­
dro Orlandini approdando a mio avviso a ri-
9 A. Orlandini, Il fantasma di Bettino, cit., pp. 73-74.
10 C. Pazzagli, Dal paternalismo alla democrazia, cit., p. 175.
11 Roger Absalom, Il mondo contadino toscano e la guerra: 1943-45. Alcune modeste proposte per una storia da
fare, “Passato e presente”, 1985, n. 8, p. 160.
12 C. Pazzagli, Dal paternalismo alla democrazia, cit., p. 176.
13 Cfr. soprattutto Pietro Clemente, I “selvaggi” della campagna toscana: note sulla identità mezzadrile e oltre, in
118
Fulvio Conti
sultati persuasivi e densi di nuovi spunti eu­
ristici.
Il documento inedito presentato all’inizio
di questa nota, confermando la tesi di fondo
dell’autore — e cioè che le origini della leg­
genda fossero da rintracciare nella biografia
di Ricasoli e nello stereotipo che da essa si
era formato nell’immaginario popolare —
può costituire un modesto supporto agli ar­
gomenti affrontati nel volume e contribuire
altresì a quella verifica di cui necessita inevi­
tabilmente l’uso delle fonti orali per giunge­
re ad una vera opera di costruzione storica.
“Quanto più ci si avvicina alla storia sociale
come studio di comportamenti e di fatti — è
il parere, pienamente condivisibile, espresso
in proposito da Luisa Passerini — tanto più
le testimonianze richiedono di essere messe
in relazione con altre fonti coeve oppure rin­
viano almeno a ricerche comparabili”14. Ed
è ciò che si è creduto di fare cavando fuori
da un cassetto la storia di questo curioso
viaggio al castello di Brolio, attraverso una
campagna soggiogata dalla paura e dalla su­
perstizione, sulla quale di lì a poco avrebbe
aleggiato lo spettro del barone di ferro.
Fulvio Conti
Mezzadri, letterati e padroni, Palermo, Sellerio, 1980; Id., Cultura e mezzadria toscana fra Ottocento e Novecento,
“Quaderni della Biblioteca Comunale di Terranova Bracciolini” , 1984, n. 6, nonché, in collaborazione con Pier­
giorgio Solinas, I cicli di sviluppo delle famiglie mezzadrili nel senese, “L’uomo” , 1983, nn. 1-2.
14 Luisa Passerini, Storia e soggettività. Le fo n ti orali, la memoria, Firenze, La Nuova Italia, 1988, p. 29.
Fronte interno e fronte esterno
L ’Italia in guerra 1940-1943
di Gaetano Grassi
L’Italia nella seconda guerra mondiale, i di­
versi aspetti — militari, economico-sociali,
politici e culturali — della partecipazione
italiana e il complessivo intreccio dei temi
che sono stati finora oggetto della ricerca
storiografica sul 1940-1943: tutto ciò, a
grandi linee, ha costituito la materia delle
quattro giornate di studio nelle quali si è
svolto il convegno “L’Italia in guerra 19401943”, organizzato dalla Fondazione Miche­
letti di Brescia con la collaborazione dell’I­
stituto nazionale per la storia del movimento
di liberazione in Italia.
Citare questi due istituti significa, anzitut­
to, ricordare due caratteristiche di fondo del
convegno, che gli stessi promotori hanno
voluto sottolineare in un opuscolo di presen­
tazione: il riallacciarsi di questa iniziativa a
un’altra, di ampio respiro, promossa dall’Insmli nell’aprile del 1985, “L’Italia nella
seconda guerra mondiale e nella resistenza” ,
della quale si sono riprese e sviluppate alcu­
ne delle ipotesi interpretative, nel quadro ge­
nerale della storia dell’Italia contempora­
nea; e il fare ricorso, accanto al convegno e
agli interventi dei relatori, ad uno strumento
immediato di rappresentazione documenta­
ria e iconografica che, sulla base delle espe­
rienze finora vissute dalla stessa Fondazione
Micheletti (fra le altre, il convegno/mostra
dell’autunno 1985 sulla Rsi), venisse a im­
mergere totalmente il pubblico nell’atmosfe­
ra di un’epoca. L’esistenza della mostra ac­
canto, o meglio all’interno dei lavori del
Italia contemporanea”, dicembre 1989, n. 177
convegno, nell’intento di riprodurre “l’autorappresentazione ufficiale dell’Italia fasci­
sta” (come scrive Mario Isnenghi nella pre­
messa dell’importante catalogo messo a di­
sposizione dei partecipanti), dà la misura e
segna il primo momento dell’impegno che
ha comportato preparare, organizzare e, per
i partecipanti, seguire passo per passo il per­
corso di questa iniziativa culturale. E se nel­
la nostra breve rassegna riassuntiva dei lavo­
ri accenniamo soltanto alla parte avuta dalla
mostra, non è certo per diminuirne il rilievo.
Fin dalla giornata d’apertura dei lavori, i
relatori hanno cercato di dare un significato
palese a quella “messa a fuoco” e a
quell’ “ampliamento dell’ambito tematico”
che doveva costituire una delle prime note
caratteristiche del convegno. E sia Claudio
Pavone nella sua relazione sulla “guerra dei
trent’anni” sia McGregor Knox sul tema
dell’ “ultima guerra dell’Italia fascista”
hanno voluto, su piani diversi, dare un’im­
pronta specifica al discorso generale sull’ul­
timo conflitto mondiale, da riprendere in
ognuno degli argomenti da trattare nelle
giornate successive. L’attenzione, per esem­
pio, che entrambi i relatori hanno richiama­
to al necessario intreccio fra politica esterna
e politica interna come elemento da tenere
presente in ogni discorso sul trentennio
1914-1945 (Pavone) o sull’Italia fascista
(Knox) ci è sembrata costituire non soltanto
un particolare taglio di discorso storiogra­
fico, ma una delle ‘chiavi di lettura’ dell’in-
120
Gaetano Grassi
tero convegno. Questa tendenza ad una
considerazione unitaria e globale del perio­
do in oggetto rappresenta uno dei leit motiv
più efficaci emersi dalle due relazioni inizia­
li: da quella di Pavone per mettere a punto
il concetto di guerra dei trent’anni come
lotta per il potere mondiale, combattuta in
“tempi di ferro che sconvolgono e riassetta­
no l’Europa e il mondo”, senza trascurare,
anzi ponendo in grande rilievo gli “sconvol­
gimenti” che si registrano all’interno dei
singoli stati o trasversalmente tra di essi; da
quella di Knox, per dare un’interpretazione
dell’intervento italiano nella seconda guerra
mondiale che ponga sullo stesso piano i di­
versi momenti dell’indagine. E ciò in con­
trasto con le interpretazioni ‘settoriali’ che
hanno finora posto in evidenza, con risulta­
ti talvolta contraddittori, solo gli aspetti le­
gati alla politica diplomatica o all’ “involu­
zione caratteriale e ideologica” di Mussolini
(come si legge in De Felice).
