La deflagrazione delle masse.
Come siamo diventati una società individualizzata
Cesana 2011
Oreste Aime
Dalla società di massa alla società degli individui
Siamo ancora stupiti e quasi non ci crediamo: veniamo da un periodo lungo, per quanto sia chiamato il
secolo breve (1914-1989), in cui protagoniste sono state le masse – i popoli e i loro eserciti, le classi, le
razze, i partiti – e ci troviamo a vivere in una società degli individui. Il modo di vivere, l’ethos, è ormai
profondamente individualizzato ma la memoria e le strutture politiche e sociali portano ancora il segno di
una forma collettiva di esistenza. Nell’epoca della globalizzazione, quando in teoria dovrebbe regnare
l’istanza dell’universale, non solo si fa sentire con forza il locale, ma più profondamente – almeno in
occidente – si impone l’individuo e il suo modo di pensare, agire, relazionarsi. La caduta del muro di Berlino
ha travolto definitivamente il collettivo e ha dato spazio a ciò che già da tempo, per quanto in modo latente,
covava altrove, a partire dagli anni Sessanta.
Sulla scena – da protagonista – è ritornato l’individuo. Non è un’invenzione recente, ha una lunga storia che
spesso si confonde con quella di altri (ad es. la persona); riappare dopo un lungo periodo di eclisse che
sembrava averne decretato la sua scomparsa. Il suo ‘ritorno’, come sempre avviene in questa vicenda dei
corsi e dei ricorsi storici, si presenta come fascinoso e portatore di novità. La novità è indiscutibile e tocca
tutte le dimensioni della vita: dalla politica alla vita privata, dall’esperienza religiosa agli orientamenti etici,
dal pensiero all’azione ‘sociale’. La novità consiste soprattutto nel fatto che coinvolge l’intera società e non
solo alcune sue componenti: la società degli individui (N. Elias) o la società individualizzata (Z. Bauman).
La società di massa
Da dove veniamo? Il secolo breve, soprattutto negli anni 1914-1960, è stato un’epoca caratterizzata dalla
società di massa. La sociologia ha utilizzato questa dizione con diversi significati – “la categoria della società
di massa ha subito una trasformazione radicale: da arma spirituale della critica reazionaria della democrazia
si è convertita in arma spirituale della critica progressista del capitalismo” (Pellicani). La possiamo utilizzare
per evidenziare l’impatto della rivoluzione industriale nelle sue prime due ondate sulle società occidentali e
la conseguente crescita demografica già nell’Ottocento, ulteriormente contrassegnate nel periodo indicato
dall’avvento dei totalitarismi (comunismo, fascismo, nazionalsocialismo) e dall’influenza crescente dei
nuovi mezzi di comunicazione (stampa, cinema, radio). Questa influenza, con sue specifiche caratteristiche,
è documentabile anche nel mondo delle democrazie, tanto che si può utilizzare la dizione per tutte le società
occidentali di quello stesso periodo. A tutto ciò si deve aggiungere la mobilitazione creata da due guerre
mondiali, in cui furono impegnate per la prima volta quantità enormi di soldati, nell’immobilità delle trincee
o nella dinamica della guerra di movimento.
Compare contestualmente un nuovo tipo antropologico: l’uomo-massa, esaltato o denigrato secondo i punti
di osservazione, spesso polarmente orientato alla funzione del leader carismatico. A tutto si è ricorso per
esercitare il dominio sulle folle apparse sul proscenio della storia: l’apparato statale, la scuola, l’esercito, la
fabbrica, la scienza, la tecnologia, l’industria culturale. Così si è realizzato un ideale della modernità: la
società scientificamente amministrata. Secondo la classica interpretazione della Scuola di Francoforte le
differenze tra stato liberale e stato fascista sono irrilevanti, dal momento che perseguono lo stesso obiettivo:
il dominio impersonale della ragione strumentale su tutti i settori della vita, ovvero avviano un esercizio
universale di dominio biopolitico. Anche ad uno sguardo meno connotato ideologicamente quel tempo e
quella società appare ovunque contrassegnato dalla presenza della massa o, come si diceva allora, delle
masse.
Cronologia del cambiamento
Quando e come è avvenuto la trasformazione della società di massa? Proviamo ad elencare alcuni momenti
importanti, senza poter ricostruire in interezza questa complessa genesi storica .
Con il 1945 crollano i regimi fascista e nazionalsocialista. La sconfitta militare è anche una sconfitta
ideologica (con residui in Spagna e Portogallo). Nasce la guerra fredda, tra democrazia liberale e democrazia
popolare.
Finita la ricostruzione postbellica, anche l’Europa adotta il modello di sviluppo avviato negli Stati Uniti nel
dopoguerra, l’american way of life. Con il decennio 1960-1970, si passa da un’economia di sussistenza alla
società dei consumi; in quegli stessi anni scoppia la contestazione giovanile, che esprime in modo
contraddittorio la tensione tra massa e individuo.
La crisi petrolifera dell’inizio anni Settanta rallenta la crescita economica, avvia in Giappone il passaggio dal
fordismo al toyotismo introducendo la rivoluzione tecnologica nella produzione e nei servizi. In quegli stessi
anni si incomincia a parlare di fine delle ideologie (già annunciata da D. Bell nel 1960). Due slogan per
riassumere tendenze di quegli anni: “Tutto è politica” e, subito dopo, “Il privato è politico” – gli slogan
segnalano una transizione.
Gli anni Ottanta segnano l’avvento del trionfo del neoliberismo con R. Reagan e M. Thatcher, vedono
avanzare la trasformazione tecnica sotto l’egida del computer, registrano il crollo del mondo comunista nel
1989 e il trionfo del modello democratico occidentale che di lì in poi tende a imporsi ovunque, con la sola
resistenza della Cina, dei paesi islamici e di alcuni stati dittatoriali.
L’avvento di internet suggellerà quel processo che va sotto il nome di globalizzazione. Con gli anni Novanta
del Novecento il passaggio dalla società di massa a quella individualizzata in Occidente è compiuta.
Con tempestività P. Bourdieu aveva fatto notare che nell’enorme cambiamento che si stava attuando
qualcosa rimaneva identico, il sistema di dominio. Grazie ad un raffinato gioco la nuova forma sostituisce “la
seduzione alla repressione, le pubbliche relazioni alla forza pubblica, la pubblicità all’autorità, i modi
morbidi a quelli forti, coltiva l’integrazione simbolica delle classi dominate con l’imposizione di nuovi
bisogni, più che con l’inculcazione di vecchie norme” (P. Bourdieu, La distinction. Critique sociale du
Jugement, Minuit, Paris 1979, pp. 158-159). È anche vero che cambia il quadro generale e cambiano gli
attori sociali. Di questo dobbiamo dire qualcosa.
L’ individualismo
Che cosa si deve intendere per individualismo? È opportuno richiamare qualche elemento di tipo storico e
concettuale, per evitare i molti fraintendimenti a cui il termine si presta, non tanto per garantire un’innocenza
al fenomeno, quanto per comprenderlo davvero nella sua realtà.
Per evitare i fraintendimenti più grossolani non bisogna identificare l’individualismo con l’egoismo,
l’asocialità, il menefreghismo – atteggiamenti diffusi anche in una società di massa. L’enciclopedia Treccani
dà la seguente definizione: “Ogni dottrina etica, sociale o politica che ponga a suo fondamento i diritti
dell'individuo”. È una definizione corretta dal punto di vista teorico ma che trascura il modo d’essere del
soggetto nella società e della società stessa nei suoi orientamenti fondamentali.
