Introduzione
Il rapporto tra globalizzazione e cultura è un tema ormai abbastanza
consolidato. È comparso per la prima volta nell’opera di Roland Robertson (1992), che l’ha trattato con considerevole acume. In origine
Robertson si avvicinò alla globalizzazione in qualità di sociologo delle
religioni, perciò dal suo punto di vista la cultura assume un ruolo
fondamentale. Essa è un aspetto rilevante negli studi sulla globalizzazione da parte di antropologi, vari sociologi e negli studi comparativi
su letteratura, media e cultura.
Una tesi comune negli studi culturali e sui media è l’omogeneizzazione culturale a livello mondiale. Altri temi ricorrenti, soprattutto
nel contesto delle scienze politiche e del giornalismo politico, sono la
politica etnica (pulizia etnica e nuovi nazionalismi) e il fondamentalismo religioso, il che suggerisce l’esistenza di un collegamento tra globalizzazione e politiche di identità locale e di una combinazione tra
integrazione e frammentazione. Di conseguenza la maggior parte della letteratura è concentrata su due poli diversi che diagnosticano l’uno una crescente uniformità culturale globale (sulla scia della mercificazione e del consumerismo) e l’altro una sempre maggiore differenziazione culturale, una sorta di “libanizzazione” o di frammentazione
culturale. Nonostante il tema della cultura venga trattato spesso, sembra che ciò avvenga come appendice a un altro paradigma o a una
problematica di diverso tipo. In campo sociologico vi è la tendenza a
rivisitare, attraverso la globalizzazione, la discussione sulla modernità,
così come in economia politica vi è la tendenza a rivisitare, sempre
attraverso la globalizzazione, il dibattito sul capitalismo. La carriera
della globalizzazione coincide quindi con la carriera della modernità,
dal 1800 in poi, o con quella del capitalismo (moderno), dal 1500 in
poi. Altri approcci sono invece incentrati sul rapporto tra il capitalismo più recente e la cultura. Sia la modernità sia il capitalismo sono
temi pertinenti, ma se il dibattito sulla globalizzazione è un altro
modo per proseguire quello sulla modernità, vi è il rischio di portare
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avanti una conversazione “atlantica” estrapolata su scala mondiale.
Avrebbe senso aspettarsi che i modi in cui viene trattata la globalizzazione abbiano un respiro globale?
Ciò che caratterizza questo libro è il suo profondo approccio storico, utilizzato per sviluppare la prospettiva del mélange globale o
dell’ibridazione e per problematizzare il concetto di “cultura”. L’ibridismo, un tema ben consolidato e controverso, è il leitmotiv di questo libro; lo articolerò in diversi capitoli e cercherò di trattarlo in
modo esauriente. Nello sviluppare tale prospettiva assumo una posizione ben distinta, profonda dal punto di vista storico e ampia in termini geografici. Quasi tutti gli studi sulla globalizzazione, infatti, tendono a essere confinati in un arco temporale ristretto: la maggior parte degli economisti ritiene che sia una questione sviluppatasi negli ultimi decenni, mentre per i movimenti sociali, come il World Social
Forum, il problema chiave è il capitalismo neoliberale, quindi il coinvolgimento nella globalizzazione diventa una polemica con il neoliberalismo. Condivido tale preoccupazione (e l’ho discussa in varie pubblicazioni), ma ritengo anche che il concetto di “globalizzazione” sia
da riferirsi a un incontro umano molto più ampio e profondo. Ciò è
particolarmente importante in relazione alla cultura. Per quanto le tematiche odierne siano pressanti e di grande rilievo, il discorso sulla
globalizzazione va ben oltre la sua forma attuale. La necessità di una
prospettiva storica profonda è inoltre condivisa da molti antropologi,
storici e paleontologi. L’assunzione di un punto di vista ad ampio
raggio ha importanti conseguenze sull’interpretazione del concetto di
“globalizzazione”. Probabilmente la disciplina che si sceglie di studiare e, all’interno di una disciplina, la prospettiva e le problematiche
che si sceglie di assumere sono plasmate dalla biografia di ognuno di
noi e riflettono le nostre inclinazioni esistenziali. Sicuramente ciò è
vero nel mio caso.