Nella seconda giornata del convegno, de­
dicata specificamente alla ‘dimensione mili­
tare’, si è assistito alla prima soluzione del
problema della messa a fuoco dei campi di
ricerca. La scelta dei Balcani come teatro di
guerra e terreno di occupazione sul quale
concentrare un buon numero di interventi
non era dettata soltanto dalla complessità
dei motivi di studio e di analisi storiografi­
ca, ma anche dalla scarsa attenzione presta­
ta finora dagli studiosi a questo particolare
oggetto di ricerca.
Come ha riferito Giorgio Rochat, cui era
affidato il compito di offrire nella relazione
introduttiva il quadro generale dell’organiz­
zazione militare italiana (Gli uomini e le ar­
mi. Dati generali sullo sforzo bellico), si
presentano grosse difficoltà anche soltanto
per ciò che riguarda la prima parte del pro­
blema, cioè la ricostruzione dei dati sulla
forza operativa negli anni 1940-1943. Di
fronte al notevole ritardo storiografico e al­
la mancanza tuttora di “cifre dettagliate
sulla forza delle varie classi, sul totale degli
uomini alle armi nei diversi periodi, sulla ripartizione territoriale dei reparti, sul ritmo
di richiami, arruolamenti e congedamenti” ,
Rochat ha ritenuto opportuno modificare il
tema prescelto, limitandolo, per così dire, a
questo particolare aspetto della ricerca.
I dati forniti da Rochat — ed esposti in
molteplici tabelle riassuntive dei risultati ot­
tenuti in seguito ad una prima consultazio­
ne dei fondi archivistici conservati presso
l’Ufficio storico dello Sme — sono destinati
a costituire, quali “indicazioni di ricerca per
approfondimenti successivi” , una delle più
interessanti e consistenti aperture scaturite
dal convegno di Brescia. E ciò non solo per
la parte relativa alla forza dell’esercito sui
vari fronti, ma anche per il peso dato alle
truppe e ai reparti operativi sul territorio
nazionale, al quale Rochat si è riferito, con
grande ampiezza di particolari, per tracciare
ulteriori, possibili linee di studio.
Come era nei programmi, il convegno è
proseguito con una serie nutrita di interven­
ti di specialisti sui diversi aspetti militari e
politici che presenta la condotta italiana nei
Balcani. La parte più strettamente tecnica
degli interventi è stata introdotta dalla rela­
zione molto ampia e documentata, di Lucio
Ceva, tendente alla disamina critica delle
fasi più salienti della politica estera fascista
verso la Jugoslavia e la Grecia e, in tale
contesto, alla ricostruzione del “disastro
militare” dell’esercito di Mussolini: da tutto
ciò che precede la guerra del 1940-1941 —
la “concorrenza” alla Germania che si tra­
sforma nella “necessità del consenso tede­
sco” e nel coinvolgimento degli alleati del­
l’Asse nell’azione verso i Balcani — allo
specifico comportamento dei generali italia­
ni. Come Ceva sottolinea da un confronto
con la guerra 1915-1918, l’esercito italiano
dimostra di aver perso in Grecia (con gli
stessi ufficiali, nello stesso ambiente natura­
le e contro un esercito più povero) tutto ciò
che di positivo aveva dimostrato nella pri­
ma guerra mondiale.
Fronte interno e fronte esterno
Le conclusioni di merito tracciate dallo
stesso autore sul peso di guerra “a parte” e
parallela e di modesto rilievo strategico del­
lo scontro italo-greco nel quadro generale
del conflitto mondiale, hanno trovato due
efficaci conferme nei successivi interventi di
Andrea Curami e di Ezio Ferrante sul ruolo
svolto, rispettivamente, dall’aeronautica e
dalla marina nella campagna di Grecia, e
sul contrasto evidente fra gli obiettivi di
una politica di conquista e l’effettiva realtà,
necessariamente limitata, della linea opera­
tiva seguita dalle nostre forze di cielo e di
mare.
Come è risultato anche da questo conve­
gno, la trattazione da parte degli specialisti
di alcuni dei principali motivi tecnici della
fallita operazione militare non esaurisce di
per sé il discorso sulla vasta problematica
legata alla presenza delle nostre truppe nei
Balcani. Ci riferiamo a tutti gli spunti che
emergono dalla seconda parte della ‘giorna­
ta militare’, dedicata all’occupazione della
Grecia, della Slovenia e della Macedonia oc­
cidentale (Giorgio Vaccarino, Tone Ferenc e
Tatiana Crisman Malev), ai rapporti con le
altre forze occupanti (Gerhard Schreiber) e
alla figura del soldato italiano vista nel con­
testo generale dell’umanità degli oppressori
e degli oppressi (Ugo Scialuga e Angelo
Bendotti). La complessa realtà che è scatu­
rita da questo discorso, mentre da un lato
rende necessario il superamento critico di
alcuni luoghi comuni intesi semplicemente a
porre a confronto la brutalità tedesca con la
bonarietà del soldato italiano, impone, dal­
l’altro, di rileggere secondo nuove chiavi in­
terpretative le stesse vicende belliche. Come
si ricava da alcuni degli interventi più signi­
ficativi della giornata: dalla relazione di
Schreiber, tendente a vedere nel giudizio
morale e politico espresso dai tedeschi nei
confronti degli italiani (lo scherno e il di­
sprezzo per la passività e il disfattismo delle
nostre truppe) un’ulteriore manifestazione,
ad ogni livello — dal soldato al prigioniero,
121
dal lavoratore all’internato —, del piano di
discriminazione razziale posto in atto nel­
l’intero Mediterraneo; o dalla relazione di
Teodoro Sala (Guerra e amministrazione in
Jugoslavia: un ’ipotesi coloniale), nella qua­
le l’autore, inserendo l’occupazione in una
visione politica di lungo periodo, ne sottoli­
nea i caratteri di osservatorio privilegiato
delle ripercussioni sul fronte interno del
processo globale di erosione e d’imbarbari­
mento della macchina militare italiana nel
fronte balcanico.