Origine del termine
Individuum è la traduzione (secentesca – in teologia naturale) del termine greco atomon (indiviso, non
divisibile, uno in se stesso). Inizialmente designa il singolo ente, particolarmente del mondo fisico. Venne
poi sostituito da atomo e il termine individuo passò nel 1700 a indicare il singolo essere umano.
Il termine individualismo compare in Francia agli inizi dell’Ottocento e diventa corrente grazie all’uso che ne
fa A. de Tocqueville (1805-1859) per descrivere la cultura di quel nuovo paese che sono gli Stati Uniti
(l’America) che egli esplora con grande acume politico e antropologico ed espone in La democrazia in
America (1835-40).
Significati di individualismo
Nel frattempo il termine si è caricato di molti significati che è opportuno elencare. Allorché si usa il termine
di individualismo in senso specifico si può intendere nelle seguenti accezioni (nella sintesi fornita
dall’Enciclopedia Garzanti di Filosofia, 1993, pp. 536-537):
I. metodologico (teorizzato da C. Menger, Ricerche sul metodo delle scienze sociali e dell'economia in
particolare, 1883): gli individui hanno una priorità esplicativa sugli insiemi e sulle istituzioni sociali; la
spiegazione dei fenomeni sociali vanno ricondotti alle motivazioni e alle azioni degli individui.
È stato ripreso da F. Hayek e K. Popper in acceso dibattito con gli olisti (per i quali la natura delle
spiegazioni dei fenomeni macrosociali è irriducibilmente relazionale).
L'individualismo metodologico è nuovamente interpretato come la priorità esplicativa degli individui su
insiemi e istituzioni senza che ciò comporti la negazione della realtà di questi ultimi.
II. ontologico: il mondo sociale è composto esclusivamente di individui; istituzioni e collettivi sono solo
concetti che indicano semplicemente insiemi di individui, da non ipostatizzare. La tesi è sostenuta da Hayek
e Popper a favore dell'individualismo metodologico.
III. etico: priorità assiologica degli individui sulle istituzioni, cui si richiamano le teorie dei diritti e il
liberalismo. Specifico di questa dottrina non è la considerazione degli individui come fini della società,
quanto il divieto della violazione dei diritti individuali, anche se compiuta in nome di un bene maggiore e per
più persone.
IV. politico: è implicato dall'individualismo etico, ma non lo implica; stabilisce come elemento centrale per
una dottrina politica gli individui egualmente liberi e dotati di bisogni, desideri e interessi. Il suo problema
consiste nel trovare regole o processi spontanei per regolare interessi e garantire coordinazione e
cooperazione.
Ne furono oppositori Hegel, che lo criticò come una malattia europea moderna, responsabile di aver reciso i
legami del singolo con il suo popolo. Critiche analoghe provennero da ambienti conservatori (De Maistre,
Burke) e rivoluzionari (C.-H. de Saint-Simon). All’individualismo si oppose la sociologia di E. Durkheim (la
società è un’entità per sé con sue proprie leggi, non è la somma dei comportamenti dei singoli).
Ha trovato recentemente in Una teoria della giustizia (1971) di J. Rawls una riformulazione particolarmente
riuscita, che ha generato un amplissimo dibattito.
Fenomenologia dell’individualismo contemporaneo(nuovo individualismo)
L’individualismo ha una lunga e contrastata storia, specialmente in età moderna. Non ce ne occuperemo in
questa sede, dedicandoci invece a tracciare una descrizione di quanto avviene ai nostri giorni, cercando di
tenere distinti per quanto è possibile il fenomeno dalla sue interpretazioni.
È opportuno ricordare che è stato suggerito di denominarlo nuovo individualismo per distinguerlo da forme
storiche precedenti. Il fenomeno è al tempo stesso visibile e occultato. Lo occultano la globalizzazione, la
presenza massiccia e l’influenza dei mass-media, l’esplosione delle grandi città: per certi versi la società di
massa non è scomparsa, ma ha subito una profonda trasformazione, tanto che se ne può parlare, secondo
l’intuizione lungimirante di N. Elias come di società degli individui, superando lo schema dicotomico di
comprensione che si basava sull’opposizione tra società e individuo. I due termini non sono più contrapposti,
come in gran parte del dibattito ottocentesco e novecentesco, ma intrecciati: la società suscita il fenomeno
dell’individualizzazione e gli individui, da parte loro, contribuiscono a delineare la società in cui si collocano
con i tratti di questa novità. Non mancano certo fenomeni di massa – le varie cangianti mode lo ricordano –
ma il protagonista non è più la massa bensì l’individuo.
Intanto si possono distinguere tre termini ricorrenti nel recente dibattito: individualismo, narcisismo,
relativismo.
Negli USA, dove sembra per primo il fenomeno si sia manifestato, i termini coniati per definirlo sono molti:
chiusura della mente americana (A. Bloom), me generation, narcisismo, l’io minimo (C. Lasch). La saldatura
teorica più importante sembra essere quella tra individuo e narcisismo (quasi in alternativa a precedenti
tendenze prometeiche dell’individualismo stesso). In genere le analisi sono molto critiche e denunciano il
fenomeno in termini di grave lesione del tessuto morale e culturale della società americana.
Un aspetto di questa analisi deve essere ritenuto importante. L’individualismo porta spesso con sé uno forma
di relativismo, che C. Taylor riesce a sintetizzare in questa argomentazione, che può valere come tesi tipo:
“Ciascuno ha il diritto di sviluppare la propria forma di vita, fondata sulla sua propria percezione di ciò che è
realmente importante o ha realmente valore. Gli esseri umani sono chiamati ad essere fedeli a se stessi, e a
ricercare la propria autorealizzazione. In che cosa questa consista, ciascuno, uomo o donna, deve in ultima
analisi deciderlo da sé. Nessun altro può, o deve, tentare di dettarne il contenuto” (Disagio della modernità,
18).
Forse non in questa forma così rigorosa, ma si deve ammettere che il ragionamento trova tanti paladini, con
un quasi inevitabile corollario che s’appella alla tolleranza. Anzi si potrebbe scegliere il luogo comune della
tolleranza, non la tolleranza vera, per decifrarvi quello dell’autorealizzazione individualistica come
presupposto inespresso.
È innegabile che l’individualismo ha a che fare con il narcisismo e il relativismo, ma è altrettanto importante
tenerli distinti; l’individualismo è esposto ad entrambe le versioni, ma è un fenomeno più complesso sia nella
storia che nella teoria.
La prima descrizione dettagliata e critica del nuovo individualismo è di Z. Bauman, anche se poi è diventata
un po’ ripetitiva. Il suo volume di saggi, La società individualizzata (2001), presenta l’individualismo sotto
diversi profili. Si tratterà di verificare quanto questa lettura fascinosa sia adeguata o no alla comprensione
analitica e complessiva (o si debba preferire un criterio diverso, ad es. la società del rischio, come fa U.
Beck).
L’intelligenza dell’approccio sta nel collegare l’individualismo a quella che egli stesso ha definito la
modernità liquida. Il contesto è profondamente mutato rispetto ad una modernità neppure tanto lontano nel
tempo. “Il tipo di modernità che costituiva il bersaglio, ma anche l’impianto cognitivo, della teoria critica
classica ci appare retrospettivamente «pesante» rispetto alla modernità «leggera» contemporanea; ancor
meglio, «solido» anziché «liquido» o «liquefatto»; «condensato» anziché «capillare», «sistemico» anziché
«reticolare»” (131).