Benché io abbia svolto la maggior parte del mio lavoro nell’ambito della sociologia, degli studi sullo sviluppo, dell’economia politica e
degli studi interculturali, ho ricevuto una formazione di stampo antropologico. All’epoca, all’Università di Amsterdam l’antropologia
culturale era sinonimo di “sociologia non occidentale”, perciò la divisione tra antropologia e sociologia era sottile. Il punto di vista che ho
assunto è plasmato anche dalla mia genealogia. Provengo infatti da
una famiglia coloniale delle Indie Orientali olandesi; uno dei miei antenati, un nobile mercante, arrivò a Giava all’inizio del 1600 con la
Compagnia olandese delle Indie Orientali (VOC, Vereenigde Oostindische Compagnie). I suoi discendenti sono poi rimasti sull’isola e nell’arcipelago per oltre trecento anni, mescolandosi con gli abitanti del
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INTRODUZIONE
luogo e con portoghesi, francesi, tedeschi e altre genti, immergendosi
completamente nella cultura meticcia indo-olandese (“tempo doeloe”). La discendenza di mio padre nelle Indie Orientali risale agli
inizi del 1800. La mia famiglia è giunta nei Paesi Bassi solo dopo la
Seconda guerra mondiale; io sono nato ad Amsterdam undici giorni
dopo il loro arrivo, il primo membro della famiglia nato al di fuori di
Giava dopo molte generazioni. Quindi siamo eurasiatici e ibridi in
senso sia genealogico sia esistenziale; non è una questione di scelte o
di preferenze, sono le circostanze della vita. Ciò è oggetto di riflessione perché mi occupo di scienze sociali. La storia della mia famiglia è
dunque imbevuta di espansione, colonialismo e migrazione intercontinentale. E questa è solo la parte nota, registrata. Non sto parlando di
queste cose perché penso che siano insolite, bensì perché ritengo che
siano comuni: in un modo o nell’altro siamo tutti migranti. Sento di
condividere affinità con i migranti di tutto il mondo e sono portato a
considerare la storia umana in uno scenario globale, non relativo
semplicemente agli ultimi cinquant’anni o poco più, ma anche a centinaia, anzi migliaia di anni fa. La mia scelta di studiare antropologia
riflette questo background. La mia storia personale include varie migrazioni intercontinentali: in Africa occidentale per insegnare sociologia in Ghana, negli Stati Uniti per studiare sociologia su scala mondiale, il che all’epoca significava teoria del sistema-mondo, nei Paesi
Bassi, dove ho insegnato in una scuola internazionale post laurea di
studi sullo sviluppo, poi di nuovo negli Stati Uniti per lavorare sulla
sociologia transnazionale.
Tutti questi temi si ritrovano nei vari capitoli di questo libro. Il
CAP. 1 discute i punti di vista sulla globalizzazione di diverse scienze
sociali e i loro riferimenti temporali ampiamente divergenti. Il CAP. 2
delinea i contorni di un approccio storico profondo alla globalizzazione. Il tema del rapporto tra globalizzazione e modernità è discusso
nei CAPP. 3 e 4, mentre il CAP. 5 tratta del mélange globale a lungo
termine.
Ciò che segue è una breve guida ai capitoli. Il primo descrive la
problematica generale della globalizzazione presentando le aree di accordo e di disaccordo nella letteratura esistente. Il tema suscita più
controversie che consensi e le varie discipline che lo studiano hanno
opinioni diverse sui suoi principi fondamentali. L’accelerata globalizzazione contemporanea rimanda a una nuova distribuzione del potere
che va di pari passo con l’informatizzazione e la flessibilizzazione dei
processi produttivi e del lavoro, con l’aggiunta della deregolamentazione, del primato della finanza e del marketing portati dalla globalizzazione neoliberale.
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Il secondo capitolo sviluppa il tema della globalizzazione in prospettiva storica, discutendo se essa implichi una tendenza verso l’integrazione umana. Le visioni di unità tra gli uomini fanno parte della
nostra eredità, ma devono fare i conti con una disuguaglianza globale
in rapida ascesa. La globalizzazione è un processo a lungo termine
che crea paradossi e disparità, nel quale una sempre più ampia cooperazione sociale è associata a una sempre più profonda disuguaglianza. Tale prospettiva viene esaminata dal punto di vista delle migrazioni e delle diaspore, il cui ruolo è sempre stato sottovalutato.
Il terzo capitolo ci porta direttamente all’interno del dibattito tra
globalizzazione e cultura. Si scopre così che esistono tre modelli sulle
differenze culturali, fondamentalmente diversi: le differenze sono durature, scompaiono di fronte a una crescente omogeneizzazione, oppure ancora si mescolano generando così nuove differenze. Quindi
secondo la concezione dello “scontro delle civiltà” le differenze culturali sono stabili e generano rivalità e conflitti. In base alla seconda
interpretazione, invece, l’interconnessione globale conduce a una crescente convergenza culturale, come nell’impetuosa avanzata del consumerismo, in breve a una “McDonaldizzazione”. La terza posizione
ritiene che si siano verificati processi di mescolamento o ibridazione
tra diversi luoghi e diverse identità. Tale approccio viene sviluppato
in due capitoli sul mélange globale.
