Guglielmo Rinzivillo
KARL MARX,
DIALETTICA E MEMORIA
ARMANDO
EDITORE
Sommario
I. Introduzione: marxismo e crisi globale
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PARTE I
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II. Dialettica del concreto
II.1. Origine della dialettica
II.2. Il mondo degli uomini
II.3. La critica dell’idealismo
II.4. Anti-dialettica e scienze sociali
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41
52
70
93
III. La critica dello Stato etico (parte prima)
III.1. Libertà e disuguaglianze nel diritto borghese
117
117
IV. La critica dello Stato etico (parte seconda)
IV.1. Premessa
IV.2. Democrazia e Stato empirico
IV.3. La dialettica delle classi
137
137
148
160
V. Le metamorfosi del capitalismo
V.1. La requisitoria sull’economia politica
V.2. Astrazioni e scienza economica
V.3. Merce e valore
173
173
180
189
PARTE II
201
VI. Il marxismo nella memoria dei contemporanei
VI.1. Considerazione preliminare
VI.2. La genesi nella memoria
VI.3. La critica al capitalismo classico
203
203
205
212
VII. L’egemonia delle correnti
VII.1. Premessa
VII.2. La sociologia del ‘marxismo occidentale’
VII.3. Questioni di ‘dibattito’
VII.4. Le totalità ‘concrete’
VII.5. Le libertà della dialettica
225
225
228
231
234
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VIII. La scienza degli intellettuali
VIII.1. La ‘dialettica della storia’ e il suo contrario
VIII.2. La visione carismatica dell’intellettuale
VIII.3. Sulla scia di Antonio Gramsci
VIII.4. Forme e crisi del neomarxismo in Europa
VIII.5. Oltre il materialismo dialettico
245
245
249
255
264
278
PARTE III
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IX. Ricerche sulla genesi e la prassi
IX.1. Premessa
IX.2. La storia di una scienza e il problema della storia
IX.3. Sociologia e materialismo storico
IX.4. Diritto e moralità
IX.5. La sociologia e la “sintesi”
295
295
297
302
305
308
X. Epistemologia e marxismo
X.1. La specificità del marxismo
X.2. Filosofia e discorso scientifico sull’oggetto
X.3. La scienza e la logica della storia
X.4. Il marxismo borghese
311
311
314
317
321
XI. Note su marxismo, strutturalismo e sociologia
XI.1. La versione strutturalistica della dialettica
XI.2. La sociologia nell’umanesimo della ‘modernità’
341
341
347
Bibliografia
353
I. Introduzione: marxismo e crisi globale
Karl Marx, dialettica e memoria rielabora degli scritti ‘di periodo’
che risalgono al biennio 2002-2004 e collega questi ultimi ai risultati
di ricerche condotte sulle fonti originarie in un periodo successivo.
L’uscita del libro segue, peraltro, un seminario di studi organizzato l’11 Gennaio 2013 dal sottoscritto presso Sapienza-Università di
Roma, dal titolo: “Rileggere Marx per rileggere i classici”, nell’intento
di celebrare i 130 anni della sua morte, avvenuta a Londra nel 1883.
In realtà, nel frattempo, il dibattito attorno a Karl Marx e al marxismo (non è poi sempre la stessa cosa) non ha subito impennate, così
da contentare i più critici e le loro generalizzazioni senza lasciare, per
questo, i molti seguaci e pii ortodossi a corto di nuove argomentazioni
da mettere in campo. È in tal modo che soprattutto oggi il marxismo
sopravvive, ormai da decenni a questa parte, soprattutto per conto di
una visione progressista della storia dell’umanità che ancora trova una
silenziosa adesione tra intellettuali, studiosi e scienziati sociali e della politica ecc., nonostante sembrerebbe il contrario e stante tutte le
difficoltà che queste persone incontrano nel loro lavoro quotidiano di
ricerca intellettuale. Molte delle previsioni di Marx non si sono avverate, anche se questo non vuol dire che il suo pensiero debba essere
confutato se riferito a quelle stesse. Mentre, l’aspetto applicativo della
teoria economica di Karl Marx ha indubbiamente subito delle confutazioni, così da apparire al cospetto dell’analisi moderna della fisionomia del capitalismo, senza il supporto di quella forza propulsiva
che aveva saputo scatenare durante l’Ottocento, sino ad influenzare il
secolo successivo e precedente a questo.
Durante tutto questo arco temporale è avvenuta anche una inversione di tendenza, che ha visto per qualche tempo il recupero delle
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categorie marxiane dinanzi al dilagare del mercato e di fronte al fenomeno della globalizzazione. In questo senso le categorie sociologiche
nel XX secolo hanno finito di compiere la disgregazione della teoria
originaria della disuguaglianza nonché hanno proposto un modo assai
meno convincente di porre le questioni economiche in rapporto alle
questioni essenziali delle trasformazioni storico-concrete, quasi fosse
venuta meno la ‘tenuta’ della teoria scientifica della dialettica, che si
era formata in tanti anni di produzione intellettuale e soprattutto a partire dagli scritti economico-filosofici del giovane Marx.
Di fatto, Karl Marx privato della sua origine filosofica risulta
oggi meno efficace che non nel passato, proprio quando la sua critica
dell’economia politica borghese sembra rappresentare il limite moderno per la messa in discussione di una mera ‘scienza borghese’, laddove
la requisitoria marxiana non lascia vie d’uscita. Le questioni critiche
di fronte alla filosofia speculativa restano centrali per una corretta interpretazione della scienza marxiana, del suo sorgere e del suo sviluppo contemporaneo a quello dell’economia e della scienza borghesi. E
la scienza marxiana può riassumersi nella considerazione della realtà
come una sorta di riproduzione del pensiero il quale poggia sulle leggi
della dialettica, lungo un processo che sfrutta le categorie economiche
come strumenti di spiegazione. Peraltro, è indubbio che con Karl Marx
l’economia si trasforma in una scienza storica, anche se parecchi economisti contemporanei rimproverano allo stesso Marx di avere trattato
l’economia alla stregua di una indagine filosofica. Con questa sorta di
dubbio l’analisi sul marxismo si è venuta svolgendo per tutto il XX
secolo, esercitando una certa influenza sulle diagnosi del presente nonché sulle tesi della storiografia più accreditata tra i sistemi storici.
Ma le principali difficoltà che si incontrano oggi nello studio del
marxismo sono quelle di trovarsi ben oltre la sua crisi, già manifestatasi da più di venticinque-trenta anni, dopo una sorta di dissoluzione e
di smantellamento teorico dei ‘classici’ originato, peraltro, dall’azione di una generazione di dirigenti politici socialisti e anche comunisti
che hanno accantonato – tra inevitabili res adversae – certi principi
e, ai quali, ha sicuramente nociuto quel mare magnum definitorio di
produzioni critiche e teoriche, filosofiche e anche sociologiche nonché politico-intellettuali che scaturivano da inesauribili revisioni dei
modi di ‘conoscere’ e anche di ‘applicare’ Karl Marx alle diverse
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realtà storico-concrete di una presunta e già avviata ‘modernità’ e nei
vari continenti. Anche la pratica dell’intellettualismo ha danneggiato
parecchi studiosi e nociuto ai maestri d’una intera generazione di giovani comunisti, tra i quali qualcuno si è trasformato in autentico paladino dell’anti-marxismo e dell’anticomunismo, come è il caso del
filosofo italiano Lucio Colletti scomparso nel 2001. Particolarmente
in Italia la crisi (il termine ‘crisi’ rimanda, ovviamente, ad un utilizzo
temporalmente diverso da quello praticato da Thomas Masaryk alla
fine del secolo XIX) si è sentita fortissima alla fine degli anni ’80 del
XX secolo, più che in Paesi della stessa Europa come, ad esempio,
la Germania o nei Paesi anglosassoni dove c’è stata, proprio ultimamente, una inaspettata ripresa degli studi marxisti, che si è venuta via
via consolidando anche oltre oceano sino ad un vero e proprio exploit
registratosi nel tempo. E lo stesso sembra valere per alcune zone del
mondo (il Maghreb, ad esempio) dove i processi di decolonizzazione
hanno favorito negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso lo sviluppo di
una duratura riflessione ideologica sul marxismo inteso come un efficace strumento di trasformazione storica. In Italia, invece, si è potuto
consumare, alla luce di una inveterata consuetudo, un deciso spirito
antimarxistico, diffuso tra le varie prese di posizione degli esponenti
di partito politico e gli intellettuali divisi tra il rifiuto e la sclerosi del
dogmatismo.