Questo richiamo costante, diretto o indi­
retto, al ‘fronte interno’, ritrovabile nella
parte più costruttiva degli interventi della
seconda giornata, ci è parso costituire il più
naturale momento di passaggio alla fase
successiva del convegno, dedicata alla di­
mensione economica e sociale. Nella rela­
zione introduttiva (Guerra e ricchezza: il
governo delle risorse. Note su aspetti econo­
mici e riflessi sociali della “guerra fascista”
1940-1943) Massimo Legnani si è rifatto ad
alcune delle immagini più ricorrenti nella
letteratura su questo periodo per riproporre
e suggerire i primi elementi da tenere alla
base di una nuova ricerca: dalla tesi defeliciana e revisionista sul ruolo decisivo e sulla
responsabilità diretta di Mussolini (che “ap­
pare assai più come una drammatizzazione
che non una spiegazione” dell’intervento in
guerra) alla panoramica — fornita da una
fitta serie di studiosi — di un’opinione pub­
blica caratterizzata, negli anni 1940-1943,
da una netta dicotomia, di bellicisti e di pa­
cifisti naturali. Fermarsi ai luoghi comuni
di allora e non approfondire le immagini
convenzionali significa — secondo Legnani
— “svalutare il ricco materiale che l’espe­
rienza della guerra offrirà” e “mimetizzare i
processi lenti, faticosi, spesso contradditto­
ri, che attraverseranno il corpo sociale du­
rante e oltre la crisi del regime” . Riguardo a
quella dicotomia, Legnani ha colto vari mo­
menti che si prestano utilmente a tale rilet­
tura: il fenomeno della corsa agli sportelli
122
Gaetano Grassi
delle banche per ritirare i depositi (che, ve­
rificatosi nel settembre 1939, in occasione
dell’aggressione alla Polonia, non si ripete
nel giugno 1940) e quello dei prestiti di
guerra 1940-1943, con una tenuta della fi­
ducia dei risparmiatori e una caduta vertica­
le solo nel giugno 1943. E ciò a dimostra­
zione che, sia pure con alcune differenze fra
area e area, non può darsi per scontata l’as­
serzione di un divario netto tra pacifisti e
bellicisti, ma piuttosto una situazione gene­
rale di scarso entusiasmo in un paese che
spera di trarre dalla guerra alcuni vantaggi
o alcune sanatorie. In questo quadro del
paese reale, a Legnani sembra opportuno
porre in luce tre fattori fondamentali da te­
nere presenti nella ricostruzione complessi­
va della guerra fascista e, di riflesso, del
‘fronte interno’: anzitutto, la necessità di
partire dalla metà degli anni trenta per tro­
vare le basi di un’alleanza di lungo periodo
fra potere economico e regime e quindi, con
la mediazione di Mussolini, non “un salto
di qualità” ma il passaggio naturale “dalla
politica delle guerre locali ad un conflitto
generalizzato” ; poi, l’utilità di tenere nel
giusto conto il percorso che si verifica dalla
“mobilitazione sotto tono” del 1940 al ri­
lancio, nella primavera 1941, dell’idea di
“guerra fascista” nel tentativo di rielabora­
re la base del consenso; infine, il formarsi
nello stesso periodo di una notevole area di
ricchezza che l’apparato statale non è in
grado di spendere o redistribuire, con una
“spinta centrifuga” (speculazioni di borsa,
corsa agli investimenti immobiliari, mercato
nero) che peserà direttamente sull’andamen­
to economico del dopoguerra.
Nella trama dell’impostazione data da
Legnani si è articolato il discorso successivo
sui vari caratteri assunti dall’economia ita­
liana di guerra. Stefano Battilossi (Mercanti
e guerrieri. Gli industriali italiani verso il
“Nuovo ordine europeo”) ha proceduto ad
un’analisi, gruppo per gruppo, del processo
di inserimento dei nostri poteri economici
nell’orbita tedesca, allo scopo di acquisire
nuove posizioni di forza sul mercato nazio­
nale. Brunello Mantelli si è soffermato sul
“mercato grigio” della forza lavoro (I lavo­
ratori italiani in Germania 1938-1943: uno
specchio delle relazioni fra le potenze del­
l ’Asse) e sui diversi dati, quantitativi e quali­
tativi, che caratterizzano il ruolo degli ope­
rai nelle fasi dei rapporti italo-germanici.
Luca Baldissara, a sua volta, ha seguito tre
piste di ricerca riferite ad una precisa città
(“Senza onore e senza pane”. Industria di
guerra, classe operaia e condizioni di vita a
Bologna durante la guerra fascista) per defi­
nire le vicende del mondo industriale fra gli
anni trenta e quaranta, nella prospettiva del­
lo studio dei fenomeni successivi, del secon­
do dopoguerra. All’intervento di Amoreno
Martellini sul caso specifico dell’insedia­
mento della Siai Savoia Marchetti a Jesi, è
seguita la relazione di Luigi Cavazzoli sulla
campagna mantovana nell’economia di
guerra (Produzione e distribuzione), nella
quale si sottolinea, con ampia documenta­
zione, la scarsa influenza del secondo con­
flitto mondiale sullo sviluppo dell’agricoltu­
ra e il mantenimento della produttività, per
tutto il periodo bellico, su livelli molto ele­
vati.