La tesi di base esposta nel quarto capitolo intende la globalizzazione come un processo di ibridazione. Essa viene solitamente interpretata come un processo di omogeneizzazione; ma ha senso questa
concezione, considerando che vi sono in atto più processi di globalizzazione? Viene inoltre spesso collegata alla modernità, ma ciò equivale a produrre una teoria della occidentalizzazione, teoria geograficamente ristretta e storicamente superficiale. In questo capitolo si sostiene l’idea della globalizzazione come ibridazione, sia strutturale per
l’emergenza di nuove forme eterogenee di cooperazione sociale, sia
culturale per lo sviluppo di culture mélange translocali. Teorizzando
l’ibridismo ed esaminandone le politiche, si mostrano quali sono le
sue varie forme, dall’imitazione alla controegemonia. Si utilizzano due
concetti distinti di “cultura”, uno territoriale e uno translocale, l’uno
proiettato verso l’interno l’altro verso l’esterno, i quali producono
concezioni divergenti sulle relazioni culturali e sulla globalizzazione.
L’ibridazione rimanda al concetto chiuso di “cultura” e alla sua apertura, al contempo introducendo l’idea di “postibridismo”.
Il quinto capitolo sviluppa ulteriormente questo punto di vista in
risposta alle critiche sull’ibridismo. Secondo gli argomenti contro tale
concezione, l’ibridismo non è autentico ed è una forma di multicultu22
INTRODUZIONE
ralismo superficiale. L’analisi di queste argomentazioni offre l’opportunità di approfondire e mettere a punto la nostra prospettiva. Le argomentazioni contro l’ibridismo mancano di profondità storica, mentre la presente trattazione si occupa del lungo periodo e suggerisce
più strati storici di ibridismo. Il capitolo si occupa quindi di politiche
dei confini, poiché il problema reale non è l’ibridismo, presente in
tutti i periodi storici, bensì i confini e la propensione al feticismo nei
loro confronti. L’ibridismo è un problema solo se lo si tratta dal punto di vista della necessarietà dei confini. Il suo significato varia non
solo con il passare del tempo, ma anche nelle diverse culture e ciò
pervade diversi modelli di ibridismo. In definitiva, la sua importanza è
dovuta al fatto di problematizzare i confini. Il CAP. 6 trae brevemente
le somme di questo discorso.
Ringraziamenti
Precedenti versioni di alcuni capitoli sono già state pubblicate su varie riviste o libri. Ringrazio sentitamente Sage Publications per avermi
concesso il permesso di riutilizzare il CAP. 5 di questo volume. Il materiale contenuto nei capitoli è stato discusso durante seminari; ringrazio dunque chi vi ha preso parte per avere condiviso con me le
loro riflessioni, in particolare Durre Ahmed, Mike Featherstone, Marian Kempny, Brigitte Kossek, Kobena Mercer, Everlyn Nicodemus e
Kazihuko Okuda. Ringrazio Emin Adas per i riferimenti bibliografici
che mi ha fornito. Sono inoltre grato a Manfred Steger e Terrell Carver per avermi chiesto di scrivere il primo volume della loro collana
sulla globalizzazione.
Il primo capitolo è apparso in diverse versioni presentate durante
seminari alla Universitetet i Bergen, alla Erasmus Universiteit Rotterdam, al CERFE di Roma e in altre occasioni; è stato tradotto in italiano. Il CAP. 2 è stato pubblicato in “Futures” (32, n. 5 [2000]); ringrazio Ivan Light per i riferimenti bibliografici che mi ha fornito. Il
materiale contenuto nel CAP. 3 è stato discusso alla Meiji Gakuin
University di Yokohama, alla International University of Japan di Niigata, a una conferenza sul controrazzismo tenutasi a Vienna, alla Polka Akademia Nauk di Varsavia, alla Jan van Eyck Akademie di Maastricht, al Center for Kulturforskning della Aarhus Universitet e alla
Society for the Humanities della Cornell University. È stato pubblicato nella rivista “Economic and Political Weekly” (31, n. 23 [1996]),
in un volume uscito in Giappone e in traduzioni in russo e in tedesco. Il CAP. 4 è apparso in “International Sociology” (9, n. 2 [1994]) e
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nel volume Global Modernities di Mike Featherstone, Scott Lash e
Roland Robertson (1995), oltre che in diverse altre raccolte e in traduzione tedesca e cinese. Il CAP. 5 è stato originariamente preparato
per il gruppo di discussione Whatever Happened to Hybridity? organizzato da Kobena Mercer alla New School for Social Research di
New York nel 2000. Ringrazio Alev Cinar per i suoi commenti riguardo a una precedente versione del capitolo, il quale è stato discusso al National College of Arts di Lahore ed è apparso in “Theory
Culture and Society” (18, n. 2-3, 2001) e nel volume Recognition and
Difference di Scott Lash e Mike Featherstone (2002).
Nezar AlSayyad ha dedicato il suo interessante volume Hybrid
Urbanism “ai popoli di confessione ibrida”. Io lo dedico semplicemente a tutti (partendo dal presupposto che tutti sono ibridi).
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