Fatto sta che il gran numero di revisioni ha condotto ad una vera
e propria liquidazione di certi concetti e categorie del marxismo classico; per farci un’idea in extremis, basterà pensare a quella sorta di
lontano sovvertimento delle idee marxiane messo in atto dal cosiddetto ‘lumpen-marxismo’ in seno al tardo-leninismo e allo stalinismo
dopo il marxismo ‘ortodosso’ e quello che nel corso dei primi decenni
del XX secolo Antonio Gramsci denominava ‘volgare’. Il marxismo,
in alcuni casi, subisce, inoltre, da tempo un processo di superficializzazione dei suoi reali compiti intellettuali, storici e razionali nonché
della sua intensa vicenda storiografica, così che al cospetto dell’epoca
presente, compaiono studi i quali evitando l’analitica ‘di periodo’ si
riqualificano via via come ampiamente risolutivi, almeno rispetto a
certe chiavi di lettura più generali del particolare; ciò accade anche ad
autori che hanno maturato una solida esperienza proprio di fronte allo
sviluppo della teoria economica marxista, come è l’esempio di Ernest
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Mandel di Introduzione al marxismo (trad. it., 1998), una ricognizione
fin troppo sintetica dello sviluppo del marxismo in Occidente in tutta
risposta al Trattato di economia marxista (trad. it., 1967) e ad uno studio più approfondito dello stesso autore, presentato anni prima con il
titolo di Introduzione alla teoria economica marxista (trad. it., 1992).
E l’elenco potrebbe continuare. Per certi versi, ma solo per alcuni, non
ci resterebbe che attingere addirittura dalla cultura di destra, e continuare a citare i libri di Armando Plebe che si interroga da quaranta
anni sulla credibilità o meno di Karl Marx.
Così il marxismo è potuto anche diventare un autentico arcipelago,
frastagliato come quello del socialismo che ha poi preso il nome di
‘socialismo reale’ e si è contraddistinto con quelle peculiarità che sono
generalmente rappresentabili in Occidente proprio dalle divisioni, che
hanno finito col ridurre in frantumi il movimento internazionalista originario – di entrambi – pur riconducendosi ad esso; e così sembra
accadere per il destino dei partiti comunisti: dominati dall’egemonia
delle ‘correnti’ e dalle dispute ‘nazionali’ sulla sopravvivenza del
socialismo in regimi economici liberali e democratici sino alle note
espressioni del maoismo in Asia, dell’eurocomunismo e dei movimenti rivoluzionari dell’Africa e del Sudamerica. Senza contare, appunto,
il lascito mitologico dei vari processi rivoluzionari avvenuti ai margini
dello sviluppo dell’odierno sistema capitalistico mondiale: dalla Corea (1948) al Vietnam nel 1954 e nel 1975, da Cuba (1959) all’Algeria
(1962), dalla Tanzania (1967) e Guinea-Bissau (1974) all’Angola e al
Monzambico (1975) per non citare le altre realtà storico-concrete che
hanno generato movimenti ispirati politicamente nel mezzo di acute
crisi internazionali (da quelle prodottesi negli anni ’80 del XX secolo
nei regimi capitalistici dell’Est europeo – dall’invasione russa dell’Afghanistan sino alla riunificazione tedesca – alle crisi sudafricane e del
Medio Oriente sino a quelle molto più recenti nel primo decennio del
XXI secolo della Tunisia, dell’Egitto e della Libia).
Peraltro, uno dei punti di contatto tra la realtà del comunismo nel
mondo Occidentale, il marxismo mondiale e le grandi sfide del mondo
contemporaneo, sembra si possa individuare oggi nell’esame corrente
dell’esperienza cinese. La Cina è importante perché non solo essa è
stata sempre accomunata allo sviluppo autoctono di una società comunista ma soprattutto perché è messa in relazione ad un perenne rischio
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di destabilizzazione del mondo. Lo stesso disagio dei molti analisti
occidentali dinanzi al suo impetuoso sviluppo economico nel secolo
XXI e, di fronte, al rischio di un collasso politico interno ne è la dimostrazione evidente. Né gli europei e né tanto meno gli americani possono comprendere bene perché la Cina va espandendosi senza correre
il rischio di disgregarsi dall’interno, almeno da un ‘punto di vista’ di
riconoscimento della stessa ideologia marxista e leninista come una
‘ideologia di guerra’.
E in proposito, andrebbe detto che l’emergere sulla scena dell’economia mondiale di Paesi illiberali come la Cina, rispetto agli Stati
Uniti che sino dai tempi di Alexis de Tocqueville rappresentarono un
modello di democrazia, non sta affatto a significare che si possa ripresentare la follia che avrebbe scatenato la Russia ai tempi di Stalin o la
Germania ai tempi di Adolf Hitler. In effetti, sarebbe assai complicato
trovare al giorno d’oggi un potere politico a livello mondiale che abbia lo stesso raggio di azione e di intervento di quello del capitalismo
finanziario, il vero mostro da combattere e da connettere con il declino del capitalismo tradizionale. Scriveva Nikita Khrustciov nel 1956:
“Oggi che possediamo una potente industria pesante, sviluppata in
tutti i settori, si è delineata la possibilità pratica di incrementare rapidamente non solo la produzione dei mezzi di produzione, ma anche la
produzione dei beni di consumo popolare […] Il partito sta facendo e
continuerà a fare del suo meglio affinché le esigenze degli uomini sovietici siano soddisfatte in modo migliore e più completo. Esso ritiene
che ciò costituisca il suo primo dovere verso il popolo” (in La politica
dell’Unione Sovietica, Rapporto al XX Congresso del PCUS, Roma,
Editori Riuniti, 1956, p. 77).
Di fatto, l’eredità del comunismo cinese fa pensare gli opinionisti
e gli studiosi del XXI secolo alla guerra, nonché ha dato luogo nel
tempo alla proliferazione di nuove teorizzazioni capaci di catturare le
paure dell’Occidente nei confronti del colosso cinese.
Queste teorie vengono anche disegnate sullo sfondo di uno scenario di sviluppo mondiale dell’economia, laddove i caratteri strategici
delle analisi seguono da vicino l’impianto di operazioni economiche,
tecnologiche e di previsione. Vada ad esempio per le tesi di autori
come Joseph Nye sul “sistema dei sistemi” o di Alvin Toffler sulle
varie “ondate” che hanno interessato la guerra dell’informazione, sino
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alle tesi di Francis Fukuyama sulle esportazioni della “democrazia liberale” nel mondo nonché come loro considerazione di fatto nel mercato globale (global market democracy), e, infine, alle tesi di Samuel
P. Huntington operate sullo scontro di civiltà, che vedrebbe come non
ultima la criminalizzazione dell’Islam. Di fronte a queste grandi proiezioni sul futuro mondiale il marxismo appare come una minima cosa,
come un residuato bellico di un’altra epoca già trascorsa.
La tendenza, invece, a considerare i limiti del marxismo nella sua
stessa capacità di produrre filosofie e utopie e/o ad immaginare delle
utopie reali e a porle all’ordine del giorno è tipico di una certa letteratura scientifica americana capace di discutere sino al XXI secolo sulla
sociologia marxista medesima e, comunque, si richiamano affermazioni di autori come Erik Olin Wright e Michael Burawoy divenute
abbastanza note negli Stati Uniti e in Occidente. Si vedano anche i
lavori di Nicholas Abercombie (1988), Ben Agger (1979), Bentel Ollman ed Edward Vernof (1982); inoltre studi di Flack e Douglas Kellner (1984); e La scuola di Francoforte, 1989 e 1995; gli scritti di Philipp Deen (2010), Margarete Kohlenbach & Raymond Geuss (2005),
Fred Alford (2002), John O’Neil (1986), quest’ultimo sul socialismo
scientifico; Dick Howard (2000), Bruce Grelle (1987), sul ‘marxismo
occidentale’ e, infine, Alex Callinicos (1983-1985), sul rapporto tra
il marxismo e la filosofia. Alcuni di questi testi, ricordano da vicino
quelli più nostrani di Armando Plebe (1972) o F. Fries, a cura di Enrico Colombo (1998) e Guido Carandini (2005).
La vitalità del dibattito intorno al marxismo risiede dunque nelle
sue proprie capacità di produrre sempre una alternativa alle vicende
correnti del capitalismo mondiale, così come affermano ancora nel
Terzo millennio certi gruppi di intellettuali e militanti schierati dalla
parte della critica serrata all’imperialismo in Occidente nelle contese mondiali. Ma il quadro odierno dell’economia mondiale è caratterizzato da una grande instabilità e da forti speculazioni della finanza
internazionale che si riversano sull’idea per cui basta lasciare fare al
mercato per ottenere il benessere desiderato e la riduzione del debito,
anche per quei Paesi del Sud del mondo che, nel frattempo, hanno
sperimentato il fallimento dei vari programmi di aggiustamento strutturale. Infatti, la stessa programmazione politico-economica, in molti
casi, mostrerebbe il bisogno di seguire regole completamente nuove,
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le quali potrebbero evidenziare dei forti cambiamenti rispetto al passato e/o rispetto al passato remoto. L’analisi marxiana dello sviluppo del
capitalismo maturo in Occidente sembra quasi inadeguata a confronto
con lo sviluppo odierno dei Paesi a più giovane capitalismo, nelle aree
del mondo più interessate all’intervento della Banca mondiale o del
Fondo monetario internazionale, ecc., sull’onda della grande ubriacatura ideologica promossa dal liberismo economico, più che dal liberalismo inteso come etica della storia e della libertà politica dei singoli
popoli e dinanzi agli Stati.