Rispetto alla precedente, la modernità più recente presenta due tratti distintivi. È crollata la fede che la strada
che percorriamo abbia un fine, ed è subentrata ovunque l’incertezza. Il secondo cambiamento rovescia il
rapporto gerarchico tra società individuo, “è la deregolamentazione e la privatizzazione dei compiti e dei
doveri di modernizzazione” (135). Il progetto riguarda non più la società giusta nel suo complesso ma i diritti
umani, cioè individuali.
A questo punto la diagnosi di Bauman è puntuale e decisiva: “Siamo tutti individui, adesso, ma non per
scelta: per necessità” (136). L’individualizzazione è un destino.
Tanto si allarga in maniera imprevista il campo di possibilità offerto a tutti, quanto si richiede a ciascuno di
portare senza sostegni questa avventura. “L’individualizzazione conferisce ad un numero crescente di uomini
e di donne una libertà senza precedenti di sperimentare, ma (…) assegna anche il compito senza precedenti
di tener testa alle sue conseguenze” (). Di fronte a questa offerta affascinante, resta un interrogativo
inquietante: l’individuo ha le risorse per realizzare questo destino che gli è imposto o dovrà soccombere?
Il cambiamento tocca anche singoli aspetti della vita. Le trasformazioni del lavoro, dalla stabilità alla
flessibilità, disintegrano le appartenenze di classe che hanno a lungo contato per l’identificazione dei
lavoratori e a sostegno delle lotte sociali. La flessibilità, in tutte le sue applicazioni, isola il lavoratore – e il
cittadino – in se stesso, addossandogli le responsabilità dell’eventuale riuscita o no della sua vita. La vita
lavorativa si satura di incertezze e l’incertezza è “un potente fattore di individualizzazione; essa divide
anziché unire e, poiché non è possibile dire chi può risvegliarsi in questo o quello scompartimento, l’idea di
«interessi comuni» diventa sempre più nebulosa e in definitiva incomprensibile. Paure, ansie e risentimenti
sono fatti in modo tale da dover essere sopportati in solitudine; non si sommano, non si coagulano in una
«causa comune», non possiedono un «destinatario naturale». Tutto ciò fa dell’atteggiamento solidaristico una
tattica non più razionale e suggerisce una strategia di vita del tutto diversa da quella che condusse un tempo
alla nascita delle organizzazioni difensive e militanti dalla classe lavoratrice” (35-36).
Cambia il modo di sentire il mondo. La globalizzazione come nuovo modo di vivere vale solo per alcuni che
possono muoversi nel mondo come se restassero a casa loro; per tutti gli altri la necessità è quella di ritrovare
le radici in un mondo conosciuto che consenta una qualche forma di appartenenza rispetto al mondo anonimo
disegnato dal codice economico e culturale ‘universale’. Locale si oppone a globale, e locale vale per forma
di individualizzazione (solo apparentemente collettiva).
Che fine fa la libertà in capo alle richieste della modernità? Oggi si deve misurare con la dura concorrenza
della sicurezza: tra libertà e sicurezza, si è portati a scegliere la seconda, a fronte di una crescita smisurata di
paure, reali o indotte. “La paura dello straniero, la militanza tribale e la politica dell’esclusione nascono tutte
dalla corrente polarizzazione tra libertà e sicurezza. Ciò avviene in quanto per larghi settori della
popolazione questa polarizzazione significa impotenza e insicurezza crescenti, che impediscono in pratica
quello a cui il nuovo individualismo inneggia in teoria, promettendolo senza riuscire a mantenerlo: la
genuina e radicale libertà di costituire e affermare se stessi. Non vanno sempre più polarizzandosi solo il
reddito e la ricchezza, la speranza di vita e le condizioni dell’esistenza ma anche – e forse in maniera più
decisiva – il diritto all’individualità” (126).
Non cambiano soltanto le condizioni abituali di vita, ma le stesse categorie del pensiero e dell’azione sociale.
L’idea di progresso da forza propulsiva per l’intera umanità, ora si restringe a orizzonti privati, senza regole.
“È deregolamentato nel senso che la valutazione del contenuto migliorativo di una particolare «novità» è
liberamente impugnabile ed è destinata a rimanere controversa anche nel momento in cui le scelte sono state
fatte. Ed è privatizzato nel senso che ci si aspetta che ogni uomo e ogni donna ricorrano, individualmente,
alla propria intelligenza, alle proprie risorse e ala propria operosità per innalzarsi a una condizione più
soddisfacente, lasciandosi alle spalle tutti gli aspetti sgradevoli della loro condizione presente” (145).
La povertà, ristretta a parametri solo economici, non è più un problema ma una minaccia, tra le più gravi.
“La vista dei poveri tiene a bada e in riga i non poveri” (150). Allo stesso modo l’istruzione è costretta a
rinunciare ai suoi parametri costitutivi e a modellarsi sui criteri di mera resa economica.
In questa precarietà generale viene a collocarsi il tema assillante dell’identità, all’intersezione di
globalizzazione e individualizzazione. “In altre parole, il dilemma che tormenta uomini e donne di oggi non
è tanto come conquistare le identità scelte e come farsele riconoscere dalle persone vicine, quanto piuttosto
quale identità scegliere e come rimanere all’erta e vigili in modo da poter fare un’altra scelta nel caso che la
prima identità venga ritirata dal mercato o spogliata dei suoi poteri di seduzione” (186). Anche l’identità
diventa precaria e si può dissolvere improvvisamente e senza preavviso.
Anche due aspetti così personali da sempre come il sesso e la morte non sfuggono alle strategie di
individualizzazione. L’erotismo, liberato da ogni controllo normativo, viene immerso nell’ansia generale e
nell’erosione delle relazioni. Per quanto riguarda la morte, “per la prima volta gli esseri umani mortali
riescono fare a meno dell’immortalità e sembrano non curarsene” (312). Sono venuti meno i ponti verso
l’immortalità, la nazione e la famiglia. Al posto dell’immortalità e della fama, si spaccia la notorietà
nell’evento caduco ed effimero: “Nel futuro ognuno sarà famoso per 15 minuti”, aveva profetizzato Andy
Wahrol. L’istante diventa il metro per l’arte così come per la vita. Il valore supremo diventa un vita lunga e
sana, anche se poi si è soggetti ad una preoccupazione ossessiva del corpo.
Che fare? Per reggere a questa mutazione si potrebbe fare appello alle risorse etiche. Ma l’impresa diventa
improbabile. Per Bauman è quasi impossibile fare il passaggio dalla morale – chiusa nella privatezza – al
mondo che è e resta fuori della sua portata. Lo mostra il caso della finanza. “Non essere più responsabili
delle conseguenze è il beneficio più ambito e apprezzato che la nuova mobilità conferisce al capitale
fluttuante e svincolato dalla dimensione locale” (237).
Anche la politica si trova nella medesima condizione di impraticabilità, perché dovrebbe ritornare all’agorà,
cioè ricreare uno spazio pubblico di discussione, quasi scomparso perché invaso dalla vita privata: i talk
show televisivi ne sono la vetrina quotidiana. Ovunque si ripete la stessa lezione: “ciascuno di noi è alle
prese con le stesse preoccupazioni e deve combattere da solo, attingendo alle proprie risorse fisiche e mentali
e con l’unico aiuto di portentosi congegni che gli occhi esperti sono in grado di scorgere sugli scaffali dei
grandi magazzini” (258). La valvola di sicurezza per gli individui e per la loro società diventano i consumi.
La società degli individui viene a coincidere con la società dei consumatori: attraverso il consumo si
promette quella libertà che tutto il resto tende a restringere e ad annullare.