Alla sostanziale unità e compattezza della
prima parte della giornata ha fatto riscontro
la notevole varietà della seconda, centrata,
come era indicato nel programma, sul ri­
chiamo e sulla verifica dei fenomeni collega­
ti all’ “impatto tra la mobilitazione promos­
sa dal regime e i comportamenti del corpo
sociale” . Nel preparare l’uditorio alla tema­
tica generale, Giovanni De Luna ha indivi­
duato nei concetti chiave di “guerra subita”
e di “immaginario collettivo” , con la conse­
guente forzatura di alcune barriere interpre­
tative, i punti centrali da ritrovare nei vari
interventi. Lo stesso De Luna, nella sua re­
lazione su Torino in guerra, si è sforzato,
nella ricerca di un’ “identità collettiva della
città” , di fornire una nuova immagine di
Fronte interno e fronte esterno
un’esistenza che rompesse con le tradizionali
specificità ravvisate finora nella struttura
urbana e aprisse all’ “emergere di nuove
tensioni nel suo tessuto sociale” : il crearsi di
diverse misure di spazio e di tempo, il piani­
ficarsi delle vecchie differenze sociali e l’e­
mergere di nuove forme di “disomogeneità,
articolazioni e conflitti”. Con i bombardamenti subiti da Torino, decifrati da De Luna
come “il fatto collettivo di massa per eccel­
lenza” , il più adatto a rendere l’idea di una
nuova città nel suo impatto con la guerra.
Non tutti gli interventi successivi si sono
mantenuti su questo versante di ricerca. Al­
cuni si sono richiamati piuttosto alle relazio­
ni sulla parte economica, per inserire nuovi
elementi di giudizio sulla politica fascista de­
gli anni trenta-quaranta (come Sandro Fon­
tana nel suo intervento sulle condizioni economico-sociali dei diversi ‘strati’ delle popo­
lazioni lombarde) o per apportare motivi di
critica ad alcune precedenti conclusioni (co­
me Cesare Bermani sui lavoratori italiani nel
terzo Reich, sulla base dei risultati ottenuti
in un lavoro di ricerca condotto su un consi­
stente gruppo di fonti orali). Altri, come
Roger Absalom (Il rovescio della medaglia:
prigionieri di guerra in mano italiana) e
Agostino Bistarelli (Il reinserimento dei re­
duci) hanno ripreso temi, di particolare inte­
resse, già trattati e sviluppati in precedenti
incontri di studio, per tentare di riproporli
nella problematica generale di questo conve­
gno. Qui sono da ricordare, soprattutto Bi­
starelli, per le indicazioni riguardanti l’ana­
lisi dei comportamenti di guerra nelle con­
nessioni con la ricomposizione della società
italiana nel dopoguerra.
Per gli elementi di novità che presentano
forse ci sembra di maggiore interesse segna­
lare le relazioni di Dianella Gagliani (La
guerra in periferia. Cittadini e potere in un
comune appenninico) e di Daniela Stefanutto (La morte celata. Miti e immagini della
morte in guerra): la prima, volta a definire
da due particolari ‘osservatori’, l’ufficio del
123
podestà e la parrocchia, l’identità di una co­
munità fascista nel progressivo delinearsi
della crisi di regime; la seconda, attenta alle
diverse espressioni che assume la presenza
della morte nell’immaginario collettivo col­
pito dai nuovi, sempre più potenti mezzi bel­
lici.
L’ultima giornata ha registrato l’ulteriore
ampliamento della trattazione: è stato af­
frontato “un complesso intreccio di motivi
— come si legge sul programma — e di pos­
sibili piste d’indagine” sulla “dimensione
politico-culturale” della guerra fascista. Un
campo di problemi, almeno sulla carta, sem­
pre più vasto, comprendente non soltanto i
temi legati alla cultura ‘alta e bassa’ del fa­
scismo e alla risposta antifascista, ma — co­
me era implicito e non è avvenuto — tutta o
gran parte di quella ricca serie di spunti che,
emersi o solo enunciati nelle giornate prece­
denti, sarebbero rientrati di diritto nella di­
scussione finale. E ciò per non disperdere
tutta quella notevole potenzialità di argo­
mentazioni che si ricava dalla lettura, e dalla
necessità di un continuo sforzo di rilettura,
dei motivi ricorrenti per l’intera durata del
convegno.
L’ ‘alta cultura’ è stata trattata da Silvio
Lanaro, in relazione al concetto di “nazione
fascista” , e da Gabriele Turi (Intellettuali e
istituzioni culturali). Lanaro ha seguito pas­
so per passo, attraverso le diverse distinzioni
e puntualizzazioni dell’idea nazionalista (da
un significato che prescinde totalmente dal
concetto di popolo ad un ricorso a questo
nell’ultimo periodo), il processo verso il fal­
limento finale della nazione fascista, con i
suoi corollari, di “missione come spinta im­
perialistica”, di “ricerca della tradizione” e
di “modernizzazione del paese” ; fino alla
scoperta del “trucco” e all’atteggiamento as­
sunto da quella parte degli intellettuali (Cor­
rado Alvaro) che determina l’ammirazione
per il nemico e il desiderio della sconfitta,
per essere accolti nel “grande mondo” dei li­
beri.
124
Gaetano Grassi
Turi ha analizzato la funzione svolta dagli
intellettuali negli anni 1939-1943 di fronte
all’evento della guerra, quando il fascismo
cerca l’appoggio del mondo della cultura,
rintracciando, oltre al fenomeno della circo­
larità fra potere politico, propaganda e isti­
tuzioni culturali, le “sacche di resistenza”
che si creano all’interno di queste ultime
(università, case editrici, singole individuali­
tà). Ciò che offre un panorama variegato di
ricerca sugli itinerari complessi ritrovabili
nel mondo degli intellettuali, al fine di co­
gliere i germi di un rinnovamento di conte­
nuti e di orientamenti.