Di contro, Karl Heinrich Marx non avrebbe mai immaginato che
proprio la più attuale globalizzazione del debito avrebbe confermato
la necessità di aggiornare e perfezionare la sua teoria della pauperizzazione ma con l’aggiunta del capitalismo finanziario nonché di
nuove categorie di poveri da dovere confrontare con i vecchi ricchi
(quelli di sempre). E ancora, lo stesso Marx non avrebbe certo ritenuto valida al giorno d’oggi la risoluzione dei conflitti economici con
la presentazione di una certa casta di possibili finanziatori del debito,
senza che, peraltro, venisse prima dimostrata e accertata la partecipazione popolare e un aumento visibile della spesa sociale, al fine
di raggiungere obiettivi di sviluppo (voluti dal millennio) e non di
aumento del livello di indebitamento. Inoltre, non avrebbe mai pensato ai suoi tempi che l’uomo sarebbe arrivato a dichiarare l’acqua
una merce, un bene a rilevante costo di tipo economico, in una età di
privatizzazione e di incremento degli incentivi delle multinazionali.
L’acqua nel XXI secolo, così e come il petrolio nel secolo scorso:
un rapporto inverso nel mercato, tra una ricchezza in esaurimento
e l’alto prezzo per produrla e una ricchezza quasi inesauribile che
praticamente non ha prezzo; senza contare che quasi 900 milioni di
uomini, donne e bambini nel mondo non dispongono a tuttoggi di
acqua potabile, mentre circa due miliardi e mezzo di persone – circa
la metà della popolazione dei Paesi in via di sviluppo – vivono in
condizioni igienico-sanitarie praticamente non sufficienti proprio a
causa della carenza di risorse idriche. La discussione si sposta allora
sul terreno dell’equità e della sostenibilità, laddove certe innovazioni
possono rappresentare una soluzione di garanzia per il futuro soprattutto nel campo dell’energia. Il rischio è, per dirla con lo studioso
polacco Zygmunt Bauman, considerare utile l’ispirazione per una po17
litica chiamata a riscattarsi per evitare che la crisi globale degeneri in
una “guerra per le risorse”.
I primi seguaci di Karl Heinrich Marx e del marxismo dell’origine
non avrebbero mai pensato, inoltre, che il fenomeno dello sfruttamento minorile nel mondo si sarebbe affermato soprattutto in concomitanza con lo sviluppo di quei Paesi costretti a sottostare per anni ad
una certa politica colonialistica. In alcuni di questi Paesi nell’età della
globalizzazione la crescita demografica, il mutamento economico e
la corruzione intervengono sulla formazione di nuove schiavitù, le
quali evidenziano, a distanza, gli aspetti peggiori del feudalesimo e
del capitalismo. Tali contesti, risultano al tempo stesso conflittuali e
assai contraddittori, laddove si vanno affermando gli estremi di ogni
questione particolare. Il Pakistan e l’India, ad esempio, nati dal 1947
dal colonialismo britannico, hanno sviluppato oggi al loro interno il
diffuso fenomeno dello sfruttamento dei minori. I minori, in confronto
agli adulti, è poco probabile che pretendano salari più alti e condizioni
lavorative migliori, assoggettandosi così ad uno stato di particolare
abbrutimento che ricorda epoche ormai trascorse della storia moderna
tra i contemporanei. Alcuni dati, mostrano la gravità del fenomeno.
In tutto il mondo circa 250 milioni di bambini al di sotto dei 14 anni
sono costretti a lavorare; secondo alcune Organizzazioni Internazionali 120 milioni di bambini tra i 5 e i 14 anni svolgono lavori a tempo
pieno, cioè quasi il 50%. Molti di questi bambini vengono utilizzati
da imprenditori senza scrupoli per produrre articoli immessi poi sul
mercato globale; tra questi, 170 milioni svolgono un lavoro pericoloso
e 8 milioni sono ancora vittime di altre forme di sfruttamento.
Ma che senso ha studiare oggi il marxismo: in un’epoca che vede
la nuova socialdemocrazia riformare se stessa in ambiti dove sembra proprio che i marxisti facciano i ‘pesci nel barile’ per non fare
conoscere le proprie idee? Riferiti a questi ultimi, possiamo dire che
nonostante le opere fondamentali prodotte siano quasi del tutto sparite dalla circolazione, molti di loro ancora confidano nell’esclusività
anche metodologica di certe analisi storiche del capitalismo mondiale
e del mondo economico della produzione, incomplete – per la verità
– delle dispute odierne sul neo-liberismo dopo il liberalismo, sulla
modernizzazione e globalizzazione dell’economia ma non certo prive delle necessarie pretese di vantare delle precise chances sul rigore
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scientifico della sacrosanta previsione. Chi più dei marxisti ha subito
questa accusa! Forse gli stessi studiosi dell’origine, coloro ai quali è
stato imposto di ripercorrere la vicenda dello sviluppo del socialismo
scientifico dall’utopia alla scienza guardando gli eventi da un versante
più ristretto e comunque diverso da quelli prospettati al giorno d’oggi
dallo sviluppo del movimento socialista internazionale.
Il problema di scegliere da che parte iniziare quando si parla di
Karl Marx, più che del marxismo, è comunque un problema che attanaglia da sempre i teorici e gli storici dell’origine, soprattutto chi
si pone da un versante ricostruttivo di eventi che non hanno una unica spiegazione. Per esempio, alcuni studiosi del movimento socialista amano ripercorrere la vicenda dell’origine a partire dalla risposta
dei lavoratori e degli intellettuali allo sconvolgimento provocato sia
dalla Rivoluzione francese (1789) che dalla Rivoluzione industriale,
ammettendo in questo modo lo svolgersi di eventi di un certo tipo
senza tenere conto di altri. Chi punta allo studio dei fondamenti del socialismo potrà seguire allora la strada che dalla Rivoluzione francese
conduce alla rivoluzione europea del 1848 nonché seguire la vicenda
dei sessanta anni che precedono la Rivoluzione industriale, ignorando, ad esempio, i fondatori del populismo russo, e dunque evitando
di discutere su Alexander Ivanovich Herzen, o su Mikhail Bakunin
e Nikolay Gavrilovich Chernyshevsky, ecc. Per questi aspetti rimando a interpretazioni del socialismo come quelle forniteci da George
Lichtheim (1969, trad. it., 1970). E, a riguardo, gli esempi potrebbero
essere molto numerosi.
Indubbiamente, riflettere intellettualmente e razionalmente negli
scenari dell’attualità il pianeta-marxismo significa, invece, penetrarne
i momenti critici sin dentro gli ultimi decenni del secolo appena trascorso ma senza connetterli al punto di svolta del comunismo. Questo
sarebbe l’ennesimo grave errore. Infatti, i risultati raggiunti dai teorici
del marxismo in campo scientifico non sempre corrispondono alle sue
realizzazioni storico-politiche anche se factum infectum fieri nequit (e
ciò vale soprattutto per quello che comunemente si intendeva come il
‘comunismo marxistico’ o lo ‘stalinismo’, ecc.).
Il discorso del dover sapere a tutti i costi dove va a finire la storia sa
un po’ di vecchiume e, francamente, è un esercizio speculativo per certi filosofi della politica e, forse anche per quelli che hanno analizzato il
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passaggio dal marxismo al comunismo scientifico gridando la formula: “l’Ideologia divide, ma la scienza unisce” (U. Spirito, 1965).
La sociologia della storia del marxismo è probabilmente un’altra cosa: significa, innanzitutto, imbattersi sempre nei nessi della sua
genesi e in quelle trasformazioni dei movimenti critici che lo caratterizzano: revisionismo, sindacalismo e leninismo; e in secondo luogo,
vuol dire ammettere dal ‘punto di vista’ intellettuale (come faceva
l’autore tedesco Karl Korsch) che proprio il marxismo è capace di
rappresentare le questioni originarie del suo medesimo sviluppo teorico e storico meglio di qualunque altro approccio, compreso quello
sociologico. Di fatto, una reale esigenza di indagare sociologicamente
lo sviluppo del marxismo non si è mai anteposta al lavoro degli storici, i quali su di esso possono sbandierare il motto per cui: scientia a
rerum usu remota. Ma, in tutti i casi, sono emersi i seguenti approcci:
quelli auto-gestionari, tecnocratici, libertario, comunista, dei consigli
democratici, umanista, scientifico. E forse è con loro che è realmente nato il bisogno di impiegare meglio la sociologia dell’origine, per
esempio.