Nella misura in cui la descrizione fatta è corretta e attendibile, l’influsso dell’individualismo non tocca solo
la società ma l’individuo stesso. L’individualismo è un fenomeno sociale che ha un profondo ripercussione
sulla strutturazione psichica dei soggetti e del loro sé sociale, del sé che è in relazione con gli altri. La
privatizzazione della società si trasforma in una privatizzazione del sé.
“Sempre più spesso gli individui traducono – nel senso di proiettare i propri desideri, reimmaginare il Sé, con
la S maiuscola – l’esperienza vissuta nella società, nel lavoro e anche nella vita privata in fatti riconducibili
all’autoregolazione, all’autogestione e all’autosufficienza. Di conseguenza, il sé individuale, estendendo il
suo potere sovrano all’ambiente sociale, liquida la solidità e la sostanza del mondo riconducendolo a un
terreno privatizzato di necessità e desideri. … “Privatizzato” potrebbe essere tradotto approssimativamente
con l’imperativo: “Non contare a lungo su nessuno ed evita il sostegno o l’aiuto degli altri, perché la
sopravvivenza dipende dalla capacità di cavarsela da soli, cambiare costantemente partner e reti e pensare
solo a se stessi”” (Elliot, Lemert 32).
La traduzione dei problemi collettivi più ampi (ad es. sanità, criminalità) in pericoli e rischi privati è
suggestiva e fuorviante. In ogni caso il rischio diventa fonte inesauribile di ansia. Il costo emotivo
dell’individualismo è molto alto (e le vie di fuga ne sono il sintomo) e forse all’origine di ciò che è stato
chiamato “l’epoca delle passioni tristi” (M. Benasayag, G. Schmit).
Le interpretazioni
La descrizione della modernità recente – chiama anche postmodernità, surmodernità, tarda modernità,
modernità liquida – ha privilegiato l’individualismo. Si potrebbe obiettare che non è l’unico filtro possibile e
neppure il più importante. È perciò indispensabile passare al vaglio questa con altre letture, che pur non
disdegnando l’argomento, di fatto lo prendono in considerazione solo in funzione di qualche altro aspetto.
Nella valutazione complessiva si dovrà capire se viene assunto per quello che è, oppure diluito o
misconosciuto.
Elliot e Lemert distinguono: l’individualismo manipolato (Scuola di Francoforte), il privatismo isolato (gli
americani: da A. Bloom a R. Sennet, da C. Lasch a R. Bellah); l’individualizzazione riflessiva (A. Giddens,
U. Beck). Abbiamo preferito non raggruppare le varie teorie, lasciando ad ogni autore la sua specificità. La
diversità di letture ci può aiutare ad un giudizio più articolato anche se meno sicuro e conclusivo.
1) La descrizione or ora fatta da Bauman si pone sulla scia di quella della teoria critica della Scuola di
Francoforte. Le differenze di analisi si giustificano per il mutato oggetto e per una insolita sottolineatura
etica che nell’opera di Horkheimer e Adorno era molto meno esplicita. Se la teoria critica osava svelare la
dialettica dell’Illuminismo, cioè la contraddizione della modernità che promette emancipazione ma realizza
una reificazione universale, un duro controllo sociale sull’individuo, la modernità liquida, di cui si occupa
Bauman, mentre fa perno sull’individuo lo condanna al naufragio.
La situazione è contraddittoria: “Paradossalmente, l’‘individualità’ è legata allo spirito della folla: è
quest’ultima ad imporla” (Vita liquida, 4). L’esigenza di individualità – originalità, autenticità - tiene
occupati di giorno e svegli di notte, in una contraddizione sia logica che pratica. “In breve l’individualità, in
quanto atto di emancipazione personale e di auto affermazione, appare gravata da una aporia congenita, da
una contraddizione insanabile. Essa ha bisogno della società sia come culla che come punto d’arrivo.
Chiunque cerchi la propria individualità dimenticando, respingendo o sottovalutando tale sobria/oscura verità
si candida a una condizione di frustrazione. L’individualità è un compito che la società degli individui
assegna ai suoi membri – un compito individuale, da svolgere individualmente, sulla base delle proprie
risorse individuali. E tuttavia questo compito è autocontraddittorio e votato alla sconfitta: anzi impossibile da
svolgere” (7).
La situazione che di per sé è lacerante è sostenibile solo perché la società fornisce i mezzi per convivere con
questa impossibilità, nonostante i continui fallimenti, in particolare con l’esaltazione di una vita liquida,
continuamente cangiante, senza ancoraggi, immersa nel flusso e nel miraggio gratificante dei consumi.
2) Un inno all’individualismo viene invece da una nazione e da una cultura ad esso tradizionalmente ostile
come la Germania. L’elogio è di U. Beck autore di I rischi della libertà. L’individuo nell’epoca della
globalizzazione. Il suo intento è quello di studiare e valorizzare il fenomeno dell’individualizzazione come la
vera chance per la libertà oggi.
“Con l’affermarsi della modernità – nelle questioni piccole come in quelle grandi – il posto di Dio, della
natura, del sistema viene preso dall’individuo che conta solo su se stesso. Con il tramonto delle vecchie
coordinate risorge proprio quella questione dell’individuo che era stata maledetta e salutata con giubilo,
dichiarata santa e colpevole, e che molti avevano dato per morta” (15). Ciò che era preteso da pochi e solo a
loro riservato, viene esteso o anche imposto a tutti. Siamo di fronte ad una democratizzazione
dell’individualizzazione e alla sua istituzionalizzazione.
Beck non si nasconde che l’individualismo abbia una doppia faccia e dunque ci sia una libertà rischiosa. È
tuttavia convinto sia possibile dare coesione a società altamente individualizzate. Individualizzazione non è
atomizzazione. “Laddove la vecchia società «evapora», bisogna reinventare la società. In questo caso
l’integrazione sarà possibile solo se non si cercherà più di reprimere la sollevazione degli individui, ma, al
contrario, ci si porrà in relazione a essa consapevolmente e, movendo dalle pressanti questioni relative al
futuro, si cercherà di forgiare nuove forme di legami e di alleanze politicamente aperte: integrazione
proiettiva” (33).
Non è affatto vero che ci sia una caduta dei valori, come sostengono nostalgici e conservatori. Anzi questo
tipo di discorso nasconde la paura della libertà! Le nuove tendenze giovanili indicano come stia avvenendo il
mutamento. In particolare “questa società non può più essere «guidata» da norme morali o spirituali proprio
in quanto essa è individualizzata. Con l’imporsi della propria vita come forma «normale» dell’esistenza,
l’autorità morale si trasferisce negli individui stessi. La conseguenza non è una totale assenza di morale, ma
una morale progettata e giustificata su base individuale, anzi, una continua ricerca di questa nuova forma
individualistica della morale” (84). La socializzazione è autosocializzazione: e insieme ad una morale
individuale si darà anche un Dio personale.
3) Charles Taylor è stato uno dei primi a studiare l’individualismo, anche se se n’è occupato più dal punto di
vista filosofico che sociale. Dal punto di vista storico, ritiene che sia frutto dell’eredità romantica. Ciò che
allora era patrimonio di alcune elite ora è diventato un atteggiamento di massa, molto diffuso.
Una fase nuova inizia dopo il 1950 ed egli la chiama l’era dell’autenticità. La base teorica sta nella
convinzione che è diritto di ognuno fare della propria vita un’opera d’arte, sottraendosi a tutte le pressioni
culturali, sociali, morali che inibiscono la libera espressione del sé. Da una forma di vita inautentica si deve
osare progettare una vita autentica, dove ognuno è arbitro della propria esistenza, senza dover legittimare
alcunché a qualche altra istanza esterna.