In un intervento ricco di dati e di notizie
su L ’Organizzazione della propaganda tede­
sca in Italia nello stesso periodo, Jens Pe­
tersen ha proceduto ad una suddivisione
cronologica molto precisa del “lavorio”
operato da Berlino nel cuore della “parte
corteggiata” . Con risultati che nel loro
complesso si rivelarono inversamente pro­
porzionali al grande impiego di mezzi e di
uomini. Sullo stesso piano della propagan­
da, ma all’interno del mondo fascista, si è
mosso Marco Di Giovanni nella sua rico­
struzione del mito bellico quale precisa
componente di un nuovo gruppo di militari,
i reparti di paracadutisti, e dei contrasti
provocati dalle esperienze della ‘guerra rea­
le’. Circa l’indagine sulla ‘bassa cultura’, va
ricordato, infine, l’intervento di Pasquale
Jaccio in tema di teatro di varietà e canzoni
nella formazione della mentalità collettiva
sulla guerra.
Ma in che modo e quando ha risposto l’o­
pinione pubblica al regime fascista? Nel por­
si questi interrogativi Simona Colarizi,
aprendo la seconda parte dell’ultima giorna­
ta, ha cercato anzitutto di definire e meglio
specificare la natura dell’opinione pubblica
in un periodo nel quale non esisteva né pote­
va esistere alcuna libertà di pensiero e, di
conseguenza, un vero e proprio giudizio po­
litico espresso da una volontà popolare. Si
trattava semmai di un’opinione “istituzio­
nalmente autorizzata”, che fungeva da filtro
e da strumento di “sondaggio” dello “spirito
pubblico” . E non poteva agire nel senso di
condizionare le scelte politiche del regime.
Secondo Colarizi, la crisi della fiducia, il
dissenso che si trasforma in posizione politi­
ca si registra al momento dell’entrata in
guerra, con l’antifascismo che trova una
breccia nella solidarietà del fronte interno.
Attraverso successive tappe, dal 1940 al
1943, che vedono il crollo progressivo del
mito del duce, alla critica del fascismo e dei
suoi gerarchi si associa il discorso sulla liber­
tà. E, parallelamente, acquistano vigore
l’ammirazione per i contrattacchi degli Al­
leati e l’impazienza per la fine della guerra.
Francesco Traniello, a sua volta, nel ten­
tativo di porre a fuoco “comportamenti e
messaggi” del mondo cattolico italiano, ha
continuato a considerare il periodo bellico
come crogiuolo di orientamenti e indirizzi,
piuttosto che come ponte per il passaggio
dal ‘prima’ al ‘dopo’. E ciò al fine di vedere
nel ritorno alla politica, nel 1942, e nella
“caduta di senso della guerra” nello stesso
periodo alcuni dei più rilevanti momenti di
genesi di un’opinione pubblica cattolica, an­
cora in parte da studiare nelle sue varie
espressioni.
Ha chiuso il discorso sull’antifascismo
Leonardo Rapone, con un intervento sull’e­
migrazione politica italiana agli inizi della
seconda guerra mondiale, per porre in rilie­
vo tutti i motivi di “grave debolezza” e
d’ “impotenza” della nostra opposizione al­
l’estero e le “incomprensioni e ostilità” con
le quali essa si urtò nel suo tentativo di assu­
mere la “rappresentanza dell’Italia demo­
cratica” — ruolo attivo che avrebbe occupa­
to solo di riflesso, con la ripresa dell’opposi­
zione politica all’interno del paese.
In sede di conclusione, Guido Quazza, nel
porre a confronto il convegno di Brescia con
quello (sopra ricordato) di Milano del 1985,
ne ha tracciato limiti e nel contempo motivi
impliciti di validità: l’intero quinquennio
Fronte interno e fronte esterno
1940-1945, maggiormente accettabile nella
sua interezza e più significativo perché non
esclude il biennio Rsi/Resistenza, viene di
fatto spesso a togliere la dovuta attenzione
al triennio precedente. Le tre ‘dimensioni’,
inoltre, secondo Quazza, hanno segnato un
significativo passo avanti nella ricerca, in
modo particolare per ciò che concerne tutta
la parte relativa all’occupazione della peni­
125
sola balcanica (dove i caratteri della parteci­
pazione italiana sono stati analizzati nel mo­
do più coraggioso e sulla base di una nuova
documentazione) e quella sui problemi economico-sociali, apparsa come la più riuscita
per il grado di preparazione dei ricercatori e
la ricchezza dei risultati ottenuti.
Gaetano Grassi
Calabria e Italia durante il fascism o
Le società locali tra consenso e contestazione
di Marinella Chiodo
A proposito del convegno, svoltosi ad Acri
in provincia di Cosenza il 12 e 13 maggio
scorso, è forse il caso di raccogliere proprio
qui, sulla rivista dell’Istituto nazionale, una
serie di spunti atti a sollecitare approfondi­
menti e chiarimenti ulteriori, piuttosto che
proporre una rassegna delle numerose rela­
zioni presentate e discusse in quella sede, pe­
raltro già apparsa in forma sintetica sul Bol­
lettino dell’Istituto calabrese per la storia
dell’antifascismo e dell’Italia contempora­
nea (Icsaic) n. 1, giugno 1989. È, infatti, op­
portuno ricordare che, in vista del nuovo
appuntamento degli storici fissato per il
prossimo gennaio, la ricca gamma di pro­
spettive che si sono aperte in questa fase può
offrire elementi per un raccordo delle diver­
se tematiche e questioni inerenti al fascismo
o ai ‘fascismi’ in senso più lato e completo.
Il convegno di Acri si è, dunque, articola­
to in due giornate, la prima interamente de­
dicata alla Calabria e la seconda alle altre
realtà regionali del Mezzogiorno e del resto
d’Italia, riuscendo a sviluppare — innanzi­
tutto e com’era nel suo obiettivo — un’ana­
lisi quanto più organica possibile delle mani­
festazioni e degli episodi di protesta verificatisi durante il fascismo, in particolare tra la
fine degli anni venti e la prima metà degli
anni trenta. Ciò non ha escluso, come non
poteva escludere, il proiettarsi dei riferimen­
ti e perfino delle indagini sia sugli sviluppi
antecedenti, sia sulle ulteriori ricomposizio­
ni e aperture successive alla ‘grande crisi’.