Le fonti del marxismo di fine’800-inizi’900 e le tante vicende del
suo radicamento nella storia del sistema capitalistico europeo e mondiale e nell’internazionalismo politico del movimento operaio organizzato conservano tuttora una grande importanza, come sottolinea il
lavorìo di accumulazione e selezione dei materiali prodotti negli ultimi
decenni dagli storiografi e dalla storiografia dello sviluppo economico
e politico in seno al marxismo: dagli italiani Emilio Sereni e Giorgio
Candeloro ai vari esponenti ‘interni’ Pierre Vilar e Albert Soboul o
Witold Kula, Evgenij Viktorovic Tarle e Eric John Hobsbawm, Samir Amin e Immanuel Wallerstein. Non meno rilevanti sono le analisi
delle categorie che conducono storici ed economisti come Maurice
Herbert Dobb – autore di Studies in the Development of Capitalism
– all’analisi dei rapporti tra lo Stato e il capitalismo moderno o di
scienziati dell’economia – che con lui collaborano negli anni ’50 del
secolo scorso – come, ad esempio, Piero Sraffa a confutare Karl Marx
(teoria del valore-lavoro); o alcuni teorici ad approfondire le varie dinamiche rilevate da John Atkinson Hobson, Vladimir Ilyich Lenin e
Rudolf Hilferding nonché l’analisi storica sulle crisi del capitale e sul
capitale monopolistico nei Paesi capitalistici più avanzati (dagli studi
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di Paul Malor Sweezy in poi), ecc. Ma anche i rapporti tra il marxismo
e la filosofia europea del ’900 sono di una importanza straordinaria, a
partire dall’eredità intellettuale (come si vedrà di seguito) del cosiddetto ‘marxismo occidentale’. E non solo.
Soprattutto gli anni ’30 del XX secolo, videro i marxisti in Europa
nutrirsi della dottrina dell’alienazione, che costituiva il momento culminante del passaggio tra Georg Wilhelm Friedrich Hegel e Karl Marx
a sicuro utilizzo dei teorici e degli scienziati sociali (i seguaci dei francofortesi) nonché quale risposta al buio pesto provocato dalla catastrofica esperienza del nazismo. In quegli anni gli scritti del giovane
rivoluzionario Marx furono riletti da schiere di intellettuali e risentirono degli influssi dell’esistenzialismo, che si presentava loro come un
‘clima’ culturale e filosofico e che sostituiva alla dialettica idealistica
o materialistica una dialettica fondata sull’uomo, inteso come singolo
individuo, isolato. Sui marxisti del tempo piombava il fantasma del
‘filosofo della crisi’ Soren Aabye Kierkegaard e la possibilità di condividere con i vari ‘esistenzialismi’ (atei, religiosi, positivi, nichilisti)
l’opposizione alla filosofia sistematica, la critica di ogni astratto razionalismo e la rivalutazione della singolarità e della irripetibilità della
esistenza umana; come in una tentazione, la fede in Karl Marx poteva
essere scambiata con quella di Abramo.
In quel tempo Jean Paul Sartre riuscì a produrre l’engagement, cioè
una specie di impegno che avrebbe dovuto riguardare da vicino gli
intellettuali e gli uomini di cultura. Molti dei sociologi contemporanei
formarono allora i loro interessi: qualcuno, come reazione al contatto
di testi filosofici e di tesi rivoluzionarie. Come dimenticare Sartre e
le sue forme marxisteggianti di fenomenologia; o il pragmatismo sociologistico di Nicola Abbagnano che oltrepassa le opere puramente
esistenzialistiche come Essere e tempo di Martin Heidegger e il Diario
metafìsico di Gabriel Marcel, i tre volumi della Philosophie di Karl
Jaspers e lo Spirito della libertà del russo Nicolaj Aleksandrovic Berdjaev. Anche una buona parte degli esponenti politici più o meno ‘organici’ nei partiti di sinistra degli anni ’60 e ’70 del XX secolo si formò allora, sempre più come antitesi ai processi ‘pseudo-rivoluzionari’
e sulla scia della liberalizzazione del socialismo europeo e mondiale,
fino al punto della lenta opera di ‘ripulitura’ del marxismo classico con
strumenti sostituiti o presi a prestito – di volta in volta – da Friedrich
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Wilhelm Nietzsche, dal già citato Martin Heidegger, Michel Foucault
ecc., durante gli anni ’80 del secolo scorso.
Una tale opera di baratto ‘post-moderno’ delle categorie ha finito
con il frantumare la sfera degli interessi teorici fondamentali, nella
quale riposavano le aspirazioni di parecchie generazioni di studiosi
del marxismo, i quali hanno lasciato a moderni e a contemporanei
l’eredità di praticare la strada razionale della ‘ricomposizione’ sino
ai tempi nostri mettendoli di fronte ai tentativi di connettere anche
l’analisi sociologica del presente a ciò che storicamente si è venuto
trasformando. Di fatto, dovremmo riconoscere che l’avere avvicinato
l’analisi scientifica di Karl Marx allo sviluppo dell’analisi sociologica
in Occidente non ha portato grandi frutti al granaio dei più coevi progressisti della storia, i quali ripetono convinti ma delusi in coro che:
“l’acqua passata non macina il mulino”; pertanto, le vecchie idee non
serviranno a nessuno, tanto più saranno passate sotto la ruota di pietra
un numero infinito di volte. Allo stesso modo, quelle teorie scientifiche
rivelatesi obsolete e poco utili, potranno essere abbandonate e riposte
nel dimenticatoio, rese alla storia del pensiero scientifico come un cumulo di materiali archiviati non dai profani ma dagli stessi specialisti
del settore, divenuti sempre più scaltri e abili nel liberarsene, dopo
avere profanato e saccheggiato: veri e propri predoni della memoria.
Ma soprattutto al giorno d’oggi, potremo continuare a chiederci
cosa ha accomunato per un certo periodo la comparsa della prima sociologia critica al marxismo scientifico, nel momento in cui alla storia
degli uomini di questo millennio sembra non corrispondere affatto il
desiderio di avviare solo scientificamente una teoria rivoluzionaria per
la nuova società, né quello di prevedere alternative ‘prescritte’, in un
certo senso, dai teorici (quali teorici?) di partito (quale partito?) come
delle risoluzioni nel breve periodo, ma quello, invece, di ripristinarvi
e/o potenziare la essenziale centralità della antica difesa e/o tutela della libertà dei popoli e soprattutto quella dell’uomo civile, del cittadino
oramai consapevole di fronte ai suoi stessi limiti a livello politico e
a quelli del potere politico nei suoi confronti, dell’individuo non più
accecato dall’odio e soltanto dalla fame, o privato dei diritti, perché
spogliato dalla pesante zavorra del miserabile bisogno e non più contrapposto (o contrapponibile, esso stesso, come un proiettile da fare
esplodere) alla società civile o allo Stato, in modo da risultarne, da un
22
lato, l’antagonista organizzato (o quello da dovere organizzare) oppure la ‘carne da cannone’, dall’altro.
Guardando l’uomo moderno e le sue battaglie per la liberazione
dall’antico carico del bisogno materiale e dalla dittatura dei despoti di
Stato (o di regime) che finiscono prima per affamare e poi per umiliare
le coscienze del proprio popolo fino a mandarlo in rovina, sembra proprio che la critica alla ideologia come prodotto metastorico, che Karl
Heinrich Marx aveva promosso all’inizio della sua vicenda di stretta collaborazione con Friedrich Engels, possa costituire un probabile
nesso non solo con il protrarsi di quella visione scientifica sviluppata
da alcuni sociologi della conoscenza e intellettuali marxisti nel corso
del XX secolo e/o con alcuni dei teorici della scienza della politica ma
anche con gli storici del pensiero filosofico e scientifico, compresi alcuni studiosi della storia del pensiero sociologico che hanno dedicato
più tempo di altri ai temi epistemologici del sorgere del materialismo
storico e della scienza marxista e, in particolare, all’esame della concezione dell’ideologia come un prodotto artefatto di realtà ‘concrete’
e soggette alla trasformazione storica e, dunque, anche intellettuale
dell’uomo, in autori europei come György Lukàcs e Karl Mannheim,
quest’ultimo accusato, peraltro, di professare una concezione spiritualistica.
Un particolare periodo di lavoro ad experimentum di Karl Marx
conduce all’affermazione per cui l’uomo è da considerarsi da sempre
un prodotto sociale: e, questa dovrebbe essere la risoluzione storica
del marxismo scientifico, il banco di prova dell’esclusivo rapporto tra
la riflessione (natura) e riproduzione umana (società). In altri termini:
il banco di prova della sua contemporaneità e scientificità autentica.
Scrivono Marx e Friedrich Engels in Die deutsche Ideologie (1845):
“Là dove cessa la speculazione, nella vita reale, comincia dunque la
scienza reale e positiva, la rappresentazione dell’attività pratica, del
processo pratico di sviluppo degli uomini. Cadono le frasi sulla coscienza e al loro posto deve subentrare il sapere reale”. Si tenga nel
debito conto che questa elaborazione della visione della coscienza degli uomini (l’ideologia e la cultura) e dei popoli confrontata al ‘reale’,
che per Marx esiste per tutti, è intesa proprio come un risultato dalla
necessità di instaurare rapporti con altri uomini, stante l’instaurarsi di
un processo scientifico di constatazione della mera esistenza di uo23
mini e di quelli stessi nei popoli. L’uomo finisce per pensare in un
certo modo perché in un certo modo vive la condizione di vita reale,
e non può viverne un’altra, che non sia pienamente condizionata a
livello consapevole dall’attività che egli stesso è costretto a porre in
essere per garantirsi una qualche sopravvivenza di ordine materiale.