Il giudizio di Taylor è ben calibrato. Cerca di ricavare tutto ciò che di positivo – di autenticità – c’è in questa
posizione. Ma ne mette in discussione l’assetto argomentativo, proprio perché refrattario ad una vera
argomentazione che richiede per essere tale un livello di intersoggettività che l’individualismo esclude,
violando le regole fondamentali della comunicazione linguistica.
L’individualismo, insieme al dispotismo morbido che sostituisce l’ideale democratico e il prevalere della
ragione strumentale, sono il disagio della modernità. L’autenticità è indispensabile ma non è l’unico criterio.
Per essere tale deve passare al vaglio della discussione e misurarsi con alcune sfide che vanno oltre
l’individuo – la politica e la tecnica.
4) Da individuo a soggetto - questa è la diagnosi e la proposta elaborata da Alain Touraine – il sociologo
della coscienza operaia negli anni sessanta e dei nuovi movimenti sociali negli anni settanta. Nella società
post-industriale la globalizzazione ha fatto dell’attore sociale un individuo; questi può riscattarsi
trasformandosi in soggetto, detentore di diritti culturali da esprimere, difendere e promuovere in senso
universale.
Per Touraine la globalizzazione ha cambiato le regole del nostro vivere comune, conferendo una totale
indipendenza all’economia, e aprendo una nuova era, che sostituisce quelle precedenti dominate dalle
categorie politiche e poi da quelle sociali. La prima aveva portato al concetto di cittadinanza e la seconda ai
diritti sociali.
In questa nuova configurazione epocale finisce il sociale e emerge l’individuo. Con un doppio volto: la
dimensione empirica, che deve cercare di sopravvivere nella nuova situazione; e l’essere dotato di diritti. Se
l’individuo riesce a interpretare con la sua azione questo secondo aspetto della sua esistenza si trasforma in
soggetto, capace di rivendicazione per sé ma in un senso universale dei diritti culturali (che da particolari
diventano universali).
L’individuo trasformato in soggetto entra in comunicazione con gli altri attraverso l’orizzonte della lingua
comune che è la modernità da distinguere alle sua varie traduzioni storiche, che sono le tante e diverse
modernizzazioni. Tra queste, quella occidentale, divenuta preminente nel mondo, è da superare mettendo fine
a conflitto instaurato tra una elite e le classi inferiori.
Antesignani di questo nuovo soggetto capace di ricomposizione sociale sono i movimenti ecologisti e
noglobal ma soprattutto le donne.
5) Il modello di analisi elaborato da Marcel Gauchet è classicamente politico, imperniato sul concetto di
democrazia, di cui si cerca di ricostruire storia, trasformazioni, contraddizioni. Nel momento presente la
democrazia è in una fase di profonda trasformazione: una democrazia all’altezza di se stessa sarà in grado di
sciogliere le sue attuali tensioni.
Sullo sfondo delle tesi resta la definitiva uscita del politico dalla tutela religiosa. “Esaurita la necessità di
costruire la Città degli uomini a misura della Città celeste, stiamo cominciando a imparare che cosa significhi
una politica degli uomini senza aldilà. Non con, al posto o contro l’aldilà: senza e basta. Un’esperienza che
continua lasciarci increduli” (La religione nella democrazia, 79).
In questi ultimi decenni, sulla spinta del neoliberismo e della rivoluzione tecnologica, si è accelerato il
processo di individualizzazione. Perché?
Lo Stato ha funzionato come potente agente di liberazione, fornendo agli individui “la sicurezza necessaria
per emanciparsi dal vincolo delle appartenenze familiari e comunitarie che costituiva, in precedenza, la loro
indispensabile fonte di protezione” (83). In questo modo però gli individui sono stati rimandati a se stessi;
questo rinvio è stato prodotto “dalla scomparsa e dalla disaffezione silenziosa subite dalla forza di attrazione
del collettivo, frutto dell’indebolimento delle speranze investite nell’azione politica o, più prosaicamente,
della fiducia posta nel potere pubblico” (83). Queste speranze non sono cadute per un assalto dei singoli ma
sono implose su se stesse, lasciando il posto a singoli individui.
La trasformazione è stata profonda. “Dalla famiglia alla Chiesa, nessuna istituzione è stata risparmiata; dalle
semplici buone maniere fino alla cittadinanza, passando per il crimine, la moda, l’amore e il lavoro, ogni
singolo segmento dei rapporti sociali ne ha ricevuto l’impronta. Una rivoluzione che è penetrata persino nella
profondità dell’essere modificando la natura dei disturbi mentali e le forme dell’inconscio, ha posto fine
all’età della mobilitazione e della partecipazione, ha introdotto un nuovo orizzonte antropologico
contribuendo, con tutta probabilità, a far emergere una nuova umanità” (83-84).
Sul lato politico corrispettivo la democrazia resta incontestabile. Le crisi del 1929 e del 1973 non sono state
catastrofiche, anzi hanno disarmato le opposizioni. Ma non senza conseguenze. “… questa piena
integrazione della democrazia nello stile di vita e nel sentire comune è andata di pari passo con la
ridefinizione del suo spirito e delle sue priorità tale da trasformarla profondamente” (84).
Con uno spostamento di accento dall’esercizio della sovranità dei cittadini alla garanzia dei diritti
dell’individuo. Dopo la seconda guerra mondiale è stato necessario garantire una più sicura efficacia dei
governi parlamentari; oggi al centro delle preoccupazioni non ci sono gli strumenti di potere a disposizione
delle maggioranze, ma i mezzi per la difesa delle minoranze. “Siamo progressivamente scivolati verso una
democrazia del diritto, o del giudice, che non ha più come oggetto la deliberazione o l’azione pubblica, ma il
controllo della regolarità delle procedure” (85).
Se a partire dalla fine dell’Ottocento il problema è stato l’inclusione delle masse nel potere, oggi “il
problema prioritario è ormai divenuto quello del rispetto delle libertà personali contro qualsiasi ingerenza del
potere: come garantire alla voce individuale la possibilità di farsi ascoltare fuori dal concerto politico e
indipendentemente dalla scelte di natura collettiva?” (85). Per noi è “democratico” “tutto ciò che scongiura
l’incorporazione dell’individualità nell’unità della volontà collettiva, ossia proprio ciò che costituiva, per i
grandi esponenti della vecchia idea di democrazia, il punto più alto di una politica secondo l’eguaglianza”
(85). Il versante liberale ha preso il sopravvento sul versante democratico-partecipativo. Con un ulteriore
scarto: “se l’individualismo ugualitario tendeva al rifiuto delle forme, l’individualismo identitario è
procedurale “134).
Il collettivo non ha più la funzione di mirare all’autonomia, e dunque non ha più sufficiente portata
metafisica. Ormai tocca agli individui stabilire il senso dell’avventura umana e indagare la spiegazione
ultima. “… solo le coscienze individuali sono ormai abilitate a pronunciarsi sulle questioni di ultima istanza”
(91).
Non è più un individualismo affermativo e emancipante, bensì un individualismo più subito che voluto.
“L’individualismo contemporaneo è un individualismo imposto, risultato non tanto di un improvviso e
misterioso raddoppio di energia interna, quanto del trasferimento all’individuo di responsabilità prima gestite
esternamente. … la sua origine sta nel riflusso delle attese precedentemente affidate al collettivo e nella
rilegittimazione strutturale della dimensione individuale che ne deriva. La conseguenza è che gli individui si
trovano caricati di una responsabilità della quale, in molti casi, farebbero volentieri a meno” (91).