Già a questo proposito, mi pare che un pri­
mo dato da sottolineare sulla base della con­
ferma che ne è venuta della presenza diffusa
e spesso massiccia di proteste e manifesta­
zioni popolari in tutte le realtà indagate, sia
costituito dalla complementarietà tra le que­
stioni propriamente inerenti alla ricostruzio­
ne di una geografia del dissenso e quelle
congiunte alla periodizzazione delle fasi —
di per sé non lineari e non consequenziali —
del processo di fascistizzazione della società
civile, ossia della organizzazione del famoso
‘consenso’ di massa. Partendo dalle nume­
rose caratterizzazioni locali, si potrebbe per­
tanto tendere ad una specificazione del qua­
dro complessivo, anche nel senso di una
‘geografia sociale’ che, sulla base degli inte­
ressi e degli obiettivi dei ceti e dei gruppi
126
Marinella Chiodo
coinvolti nella protesta, ne colga la direzio­
nalità o addirittura ne misuri la diversa
‘temperatura’ politica rispetto alla sponta­
nea emergenza dei bisogni più o meno ele­
mentari, che i relatori unanimemente hanno
ritenuta non circoscrivibile ad un’astratta e
‘pura’ sfera economica.
Da ciò l’interesse ulteriore che potrebbe
derivare attraverso la proposizione di alcune
tipologie, sulla base degli elementi più ricor­
renti, i quali rimandano, comunque, ad una
più minuziosa raccolta di casi, soprattutto
nell’area del centro-nord, poco rappresenta­
ta nel convegno, se si eccettuano le detta­
gliate analisi offerte, per il Veneto, da Emi­
lio Franzina; per l’Emilia-Romagna, da Dianella Gagliani e, per alcune zone del Lazio,
da Antonio Parisella. La praticabilità di una
tale ulteriore caratterizzazione mi pare sen­
z’altro confortata da quanto è stato già fat­
to, in questo convegno, per alcune realtà lo­
cali come, da una parte, il Veneto, in cui
Franzina ha evidenziato, oltre alla dinamica
di nuovi contingenti di proletariato urbano
formatisi per effetto di nuovi insediamenti
industriali, un processo peculiare di coagulo
di “frange subalterne” in un “tipo” di ban­
ditismo, sicuramente lontano dai modelli del
‘passator cortese’ nel suo essere, piuttosto,
precursore dell’azione partigiana. Quella
che emerge in questo caso è una forma di
opposizione “diversa” che scaturirebbe an­
che attraverso una mentalità modificata dal­
lo stesso subentrare di generazioni di più re­
cente formazione.
Anche per la Calabria, per la quale Giu­
seppe Masi ha offerto un quadro completo
di tutte le articolazioni e le sfumature che lo
compongono (e altrettanto ha fatto Enrico
Esposito per le caratterizzazioni della sola
fascia tirrenica cosentina), chi scrive ha ten­
tato, per altri versi, una prima classificazio­
ne del dissenso, assumendo come dati essen­
ziali le forze sociali che più lo caratterizza­
no, il peso degli interessi che lo animano e le
prospettive che si aprono, fermo restando
l’intreccio tra novità e persistenze di cui si
compone l’opposizione che si scatena intor­
no al tradizionale luogo di scontro costituito
dal potere municipale, caricato di ulteriori
occasioni conflittuali, anche per i forti sti­
moli e le diversificazioni in atto nell’artico­
lazione della società locale. Alla stessa esi­
genza ha risposto anche l’analisi proposta
da Giangiacomo Ortu per dare un’interpre­
tazione più aderente al fondamentale rap­
porto tra agricoltura e pastorizia in Sarde­
gna. Così pure, per il Lazio, da parte di Pa­
risella è venuta l’individuazione di “due
blocchi” comprendenti, il primo, la serie de­
gli episodi “legati all’esplodere della crisi” e,
il secondo, alla vera e propria disgregazione
delle basi di massa del fascismo, la quale
evidenzierebbe una “maggiore crescita sotto
il profilo della consapevolezza politica”
(“nuova”, però, rispetto al passato) e, come
tale, secondo una “scala graduata” che si
estende dalla città verso la campagna. Per
cui, fin d’ora, è possibile rilevare una dire­
zione inversa rispetto alla Calabria e più si­
mile, invece, a quella di altre realtà regionali
più urbanizzate e industrializzate, anche del­
lo stesso Mezzogiorno, come la Puglia, esa­
minata da Giulio Alaimo, o la Campania da
Guido D’Agostino. È evidente, inoltre, che
il dato generale della complementarietà tra
geografia del dissenso e periodizzazione del­
le fasi rilancia in termini nuovi il dibattito
ancora ricco di interrogativi stimolanti sulle
conseguenze che, per effetto del fascismo,
cominciano a registrarsi nella società italia­
na con le varie ripercussioni che si manife­
stano anche prima del secondo conflitto
mondiale e del crollo del regime, ma che,
per certi versi, appaiono linee percorritrici di
sviluppi successivi.