Non è un caso, a nostro avviso, che Karl Marx scrisse L’Ideologia
tedesca proprio quando fu cacciato dalla Francia e si trasferì a Bruxelles, vivendo così da ‘espulso’ o da ‘rifugiato’ l’elaborazione provvisoria e affascinante della sua futura dottrina, iniziatasi con l’opera
Manoscritti economico-filosofici del 1844 e completatasi, per molti
versi, con lo scritto del 1845, la cui prima Parte costituisce forse la più
ampia esposizione organica del materialismo storico come scienza,
nell’esplicita rottura con l’antropologismo metastorico feuerbachiano
che ancora inficiava i Manoscritti del 1844. Non è nemmeno un caso
che la dottrina di Karl Marx acquistasse solidità dal ‘punto di vista’
metodologico proprio nel bel mezzo di eventi che mostravano la vita
e l’esistenza di questo uomo, così e come essa era e si veniva svolgendo, anche dal versante della sua stessa organizzazione fisica. Non per
nulla Marx poté definire, nel corso della sua intera vicenda umana, la
‘morale’ come una sorta di dimostrata “dignità corporale dell’uomo”,
il quale avrebbe potuto salvaguardare il proprio corpo fisico in vista
del solo bisogno di sopravvivere, attraverso l’unico modo consentito
dalla propria sorte e appartenenza di classe: il lavoro e/o il lavorooperaio. Troppo determinismo?
Questa seria abitudine allo svelamento del mondo reale contraddistingue l’impegno intellettuale del filosofo, economista e uomo politico Karl Marx nel periodo della sua prima formazione, senza che si
possano fare particolari riferimenti di tipo biografico all’educazione
ricevuta nella sua agiata famiglia di origine, una famiglia borghese
israelita. Almeno, questa non è la sede per questa tipologia di analisi
ex post, molto in voga tra gli scrittori moderni e i cultori del socialismo scientifico che ancora scrivono su riviste ‘schierate’ o sui giornali
ma anche tra molti degli storici che hanno discusso delle origini del
pensiero marxiano arricchendo i loro libri con avvenimenti distorti
dell’infanzia e della vita precaria di Marx; un po’ come capita al giorno d’oggi tra molti di quegli storici della scienza che imbellettano i
loro lavori scientifici più con le vicende della vita terrena dei perso24
naggi che esaminano, che non con lo sviluppo della teoria o delle loro
ricerche empiriche più importanti, date un po’ per scontate, magari
dopo il trascorrere dei secoli. Oppure, per altri versi, per ciò che accade a quegli studiosi e storici delle materie scientifiche che finiscono
col rappresentare lo sviluppo scientifico ed epistemologico della loro
disciplina con le vicende dei più noti rappresentanti di quell’area di
interessi o, comunque, con la storia individuale di un autore o di un
altro, ecc., così che, alla fine, la storia della sociologia come scienza
diventa la storia dei sociologi, la storia della psicologia sperimentale
quella degli psicologi e così via.
In sostanza, Karl Heinrich Marx va soggetto, come pochi altri personaggi della storia del pensiero filosofico e scientifico Occidentale,
alla deformazione storica, soprattutto quando si cerca di aggiungere
alla sua vicenda terrena ciò che invece andrebbe sottratto al cospetto
di una più seria e circostanziata indagine scientifica. Ciò non capita, ad
esempio, per grandi autori accomunati alle svolte teoriche e rivoluzionarie del marxismo da alcune scuole di pensiero del XX secolo: non
vale né per Georg Wilhelm Friedrich Hegel, il padre della dialettica
dello Spirito Assoluto, né per Sigmund Freud, il padre fondatore della
psicoanalisi, e nemmeno per tanti altri che sarebbe più difficile affiancare al marxismo in Occidente. A volte, si ha quasi l’impressione che
più il tempo passa, più sembra che la vita di Karl Marx finisca per contare più della sua rigorosa impostazione teorica, della sua previsione
sulla fine naturale del capitalismo e sul suo superamento in un sistema
socio-economico egualitario, e così via discorrendo. Sarebbe questo il
motivo per cui qualcuno è arrivato a pensare che la più grande utopia
di Marx (non nel senso di quella critica condotta con Friedrich Engels al ‘socialismo utopistico’) derivi soltanto da aspetti pratici della
sua quotidiana esistenza; in pratica, da ciò che avrebbe vissuto ogni
giorno. In fondo, non sembra una tesi sbagliata, anche se i testi scritti
di Marx si occupano più dell’origine dell’esistente che dell’esistere
immanente.
In tutti i casi, il mondo storico e quello sociale dell’uomo-storico
(perché è di questo che vorremmo trattare, più nel dettaglio) risultano
essere interessi primari che Marx cercherà di sviluppare sin dai tempi
della soppressione della “Rheinische Zeitung” (“Gazzetta Renana”)
avvenuta per intervento del governo prussiano nel marzo del 1843 e
25
della quale lo stesso Marx era divenuto il direttore nel 1842, superando
così nella pratica del giornalismo politico i limiti della sua formazione
di hegeliano di sinistra. In quel periodo, poteva affrontare praticamente con partecipe radicalismo democratico i più concreti problemi sociali della regione, accogliendo di seguito e approfondendo la lezione
di materialismo di Ludwig Feuerbach, prima di impegnarsi in quella
minuziosa Kritische der Hegelschen Reichsphilosophie (Critica della
filosofia hegeliana del diritto pubblico), cui, trasferitosi a Parigi con la
moglie Jenny von Westphalen, aggiunse una Introduzione, pubblicata
nel 1844 sui «Deutsch-Französische Jahrbücher» (gli «Annali francotedeschi»), la quale segna – anche in questo caso abbastanza concretamente – la sua netta acquisizione di una prospettiva rivoluzionaria e
comunista, maturata nel contesto reale della sua vita di esule politico
convinto e intellettuale impegnato. Fu infatti a Parigi, che Karl Marx,
soprattutto per influenza del suo amico e compagno Friedrich Engels,
stimolato alla fervidissima partecipazione alla vita politica dei gruppi
socialisti, poté approfondire le sue conoscenze di economia e anche di
storia sociale, approdando così alla stesura teorica di quei Manoscritti
già citati in precedenza.
Anche immediatamente dopo questo noto volume del 1844, molto discusso in sede storico-sociologica durante il XX secolo, Marx
tende a mostrare razionalmente un punto di svolta della sua impostazione metodologica, il quale concorre a liquidare ogni dubbio sul
prosieguo della sua analisi dello sviluppo e delle finalità della realtà
storico-sociale. Di nuovo balza agli occhi il suo immediato rapporto
con l’evidenza dei fatti che dovrebbero finire per svolgersi in modo
assai congeniale, sia nei confronti del mondo reale concreto, che in
rapporto allo sviluppo logico del suo ragionamento. La conquistata
saldezza metodologica si riflette, peraltro, nella polemica confutazione di Pierre-Joseph Proudhon, la Misère de la Philosophie, che è del
1847, e nel celebre Manifest der kommunistischen Partej (Manifesto
del partito comunista) scritto con Engels nel 1848 e pubblicato a Bruxelles per incarico della Lega dei comunisti. Inoltre, non per nulla,
Marx partecipava attivamente al movimento rivoluzionario del 1848
europeo, assumendo anche la direzione a Colonia, in Germania, della
“Neue rheinische Zeitung” (la “Nuova Gazzetta Renana”), che fu un
organo di stampo democratico-progressista. A riguardo dei due testi
26
appena citati, va detto che se il Manifesto costituisce una sintesi abbastanza matura della concezione comunista di quel mondo che per
Marx è comunque una conseguenza dello sviluppo storico del mondo
reale, la Misère de la Philosophie, ancora è largamente prigioniera
degli schemi ricardiani, pur costituendo soltanto il primo passo sulla
strada della elaborazione della nuova scienza rivoluzionaria dell’economia, che avrà i suoi testi classici, anch’essi ampiamente discussi
in sede storico-sociologica ed economicistica, in Zur Kritik der Politischen Oekonomie (Per una critica dell’economia politica), che è
del 1859, e in Das Kapital (I volume, 1867); II e III volume, editi da
Friedrich Engels, nel 1885 e nel 1894.