Ma c’è anche un’altra conseguenza, la definitiva dissociazione della società civile dallo stato. “Grazie a
questa rottura, la società civile può concepirsi per la prima volta al di fuori della politica, a partire
dall’eterogeneità e dall’immediatezza delle sue componenti” (94). Non esiste più sintesi collettiva superiore
e semplificata, le differenze sono irriducibili e rappresentano un valore in sé. Non ci si spoglia della propria
singolarità, ma si intende contare nello spazio pubblico grazie all’identità privata.
Quali sono le vie da percorrere? “Nel complicato rapporto tra potere politico e società civile, il
riconoscimento è esattamente il punto di equilibrio trovato tra la necessaria connivenza e l’indispensabile
presa di distanza” (118).
Ma questo sembra anche impossibile, con un conseguente senso generale di impotenza e con un risultato
contraddittorio: “volendo dare diritto di cittadinanza alla totalità delle sue componenti, finisce per perdere il
controllo su se stessa: in nome della democrazia volta le spalle all’esigenza democratica suprema, quella
dell’autogoverno” (141).
Non resta alla fine che una convinzione che diventa previsione: “A un dato momento l’ideale
dell’autogoverno tornerà al centro dell’attenzione insieme ai suoi indispensabili punti di applicazione. La
dimensione della generalità pubblica e dell’unità collettiva, oggi ripudiate, si ricomporranno in condizioni
diverse, fornendo un nuovo linguaggio all’ideale stesso dell’autonomia” (141).
Una valutazione sintetica
Non è possibile fare alcuna sintesi da posizioni così eterogenee, ma si può tentare uno sguardo complessivo.
1. Le diverse interpretazioni hanno un aspetto condiviso: il mondo occidentale democratico è diventato con
crescente accelerazione individualistico. Si concorda anche sul modo con cui gli individui accedono al loro
modo di essere: non tanto per loro scelta quanto per necessità. Stato e mercato, politica ed economia,
costume e mass media promuovono con diversa consapevolezza questo orientamento dominante.
2. La valutazione – che ha a che fare sia con l’identificazione sia con l’adozione più o meno esplicitata di
criteri etico-politici – è abbastanza variegata: Bauman ne dà una descrizione severamente critica; Taylor è
critico ma cerca di salvaguardare la positività dell’esigenza originante che egli denomina autenticità;
Touraine e Gauchet vedono l’individualismo in una prospettiva evolutiva, attraverso l’instaurazione di un
terzo paradigma o in una mutazione della democrazia; Beck invece ne fa l’elogio senza remore.
Questo ampio spettro interpretativo ci rende cauti nelle conclusioni: occorre saper coniugare uno sguardo
libero nella diagnosi, facendo emergere i punti critici, ma occorre restare molto vigili nelle valutazioni
complessive. Potrebbe essere troppo semplice e comodo cercare di evitare le tesi estreme (Bauman, Beck);
tuttavia un procedere storico-teoretico come quello di Taylor permette una comprensione articolata e
sufficientemente ponderata.
3. Sarebbe illuminate capire se il fenomeno appartenga solo all’area nord-occidentale del mondo o sia in
espansione anche in altri luoghi che per tradizione culturale non conoscevano l’individualismo (Giappone,
corea, i paesi emergenti: Cina, India, Brasile, i paesi islamici). Per capire se gli effetti della globalizzazione
sono gli stessi oppure no.
La posta in gioco: alcuni concetti fondamentali
L’individualismo è la temperie culturale, antropologica di questi ultimi decenni, in particolare a partire dal
1990. I cambiamenti culturali di grande portata sono difficilmente dominabili tanto dal punto di vista
concettuale quanto, soprattutto, dal punto di vista reale. È illusorio ritenere che un’analisi concettuale possa
frenare o, inversamente, indirizzare il loro decorso. Tuttavia non ci si può non interrogare sulla posta in
gioco che tali orientamenti portano con sé. Altrimenti si diventa meramente succubi di ciò che accade (e
degli interessi che li sostengono).
In gioco ci sono nientemeno che i concetti di uomo e di società, di identità e alterità, di relazione e di
intersoggettività, con ad essi collegato l’impianto della stessa eticità.
In competizione si pongono una serie di concetti, in forma quasi alternativa: insieme a individuo, troviamo la
persona, il soggetto, il sé. La scelta del termine fa trapelare l’orientamento teorico e pratico.
Una forma di resistenza all’individualismo – scelto o imposto – consiste nel pensare all’uomo in termine di
persona o di soggetto. Non sempre queste categorie sono state declinate anche in termini intersoggettivi; di
fatto possono ricadere, teoricamente e soprattutto praticamente in quella di individuo. Qualcosa del genere
può accadere anche alla categoria più recente, quella del sé (che ha maggior corso in filosofia e psicologia).
1: Si può accogliere e proseguire il progetto di Ricœur che ha tentato - eticamente – di definire il sé come
strutturalmente aperto e definito dall’alterità e dall’intersoggettività pratica. È proprio del Sé (termine che
vale per tutte le persone grammaticali, con esclusione di ogni egocentrismo) esprimersi in una “intenzione di
vita buona con e per gli altri entro istituzioni giuste”. L’alterità non sopraggiunge dall’esterno ma è già
presente nel sé – come un altro (corpo, altri, coscienza). Il concetto di identità diventa plurale (medesimezza,
ipseità) e non può formularsi che in relazione all’alterità che è al tempo stesso esterna e interna.
2: Quale concezione coerente con questa intenzionalità etica possiamo elaborare di società? Né la
dissoluzione proposta dall’individualismo né l’oggettivazione o l’olismo di altre teorie (Hegel, Durkheim),
ma lo sviluppo storico e l’articolazione istituzionale dell’intersoggettività. La società in tutte le diramazioni
non è qualcosa di superiore all’intersoggettività ma una sua indispensabile concretizzazione. Come non c’è
soggetto senza intersoggettività, così non c’è intersoggettività senza società e istituzioni. Queste sono a
presidio della durata nel tempo e del senso delle azioni e delle relazioni umane.
3: La società è anche il luogo dell’esercizio del potere e del dominio. Dalle varie forme che la teoria critica
ha assunto, possiamo e dobbiamo ancora ricavare una qualche nozione che ci permetta di pensare e reggere il
dominio che si instaura nella società, sapendo che le forme di dominio sono nel frattempo profondamente
mutate. Il quadro delineato da Bourdieu, ricordato in precedenza, è ancora sostanzialmente valido. A ciò si
deve però aggiungere proprio ciò che qui stiamo cercando di conoscere: l’avvento della società
individualizzata con le sue promesse e le sue illusioni, i suoi rischi e le sue potenzialità.
Dentro, attraverso e oltre l’individualismo
1. Il ciclo inaugurato dalla società individualizzata, per quanto è dato prevedere, non è di breve durata,
possiede una forza di incidenza particolarmente forte, è una “cultura” con cui dobbiamo misurarci, senza
cancellare le acquisizioni positive, con il coraggio di fronteggiare gli aspetti critici, discutibili e inaccettabili.
Per prima cosa dobbiamo ammettere che tutti siamo diventati più o meno individualisti, nel senso che non ci
siamo potuto sottrarre alle forti pressioni del mondo sociale e culturale in cui viviamo. Le differenze con
momenti precedenti sono avvertibili solo da chi ne ha ancora l’esperienza o da chi ricostruisce la storia dei
mutamenti sociali.