La questione ha avuto, infatti, immediato
ed evidente riscontro nel pieno dispiegarsi
dei lavori del convegno, circa l’opportunità
stessa dell’uso di categorie come, innanzitut­
to, quella della ‘modernizzazione’ sia nella
sua accezione esplicativa di ‘modernizzazio­
Calabria e Italia durante il fascismo
ne autoritaria’ sulla quale si è costruita l’in­
dagine di Vittorio Cappelli, riguardante la
crescita e la trasformazione funzionale delle
città calabresi, sia quella problematica, inte­
sa cioè anche come serie di vistosi mutamen­
ti di tipo religioso che dalla gerarchia eccle­
siastica si sono trasmessi fino ai più sperduti
borghi calabresi e che, intrecciandosi col
mutamento sociale, fanno intravedere — se­
condo il relatore Roberto Violi — un “non
lineare approdo della società locale alla mo­
dernità”, confermato nell’analisi di Luigi
Intrieri sul fallimento della Cassa rurale fe­
derativa di Cosenza. E, infine, la valenza
tutta negativa del termine — nel senso di
‘modernizzazione impossibile’ — ha trovato
riscontro negli spunti interpretativi proposti,
anche per aspetti e punti di vista diversificati
tra loro, negli interventi di D’Agostino, Parisella e Tino Vittorio. Nella realtà urbana
napoletana, a suo parere estendibile anche
all’area meridionale, D’Agostino ha sottoli­
neato, infatti, la “non necessità” del fasci­
smo sia nella società che nel modo di produ­
zione. Il fascismo non avrebbe, cioè, rappre­
sentato una novità dirompente per il Mezzo­
giorno, nella misura in cui i luoghi della ve­
ra gestione politica sono ancora, come sem­
pre, lo stato e la società, attraverso l’azione
di ceti, per molti versi, ancora di estrazione
o di ispirazione prefascista, piuttosto che il
Pnf, unico elemento effettivo di novità che,
in pochi anni, viene drasticamente marginalizzato. Da ciò, quindi, la lettura in senso
sociale più che politico che egli ha dato alla
“insorgenza di tipo protestatario” che fa da
riscontro all’irrigidirsi del contesto.
Anche Parisella ha evidenziato il vero e
proprio “scacco” del disegno antitradiziona­
lista e innovatore degli uomini “nuovi” co­
me Bottai, sostenendo — diversamente da
Cappelli — che “non c’è una penetrazione
capillare del fascismo nella società” soprat­
tutto nella periferia urbana, dove il fascismo
non poteva avere un retroterra legato alla
“fase delle origini” e dove “minore era il
127
controllo sociale” . Anche se dopo la metà
degli anni venti si avvia una fase di novità
soprattutto istituzionali, che “riplasmano il
profilo dell’Italia locale”, negli anni trenta
invece egli ritiene di riscontrare una “fase di
restaurazione che tende a cancellare gli im­
pulsi dell’Italia giolittiana” e che finisce con
lo stimolare la protesta in forme, per così di­
re, adeguate al contesto elementare della so­
cietà. In altre parole, tali fenomeni mostre­
rebbero “la persistenza di una società tradi­
zionale” e, quindi, i limiti del tentativo di
modernizzazione “perché il processo di tra­
sformazione e di evoluzione delle stesse for­
me di lotta è stato bloccato” . Tale “com­
pressione” avrebbe generato l’esplosione,
per certi versi “convulsa” , della protesta e
del dissenso.
Ancora più radicale la diffidenza di Vitto­
rio, sulla base di una indagine sulla realtà si­
ciliana, nei confronti del concetto di moder­
nizzazione, i cui limiti rimanderebbero ad
ulteriori e, a suo parere, contraddittorie ag­
gettivazioni come quella di ‘modernizzazio­
ne senza riforme’ e, quindi, ‘impossibile’,
nella misura in cui il fascismo avrebbe rive­
lato e radicalizzato la storia politica tradi­
zionale, da intendersi come insieme di “gio­
chi intellettuali dei ceti abbienti e protagoni­
smi di personalità singole”. In questo conte­
sto di decadimento della politica, il cui sin­
tomo rivelatore sarebbe costituito dalla
“media deprimente”, registrata in Sicilia,
della dissidenza verso il regime, Vittorio ha
collocato l’inizio di una “grande ondata di
protesta sociale” . Per cui la vasta gamma
degli episodi che la compongono sarebbe
tutta racchiusa nella forma ricorrente del­
l’assalto al municipio, come nella più tradi­
zionale dinamica della jacquerie che, a suo
parere, costituirebbe il risvolto tipico dei
tentativi di quella “modernizzazione autori­
taria e dunque impossibile” intrapresi dal
fascismo e che implicavano costi sociali mol­
to alti, “tipici da ancien régime”, espressi
dai “fremiti di rivolta” ancora fermi ai con­
128
Marinella Chiodo
flitti amministrativi più elementari e perso­
nalistici rispetto al vero nodo politico costi­
tuito dalle scelte del governo, identificate
con la volontà del Duce, invocato piuttosto
che vilipeso.
Proprio nell’ambito della varietà e vivaci­
tà delle posizioni sostenute intorno al pro­
blema della modernizzazione, un’altra nota
interessante riguarda la presenza femminile,
in un buon numero di casi, massiccia nelle
manifestazioni di protesta popolare. Il fatto
che essa sia emersa fra le pieghe e, per l’ap­
punto, fra i nodi più dibattuti di questo con­
vegno, mi pare alquanto sintomatico della
‘messa fra parentesi’, piuttosto usuale nelle
indagini storiche, dei soggetti femminili. Ri­
mane comunque confermata la funzione sti­
molante di tale presenza, nella misura in cui
essa rivela ulteriormente le diverse chiavi in­
terpretative proposte da ciascun relatore.
Per Vittorio, ad esempio, essa confermereb­
be l’aggravarsi dei costi sociali a fronte dei
tentativi falliti del fascismo di plasmare la
caratterizzazione tradizionalistica della so­
cietà isolana. Al contrario, nell’analisi di
Costantino Felice, riguardante la realtà
abruzzese e molisana, la partecipazione fem­
minile alle manifestazioni di protesta — la
cui forma conservava e anzi recuperava i
modelli più tradizionali, quali il ‘corteo-pro­
cessione’ che si sviluppava dall’uscita dalla
chiesa fino al municipio — suonerebbe a
conferma di una spontaneità solo apparente
dell’azione protestataria, rivelando, piutto­
sto, la “presenza di filamenti di soggettività
politica cosciente”. In sintesi, il fatto che, ri­
correntemente, fossero le donne a esporsi
nelle prime file dei cortei, secondo Felice —
ma anche secondo i riscontri evidenziati da
Ortu nella realtà sarda — farebbe pensare
ad un calcolo ben preciso per contrastare la
repressione, ridurre gli arresti e le azioni giu­
diziarie, contando sulla maggiore indulgen­
za degli apparati polizieschi nei confronti
del ‘sesso debole’. Diversamente ancora, per
Cappelli, ci troveremmo di fronte ad un
processo di integrazione che avrebbe riguar­
dato le masse e le donne “attraverso i canali
dell’alfabetizzazione e dei circuiti culturali
anche dei mass-media” e, per il quale, nei
“piccoli paesi e villaggi calabresi” si assiste­
rebbe al sovrapporsi di “parametri urbani di
tipo orizzontale” su quelli tradizionali “ver­
ticali della famiglia e della clientela” . Tale
disegno di “modernizzazione autoritaria del­
le campagne” — sempre secondo Cappelli
— a metà degli anni trenta “s’inceppa, dan­
do luogo alla protesta sociale” .