Ma torniamo brevemente alla vicenda umana dell’uomo storico
Karl Marx. Con la vittoria della controrivoluzione nel 1849, egli fu
costretto nuovamente a riprendere la via dell’esilio, stabilendosi con la
famiglia a Londra, dove passò in gravi ristrettezze economiche il resto
della sua vita materiale, sostentandosi con la collaborazione al “New
York Tribune” e ad altri giornali e per i generosi aiuti del suo benefattore e compagno Friedrich Engels. Fu a Londra che dedicò i suoi maggiori sforzi allo studio e all’approfondimento dell’economia politica.
Compiuto, intanto, tra il 1850 e il 1852 un profondo bilancio storico
delle lotte di classe in Francia e nella Germania, dalle già citate rivoluzioni del 1848 alla vittoria della reazione, Marx rinnovò la sua adesione di intellettuale alla pratica politica, richiamato dalla fondazione
nel 1864 dell’“Associazione Internazionale dei lavoratori”o “Prima
Internazionale dei lavoratori”, della quale redasse il primo Indirizzo e
una grande quantità di dichiarazioni, di risoluzioni e di manifesti vari.
Inoltre, non andrebbe mai dimenticato che certi sviluppi fondamentali dell’ideologia comunista enunciata nel noto Manifesto si ritrovano
in questi anni, a seguire, nel saggio sulla Comune di Parigi (1871),
esaltata quale primo concreto e fecondo esempio di democratica dittatura del proletariato, e nella severa critica del 1875 del riformismo e
statalismo del programma elaborato al Congresso di Gotha, che diede
poi vita al Partito Operaio Socialista di Germania (Kritik des Gothaer
Programms, pubblicato da Friedrich Engels nel 1891).
L’uomo-storico Karl Marx non cessò mai il suo impegno rivolto
all’organizzazione del partito operaio in una fervente attività che lo
vide sempre coinvolto in favore della difesa degli interessi delle classi
27
meno abbienti, il vero motore della sua versione rivoluzionaria della storia degli uomini, destinata ad operare una “sintesi suprema” di
quelle contraddizioni storico-concrete che ne avevano determinato il
limite più grande, in un’epoca nella quale soltanto una parte degli uomini poteva sopravvivere alla propria umiliazione, dovendo procurarsi con il lavoro manuale l’emancipazione dalla fame e dalla carestia. E
non è che questo discorso valesse poi in modo palese per tutti i seguaci
vari dell’epoca delle teorie di Marx; molti dei quali vicini all’elaborazione di un comunismo di tipo messianico come, ad esempio, Wilhelm
Weitling, il teorico della Lega dei Giusti. Questi accusava Karl Marx
di non essere altro che un intellettuale borghese assai lontano, invece,
dalle miserie del mondo e, comunque, dalla vicenda storica degli operai esuli e soprattutto degli emigrati politici tedeschi, quando in realtà,
il periodo di Bruxelles fu seguito dalla nuova fuga della famiglia Marx
verso Londra, dopo che qualche decennio prima si era consumata la
prima vera fuga dell’esule dalla Germania (verso Parigi e Bruxelles,
stavolta), documentata da una serie di lettere convincenti dello stesso
Marx ad Arnold Ruge sin dal mese di gennaio del 1843.
È abbastanza ovvio che nel caso di Karl Marx certi parallelismi
tra la produzione materiale e quella di istanze intellettuali all’interno
di un processo reale di produzione della vita concreta, avrebbero un
senso diverso da quello di analizzare soltanto le reali istanze di bisogni
particolari che assillano gli uomini che, peraltro, non elaborano affatto teorie scientifiche durante la loro vita materiale e non ne sentono
l’esigenza. Vogliamo dire che, alla fine, ciò che vale per Karl Marx,
varrebbe anche oggi ma in situazioni determinate e storicamente date,
essendo, in un altro senso, il dramma dell’uomo, quello di dovere produrre – comunque – la propria esistenza, anteponendo la sua coscienza
alla nascita di bisogni particolari, dinanzi a tutta una serie di ostacoli,
diversi uno dall’altro e non sempre uguali per tutti. Così, accade, come
nel racconto del Vangelo secondo Matteo, che la domanda che insegue
l’uomo-storico venga sempre a ripetersi: “Infatti quale vantaggio avrà
un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita?”
(16, 25-27).
Quando la storia dell’uomo si mostra per quello che è, e non per
quello che dovrebbe essere, secondo criteri diversi dai meri criteri
di sussistenza che ne costellano la vicenda terrena, allora, il dramma
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che sembra compiersi dinanzi al mondo degli uomini appare sempre
lo stesso, è cioè visibile; esso riesce a mostrare tutta la sua essenza cruda, senza la quale la storia non sarebbe un evento pratico che
si sviluppa in particolari situazioni, e non in altre. Per questo, molti
analisti dello sviluppo umano e del progresso delle società moderne,
sostengono che certe regolarità della storia dell’uomo, si riscontrano
ovunque e in ogni tempo: povertà, fame, carestie, malattie e pandemie, guerre. Basta aspettare che il ‘ciclo’ si ripeta e venga a colpire la
società umana che intanto si è andata trasformando e formando con
le sue drammatiche ‘ricadute’ epocali: ciò che determina le continue
differenze tra sviluppo e sottosviluppo, soprattutto in certe zone arretrate del mondo.
La storia moderna dei contemporanei, infatti, mostra realtà sociali
crudeli, soltanto in certe aree geografiche del mondo nelle quali proprio attualmente anche un lento sviluppo ha ceduto il passo allo sfruttamento delle risorse naturali e della manodopera di un numero imprecisato ma crescente di ‘nuovi poveri’ senza strategia di partito né teoria
politica, esclusi in molti casi dalla rappresentanza politica perché non
inseriti – di fatto – nella cittadinanza mondiale delle nuove forme di
capitalismo maturo, come il capitalismo dei finanzieri e il capitalismo
delle banche; soggetti, quest’ultimi, alla deriva, in casi estremi, tra isole e continenti diversi nonché facile argomento per studi longitudinali
e per analisi sociologiche e statistiche avanzate/attuali del mutamento
della struttura sociale e politico-culturale di Stati ‘emergenti’, entro le
nuove Nazioni del mondo e, soprattutto in seno a quelle che intendano
seguire il protrarsi di certe dinamiche del processo di globalizzazione
tra sviluppo e nuove opportunità del mercato del lavoro dall’Africa
all’America Latina, dai Paesi islamici a quelli est-asiatici e, come già
detto, alla Cina. Il prezzo da pagare per queste Nazioni, in caso di rifiuto della logica dominante, è quello di trovarsi ‘tagliate fuori’.
In questo senso, il processo di globalizzazione non rappresenta altro che un fenomeno di disorganizzazione moderna del capitalismo,
l’ennesimo ‘banco di prova’ non soltanto della teoria marxista della
dissoluzione dello Stato borghese o della teoria scientifica dello sviluppo economico ma anche di quei tradizionali modelli politici e organizzativi di Stato-Nazione elaborati dalla teoria sociologica politica
e anche da teorici classici, a prescindere, per la verità, dalle differenze
29
ideologiche, così e come è evidente nel corso del XIX e XX secolo.
Una nuova sfida per gli studiosi e per gli scienziati sociali del capitalismo maturo nel nuovo mondo globale, sembrerebbe proprio quella
di riuscire ad elaborare modelli di ricerca che riescano a chiarire la
relazione esistente tra globale e locale, anche con degli strumenti teorici già utilizzati nel passato e forse riproponibili nel presente; per
esempio, lo studio ‘vecchio’ e ‘nuovo’ delle disuguaglianze tra i popoli, l’esame delle migrazioni nel mondo contemporaneo e i fenomeni di
immigrazione dal Sud e dal Nord del mondo.
Dal ‘punto di vista’ della teoria sociologica, il crollo delle frontiere temporali e spaziali di un tempo ha provocato un nuovo interesse
verso l’analisi dei rapporti di mercato e/o dei nuovi mercati esistenti
nonché verso le reti di comunicazione non più relegate a occupare dei
luoghi specifici nella storia dei popoli, laddove è avvenuta su larga
scala la diffusione di una pluralità di sfere sociali dipendenti da interazioni molto più estese e generalizzate. Proprio dinanzi a queste
ultime, il continuo confronto tra una rigorosa analisi marxista della
società globalizzata nella storia moderna tra i contemporanei e l’analisi sociologica del suo sviluppo irregolare e soprattutto dei rischi ai
quali essa va incontro, risulterebbe molto fruttuoso e significativo,
anche per coloro che dovrebbero essere ormai in grado di utilizzare (anche) degli strumenti aggiornati di indagine scientifica, sia per
quanto riguarda le complesse trasformazioni storiche, economiche e
politico-sociali, sia per quanto concerne lo studio delle differenze e
di nuove forme di disuguaglianza esistenti tra gli uomini/donne e i
popoli migranti del millennio, in modo che l’analisi sociologica di
certe realtà possa utilizzare ciò che essenzialmente ha imparato dalla
scienza marxista.