2. Per fare i conti con l’individualismo, soprattutto nei suoi aspetti critici, abbiamo bisogno di strategie
teoretiche (idee), pratiche (azioni), emozionali (sentimenti, atteggiamenti)
Riprendiamo il contributo di P. Ricœur, perché permette la corretta articolazione etica e politica a livello
concettuale tra il sé e l’istituzione. Sullo sfondo di questo prospetto c’è l’idea di un sé capace di misurarsi
con la vita buona nell’azione, nel rapporto con l’alterità, e con la ricerca di una società giusta. La cura di sé
non è in contrasto ma è rafforzata dalla sollecitudine per l’altro e dal senso di giustizia, che si mette alla
prova sull’intollerabile come misura minima indispensabile e che tenta di stabilire le regole fondamentali di
giustizia. Non è una soluzione pacificata: l’azione nasce e vive in molte forme di conflitto, ma può puntare
con la saggezza etica alla loro soluzione o a evitare la loro degenerazione.
Nel prospettare l’orizzonte della società giusta Ricœur adotta molto pensiero del liberalismo tardo
novecentesco da Rawls ad Habermas, ma lo colloca in un orizzonte etico cha non si limita a principi e
norme. Dato questo indirizzo fondamentale, si deve provare a concretizzarlo sul piano sociale politico.
3. Nell’autopromuoversi e nel tentativo di legittimarsi la società individualizzata si propone come il
“migliore dei mondi possibili”. Nella proposta liberale di Rawls l’individualismo politico vuole essere una
società giusta. Sappiamo che non lo è. È questo il senso del dibattito che si è addensato attorno all’opera del
filosofo della politica americano, con prese di posizione su altri versanti (cosiddetti comunitari: M. Walzer,
M. Sandel).
Un’altra strategia è quella di uscire dall’individualismo liberale per approdare a quello democratico, come
propone Nadia urbinati. Mentre il liberalismo, alla Rawls; si basa sul pilastro della libertà e nella versione
della società giusta lo tempera con la regola del maximin (massimizzazione della parte minore – a favore di
chi è naturalmente svantaggiato), “l’individualismo democratico cresce su due pilastri: la cultura civile dei
diritti e la cultura morale dell’eguale dignità delle persone” (3). L’individualismo democratico non è
l’ideologia individualista: è una cultura politica e morale che si basa sul rispetto della persona, dei suoi
diritti e della sua fondamentale eguaglianza. Si oppone tanto ad un mondo organizzato in gerarchie quanto ad
una società concepita come dominio del privato.
L’individualismo rettamente inteso non è la fine della politica ma una concezione della sfera pubblica come
sede per la creazione di diritti, regole e istituzioni che presiedano alla divisione dei beni comuni e alla
regolamentazione dei conflitti.
Possiamo concludere che un punto, decisivo e contraddittorio allo stesso tempo, è quello politico. Da un lato
la democrazia è tendenzialmente individualista e in ogni caso promuove l’individualismo; d’altra parte solo
una mutazione della democrazia sarà in grado di limitare gli aspetti dannosi dell’individualismo. Nessuno
degli interpreti trascura l’accenno all’importanza determinante della politica per arginare possibili derive; di
fatto non ci si può attender che una mutazione genetica della stessa democrazia. Come può l’istituto
democratico della politica arginare l’individualismo quando ne è diventato il primo promotore?
4. La coerenza del modello teorico non deve far dimenticare ciò che succede in realtà. Al livello minimo
occorre aspirare a una società “decente”, secondo la definizione di Avishai Margalit (2000). Una tale civiltà
deve essere in grado di non trascurare chi resta ai margini del processo – le vite perdute e vendute. I principi
giusti sono necessari ma non sufficienti. Chi è ai margini non ha mai costituito una classe, neppure al tempo
del paradigma sociale. Sono coloro che non sembrano in grado di divenire mai un soggetto: i loro diritti sono
ancora sociali, e perciò non più evidenti. Ciò che è decente corrisponde con ciò che ha passato il vaglio
dell’intollerabile, misura del nostro senso di ingiustizia e di giustizia.
5. Negli ultimi due secoli le lotte sociali si sono realizzate come lotte per la ridistribuzione della ricchezza;
oggi appaiono soprattutto come lotte per essere riconosciuti. Il tema del riconoscimento è divenuto centrale –
lo si presenta persino come il nuovo fenomeno sociale totale e investe tutti i settori della società: la famiglia,
il lavoro, le relazioni tra gruppi sociali o tradizioni culturali e religiose, tra i sessi o le generazioni, nel
rapporto con lo stato e l’amministrazione. L’aspirazione è al “riconoscimento”. Si arriva a dire che una
società giusta è quella che accorda a tutti e a chiunque il riconoscimento senza il quale ci sarebbe impossibile
vivere.
Non mancano alcune domande: che cos’è il riconoscimento? Che cosa anima la sua richiesta? Possiamo
essere tutti riconosciuti, tutti nella loro singolarità? Che cos’è riconoscimento autentico, in un tempo in cui a
tutti è concesso “un quarto d’ora di celebrità”?
Proviamo a fissare il significato di riconoscimento, adottando soprattutto ciò che ne ha detto P. Ricœur, per
poi allargare il suo campo di significazione col collegamento alla dialettica tra amore e giustizia.
Intersoggettività e riconoscimento. L’intersoggettività è stata la grande riconquista della fenomenologia; sul
piano storico e istituzionale vuol dire riconoscimento nel senso di possibilità, legittimità e realizzazione. I
concetti in gioco sono: intersoggettività e socialità, identità e alterità, reciprocità e mutualità. Il termine
francese, reconnaissance, gode di una notevole strutturale polisemia che è impossibile trasferire all’italiano:
riconoscenza e riconoscimento, con le varianti logiche ed esistenziali messe in luce dalla ricerca stessa.
L’apporto fenomenologico è imponente, ma non riesce a sfuggire all’aporia, che si manifesta nelle polarità di
interiorità vs esteriorità, costituzione di senso vs passività, identità vs alterità, libertà vs responsabilità. Il
raffronto crea una situazione di stallo:“che si parli dal polo ego o che si parli del polo alter, si tratta
comunque di paragonare degli incomparabili e quindi di renderli uguali” (Percorsi del riconoscimento 183).
Riconoscimento e lotta. Dalla fenomenologia alla politica il balzo sembra enorme ma è quanto è necessario
fare. Sulle tracce del riconoscimento, bisogna riandare all’atto fondativo della scienza politica moderna
compiuto da Hobbes. Dobbiamo con lui affermare che all’origine è homo homini lupus oppure dobbiamo
accertare “se, alla base del vivere insieme, esista un motivo originariamente morale che Hegel identificherà
con il desiderio di essere riconosciuto” (186).
La tesi di Ricœur è chiara: esperienze di riconoscimento di carattere pacifico e pacificato precedono come
esigenza morale non solo la paura della morte violenta e il calcolo razionale di Hobbes ma anche lo sviluppo
in termini di lotta descritto dalla Fenomenologia dello Spirito di Hegel. A sostegno della tesi elenca ed
esamina varie forme di riconoscimento, che vanno dal piano individuale (amore, amicizia, paternità), a
quello giuridico (diritti civili) e sociale (uguaglianza).
In questo orizzonte si impone per funzione, struttura e significato il dono, che sembra appartenere
contemporaneamente all’alogica dell’amore (desiderio di donare) e al calcolo prosaico della legge che
istituisce la giustizia. Con il dono la reciprocità, tipica di altri ambiti, diventa mutualità. Il suo segreto è nella
relazione che stabilisce e nell’appartenere al mondo del senza prezzo. Nella sua struttura – donare, ricevere,
rendere – l’enigma non si trova nell’oggetto o nell’obbligatorietà del rendere, quanto nella risposta
all’appello scaturito dalla generosità iniziale. Donare ha per corrispettivo ricevere, la generosità si incontra
con la gratitudine, il riconoscimento diventa riconoscenza.