Anche a tale proposito, appare evidente
come il tema comune sviluppato dai relatori,
pur partendo da dati e angolature diverse, li
abbia portati a misurarsi con un altro dei
tanti binomi in cui si imbatte la storiografia
— in questo caso, quello di tradizione-inno­
vazione; vecchio-nuovo; continuità-rottura
— assunto da alcuni in termini complemen­
tari, da altri in termini antitetici o con pro­
pensioni di peso diverso per l’una o per l’al­
tra componente. Quanto e come il fascismo
sia stato l’approdo di linee già avviate nel
corso dell’età giolittiana o, al contrario, ne
abbia arrestato e congelato l’ulteriore svi­
luppo, non è certo questione che possa esse­
re posta in termini antinomici. Ma, al di là
della vecchia querelle, mi pare che il dato
stimolante sia costituito dagli elementi più
numerosi e consistenti rispetto al passato
che questo convegno ha offerto a future ve­
rifiche, eventualmente costruite per grandi
sintesi, magari confrontando le grandi aree
o circoscrizioni territoriali: nord, sud, cen­
tro e isole; oppure città e campagna; latifon­
do ed aree di produzione capitalistica ecc.,
in base a questo intrecciarsi di vecchio e di
nuovo e della sua incidenza nei diversi con­
testi attraverso gli sviluppi, anche contrad­
dittori, che ne conseguono.
Tra questi elementi sono da segnalare le
stimolanti osservazioni presenti nell’indagi­
ne di Gagliani sulla protesta dei braccianti
emiliani e romagnoli, specie se messe in rela­
zione col panorama meridionale, dove i con­
Calabria e Italia durante il fascismo
flitti sono stati molto più numerosi e meno
circoscrivibili, ma espressi in forme diverse,
come diverso era il contesto e lo stesso re­
troterra prefascista che, in termini di co­
scienza e di solidarietà, continua invece ad
esercitare un peso rilevante nelle motivazio­
ni, anche soggettive e isolate, della opposi­
zione padana. Che non si tratti comunque,
neanche nelle aree più arretrate — oltre che
per la Calabria sono stati infatti evidenziati
i processi che investono anche la Basilicata
(da Domenico Sacco) e la Sardegna (sia da
Ortu che da Luciano Marrocu) — di un an­
damento statico e monolitico è apparso
chiaro innanzitutto nella trasformazione,
più immediatamente rilevabile e colta da va­
ri relatori, riguardante il piano istituzionale,
specie quando la crescita e l’appesantimento
della presenza dello stato nella sfera sociale
investe i gangli più delicati della comunità:
il municipio, in primo luogo, ma anche i
sindacati e il partito unico. Piuttosto, dalla
centralità della sfera sociale il dibattito si è
animato ulteriormente per le diverse letture
inerenti a tale sfera e, quindi, in particola­
re, al rapporto tra piano sociale e piano po­
litico.
Posta ormai come superata anche quella
artificiosa e infruttuosa contrapposizione
tra fascismo e antifascismo — a suo tempo,
denunciata da Amendola nella famosa In­
tervista — un’ultima cosa che forse vale la
pena di rilevare è quella che riguarda la sot­
tolineatura della complementarietà fra i due
termini, ossia fra qualità del fascismo e
qualità dell’antifascismo, che è venuta, e
non a caso, dalle analisi riguardanti due re­
gioni della stessa area, ma non per questo
omogenee tra loro, come la Calabria e la
129
Campania; l’una ad ambito prevalentemen­
te rurale, l’altra con una presenza urbana
estremamente significativa come Napoli.
Ebbene, anche questa complementarietà tra
i due termini mi pare che costituisca un ele­
mento fondamentale per procedere nella
comparazione tra i differenti processi o le
diverse sfumature che riguardano il nord e
il sud, come pure il centro e le isole, per
fugare ogni residuo di equivoci circa una
minore, meno estesa o meno profonda qua­
lità dell’antifascismo meridionale fatta sca­
turire da un’altrettanto meno incisiva e ca­
pillare penetrazione del fascismo nel Mez­
zogiorno.
Limiti e circoscrivibilità della moderniz­
zazione non significano, infatti, assenza di
un processo di trasformazione, in primo
luogo, nella società e negli uomini. Per que­
sto, chi scrive ha tenuto a riportare l’atten­
zione e la riflessione sulla portata, non solo
contraddittoria, ma anche ‘biunivoca’ della
penetrazione del fascismo nella realtà cala­
brese fin dalle origini, in quanto le difficol­
tà che il fascismo incontra nel Mezzogiorno
ne stimolano, per certi versi, anche le linee
politiche ancora in fieri. Così, per parte
sua, D’Agostino ha ritenuto di indirizzare
l’attenzione — proprio a suggellare le con­
clusioni di questo convegno — anche ad un
altro momento critico e, come tale, carico
d’interesse per l’indagine, costituito appun­
to dalla fase dell’uscita dal fascismo che
fornisce la chiave d’interpretazione del rap­
porto fascismo-antifascismo, ma soprattut­
to la conferma di una trasformazione che
non all’improvviso riguardava e investiva la
società meridionale.
Marinella Chiodo
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