Non è escluso che di fronte a tutta una serie di rapide evoluzioni
storiche e concrete dello scenario mondiale, il marxismo e la sociologia intese come vere e proprie ‘scienze’ sorte dalla società europea
degli intellettuali, anche come prepotenti rimedi di tipo riflessivo allo
sviluppo impetuoso dell’età industriale a partire dall’èra degli scambi, possano costituire due vecchie e desuete ‘alternative’ critiche e
permanenti nella/della memoria dell’Occidente. Versioni teoriche e
anche epistemologiche della dialettica delle trasformazioni storiche
delle società e, per certi versi, prime avvisaglie di una crisi strutturale
30
del mondo storico e sociale dell’uomo inserito in processi economicoproduttivi più moderni, elaborate da più di un secolo addietro, ma in
modo da non risultare complementari una all’altra, secondo gli errati
canoni interpretativi di molti autori (occidentali e non) e di seguaci
improvvisati (soprattutto tra gli scrittori contemporanei) sempre più a
corto di prospettive metodologiche e generaliste valide nel campo delle scienze storiche e sociali, come nel campo degli studi sullo sviluppo
politico delle stesse società che andrebbero poste sotto esame.
Di fatto, anche tra i teorici classici, il più coinvolto in una moderna
teorica della globalizzazione, dovrebbe sicuramente risultare ancora
una volta Karl Marx, come hanno già sostenuto alcuni storici del pensiero sociologico che non ci sono più, come Raymond Aron, ad esempio, o autori ancora oggi in voga come Zygmunt Bauman, noto per
la sua iniziale vocazione di sociologo marxista oramai sbiadita dopo
quarantacinque anni e oltre di politiche culturali ostili e contrarie.
Ancora Karl Marx dunque e, più che i sociologi e politologi ‘accademici’ divenuti, invece, ormai troppo scettici nei confronti delle analisi condotte in nome del marxismo scientifico, ma analisti ben pagati
e ben vestiti, sponsorizzati dalle case editrici più note e da associazioni/fondazioni politiche progressiste nonché consulenti di opinione dei
giornali, della radio e di televisioni pubbliche o private e – in alcuni
casi – anche dei governi (penso allo scomparso Ralph Dahrendorf,
ad Antony Giddens e al già citato Zygmunt Bauman), ecc. sulle varie
tipologie di modernizzazione, laddove il processo stesso di globalizzazione aumentando il numero dei mercati destinati ad essere coinvolti nel commercio e negli scambi di tipo economico, ha aumentato il
potere della antica classe dei capitalisti, proprio come la scoperta delle
Americhe e l’apertura delle nuove rotte di navigazione hanno stabilito
– infine – un nuovo ‘mercato mondiale’ per tutta l’industria moderna
(Karl Marx, Selected Writings, 1977).
A questo proposito, andrebbe anche ricordato che molte delle diagnosi sul capitalismo di tipo manageriale (che in questa epoca che
stiamo vivendo ha superato se stesso cambiando i suoi connotati) operate da quei sociologi ‘accademici’ e da politologi di rango delle società democratiche e sviluppate, sanno un po’ di scoperta dell’America,
così che alcuni studiosi meno appariscenti ma molto più ferrati a livello teorico, storiografico e scientifico, sentono il bisogno di ancorare
31
sempre la loro riflessione sistematica sulle trasformazioni economiche
e politico-sociali in atto, ad una teoria basilare delle contraddizioni
esistenti nella storia dello sviluppo umano produttivo, come quella
marxista, senza dimenticare, dunque, né i progressi compiuti da altre
teorie né l’origine sostanziale della perenne questione: “sviluppo e crisi del capitalismo”.
La differenza tra gli uni e gli altri nasce dalla domanda di chiarezza
e dal rigore metodologico e teoretico che alcuni cercano di praticare
da sempre e che altri hanno abbandonato, soprattutto di fronte alla
struttura storica della previsione scientifica e della spiegazione. Soltanto alcuni sono portati a credere nel marxismo come scienza generale e a perseguire i suoi fini soltanto analitici, emancipando il ‘punto
di vista’ di altri osservatori dei processi di sviluppo economico del
capitalismo maturo, a ridosso di regole costanti del ragionamento e di
una proverbiale ricerca di fonti dalle quali potere attingere. Un’altra
differenza tra gli uni e gli altri è quella per cui lo studioso del marxismo scientifico che crede e dà corso a quella analisi, non ne mette in
discussione la contemporaneità né compara la teoria di Marx con la
teoria sociologica o sociologico-politica corrente, ad esempio; anche
perché, non avrebbe senso, almeno dal ‘punto di vista’ della più accreditata storiografia marxista occidentale.
I sociologi ragionano storicamente in modo assai diverso, perché
finiscono per dubitare sulle stesse indagini di sociologia economica
che conducono, sollevando dubbi a carattere dicotomico intorno al
metodo, alle loro teorie più generali e ai loro schemi paradigmatici
ecc., laddove riescano a produrne qualcuno di attendibile e non soltanto comparabile, come di norma avviene soprattutto all’interno di
ricostruzioni descrittive della storia del pensiero sociologico e/o ricostruzioni di storia della sociologia. I sociologi marxisti più moderni,
gli scienziati sociali, più che i teorici marxisti, sono spinti a chiedersi cosa sarebbe successo se Karl Marx avesse fumato senza bisogno
di qualcuno che gli comprasse i sigari, trovando così l’unica risposta
possibile, perché irrazionale, al loro bisogno di trovare comunque una
‘scienza’ affine con cui fare procedere la propria immaginazione, senza rinunciare agli antichi principi che “fanno muovere la storia”. Di
fatto, il principio della povertà e della miseria delle genti ha funzionato sempre! Ma cosa c’entra la scienza?
32
In realtà, il marxismo come scienza rigorosa possiede dal tempo di
Marx l’unità metodologica, che ha elaborato in seno a se stesso e ai
propri canoni di pensiero; cosa che ancora i sociologi non hanno bene
sperimentato, risultando più che altro dei ‘cacciatori di paradigmi’ e
non più dei potenziali produttori di svolte paradigmatiche a livello storico, teorico e scientifico. Nella direzione del rigore marxiano possono
risultare utili, oltre al volume di Roman Rosdolsky, Genesi e struttura
del “Capitale” di Marx (1971) gli studi di Helmut Reichelt, The logical structure of the capital concept nonché di Isaak llyrich Rubin,
Studies on Marx’s theory of value del 1974.
In questo senso, la sociologia sembra avere esaurito da quasi un
secolo la propria storica rivoluzione, quella che chiamiamo ‘classica’
o dei classici, proprio mentre i sociologi contemporanei più attrezzati
ripetono di sapere inventarne un’altra al momento giusto e di sapere
‘come si fa’, avendo imparato da altre discipline che sono divenute
‘scienze’ autonome e che non hanno problemi nemmeno a connettersi
con la loro memoria, così e come farebbero i sociologi (quali sociologi?) se ce ne fosse bisogno. Ma di fronte a loro stessi, come dinanzi
al marxismo scientifico, questi ultimi sono disposti sempre di più a
cedere ad una certa forma di saggezza, almeno da un certo ‘punto di
vista’ metodologico, più che seguire l’istinto della ribellione, come
succede ai grandi della storia in certi momenti ben precisi della vicenda sociale degli uomini. Così è che la sociologia come scienza
dei sociologi, dinanzi a certe problematiche, finisce per pensare come
pensava il grande economista Edward Hallett Carr, il quale diceva,
almeno dal suo ‘punto di vista’, che di fronte a certi temi-problemi è
preferibile avere ragione in termini vaghi anziché sbagliare con tutta
precisione.
Peraltro, la verità è che la sociologia evita negli ultimi tempi, soprattutto in Italia, di sviluppare in seno a se stessa un dibattito sulle
proprie residue potenzialità rivoluzionarie, per così dire, che poi sarebbe a dire, riflettere bene sulla propria inarrestabile crisi paradigmatica, nel campo delle ‘scienze’. Molti allora, tirando in ballo il marxismo e la teoria dello sviluppo economico del capitalismo, sostengono
che allo stesso modo, altre grandi teorizzazioni del mutamento storico
e sociale hanno mostrato alla fine il loro limite e le loro inevitabili e
profonde crepe irrazionali. Ciò, in parte, tenderebbe anche a giusti33
ficare l’incompletezza di tesi derivabili dalle analisi probabilistiche
più attuali, condotte alla presenza di una certa numerosità di variabili
che andrebbero ovviamente considerate nel contesto della spiegazione di fenomeni sempre più complessi. L’argomento clou di parecchie
di queste tesi-finali è, alla fine, quello per cui nessuno può sfuggire
al rapido evolversi della situazione. Situazioni nuove diventano assolutamente imprevedibili, non valutabili e non gestibili teoricamente:
questo è l’argomento portante per sconfessare oggi le grandi teorie
della trasformazione storica delle società moderne, le grandi idee
come quelle nate in seno al marxismo, appunto. Con che cosa potremo
sostituire il vecchio Marx? Crediamo fermamente che la risposta non
possa che riguardare i ‘marxisti’ dell’ultima ora (quali ‘marxisti’?) e
nessun altro.