L’esperienza pacificata non cancella affatto la lotta, ne contesta soltanto la primarietà e l’esclusività. La lotta
per il riconoscimento viene disgiunta in due componenti, la lotta e il riconoscimento. Al riconoscimento non
si giunge solo attraverso la lotta ma innanzitutto attraverso forme pacifiche di relazione. Identificarle vuol
dire aprire lo spazio concettuale a una teoria politica che si fonda sulla relazione (e non sull’individuo) e
sulla costruzione istituzionale (e non sul calcolo artificiale).
L’esperienza del dono, tuttavia, è inseparabile dal carico di conflitti potenziali, innescati dalla polarità tra
generosità e obbligazione. Non c’è solo il dono ma anche la lotta, non senza un influsso del primo sulla
seconda. “La lotta per il riconoscimento resta forse interminabile; le esperienze di riconoscimento reale nello
scambio dei doni, principalmente nella loro fase festiva, conferiscono per lo meno alla lotta per il
riconoscimento l’assicurazione che la motivazione per cui essa si distingue dalla sete di potere, e che la pone
al riparo dal fascino della violenza, non era né illusoria né vana” (274).
Amore e giustizia. Riconoscimento e lotta evocano un’altra polarità, quella tra amore e giustizia. A fare da
ponte e ad evitare negazioni reciproche tra l’amore e la giustizia sta la saggezza della Regola d’oro. Regola
d’oro e comandamento dell’amore non si escludono. Il comandamento opera una conversione della regola,
trasforma la tendenza in capacità di accoglienza, l’intenzionalità interessata in economia del dono. Viceversa
la regola preserva il comandamento da una sua possibile perversione. “Di fatto, quale legge penale – e in
generale quale regola di giustizia – potrebbe procedere direttamente, senza la deviazione tramite la Regola
d’oro, dal nudo comandamento dell’amore per i nemici? Quale distribuzione di compiti, di ruoli, di vantaggi
e di cariche, di obbligazioni e di doveri – secondo lo schema ralwsiano dell’idea di Giustizia -, potrebbe
derivare da un comandamento in cui la reciprocità sembra esclusa? […] Per non mutarsi in amorale, ovvero
immorale, deve reinterpretare la Regola d’oro e, ciò facendo, lasciarsi a sua volta interpretare da essa”
(Lectures 3 278-279).
Tale reciproca interpretazione è un lavoro senza fine per il pensiero e per la pratica. “La Regola d’oro è posta
così in modo concreto al centro di un conflitto incessante tra l’interesse e il sacrificio di se stessi. La stessa
regola può inclinare in un senso o nell’altro, secondo l’interpretazione pratica che ne è data” (279).
La differenza di amore e giustizia non deve far pensare a una loro polarità conflittuale, se non forse in casi
estremi. La sfida più grande consiste nel cercare una loro collaborazione, il cui primo passo consiste
nell’affermare in maniera inequivocabile che l’amore non deve sostituirsi alla giustizia. Dopodiché restano
aperte due vie. “Fare dell’amore il motivo profondo della giustizia e della giustizia il braccio efficace
dell’amore, diventando la giustizia il relais dell’amore, la sua immagine quotidiana, la sua versione prosaica”
(L’amore difficile 147).
Tuttavia non si dà solo convergenza, dal momento che resiste un carattere sovversivo dell’amore in rapporto
alla giustizia, in quanto preserva la Regola d’oro da un’interpretazione utilitaristica e la riorienta ad
un’interpretazione disinteressata. La rettifica del senso di giustizia permette alla giustizia “se non di
raggiungere il proprio fine, almeno di prospettarlo correttamente” e orienta la giustizia distributiva “verso un
sentimento di mutuo indebitamento” (150). In questo modo la giustizia è convertita a se stessa, alla
riconciliazione o almeno al compromesso. Inoltre “l’amore rompe le frontiere provvisorie, i limiti culturali
inevitabili, le figure storiche necessariamente limitate della giustizia. Il caso dell’amore dei nemici è a questo
riguardo esemplare” (151). “Le due piste si ricongiungono negli interventi che testimoniano insieme della
continuità tra giustizia e amore e della loro sproporzione”. Ci sono gesti simbolici “coi quali l’amore instilla
un po’ di generosità e di compassione in un mondo di cui la giustizia non riesce da sola a limitare la
violenza” (152-153).
Excursus 1. Individualismo e religione
Nella sfugge alla cultura dell’individualismo. Anche la religione ne è investita, predisposta da tendenze
precedenti diffuse nella devozione moderna protestante e cattolica. Per quanto riguarda il mondo cattolico il
tentativo postconciliare di reinventare la comunità non solo è stato difficile ma ha dovuto quasi subito fare i
conti con la tenenza individualista. Al momento né la teologia né la pastorale hanno preso sufficientemente a
cuore la questione.
Già nel 1999 l’European Values Study descrive l’Europa come “credente senza appartenenza”. Dai giovani
alla chiesa viene riconosciuto il ruolo di guida spirituale, ma le viene negato il diritto di interferire nella sfera
privata delle persone.
“Gli individui chiedono il diritto di scegliere autonomamente il proprio percorso spirituale. In altri termini:
l’autenticità della propria personale ricerca è per loro più importante dell’accordo con quelle “verità” di cui
le religioni universali pretendono di essere custodi” (Beck, Il Dio personale, 166). Anche se poi Beck punta
ad una religiosità deutero-moderna di struttura cosmopolita.
In ogni caso, ci ricorda Taylor, ogni proposta di fede non potrà passare che attraverso l’individuo, dal
momento che le mediazioni esteriori saranno sempre più deboli. Il che non vuol dire che si deve fermare
all’individuo: la forma ecclesiale della fede è ancora indispensabile ma più difficile, non più scontata.
Excursus 2. Individualismo e associazioni: dall’epoca della mobilitazione a quella dell’autenticità
Le associazioni cattoliche sono nate in un periodo che Taylor definisce della mobilitazione – della
mobilitazione della fede cattolica contro gli aspetti nefasti della modernità, ma adottando anche aspetti di
quella stessa modernità che combatte. Questa associazioni poi hanno dovuto fare i conti con il totalitarismo
(ACI, lo scautismo venne sciolto) o la società di massa (ACLI, GiOC). Per tutte ci sono stati i momenti dei
grandi numeri – che erano numeri di massa. (la rivista della JOC e dell’ACO era Masses ouvrières; il libro
famoso di R. Voillaume era Au cœur des masses).
Ora quel contesto della mobilitazione religiosa e dell’avanzamento delle masse non esiste più. Le domande
che si possono fare potrebbero essere queste:
- quanto la nuova situazione è percepita?
- Quanto dell’origine si fa ancora sentire nelle strutture associative e nei progetti?
- Per un’associazione qual è la sfida più grande che pone l’individualismo? È ancora possibile pensare
una comunità o un’associazione? A quali condizioni?
- Che cosa deve cambiare, se il quadro delineato è “vero”? se il sociale è finito, come dice Touraine?
- Quanto l’individualismo si fa già sentire nella vita delle associazioni?
Per andare oltre l’individualismo, bisogna passare attraverso l’individualismo e raccoglierne le istanze
condivisibili: autenticità, libertà, intimità. Se le iniziative associative non saranno in grado di salvaguardare e
promuovere queste dimensioni, difficilmente diventeranno propositive e lasceranno il loro spazio ad altri
interventi di tipo manipolatorio.
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