Alcuni vuoti signori opinionisti tra gli scienziati sociali, infatti, dimenticano troppo spesso che la forza propulsiva del marxismo
scientifico europeo riuscirebbe a motivare da sola la propria esistenza
nella storia concreta degli uomini, più di quanto possa, invece, accadere per il positivismo filosofico e per il positivismo sociologico o per
l’evoluzionismo e/o per altre rivoluzioni paradigmatiche del pensiero
scientifico occidentale del XIX secolo. Anche il socialismo scientifico
legato a queste due correnti di pensiero del XIX secolo e, in particolare alla seconda, ha finito per miscelarsi e disperdersi al vento, soprattutto dove l’esigenza di molti fu quella di recepire uno dei più grandi
cambiamenti epocali come dominio esclusivo di alcune ‘scienze’ non
ancora formate e, non solo con il patrocinio di intellettuali più o meno
entusiasti del grande slancio verso il processo di modernizzazione della società, ma anche di quelli prestati poi alla politica e ritornati ai
loro studi soltanto come sostenitori di uno schieramento contrapposto
ad un altro; così e come accadde tra quei filosofi scientifici e gli stessi scienziati che dibattendo dello stesso argomento, hanno finito con
indebolire e dissolvere quel potenziale rivoluzionario che avrebbero
potuto esprimere e che, invece, si è rivoltato contro le ‘scienze’, favorendo così la tradizione teologico-speculativa e conservatrice. Di
alcune di queste rivoluzioni intellettuali e scientifiche dell’età moderna non si trova più nessuna traccia, nemmeno tra quelle nuove generazioni di sociologi meta-teorici o, meglio, di quegli storici del pensiero
scientifico che volessero riportarle alla luce per ripristinare un dibat34
tito anche epistemologico sull’età di fondazione della sociologia tra
le ‘scienze’, che pure c’è stato e che indubbiamente ha costituito una
autentica risposta oppositiva ai concetti del vecchio mondo, in favore
di una nuova disciplina dell’uomo e delle società umane, assai lenta a
definirsi chiaramente.
Un altro tipo di esemplificazione potrebbe derivare da quell’interesse ‘esistente’ che i cultori di storia del pensiero sociologico hanno sempre mostrato nel compiere accostamenti tra il pensiero di Karl
Marx e le posizioni critiche e successive di Max Weber analista della
religione, più per specificare i limiti del primo che per esaltare i pregi
del secondo, seppure rimandando quel confronto all’analisi dello sviluppo capitalistico in generale. Certe analisi hanno anche prodotto dei
lavori interessanti, come è il caso del sociologo Derek Sayer (1992).
Altri studi hanno affrontato il problema dal ‘punto di vista’ di formulazione di teorie economiche a confronto con l’età globalizzata.
In effetti, Karl Marx e Max Weber hanno esercitato il fascino di una
analisi metodologicamente severa del capitalismo occidentale, nonché
strumentale ai fini storico-sociologici; vengono in mente alcune tesi
per cui lo stesso marxismo andrebbe, alla fine, considerato addirittura
come una sorta di sociologia (L. Goldmann, 1955).
In tutti i casi, anche per molte delle teorie politiche del XVIII e XIX
secolo accade che non se ne trova più traccia alcuna. Ma fare a meno
di Henry de Saint Simon, di Auguste Comte o di Herbert Spencer non
è la stessa cosa che fare a meno di Karl Marx e delle sue teorie più radicali e rivoluzionarie. Farne a meno, in alcuni casi, sarebbe come dire
che la rivoluzione del marketing e della pubblicità del XX-XXI secolo
non ha provocato nessun radicale cambiamento nella cosiddetta civiltà
dei consumi e/o comunque nel modo di rapportare il consumo allo
stesso uomo consumatore nel mercato. Anche qui, peraltro, i sociologi
dei new media obietterebbero che l’analisi teorica e scientifica di Karl
Marx non solo non è più praticabile per sondare i consumi e la loro
natura bieca in modo da scoprirne una ‘dialettica’ da utilizzare poi
criticamente, ma è addirittura controproducente ai fini dello sviluppo
di una nuova fisionomia dell’uomo consumatore, adattatosi ai nuovi
bisogni della sua specie imposti proprio dalla grande espansione del
mercato, bisogni assolutamente diversi da quelli che caratterizzavano
l’epoca di Marx e dei teorici marxisti della prima ora. In questi casi, il
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ricorso al marxismo scientifico come analisi della società contemporanea da parte di sociologi e scienziati della comunicazione, sarebbe
quindi la conferma di una sorta di retrocessione storica dell’analista
nei confronti dell’uomo moderno, oggetto di studio, di fronte all’impossibilità di superare il mercato come luogo esclusivo di emancipazione collettiva, umana e sociale, e non soltanto come luogo di sfruttamento della forza lavoro e di abbrutimento delle masse di lavoratori
sottopagati e di proletari senza futuro.
Nessuno vorrebbe tornare a parlare delle misere condizioni degli
uomini e dei salariati all’epoca di Karl Marx senza lo svelamento della
teoria di Marx e la sua pesante requisitoria contro l’economia liberale
classica; questo è il punctum saliens. Ma chiediamoci, invece, quanti
dei più giovani scienziati sociali (come gli antropologi, gli psicologi
sociali e gli economisti) e anche alcuni tra i sociologi ‘accademici’
odierni, magari quelli più interessati alle vicende del sapere sociologico nella storia delle ‘scienze’ che, in realtà, a coltivare solo un orticello
di prestigio e di potere (quale potere?), amerebbero tornare ai fasti della sociologia degli autori europei di un tempo, da Max Weber a Georg
Simmel e da Émile Durkheim e Vilfredo Pareto a Talcott Parsons e da
questo a Charles Wright Mills e così via, in modo da potere rileggere
la storia del pensiero sociologico scientifico. Obiettivo: tentare di fare
ricomprendere tutto l’arco di quel dibattito generale e razionale avviatosi sulla sociologia come scienza, oggi riposto nel dimenticatoio,
oscurato dalle frequenti dispute ‘territoriali’ del potere accademico e
dalle beghe degli ‘specialismi’, laddove una sorta di nuova ‘sociologia dei sociologi’ appare quasi svuotata della antica acribia, nonché
di quella sua grande capacità di produzione teorica e soprattutto della
capacità delle ‘Scuole’ di generare una peculiare funzione critica di
scienza sociale moderna tra i suoi contemporanei, destinata come è ad
occuparsi di tutto e di niente per bocca dei suoi più noti ‘specialisti’.
Pensate se Karl Marx e Friedrich Engels avessero avuto ai loro
tempi la radio o la televisione o un sistema editoriale come quello
attuale, e capirete la differenza tra il marxismo e la sociologia da intendersi come ‘scienze’. Cercate e troverete la risposta.
Inoltre, per farci semplicemente una pallida idea di alcune notevoli differenze di ordine culturale esistenti tra l’odierna versione del
marxismo e la nuova versione della sociologia come scienza critica o
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‘scienza della società’ (quale società?), basterà leggere articoli di riviste teoriche e soprattutto di cultura politica italiane come «Marxismo
oggi» o «Utopia socialista», «MicroMega» e «Italianieuropei», ecc.,
ad esempio; oppure leggere articoli e saggi monografici delle riviste
tedesche, inglesi e irlandesi che circolano tra gli universitari più ‘creativi’ di Bilefeld, tra quelli della London University, la York University
o a Cambridge e nei College di Cork, dedicate ad una dilagante ‘filosofia’ di tipo macroeconomico diffusa anche tra gli scienziati sociali
ancora ispirati all’analisi marxista di tipo classico (cfr. Leon Trotsky,
1928), soprattutto dopo avere usufruito dell’utilizzo di teorie storiche
e sociologiche come quelle del Sistema-Mondo, le teorie della dipendenza, del melting pot, da venticinque anni a questa parte, sino a quelle
più recenti sull’economia del mondo globalizzato. Anche l’irruzione
della macrosociologia, ossia dello studio dei sistemi sociali di grandi
dimensioni, ha reso quasi confinanti l’analisi delle società economiche
e quelle dello Stato-Nazione, soprattutto nei termini più attuali di un
più vasto allargamento del raggio d’azione degli studiosi più interessati a rivalutare la teoria (A. Giddens, 1984).
Come scrissi qualche anno addietro, nel 2004, il processo sembra
ormai sempre più irreversibile. Il marxismo può diventare soltanto la
rilettura più ampia e dettagliata delle sue ‘crisi’ irrazionali: una perenne proposta di ripensamento nel lungo periodo. Ma al giorno d’oggi
sembra proprio gli si addica, in ogni luogo, il sinonimo della più grande delle sue incapacità: non universo generi hominum, sed etiam singulis providere (che significa, il provvedere non solo al genere umano,
nel suo complesso, ma anche ai singoli individui).
G.R.
Dipartimento di Scienze sociali ed economiche
Sapienza - Università di Roma
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